Resistenza. Via Rasella, chi sono i veri terroristi

Il libro «A Roma non ci sono le montagne» di Ritanna Armeni. Ricordo – perché è una frase che chiarisce tutto – quello che un rappresentante dell’Fln algerino rispose a un generale colonialista francese che gridava contro le bombe usate dal maquis: «ci dispiace – rispose – ma noi non abbiamo come voi né aerei da bombardamento né carri armati»

Intorno al libro «A Roma non ci sono le montagne» di Ritanna Armeni (Ponte alle Grazie). Ricordo – perché è una frase che chiarisce tutto – quello che un rappresentante dell’Fln algerino rispose a un generale colonialista francese che gridava contro le bombe usate dal maquis: «ci dispiace – rispose – ma noi non abbiamo come voi né aerei da bombardamento né carri armati»

 

Siete pronti ad affrontare i brividi di chi sta per far esplodere una bomba di grande potenza in pieno centro di una città, in un luogo in quel momento particolarmente affollato e assai vigilato, e per di più essendo senza esperienza alcuna di armi di qualsiasi natura?
Pongo questo interrogativo perché pur pensando che questa storia molti di voi la conoscano non credo si siano mai posti questa domanda: in prima persona non è stata mai raccontata ed è ben diverso leggerne il resoconto di uno storico dall’essere portati ad immedesimarsi nel/nei protagonisti.
Ebbene, è proprio a questa prova che vi conduce Ritanna Armeni con il suo libro appena pubblicato in cui ha osato sperimentare una difficilissima, ma direi assai riuscita, modalità: tradurre minuto per minuto una vicenda storica molto nota in un romanzo, che vi permette di viverla come se foste voi lì, in quello stesso momento, e però di romanzo – e cioè di fantasia – non c’è niente, perché tutto è vero e preciso, sicché chi legge non può non sentirsi dentro l’evento, dall’inizio alla fine.

LA STORIA È QUELLA di via Rasella, 23 marzo 1944, nella Roma occupata dai nazisti, quando un gruppo di studenti, qualche d’uno appena più anziano, totalmente privi di esperienza militare, ciascuno incaricato di un diverso passaggio nell’impresa collettiva, e dunque legati dall’impegno reciproco di non lasciarsi all’ultimo momento paralizzare dalla paura che potrebbe far perire tutta la squadra, compiono una delle operazioni più sbalorditive poste in atto dai Gap (Gruppi di azione partigiana) operanti a Roma, ma non saprei dire chi altro nella Resistenza italiana. Che a Roma, in particolare, fu ben diversa da quella delle zone d’Italia dove si formarono le brigate partigiane, dislocate in montagna e, di fatto, simili a reparti militari. A Roma non ci sono le montagne è, infatti, il titolo del libro (Ponte alle Grazie, pp. 240, euro 18) e la lotta nei centri urbani non può svolgersi che così.
Sulla copertina c’è la foto, non un disegno, proprio l’immagine vera scattata dopo la fine della guerra, di un bel gruppo di gappisti. Li conosco quasi tutti (uno, in quell’immagine, è il mio ex marito, Alfredo Reichlin, gappista appena uscito dal mio stesso liceo, il Tasso, compagno di banco del nostro direttore fondamentale, Luigi Pintor e, sebbene loro due a quella impresa non presero parte, tante volte mi hanno raccontato cosa voleva dire andare in giro per la città armati, impegnati a colpire l’occupante.

CHI HA OPERATO a via Rasella molti di voi lo sapranno, ma credo non abbiate mai provato l’emozione – il brivido – che sentirete nel leggere questo libro. La bomba, nascosta nel carrello rubato a uno spazzino, spinta, nell’abito del derubato, fu portata in loco da Rosario (Sasà) Bentivegna, anni 22, studente di medicina; l’impermeabile che immediatamente dopo lo scoppio avrebbe dovuto indossare per potersi nascondere fra i passanti, l’aveva sul braccio Carla Capponi, la sua fidanzata e poi moglie, qualche anno di meno. (Anche all’ultimo, poco prima di morire all’inizio del nuovo secolo, era ancora delicata e bellissima).

NELLA FOTO DI COPERTINA ci sono tutti quelli, una decina, che parteciparono all’attacco del corteo di SS che tornava da piazza Cavour: i soldati avevano preso parte a una cerimonia e dovevano rientrare alla caserma di via Rasella. Ognuno dei gappisti aveva un compito e non poteva sgarrare di un minuto senza il rischio che venisse scoperto. La paura era la possibilità di un imprevisto: un ritardo, un inceppo, sia pure minimo. La tensione estrema nasceva dal senso di responsabilità di ognuno, ne andava della vita di tutti.
Nella foto ci sono quasi tutti i gappisti di Roma e, fra loro, l’intera squadra di via Rasella. Guardarla ora e rintracciare qui sul libro la loro identità mi emoziona, perché quando li ho conosciuti io, solo qualche anno più tardi, erano ragazzi normali, solo poco più adulti di me. Con molti ho lavorato assieme già nel Fronte della gioventù e poi nella Fgci – con Marisa Musu soprattutto, insieme a lei feci persino il viaggio a Praga al primo Festival mondiale della gioventù. E Franco Calamandrei, più tardi capo dell’ufficio quadri del Pci, primo piano di Botteghe Oscure, a via Rasella con sua moglie Maria Teresa Regard. E poi Valentino Gerratana. Lui l’ho conosciuto presto, perché era già fidanzato con la sorella della mamma di Nanni Moretti, mia meravigliosa insegnante di latino nell’estate del ’44, quando Roma era stata liberata e io frequentavo casa Apicella per tentare ad ottobre di saltare la noiosa IV ginnasio e accedere al sospirato liceo. E poi Franco Ferri, il primo direttore dell’Istituto Gramsci e marito di Giuliana De Francesco, mia vicina di tavolo quando dal ’62 lavoravo alla redazione di Paese sera. E ancora Carlo Salinari, nella segreteria della mia amata federazione romana del Pci, dove ho vissuto i primi otto anni della mia milizia comunista. Ma anche Pasquale Balsamo, compagno di scuola di Partito a Frattocchie di Alfredo, spiritoso e sempre allegro, grande raccontatore di storie buffe.

ECCO, SCUSATE se ho ripercorso le mie amicizie Gap, ma vi confesso che ancora oggi mi stupisco per quanto hanno fatto nel ’43/44. Nessuno ne parlava mai, nessuno che si vantasse di quel che avevano fatto, di come avevano rischiato la vita: per la libertà e per l’uguaglianza, cioè per il comunismo.
Questo libro di Ritanna – nella primissima redazione del manifesto e poi per moltissimi anni nel settimanale Pace e guerra che ho diretto per cinque anni assieme a Rodotà e a Claudio Napoleoni – vi consiglio proprio di leggerlo e di farlo leggere ai più giovani. Credo sarebbe importante.
È interessante pure per un’altra, non secondaria riflessione delicata ma importante, che ci fu anche allora, nel ’44: l’attacco alle SS, con 33 morti tedeschi e alto atesini della brigata Bozen provocò la morte anche di una decina di passanti innocenti; e inoltre dei 350 alle Fosse Ardeatine, la rappresaglia nazista che prelevò da via Tasso e poi fucilò 10 resistenti ogni SS morto. I nostri Gap non furono forse terroristi? Fu quello che allora sostenne l’ala moderata, dc e liberale, del Cln, cui i Gap facevano capo.

MA I FEDAYN algerini e i primi combattenti africani in lotta per liberare i loro paesi dal colonialismo, i maumau del Kenia, e poi via via tutti gli altri, li abbiamo forse chiamati «terroristi» ? Vi ricordate di Djamila Buhired, l’eroina dell’Fln algerino, che nel 1956 mise le bombe al Milk bar? Vorrei ci chiedessimo perché per i palestinesi, che combattono per una causa anche più iniqua, sopportiamo la definizione di «terrorista». La stessa azione di via Rasella, del resto, non ha tutt’ora ottenuto la legittimazione istituzionale che avrebbe dovuto ricevere. Ricordo – perché è una frase che chiarisce tutto – quello che un rappresentante dell’Fln algerino rispose a un generale colonialista francese che gridava contro le bombe usate dal maquis: «ci dispiace – rispose – ma noi non abbiamo come voi né aerei da bombardamento né carri armati».

* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto

 

 

ph Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-03 / Koch / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

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