Un Paese in cerca dell’identità perduta e il fascismo

Una riflessione su «Fascismo, fascismi, nuovi fascismi», promosso, tra gli altri, dal museo delle Storie di Bergamo.

Passato e presente. All’epoca, il nesso totalitario passava attraverso uno spostamento di accento: l’offerta della lotta all’eguaglianza dei diritti attraverso il rimando all’uniformità delle appartenenze

Quale fosse quel dispositivo culturale che faceva del regime fascista un esercizio di totalitarismo imperfetto ed incompiuto, tra velleritarismi spinti, enfatiche autorappresentazioni ma anche aspirazioni a dare spessore a una nazionalizzazione degli italiani in chiave seccamente autoritaria, lo si desume già nel giugno del 1925, quando Mussolini pronuncia il famoso discorso «sull’intransigenza assoluta». La crisi generata dall’assassinio di Giacomo Matteotti era oramai alle spalle e il «duce del fascismo» poteva guardare con un certo respiro ai progetti per il futuro a venire. Il discorso, rivolto alla platea congressuale del suo partito, costituiva una vera e propria piattaforma programmatica, ancorché priva di uno spessore programmatico che non fosse quello dell’adesione emotiva ad una falsa idealità, basata sulla fusione delle identità e sull’immagine seduttiva di una catarsi nazionale.

AFFERMAVA MUSSOLINI al riguardo: «abbiamo portato la lotta sopra un terreno così netto, che bisogna essere di qua o di là. Non solo: ma quella che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con ancora maggiore ferocia: diventerà, veramente, l’assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività. Vogliamo, insomma, fascistizzare la Nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa. Solo avendo un grande ideale si può parlare di rivoluzione, si può impiegare questa magica e tremenda parola!». Al netto dell’autoincensamento e della retorica ipnotizzante, proseguiva poi affermando che il fascismo doveva diventare un «modo di vita». Corredava e chiosava questo richiamo dichiarando che «portando nella vita tutto quello che sarebbe grave errore di confinare nella politica, noi creeremo, attraverso un’opera di selezione ostinata e tenace, la nuova generazione, e nella nuova generazione ognuno avrà un compito definito. Ed è attraverso questa selezione metodica che si creano le grandi categorie, le quali a loro volta creeranno l’impero».

Distinguere nelle fonti fasciste quanto sia manipolazione e mistificazione ideologica, così come autonarrazione mitografica, dal concreto succedersi dei fatti, ossia dai risultati effettivi, non è sempre cosa agevole. Poiché è parte dello stesso dispositivo totalitario, del suo dispiegarsi nel tempo, e quindi della sua capacità di sopravvivere alla scomparsa del regime medesimo, il riuscire prima a sovrapporre e poi a confondere realtà ad immaginazione, dato materiale a raffigurazione simbolica, evento ad impressione, quindi l’emozione con la ragione.

IL LUNGO CALCO del fascismo, nella storia del nostro Paese, riposa anche e soprattutto in questa dinamica di lungo corso, che intercetta il bisogno di un’identità condivisa, fondata tuttavia più sull’alimentare stati di aspettativa che non a offrire risposte concrete. L‘ideologia, in quanto vera e propria «fase suprema» della politica, ora rivolta alle «masse» indistinte, intese come autentici fasci fusionali, diveniva quindi il contenitore di questi bisogni simbolici, affettivi, relazionali basati sull’unione tra indistinti, sull’omologazione assoluta, sullo scambio tra libertà personale e protezione collettiva. Il modello ideologico fascista partiva da pochi assunti, legati al presupposto che l’azione politica dovesse essere intesa come la prosecuzione della guerra in tempo di pace. Il richiamo alla trincea e alle caserme come luoghi di costruzione e selezione caratteriale era l’alternativa al rimando all’astratta libertà dei mercati celebrata dalla società liberale.

L’IDEA DI RAFFIGURARE una lotta incessante, un permanente confronto vitalistico, gli era quindi connaturata e costituiva un forte elemento di legittimazione per l’epoca, neutralizzando il conflitto sociale attraverso il suo spostamento sul versante della contrapposizione etnonazionalista. All’antisocialismo si univa così, in una sorta di virtuosa saldatura, l’antiliberalismo: rifiuto delle collettività egualitarie, indistinta oclocrazia voluta dai mediocri, ma anche rigetto dell’individualismo «borghese», materialista e antispiritualista. La posta in gioco era quella della promessa di ripristinare l’armonia perduta, l’«ordine naturale» dettato dalla gerarchia degli spiriti superiori.

NON A CASO LA NATURALITÀ, intesa come imperio della veracità, dell’autenticità, della spontaneità ma anche della continuità nel tempo dei poteri legittimi (quelli infeudati e consacrati da un ordinamento senza tempo, come tale insindacabile), veniva contrapposta all’artificiosità delle relazioni meccaniche, dell’urbanesimo e della promiscuità tra individui diversi e razzialmente incompatibili. Alla confusione del presente, all’indecifrabilità del mutamento, all’angoscia per il cambiamento, veniva così contrapposta la lineare fusionalità di una comunione degli spiriti, completamente privati della loro soggettività.

L’IDEOLOGIA FASCISTA, come anche la sua produzione culturale, che fu tanto vivace quanto ossessivamente concentrata su pochi ed elementari motivi, tuttavia reiterati con costanza, richiamava l’offerta della lotta all’eguaglianza dei diritti attraverso il rimando all’uniformità delle appartenenze. Il nesso totalitario passava attraverso questo secco spostamento di accento, destinato – per l’appunto – a lasciare un segno tangibile tra gli italiani. Nei fatti, tutto ciò costituiva una cristallizzazione completa dei rapporti di forza vigenti, basata sull’occultamento delle radici dei conflitti di interessi così come della differenziazione dei ruoli sociali.

TUTTAVIA, MOSTRAVA una forte capacità di attrazione e quindi di fidelizzazione. In questa cornice, ciò che il fascismo storico (poi ripreso dai neofascismi europei) andava ulteriormente ripetendo, era il carattere morale dell’unione tra identici: l’appartenenza ad un «popolo», ad una «nazione», poi soprattutto ad una «razza» erano gli indici rassicuranti della capacità di governare gli spazi e di dare un indirizzo di senso al tempo collettivo. Se lasciati a sé, luoghi e individui, storie ed esperienze rischiavano altrimenti di deragliare nel delirio babelico della contaminazione delle diversità, nell’alterità che si faceva alterazione.

Il fascismo si proponeva quindi sia in quanto blocco d’ordine che nella sua natura di vettore della costruzione di un carattere nazionale, esemplificato dalla figura dell’«uomo nuovo» dedito alla lotta, al sacrificio di sé, alla milizia, senza il quale un’etica pubblica non avrebbe potuto avere corso. Quanto di rassicurante in ciò, per gli italiani del tempo, dovette esserci, laddove lo scambio era tra libertà personale e protezione «padronale» esercitata dal regime, lo può testimoniare solo la durata ventennale del medesimo. Il quale tracollò in una crisi irrimediabile proprio quanto perse quel carattere securitario, miscela di autoritarismo spinto, paternalismo sociale, azione liberticida e intervento nella sfera privata della collettività, su cui aveva invece cercato di costruire durevoli fortune.

IL CARATTERE LABORATORIALE, ancorché novecentesco poiché legato ad una fase industrialista e fordista delle società, delle tematizzazione fasciste rimane inalterato. Non può essere liquidato come una parentesi. Ma neanche come un processo continuo (l’«autobiografia della nazione»), destinato quindi a ripetersi. Semmai, gli interrogativi debbono esercitarsi sulla profondità del calco e, soprattutto, sul bisogno di adagiarsi in esso che certuni di nuovo avvertono come risposta alle crisi dettate dalle trasformazioni globali.

* Fonte: Claudio Vercelli, IL MANIFESTO

You may also like

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password