Il fotografo dei movimenti e della rivoluzione

Un pranzo con Tano D’Amico parlando del suo nuovo libro: il Settantasette, l’urlo muto delle compagne di Giorgiana Masi straziate, la restaurazione del potere contro le immagini

Un pranzo con Tano D’Amico parlando del suo nuovo libro: il Settantasette, l’urlo muto delle compagne di Giorgiana Masi straziate, la restaurazione del potere contro le immagini

 

Un altro libro sul Settantasette? Se ne sentiva il bisogno? Diciamo subito di sì, perché l’autore è Tano D’Amico, uno dei maestri della fotografia italiana, le cui opere sono esempio di potenza etica e forza poetica. Si intitola I nostri anni (Settanta/Milieu, pp. 120, euro 14,90) e non è un libro di fotografie. Ci sono, nelle ultime pagine, alcune delle storiche foto di Tano che raccontano l’anno che di fatto chiuse il Novecento, ma questo libro è fatto di testi. O meglio è una sequenza di testi che si richiamano a vicenda, che incedono a spirale, e che a loro volta evocano e precipitano in immagini.

TANO HA UN’IDEA molto radicale del rapporto tra parola scritta e immagini: queste ultime vengono sempre prima, esprimono una forma di libertà e sentimento che il testo, dice lui, può soltanto accompagnare. Ecco perché questo libro di immagini raccontate e di parole che disegnano avventure, non è (soltanto) un libro sul Settantasette: è un trattato sul rapporto tra comunicazione e rivoluzione, sullo scontro delle immagini col potere. Quando gli proponiamo di parlarne, pone la condizione che gli è solita: il contesto sia conviviale. «Dobbiamo mangiare insieme». Dunque, ci ritroviamo tra le mura amiche del Rouge, osteria di San Lorenzo: il locandiere Danilo ogni giorno mette sul bancone il menù e una copia del manifesto.

PRIMO PARADOSSO: le foto di Tano sul Settantasette sono famose, documenti imprescindibili per raccontare quell’anno. Eppure, pochissime uscirono sui giornali in diretta, durante quei giorni. Questa contraddizione contiene la prima lezione: «Nelle immagini cercate dai giornali – racconta Tano – i giovani dovevano sembrare una strana specie di scimmie assetate di violenza e di sangue, le donne che scendevano in strada dovevano essere di una bellezza esposta e consumabile». I movimenti delle donne sono imprescindibili per cogliere questo scarto tra rappresentazione e realtà, tra potere e vita: «La bellezza femminile fu splendida e luminosa quell’anno – prosegue – Una bellezza nuova che non voleva compiacere nessuno. Cambiò il sorriso, lo sguardo, il gioco. Anche il pianto e il lutto, che vennero presto». Il riferimento è alla terribile giornata del 12 maggio, quando venne uccisa Giorgiana Masi. Tano scatta la celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante con pistola. Nel libro racconta di come venne a sapere cosa accadde: un agente lo rintracciò per raccontargli il retroscena. E traccia un suggestivo parallelismo tra la sua vicenda e le sorti di Francesco Cossiga, ministro dell’interno nell’anno fatidico poi destinato alla più alta carica ma per sempre malinconicamente segnato dalla scia di morte seminata in quegli anni. Il fotografo (nel racconto si definisce così, non per enfatizzare il suo ruolo ma per sottolineare il senso generale; in questo libro non esistono, o quasi, nomi propri né riferimenti temporali) quel giorno rese immortali anche le scene strazianti del dolore delle compagne di Giorgiana: «Le donne non urlarono, aprirono la bocca ma le grida non uscivano. Due ragazze con la maschera della tragedia, la bocca spalancata, senza suono, senza voce, senza grida andarono verso il fotografo».

IL POTERE, si sa, non agisce solo per sottrazione: esiste anche la più subdola azione manipolatrice della produzione in serie di immagini innocue. In quei mesi, dice Tano, fiumi di denaro si riversarono sulla stampa per produrre inserti, supplementi e riviste: era una superfetazione di segni che serviva anche a nascondere e pervertire. «Nei giornali si incoraggiava la presenza e la collaborazione di fotografi senza cultura, senza reale curiosità, senza scrupoli, senza alcun interesse che non fosse il danaro e il loro ego gonfio di niente – sostiene – Dovevano contrastare le poche immagini di movimento che riuscivano a farsi vedere e si abbarbicavano subito al cuore dei lettori, degli spettatori».

L’ESEMPIO più clamoroso di questa vera e propria restaurazione fotografica avviene a soli tre giorni dall’assassinio di Giorgiana Masi. I fatti sono tristemente noti. A Milano, in via De Amicis, un gruppetto si stacca dal corteo del movimento per puntare le pistole ai cordoni di polizia. Qualcuno scatta la foto iconica dell’uomo in passamontagna che spara, subito adottata come simbolo del decennio. «Quei ragazzi, tutti, sparatori e fotografi, finirono per essere il tragico esempio, i precursori, della futura ‘Milano da bere’», rammenta Tano. Che disegna un altro parallelismo, tra chi ha scelto di far scattare il grilletto e chi ha scattato quelle foto. Da una parte, «i giovani sparatori tentarono, con incoscienza, di risolvere una situazione che voleva metterli con le spalle al muro. In una mattinata, con qualche colpo di pistola e di canne mozze». Dall’altra, «ai fotografi non sembrava nemmeno vero che con così poca fatica fosse servita l’opportunità di cogliere e commercializzare qualcosa che sarebbe costato molto ad altri. Costato molto ad altri e pagato a loro. Si trattava della vita e della morte altrui».

QUESTA È ANCHE UNA storia d’amore: «Il fotografo non avrebbe potuto fare il lavoro che ha fatto, non avrebbe potuto dare vita alle immagini che sono uscite dai suoi occhi e dalle sue mani, se non fosse stato amato dai suoi compagni e dalle sue compagne. Se non avesse amato in modo assoluto i suoi compagni e le sue compagne. Fu come se lo aspettassero e, per lui, come se li avesse sempre cercati». In una delle scene più commoventi, racconta di quando nel girovagare solitario, macchina fotografica alla mano, per le strade di una città abbandonata dai giornalisti e lasciata in preda alle truppe che si occupano di sbaraccare i sogni, finisce in mezzo a un branco di uomini in divisa. Lo salva un dirigente, che gli fa scudo col suo corpo ma gli urla che «la guerra è finita», dunque è tempo che anche lui torni a casa, come già avevano fatto in tanti. Il fotografo non è d’accordo. «Per chi non si arrende la guerra continua – afferma – Per la giustizia, per la verità, per la dignità. Contro la tortura, l’assassinio, contro le stragi, contro la morte». Attendiamo un secondo volume con le foto calabresi complice Marcello Walter Bruno, le avventure palestinesi, le divagazioni cinematografiche, le foto per il manifesto sulla terrazza assolata di Officina 99 a Napoli per il primo convegno nazionale dei centri sociali, i movimenti globali.

MENTRE ARRIVA l’ammazzacaffè, Tano la chiude con un aneddoto. Si era a una delle udienze del processo 7 aprile, nell’aula bunker di Roma. Il circo mediatico si era già diradato, nelle gabbie restavano centinaia di compagne e compagni e tra il pubblico resistevano solerti Rossana Rossanda con Carla Mosca, e il fotografo che provava in tutti i modi a rifornire i carcerati di caffè e quotidiani da leggere. Si fece avanti un colonnello dei carabinieri. Tano ebbe un momento di debolezza, si sollevò quasi a volersi costituire: visto il clima da inquisizione, si vide anche lui seppellito in galera da faldoni di accuse terribili e deliranti. Il graduato gli disse: «Il giudice vorrebbe vederla». Era Severino Santiapichi, presiedente della corte. Lo accolse e gli disse: «Senta, domani vengono a trovarmi i miei tre figli. Non è che scatterebbe loro delle foto belle come ha fatto per quelli lì imprigionati?».

* Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto

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