Resistenze. «Il cinema come atto politico nell’Argentina della dittatura»

Beatriz Amuchastegui racconta gli anni con il regista Fernando Solanas e il film «La hora de los hornos»

Beatriz Amuchastegui racconta gli anni con il regista Fernando Solanas e il film «La hora de los hornos»

NAPOLI. «Pino sarebbe felicissimo di vedere questo pubblico giovane che dà nuova vita al suo film». Beatriz Amuchastegui ha capelli bianchi, occhi cerulei e accesi di chi ha vissuto una vita piena. Parla davanti a una folta platea accorsa al cinema Modernissimo per la proiezione della prima parte de La hora de los hornos di Fernando Solanas, suo primo compagno, e Octavio Getino. Quest’opera, che prende il titolo dai versi del poeta e rivoluzionario Josè Martì «es la hora de los hornos, en que no se ha de ver más que luz/è l’ora dei forni, quando non si vede altro che luce», nel 1968 aprì la strada all’idea di film come atto politico e che i due registi avrebbero teorizzato poco dopo con l’idea di «cinema militante». La proiezione s’inserisce nella rassegna «Manifesti per un cinema libero» curata da Gina Annunziate e Armando Andria, promossa dal Comune di Napoli in collaborazione con la Cineteca di Bologna e l’Accademia di Belle Arti di Napoli: «un percorso di recupero di alcuni capolavori afferenti a una costellazione variegata» che prosegue l’8 aprile (cinema Modernissimo ore 21.15) con le ultime due parti de La hora de los hornos e altri appuntamenti fino a maggio.

Come ha conosciuto Fernando Solanas, detto «Pino»?

Sono nata a Olivos, provincia di Buenos Aires, a pochi isolati da dove è nato Pino. A 17 anni andai a lavorare in un’agenzia di pubblicità come centralinista. Pino venne per chiudere uno spot su una campagna istituzionale del latte, mi vide, chiese di farmi dei provini. Così nacque il nostro rapporto. Era stato già sposato, all’epoca non c’era il divorzio, organizzammo la festa di matrimonio a casa dei suoi, iper conservatori: il padre medico, direttore di un noto ospedale, la madre casalinga, nipote di uno dei direttori dei giornali più reazionari, «La Prensa». Pino ha lavorato assiduamente per demolire tutto questo. (ride, ndr).

È stata con Solanas in tutto il periodo in cui lui stava girando «La hora de los hornos». Cosa può raccontarci di quegli anni?

Non ho partecipato a tutto. Oggi, a quasi 80 anni, mi rendo conto che ha cercato in ogni modo di proteggermi. A casa mia passavano tante persone, tranne quelli che poi sono desaparecidos. In seguito, io stessa ho portato il film in Venezuela, Colombia, nelle ambasciate, viaggiavo con queste pizze di 6 mm in valigia. Finanziò il progetto con i lavori di pubblicitario. Le prime cose che fece furono dei jingles, suonava il piano divinamente, era un ottimo compositore. Gli ultimi ritocchi de La hora de los hornos avvennero in Italia, arrivammo a Roma molti mesi prima di Pesaro, Pino era amico di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani. Era la fine del 1968.

Il film monta insieme molti materiali diversi: reportage, notiziari, foto, interviste. Da dove provenivano?

Pino andava in giro nelle sedi dei canali tv, anche statali, a chiedere materiale di cronaca per la pubblicità. Alcune scene, come diceva lui, bisognava farle in un certo modo, le creò ex novo, ho partecipato anch’io a una scena. Girammo a Cordoba, provincia più ribelle dell’Argentina. Eravamo nel mezzo del golpe militare, il film era destinato a una clandestinità permanente.

Fu presentato per la prima volta in Italia alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. E in Argentina?

Erano tutte proiezioni clandestine. Si rischiava il carcere. Nelle fabbriche ha avuto una traiettoria molto rivoluzionaria, a Buenos Aires lo portammo nei quartieri periferici, la “vija miseria”, enorme zona abusiva a ridosso della città. Ero incinta della nostra seconda figlia quando organizzammo una proiezione a casa di una intellettuale, c’erano registi, attori, soprattutto di teatro. Suonano al campanello, era la polizia; gli attori prendono il proiettore, lo mettono nella vasca, ci mettono dei bicchieri in mano, la polizia entra, guarda, chiede scusa, se ne va. La proiezione ufficiale in Argentina è avvenuta molto dopo, quando è tornata la democrazia.

Abita in Italia da 40 anni. Quando si è reso necessario fuggire dall’Argentina?

Pino era andato via alla fine del ’76, mi chiese di mandargli i nostri due figli in Spagna per Natale, poi disse: “meglio che non tornino, lì corri seri rischi. Se vuoi ti aiuto a venire in Spagna”. Arrivai a Madrid nel luglio del ’77, nel pieno della tragedia dei desaparecidos. Dopo la fine della relazione con lui mi ero messa col giornalista Ricardo Grassi, avevo trovato un impiego come come correttrice di bozze ne “El Decamisado”, una specie di “La hora de los hornos” settimanale, provocatorio, innovativo, ci lavorava anche Héctor Oesterheld, padre del famoso fumetto “Eternauta”: sparì nel nulla con le sue quattro figlie. Metà della redazione sono desaparecidos. Ero ancora una signora nubile, non ebbi problemi a uscire dall’Argentina, per Ricardo abbiamo dovuto inventare un’identità falsa. Scappammo tutti in Spagna, piena di argentini esiliati. Ricardo trovò poi lavoro come giornalista a Roma, arrivammo nel ’77. Lasciato Ricardo,sono diventata segretaria nell’Associazione Italiana dei Circoli del Cinema, grazie ai fratelli Taviani. Pino trascorse il suo esilio a Parigi, tornò in Argentina nel 1984, con la caduta della dittatura e il reinsediamento della democrazia, fu eletto senatore della Repubblica. Tra le leggi più importanti che ha contribuito a creare voglio ricordare quella sul diritto all’aborto.

Torna in Argentina molto spesso. Com’è la situazione oggi?

Allucinante. Milei è una caricatura di Trump, applica la stessa formula, sta smontando lo stato. scuola, università pubblica hanno formato molti intellettuali latino americani gratuitamente. Milei sta distruggendo tutto questo. C’è una povertà profonda, persone in strada, anche la classe media si sta impoverendo sempre più. Milei e il suo team stanno cercando di cancellare i desaparecidos, si tenta la narrazione di una “contro storia”. Oggi ho cinque figli, due splendidi nipoti che per me sono una finestra sul futuro. Cerco di essere memoria.

* Fonte/autore: Francesca Saturnino, il manifesto

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