La storia delle occupazioni, dagli operai ai migranti

leggi di emergenza

Movimento per la casa. Un secolo di lotte per il diritto all’abitare. Un filo rosso nello sviluppo urbanistico di Roma. La giunta M5S capitolina contro la delibera regionale che riconosce l’opera di riqualificazione degli occupanti

ROMA. Parafrasando la nota massima, si potrebbe sostenere che la storia della Roma contemporanea, del suo sviluppo urbanistico e delle luci e ombre del suo sviluppo, è storia di case occupate. Il ministro delle finanze Quintino Sella, all’indomani dell’unità d’Italia, chiede che nella nuova capitale si eviti «una soverchia aggregazione di operai», nella speranza che la mancanza di industrie risparmi la città dalle lotte. Ma già un secolo fa, nel corso del biennio rosso, mentre al nord si occupavano le fabbriche a Roma si prendevano le case. «Alla vigilia della prima guerra mondiale l’edilizia pubblica non ha raggiunto l’obiettivo di superare la crisi abitativa e l’industria privata non sembra più guardare al mercato degli alloggi per i ceti medio-bassi», racconta la storica Stefania Ficacci. Ci sono già molti immigrati, seppure interni.

Sono attirati dalla richiesta di mano d’opera nella pubblica amministrazione e dall’indotto dell’edilizia. Il censimento documenta la presenza di 170 mila persone in condizioni di sovraffollamento. Nel settembre del 1920, al grido di «Le case siano di tutta la comunità», l’Unione dei senza casa occupa alcuni edifici vuoti a San Giovanni, Trastevere e Ponte Milvio. Spuntano bandiere rosse, in alcuni casi quelle nere degli anarchici, soprattutto dopo la diffidenza mostrata dalla Camera del lavoro. Il popolo in lotta per la casa ha una composizione meticcia e trasversale, non appare come «classe» e coinvolge sottoproletariato e piccola borghesia. Ciò spaventa i socialisti.

DOPO IL VENTENNIO, il Pci crea le Consulte popolari. Hanno il compito di organizzare le lotte delle periferie. Sono ancora in vigore le leggi contro l’urbanesimo. Il fascismo voleva fare di Roma la vetrina del redivivo impero ma aveva paura della città e soprattutto delle borgate, ritenute incontrollabili. Se vivevi in una casa di fortuna non avevi diritto di residenza, eri praticamente un clandestino. L’anomalia viene cancellata, al prezzo di dure lotte, soltanto nel 1961, quando 300 mila romani possono finalmente iscriversi all’anagrafe.

All’inizio del 1962 vivono in borgate abusive 427 mila romani. Il censimento del 1971 ne conterà 743 mila. «Fino ad allora, le occupazioni erano soprattutto simboliche e riguardavano case popolari lasciate vuote», riflette il ricercatore Luciano Villani, che al tema ha dedicato un saggio uscito nel volume «Cities Contested» (University of Chicago Press). Allora come oggi, i movimenti puntano al Campidoglio. In consiglio comunale, le sinistre chiedono la requisizione degli alloggi sfitti, la Dc promette nuove case popolari. Si prepara il trionfo dei palazzinari.

Nel novembre del 1974 i baraccati si accampano davanti al consiglio comunale. La protesta culmina in una cenone di capodanno ai piedi della statua equestre di Marco Aurelio. «Sembrano fare di tutto per costringere i senza casa alla violenza», dice in quei giorni don Roberto Sardelli, prete di strada e attivista nella baraccopoli dell’Acquedotto Felice che nella sua Lettera ai cristiani di Roma definisce l’occupazione di casa «moralmente ammessa».

MOLTI VENGONO SPEDITI a Magliana, quartiere di 40 mila abitanti dallo sviluppo speculativo e disordinato. Qui il 75% degli inquilini pratica l’autoriduzione degli affitti. «Quella forma di mobilitazione permanente diviene un modello», riflette ancora Villani. Mentre il Pci si prepara ad amministrare Roma anche grazie ai voti delle periferie, i comitati si organizzano attorno ad aree politiche: quelli di via dei Volsci, consiliaristi e autonomi; l’Organizzazione proletaria rivoluzionaria, con visione marxista-leninista più ortodossa; i Comitati unitari inquilini legati ad Avanguardia Operaia. Cominciano anche le autoriduzioni di acqua ed elettricità. Un dispaccio del ministero dell’Interno annota con preoccupazione come queste forme di lotta coinvolgano persone finora aliene all’attivismo politico.

L’8 settembre del 1974 durante lo sgombero delle case popolari di San Basilio muore il diciannovenne Fabrizio Ceruso, colpito da una pallottola il cui calibro corrisponde a quelle in dotazione alla polizia. I durissimi scontri segnano la rottura definitiva dei movimenti col Pci. «Quella divaricazione anticipò la rottura storica del ‘77», sostiene Villani.

I MOVIMENTI DI LOTTA per la casa hanno attraversano il decennio del riflusso, quando il tessuto illegale delle periferie dalla piccola criminalità vagamente politicizzata viene imbastardito dalla diffusione dell’eroina. «Alla fine del 1988 si contano più di 2000 alloggi occupati», si legge sul sito del Coordinamento cittadino di lotta per la casa. La vertenza arriva fino al 2003, quando, al termine di tre mesi di accampamento ai piedi della Regione Lazio, viene approvata una sanatoria.

NEL FRATTEMPO le occupazioni continuano ad accompagnare i mutamenti della metropoli. Nel 1990 migliaia di migranti della prima ondata, soprattutto asiatici, entrano in un pastificio abbandonato a ridosso di Porta Maggiore: la Pantanella. Se ne accorgono don Luigi Di Liegro e gli universitari della Pantera, che fanno base alla Sapienza, a poche centinaia di metri. Anche da questo laboratorio multietnico nasce il movimento antirazzista italiano e proliferano occupazioni meticce. Man mano che si materializza la fine del posto fisso, la lotta per la casa si intreccia con la rivendicazione di un reddito. Studenti e giovani precari si uniscono a dannati della metropoli e migranti.

Tra la fine del 2012 e il 2013 si dipanano le decine di occupazioni dello Tsunami Tour, che prende ironicamente il nome da un’iniziativa del M5S e ne stravolge il senso. Oltre al Coordinamento si muovono altre sigle, tra le quali Action, Comitato Obiettivo Casa e i Blocchi Precari Metropolitani. Gli universitari costruiscono studentati autogestiti. I migranti si organizzano, come nel caso degli eritrei di via Curtatone sgomberati qualche settimana fa.

Il palazzone di via Masurio Sabino, al Tuscolano, è un caso esemplare: dopo l’occupazione il comune lo acquista dall’ente assistenziale che lo teneva sfitto, lo ristruttura e lo consegna agli occupanti. Adesso ci vivono 105 famiglie. L’operazione costa meno dell’edificazione ex novo di case popolari e risparmia alla città l’ennesimo quartiere ghetto ai margini della periferia. Poco distante, il presidente del municipio Sandro Medici rompe un tabù e requisisce ad un privato un palazzo sfitto per assegnarlo ai senza casa.

Oggi in un centinaio di case occupate abitano circa 5 mila nuclei, di certo più di 10 mila uomini e donne, 3 mila dei quali hanno lo status di rifugiati politici. Dal 2014, a causa del cosiddetto Decreto Lupi, emanato dall’allora ministro delle infrastrutture del governo Renzi, gli occupanti non possono più richiedere la residenza, proprio come ai tempi delle leggi fasciste contro l’urbanesimo. Eppure queste persone hanno riqualificato pezzi di città abbandonati, restituito all’uso sociale migliaia di metri cubi di cemento e inventato nuove forme di mutualismo e conflitto. Hanno un effetto costituente, avendo strappato alla Regione Lazio una delibera sull’emergenza abitativa che sancisce che una fetta delle nuove case sia destinata agli occupanti. Clausola, e siamo ai fatti di questi giorni, che l’amministrazione grillina vorrebbe disapplicare. In nome della «legalità».

FONTE: Giuliano Santoro, IL MANIFESTO

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