Interviste a Sergio Segio – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 18 Mar 2022 08:45:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 40 anni dopo. Miccia Corta, il diario di un’evasione https://www.micciacorta.it/2022/03/40-anni-dopo-miccia-corta-il-diario-di-unevasione/ https://www.micciacorta.it/2022/03/40-anni-dopo-miccia-corta-il-diario-di-unevasione/#respond Thu, 10 Mar 2022 12:44:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26543 In occasione della pubblicazione di una nuova edizione del libro Miccia corta (Milieu edizioni), Globalist.it ha intervistato l'autore che parla degli anni Settanta ma anche del tempo presente e degli scenari globali

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È lecito dissentire da alcune sue posizioni, ma a Sergio Segio non si può che riconoscere grande onestà intellettuale e lucidità. Fondatore di Prima Linea, organizzazione armata di estrema sinistra protagonista di operazioni eclatanti, spesso finite nel sangue, Segio è stato l’ultimo a uscire dal carcere, per poi dedicarsi anima e corpo, come ha fatto in ogni frangente nel quale ha scelto di operare, al volontariato, soprattutto a sostegno dei diritti dei carcerati. Miccia Corta (Milieu, pagg 239, euro 15,90) è una sorta di esame di coscienza pubblico, oltre che il racconto dell’avventurosa operazione per fare evadere alcuni compagni di lotta dal carcere di Rovigo.
Miccia Corta si apre con una breve storia di Prima Linea, quasi un manifesto della lotta armata. Non c’è il minimo compiacimento nelle parole di Segio, la cui scrittura è di un livello enormemente superiore alla media degli autori che si auto-collocano nel solco della cosiddetta “alta letteratura”. Ho preferito far parlare direttamente Segio, un fiume in piena. Ciò che ci ha detto rende meglio l’idea del clima e delle ragioni di quegli anni rispetto a decenni di programmi televisivi e saggi che non hanno quasi mai saputo coglierla appieno. Di nuovo, è lecito dissentire, ma è necessario tentare di capire. Sempre.
Il libro è stato scritto per intero nel 2004, vale a dire nell’anno in cui ho terminato di scontare la condanna che mi era stata inflitta. Dopo essermi liberato dal carcere ho inteso così provare a liberare la mia memoria nella quale quegli avvenimenti erano e rimangono scolpiti indelebilmente. Come concludevo nell’introduzione alla prima edizione di Miccia corta del 2005, la scelta del tempo narrativo risponde all’intenzione e allo sforzo di calarmi fedelmente nelle convinzioni, nei pensieri, nei sentimenti, nel linguaggio dell’epoca. Ovvero di non sovrapporvi le successive consapevolezze, le coscienze e le distanze del dopo. Specie su queste materie e su quel periodo storico, infatti, tocca spesso constatare come, in buona o cattiva fede, l’autenticità dei fatti e delle analisi i giudizi e le scelte risultino sacrificati a successive e progressive stratificazioni di memoria.
Grazie per questa domanda, che non mi viene mai posta. È in effetti questa seconda vita, che in realtà sarebbe la terza, essendovi da considerare anche il lungo e sospeso periodo del carcere, a rappresentare il mio essere successivo, il mio nuovo tempo presente, la mia scelta di un diverso e per certi versi opposto sistema di vita e di valori. È un’altra vita, è quella cui tengo di più, ma, naturalmente, la meno conosciuta e considerata. Eppure, nonostante tutto, non la penso davvero come “altra”. Sarebbe una via di fuga e di comodo dalle mie responsabilità e dalla mia biografia. Ma sarebbe pure uno smarrimento e un tradimento della mia stessa memoria. Poiché so, e quindi dico – anche se ciò mi procura spesso critiche e attacchi – che vi è un filo di continuità tra la mia gioventù sovversiva e il mio presente di impegno sociale e culturale sul piano dei diritti e della scelta di campo per chi “sta in basso”: ieri e oggi è sempre stato quello il mio riferimento sociale, ideale, sentimentale. Immagino quante volte si sarà imbattuto in persone che non accettano che lei possa rientrare nella “normalità”. Come si riesce a vincere quella resistenza e, soprattutto, a far capire alla gente che gli episodi di violenza che l’hanno vista protagonista non erano figli di una insana sete di violenza? Il rifiuto e l’ostracismo verso chi, come me e tanti altri, ha compiuto la scelta armata nel campo della sinistra negli anni Settanta sono indubbiamente oggi più forti che mai. Paradossalmente, sono assai più estesi e concretamente operanti che non all’epoca immediatamente successiva ai fatti, e dunque con le ferite maggiormente aperte, nonostante in mezzo vi siano stati decenni di carcere da noi scontati, in una misura ed entità che non ha alcun precedente nella storia italiana, e non solo. Basti pensare che, dopo la Liberazione, i processi per collaborazione con il fascismo colpirono circa 43.000 persone: 23.000 furono amnistiate già in fase istruttoria e altre 14.000 liberate con formule diverse. I condannati in via definitiva furono 5928. Di questi, 5328 beneficiarono di amnistia, indulto e grazia, compresi i più efferati torturatori e gli autori di stragi. Soli sette anni dopo la sconfitta del fascismo, nel 1952, in carcere rimanevano appena 266 condannati. Più o meno la stessa cifra di quanti, a distanza di trent’anni dalla lotta armata, erano ancora in carcere o sottoposti a misure penali. I fatti per i quali anch’io porto responsabilità sono stati indubbiamente terribili e luttuosi, anche se nella lettura storica di un paese andrebbe sempre conservato un senso delle proporzioni. Quel che oggi è stato dolosamente occultato e abilmente sradicato dalla memoria sociale e dalla consapevolezza pubblica è che i soggetti e le parti che a quel tempo hanno agito violenza e provocato vittime sono stati plurimi e opposti. E che quella fase sanguinosa della storia italiana del dopoguerra non è certo cominciata a opera delle formazioni di sinistra, né a queste è attribuibile la gran parte delle vittime. Rimane un fatto incontestabile, ma appunto nascosto e rimosso: le stragi che dal 1969 al 1984 hanno provocato almeno 149 morti e diverse centinaia di feriti sono rimaste sostanzialmente impunite e sono tutte addebitabili alle destre eversive, a uomini dello Stato e a pezzi delle istituzioni. Non è, però, questione di cifre e di comparazioni: ogni morte violenta è di per sé intollerabile e inescusabile. Comunque e chiunque ne sia responsabile. Abbia pagato o meno per le sue responsabilità, come è stato per la lotta armata, o sia rimasto impunito, come è avvenuto per il terrorismo stragista e per gli uomini delle istituzioni in esso coinvolti o per le attività illegali di apparati dello Stato. Detto questo, la ricostruzione e la memoria storica di un paese non dovrebbero, come invece è stato fatto e avviene, essere consegnati a processi unidirezionati, al rancore perpetuo e a una interessata strumentalizzazione politica, quale l’approvazione di quella legge del 2007, in base alla quale «la Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, quale “Giorno della memoria”, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice». Quindici anni fa, è stato così ribadito e consacrato in forma e in forza di legge un assunto assai discutibile, ovvero che il terrorismo, la lotta armata e le stragi siano fenomeni assimilabili e omogenei. Contemporaneamente, con la scelta simbolica della data, si indicava che l’intera responsabilità di quel tragico periodo è da addebitarsi alla lotta armata di sinistra, quella che ha ucciso Aldo Moro. Vennero allora bocciate altre proposte che, più plausibilmente e correttamente, avevano proposto che tale ricorrenza fosse fissata al 12 dicembre, vale a dire la data del 1969 in cui avvenne a Milano “la madre di tutte le stragi” di stampo fascista e connivenze statuali, la data che deviò la storia del paese, che fu obiettivamente un potente innesco della degenerazione violenta del conflitto e di implementazione della cosiddetta strategia della tensione che neofascisti e apparati militari e dello Stato stavano pianificando e organizzando già da anni. In conseguenza di quel processo falsificante e revisionista, da 15 anni a questa parte è sicuramente cresciuta e si è generalizzata l’animosità e la demonizzazione nei confronti degli ex militanti della sinistra armata e in particolare contro chi di essi non ha accettato l’“ergastolo della parola” e la stigmatizzazione perpetua. In molte famiglie, compresa la mia, venivate chiamati “contestatori” in modo molto riduttivo e frettoloso. Ricordo commenti del tipo, “Toni Negri e i cattivi maestri come lui andrebbero puniti severamente”. Quanto una figura come Toni Negri ha rappresentato per lei e per l movimento e cos’è sfuggito alla narrazione pubblica? Sicuramente Toni Negri è stato uno dei riferimenti maggiori, e tra questi uno dei più acuti, intellettualmente onesti e personalmente coerenti, di quella parte della lotta armata cui ho appartenuto, che è nata all’interno della cosiddetta autonomia operaia e del movimento del ’77. Altrettanto per certo non è stato considerato tale, anzi è stato violentemente avversato dalla lotta armata di matrice brigatista. Così pure, l’allora Partito Comunista lo considerò l’avversario più pericolo, sia per la sua statura intellettuale, sia perché consapevole che era quel movimento con la sua radicalità, ben più delle formazioni armate, a poter mettere in crisi l’egemonia riformista socialdemocratica e l’intera strategia berlingueriana del compromesso storico. Basterebbe leggere la corposa biografia di Negri (tre volumi a cura di Girolamo De Michele pubblicati dall’editore Ponte alle Grazie) per rendersi conto di quanto sia stata strumentale la sua criminalizzazione. Del resto, non ha riguardato solo lui: la logica è sempre quella di creare dei capri espiatori, di personalizzare fenomeni collettivi che rispondono e derivano da processi sociali, politici e culturali, non da cattivi insegnamenti o eterodirezioni. La sua storia, così come quella di quei movimenti e formazioni, non è semplicemente liquidabile: nel bene e nel male, si è trattato di un frammento del Novecento e della lotta di classe italiana. Non le pare che talvolta la lotta armata abbia sfiorato il delirio, visto che la gente non si sentiva in guerra? Negli scorsi decenni in Italia è stato promosso un acceso dibattito, purtroppo più tra i politici e i media che non tra gli storici, se fosse o meno lecito considerare “guerra civile”, sia pur strisciante, il conflitto armato degli anni Settanta. Se ne è perlopiù concluso che non lo fosse e quello fu un passaggio utilizzato dal mainstream e dalla gran parte dei commentatori per imporre e sedimentare un lapidario e definitivo giudizio secondo cui quella lotta armata sia da considerarsi un fenomeno delittuoso e criminale. A me pare che ben altro spessore, credibilità e fondamento storico abbiano le conclusioni cui pervenne, dopo molti anni di acquisizioni e studio di documenti e testimonianze, Giovanni Pellegrino, che presiedette dal 1994 al 2001 la Commissione parlamentare sul terrorismo e, significativamente, «sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi»: «La Commissione stragi deve avere il coraggio di dire agli italiani in forma ufficiale che le cose sono andate così: eravamo un Paese dove si è combattuta per molti anni una guerra, a bassa intensità, ma una guerra c’era». E ancora: «Nel periodo ’68-’74 settori del mondo politico, apparati istituzionali, gruppi e movimenti della destra radicale hanno elaborato e posto in essere una strategia della tensione (…); a tale strategia sono attribuibili tentativi di colpo di stato (…) tre grandi stragi impunite nel periodo 69-74 (…); gli apparati di intelligence e di sicurezza, anche dopo il 1974, furono autori di attività di depistaggio e di copertura nei confronti di elementi della destra radicale individuati come possibili autori di fatti di strage». «In quegli anni si è combattuta una vera e propria guerra civile, sia pure a bassa intensità. La guerra civile che negli anni Cinquanta e Sessanta (dall’attentato Togliatti in poi) era rimasta in uno stato di pura potenzialità, negli anni Settanta, dopo piazza Fontana, si è riaccesa in un reale e sanguinoso scontro politico-sociale». In questo senso, non direi che la lotta armata italiana possa essere considerata un improvviso delirio che ha contagiato e convinto qualche decina di migliaia di persone a mettere in gioco la propria e altrui vita, semmai un fenomeno di radicalizzazione che, pur senza avere una base di massa e di consenso paragonabile a lotte armate e guerriglie di altri paesi, latino-americani o europei come il nord Irlanda, si è mosso in un’ottica e convinzione di guerra civile in atto. Per quel che può valere, in un documento della intelligence statunitense dell’aprile 1982, The Red Brigades: a Primer, i simpatizzanti della lotta armata in Italia venivano stimati in un milione, con un serbatoio di sostegno e di possibile arruolamento considerato del 2% degli operai su base nazionale e tra i diecimila aderenti al movimento dell’Autonomia operaia. Analoga quantificazione ebbe a fare Francesco Cossiga, allora ministro dell’Interno e poi presidente della Repubblica. Nel suo libro lei parla del Bloody Sunday. Che impatto ha avuto sulla lotta armata in Italia? Il Bloody Sunday è del 1972, anno nel quale nessuno di noi, a parte le prime Brigate Rosse, parlava di lotta armata e la praticava, anche se già si affacciava nell’orizzonte del possibile o, per come allora ci poteva apparire, del necessario. Ma erano sicuramente anche per noi già anni di acceso e anche violento conflitto sociale. Nelle strade, nelle scuole e nelle fabbriche la lotta era continua e affratellava gli oppressi e i rivoltosi di tutto il mondo e di tutti i continenti. Dai Weatherman e dalle Black Panther degli Stati Uniti, ai movimenti in lotta contro la guerra in Vietnam, a quelli africani e asiatici contro il colonialismo, a quelli latinoamericani ma anche greci, portoghesi e spagnoli soffocati dalle dittature militari e fasciste, che – anche questo è stato dolosamente rimosso nel revisionismo storico italiano – circondavano anche il nostro paese, sollecitandone le forze armate a emularli, finanziando, sostenendo e addestrando le organizzazioni neofasciste nostrane. Ovviamente, ci affratellava e univa sentimentalmente anche alle lotte per l’indipendenza come quella portata avanti dai nordirlandesi. In questo contesto, la strage del Bloody Sunday è rimasta fissata nel nostro immaginario e ci ha rafforzato nelle convinzioni che gli oppressi di ogni paese dovessero reagire alla violenza omicida del potere e dei suoi eserciti e polizie accettando il terreno di guerra da essi imposto. Nel nostro caso e per i nostri riferimenti ideologici si trattava di guerra di classe, non indipendentista, ma il nemico era lo stesso. Il nostro Vietnam e la nostra Belfast erano le officine di Mirafiori, i nostri territori da liberare erano i quartieri militarizzati e inquinati dalla aggressiva presenza dei fascisti, le periferie-dormitorio delle metropoli costruite attorno e in funzione della fabbrica, ma simili se non identiche erano le tensioni e la volontà di cambiare radicalmente la realtà in cui vivevamo e, da lì, il mondo intero. Come detto, vi sono sicuramente notevoli differenze tra le lotte armate e le guerriglie avvenute in Europa in alcuni paesi, scaturite da rivendicazioni di carattere territoriale e indipendentiste, come ha potuto essere per l’Irlanda del Nord o per i paesi Baschi, e quelle di radice comunista rivoluzionaria, motivate da spinte alla rivoluzione sociale e anticapitalista, come principalmente in Italia, Germania e Francia, ma anche Spagna o Belgio. Pure, vi sono state anche sintonie e similitudini e talvolta anche simpatie e collegamenti, come è stato, ad esempio, nei rapporti tra noi e i baschi dell’ETA o i francesi di Action Directe. Quel che è certo, e riconoscibile in tutte quelle diverse realtà, è che il Novecento è stato secolo di rivoluzioni, riuscite o tentate, fallite o tradite. Anche la nostra esperienza, per essere compresa – che non significa giustificata – andrebbe letta nel suo contesto storico, culturale e politico. Noi, intendendo nel complesso tutti i movimenti rivoluzionari, le guerriglie, le lotte anticolonialiste, indubbiamente siamo stati parte ed epigono delle suggestioni e delle culture di palingenesi sociale e di liberazione e di quel secolo. Lei dice di aver organizzato l’evasione dal carcere di Rovigo per amore. Ma i sentimenti per un militante alla macchia non erano qualcosa di vietato? Ma no, questa è una delle tante stupidaggini che i media embedded dell’epoca hanno costruito per disumanizzarci, per accreditare una nostra immagine di alieni precipitati sulla terra che una mattina, per qualche oscuro e patologico motivo, hanno cominciato a sparare. Certo, nella clandestinità, con le sue difficili condizioni materiali e con le sue necessarie regole, diventava difficile tenere assieme vita sentimentale e militanza, specie se i propri affetti non condividevano quest’ultima. Non pochi si sono fatti arrestare proprio per aver cercato di mantenere all’estremo i contatti e le frequentazioni con le proprie famiglie e amori. Qual è il suo più grande rimpianto? Sono talmente tanti che è difficile sceglierne uno. Forse quello di non aver capito per tempo che la celebre citazione di Paul Nizan, da Aden Arabia: «Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», che riprendo anche nel mio libro, è solo una suggestiva immagine letteraria più che un destino. In questo caso, il rimpianto è di non poter aver le consapevolezze di oggi unite alle passioni e anche alle ingenuità di quell’età. Ma presumo che siano considerazioni banali per chi ha già trascorso la gran parte della propria vita, quale che sia stata. Divisioni e fazioni in seno alla lotta armata. Perché? Hanno sempre, e purtroppo, fatto parte della storia dei movimenti operai e rivoluzionari e del pensiero socialista, comunista e anarchico nel corso dei secoli. Noi non abbiamo fatto eccezione. Le sinistre di ogni tempo e paese hanno dall’origine avuto questa inguaribile tara e autolesionista dannazione; anche perciò sono state sconfitte e sono pressoché scomparse, sia nelle loro varianti riformiste, ormai mutate geneticamente, sia in quelle rivoluzionarie. Lei pensa che il movimento rivoluzionario sia inevitabile? Io penso che l’attuale sistema, che si è fatto globale, stia portando il pianeta e l’umanità verso una inesorabile catastrofe. Di conseguenza una rivoluzione, ovvero un cambiamento radicale, sarebbe tanto necessario e urgente quanto appare improbabile. Certo, parlo di una rivoluzione post-novecentesca, come quella che a cavallo di questo secolo si era palesata con il movimento altermondialista, che si era espresso a Seattle e poi sanguinosamente schiacciato a Genova nel 2001, ma che ancora aveva avuto un potente colpo di coda nella mobilitazione mondiale contro la guerra in Iraq portando in strada nel 2003 centodieci milioni di persone, la più grande manifestazione della storia. Il “New York Times” scrisse che era nata la seconda potenza mondiale del pianeta. Invece, all’inverso, stava per morire ed esaurirsi un movimento che ha avuto il sogno, o il miraggio, di provare a cambiare il mondo senza prendere il potere. È ora rimasta una sola potenza mondiale: quella che si fonda e si riproduce sul sistema della guerra infinita, sull’invincibile potere del “complesso militare-industriale-finanziario”, sulle corporation del bellico, delle fonti fossili e di Big Pharma, sulla religione del profitto, sul dogma del libero mercato e sullo sfruttamento intensivo e irresponsabile di uomini e risorse. Che quel cambiamento radicale – di culture, paradigmi, stili di vita e di consumo, di organizzazione sociale, di sistemi economici e modelli produttivi – sia necessario lo dovremmo aver meglio compreso negli ultimi anni, con la pandemia tuttora in corso, e lo vediamo con ancora maggiore evidenza in questi giorni quando, per la prima volta dalla metà del secolo scorso, si evoca – e così facendo la si avvicina – la possibilità di una Terza guerra mondiale e addirittura si rompe il tabù e la solenne promessa che i potenti fecero al mondo all’indomani del mattatoio della Seconda, vale a dire di bandire e rendere impossibile per sempre l’uso della bomba atomica. Ora la guerra nucleare, da deterrente che era nel Novecento, è stata messa apertamente e quasi distrattamente sul tavolo delle possibilità concrete e attuali. Nel contempo, mentre l’ennesima guerra viete vittime, distrugge città e spinge a una fuga disperata nuovi milioni di profughi e l’industria bellica festeggia in Borsa, si profitta per aumentare la produzione di petrolio, si rilancia l’energia nucleare, si riaprono le centrali a carbone. Altro che transizione ecologica! Sono stati così traditi e sepolti gli impegni, già drammaticamente insufficienti e tardivi, presi dai governi mondiali solo pochi mesi fa, nella Conferenza sul clima e contro il riscaldamento globale. Non c’è insomma da essere ottimisti, ma pur sempre bisogna lottare e sperare. E l’unica speranza diventa in effetti quella di una rivoluzione, di un cambiamento di questo sistema ecocida e genocida, distruttivo e suicida, prima che sia troppo tardi. Uno scrittore egiziano ha detto che «la rivoluzione è come una storia d’amore. Quando vivi una bella storia d’amore, diventi una persona migliore». Una considerazione che, nella mia esperienza e biografia, risulta profondamente vera, oltre che bella, e che spero di aver trasmesso in questo mio libro. Sulle barricate c’è sempre amore e poesia. Perché c’è sogno, desiderio, generosità, altruismo, voglia di cambiamento. Ma la mia biografia ed esperienza mi suggeriscono una postilla: quando si esercita violenza, per rivoluzionaria che sia o intenda essere, si diventa inesorabilmente, inevitabilmente persone peggiori. Vale per le guerre come per le rivoluzioni. Non ci sono soldati innocenti. Anche questo penso sia vero sempre. Per completezza, mi verrebbe da dire che si può diventare persone peggiori anche quando la violenza viene personalmente subita: perché, dopo e a causa di essa, facilmente subentrano odio e risentimento, si precipita in una spirale cui è difficile sottrarsi. Ecco che allora la vera rivoluzione, che può davvero cambiare il mondo, non può somigliare a quella che abbiamo conosciuto o provato a realizzare nel Novecento. Dovremo saper costruire un nuovo pensiero e nuove pratiche che la rendano possibile. Ma, cantavano i Nomadi, un gruppo musicale dei miei tempi, noi non ci saremo.   Rock Reynolds, Globalist.it

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Il 27 giugno in edicola Alias comics https://www.micciacorta.it/2018/06/il-27-giugno-in-edicola-alias-comics/ https://www.micciacorta.it/2018/06/il-27-giugno-in-edicola-alias-comics/#respond Wed, 20 Jun 2018 08:09:20 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24618 Con una intervista di Giacomo di Stefano a Sergio Segio, attivista per i diritti umani con un passato in Prima Linea

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Meno sette, ragazzotti, poi PIÙ PAKKIA PER TUTTI! "Bravado", "Stella Rossa", "Oltregomma" e l'epico scontro Ali Vs. Foreman 1974 secondo Michele Petrucci. Con una intervista di Giacomo di Stefano a Sergio Segio, attivista per i diritti umani con un passato in Prima Linea. In edicola a soli 3 euri. Che volete di più, che veniamo a spicciarvi casa? Con Diego Diegozilla CajelliAriel VittoriGianluca Maconi,Onofrio CatacchioStefano ZatteraLuca BertelèAntonio FusoRoberto BaldazziniLorena CanossaMaurizio RosenzweigSergio PonchioneGiorgio SantucciAlberto LavoradoriTiziano AngriLuca VanzellaMabel MorriMat BartCaterina Giordano and many more! Alias Comics  

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“Eravamo combattenti, non terroristi”: intervista a Sergio Segio https://www.micciacorta.it/2018/01/24023/ https://www.micciacorta.it/2018/01/24023/#respond Sun, 14 Jan 2018 17:46:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24023 Un'intervista di "Prometeo Libero" a Segio, un'occasione, per approfondire una stagione della nostra storia da un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti

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È un uomo distinto, ha poco più di sessant’anni e si occupa di diritti umani e di disuguaglianze sociali. Se un ragazzino di 15 anni lo sentisse parlare penserebbe che Sergio Segio sia un docente universitario di lungo corso. Mai potrebbe immaginare che Segio ha passato gran parte della sua vita in carcere ed era il comandate militare di un’organizzazione armata di estrema sinistra: Prima Linea. Un gruppo protagonista negli ‘anni di Piombo’ di violenze e omicidi ai danni di docenti universitari, magistrati e agenti di polizia. Dopo oltre 20 anni di reclusione, Segio dal 2004 è un uomo libero e oltre all’impegno nel volontariato ha collaborato con vari quotidiani nazionali e da qualche anno dirige il magazine Global Rights. Quest’intervista – che Segio ci ha concesso gentilmente e che si è svolta in forma indiretta, con consegna delle domande in forma scritta e presentazione scritta delle risposte – non nasce come apologia della lotta armata né come la riabilitazione dell’immagine di una figura controversa. Ma come pretesto per approfondire una stagione della nostra storia da un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti.  
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Sergio Segio ritratto da Livio Patriarca per Prometeo Libero
  Segio, il gruppo terroristico che ha fondato, Prima Linea, in sei anni (1976-1983) si è macchiato di 23 omicidi. Tra i vari motivi di rimorso, quali sono le cose che hanno provocato un senso di pentimento maggiore? “In premessa, mi pare necessario puntualizzare: Prima Linea è stata un’organizzazione combattente di sinistra. Il terrorismo è storicamente, ma anche “tecnicamente”, un’altra cosa. Nella vicenda italiana, terroristiche sono state semmai le numerose, e impunite, stragi che hanno deviato la storia del paese. Capisco che sia entrato nel linguaggio comune, ma questa non è solo una semplificazione: è una vera e propria truffa semantica. E badi che non lo dico io: lo ha successivamente ammesso uno dei principali e più determinati avversarsi che abbiamo avuto in quegli anni, Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno e successivamente Capo dello Stato. Alla fine degli anni Novanta ha infatti dichiarato «Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali». E ancora: «Rileggendoli ora, quei dati, e considerando che sono state sei o settemila le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi, va ricordato che aveva ragione Moro: ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese». Venendo al merito della domanda, è sempre difficile, specie per me, tradurre quel periodo in una contabilità di vittime, che rischia di risultare arida. Ma, dato che me lo chiede, mi sembra necessario e doveroso premettere che le cifre drammatiche di quegli anni, come del resto l’intero periodo storico, andrebbero ricordate e analizzate con una completezza di informazione invece per lo più dolosamente assente. Le persone uccise dalle organizzazioni armate di sinistra sono state 128, di cui 74 a opera delle BR (58%), 20 di PL (15,6%); le rimanenti 34 a opera di 19 sigle diverse. Se alle vittime direttamente attribuite a Prima Linea si aggiungono quelle a opera di gruppi a essa collegati, si arriva effettivamente a un totale di 23. Di queste morti, 11 sono non premeditate, avvenute cioè incidentalmente per lo più nel corso di conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, nei quali sono rimasti uccisi anche 5 militanti. In totale i militanti delle diverse organizzazioni armate uccisi dalle forze dell’ordine sono stati 36. Forse le morti incidentali sono quelle che pesano e colpiscono di più, proprio per la terribile, ma non meno responsabile, casualità. Non fosse che oggi sono profondamente convinto delle parole del poeta John Donne: «La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità». Qualsiasi uomo, quale che sia la sua professione, ideologia, condizione sociale. Il mondo in cui viviamo e il sistema che lo governa ci mettono quotidianamente di fronte, all’opposto, a una continua strage che indigna pochi e di cui nessuno si sente responsabile. Basti un solo esempio, dei tanti possibili: dal 2000 a oggi sono almeno 60.000 gli uomini, le donne e i bambini morti, in larga parte annegati nel Mediterraneo, nel tentativo di fuggire da guerre, fame e persecuzioni. Nessuno se ne sente responsabile, né tanto meno viene accusato o processato per questa vera e propria guerra, eppure essa è in buona parte causata da scelte politiche ed economiche prese da governi e singoli uomini, non da volontà divine. Ma per rimanere agli anni Settanta, forse sarebbe necessario accompagnare la cifra da lei ricordata, da altre che nessuno mai menziona. Ad esempio, quelle che dicono che dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati opera della destra fascista, così pure l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975. O che il maggior numero di vittime è stato determinato dalle stragi, la cui responsabilità è storicamente ma anche giudiziariamente acclarato essere stata di organizzazioni fasciste coperte e supportate da apparati dello Stato. Dal 1969 al 1984, l’Italia è stata insanguinata da otto stragi che hanno provocato 149 morti, 688 feriti. O, ancora, nessuno ricorda né tanto meno si indigna del fatto che sono diverse centinaia le vittime a opera delle forze dell’ordine, in gran parte si trattava di manifestanti inermi, lavoratori in sciopero, studenti in lotta, semplici passanti. Ad esempio, la legge Reale sull’ordine pubblico del 1975, capostipite dell’intera legislazione di emergenza, che aumentava i termini della carcerazione preventiva, consentiva il fermo di polizia per 96 ore senza convalida del magistrato e permetteva l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine non solo in presenza di violenza o di resistenza, ha determinato almeno 254 morti e 371 feriti: spesso semplici passanti e cittadini colpiti durante controlli di polizia o ai posti di blocco. È solo nella seconda metà del decennio Settanta che prende progressivamente piede una violenza organizzata da parte di gruppi di sinistra. Naturalmente questo non giustifica nulla e nessuno: esercitare violenza, e tanto più se irrimediabile come quella di togliere la vita a un’altra persona, è una scelta anche soggettiva, che dunque comporta responsabilità. Tuttavia, la Storia ha un carattere di processualità e dinamiche di interazione: se si cancella il prima, si ottiene un dopo difficilmente comprensibile e obiettivamente falsificato. Parlare di quelle dolorose vicende a distanza di quarant’anni ha senso solo se l’intento è quello appunto di provare a comprendere, a ricostruire con onestà e completezza, non solo a stigmatizzare, peraltro a senso unico, come invece per lo più viene fatto.” Quali battaglie ideologiche, portate avanti negli anni ’70, Sergio Segio rivendica ancora oggi, a inizio 2018? “Io e la gran parte dei miei compagni dell’epoca non siamo nati con le pistole in mano, né con una propensione personale ad esercitare violenza. Semmai il contrario, dato che da giovane studente mi è capitato in diverse occasioni, come a migliaia di altri, di essere fermato durante manifestazioni, portato in caserma o in commissariato e fatto oggetto di pestaggi e violenze. Siamo cresciuti nelle lotte politiche e sociali dell’epoca. Nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici, nei quartieri. Nelle lotte per la casa, per migliorare la condizione operaia, asservita alla catena di montaggio, o per contrastare una scuola ritenuta di classe, funzionale a perpetuare la divisione sociale. Nelle lotte anche contro il risorgente fascismo e l’autoritarismo degli apparati statali, in quel periodo più volte compromessi in tentativi golpisti, in trame per instaurare in Italia una dittatura militare, come era avvenuto in Grecia e com’era in quegli anni Spagna e in Portogallo. Anche qui, se lo sforzo è quello di provare a capire, bisognerebbe ricordare che ancora negli anni Sessanta e Settanta italiani, 62 dei 64 prefetti di prima classe provenivano dai ranghi dell’amministrazione dello Stato nel regime mussoliniano e così pure tutti i 241 viceprefetti, i 135 questori e i 139 vicequestori. O ricordare che il generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, che negli anni Sessanta era stato a capo del servizio segreto militare e poi Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano, capeggiava in quegli anni manifestazioni della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, composta perlopiù da monarchici e fascisti, dove si gridava: «Ankara, Atene, adesso Roma viene», oppure «Basta con i bordelli, vogliamo i colonnelli». O andarsi a rileggere le considerazioni di Giovanni Pellegrino, che per molti anni ha presieduto una Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo e sulle stragi in Italia: «Nel periodo ’68-’74 settori del mondo politico, apparati istituzionali, gruppi e movimenti della destra radicale hanno elaborato e posto in essere una strategia della tensione (…); a tale strategia sono attribuibili tentativi di colpo di stato (…) tre grandi stragi impunite nel periodo 69-74 (…); gli apparati di intelligence e di sicurezza, anche dopo il 1974, furono autori di attività di depistaggio e di copertura nei confronti di elementi della destra radicale individuati come possibili autori di fatti di strage». Prima di diventare violenza organizzata e armata, insomma, le mie e nostre lotte sono state lotte per la giustizia sociale, per i diritti dei lavoratori, per una democrazia reale, contro una società autoritaria e repressiva e contro i rischi di colpo di Stato militare e fascista. Valori e pratiche che non avevano solo un contenuto ideologico, ma semmai ideale e sociale e che ancora oggi, in condizioni e tempi certo mutati, sento come miei. A posteriori, la valutazione è che la strategia della tensione e lo stragismo posti in essere da settori dello Stato hanno funzionato, facendo deragliare una parte dei grandi movimenti di quegli anni (io facevo parte del gruppo extraparlamentare di Lotta Continua) lungo il crinale scivoloso delle armi. Una strategia tesa a destabilizzare per stabilizzare e, soprattutto, a sconfiggere il forte movimento operaio di quei primi anni Settanta, che aveva messo in discussione non solo lo sfruttamento in fabbrica, ma lo stesso sistema di potere. Per capire il clima dell’epoca, da noi inteso come prerivoluzionario, andrebbe ricordata, ad esempio, l’occupazione della FIAT avvenuta nel 1973. Oppure il movimento del ’77, del quale più direttamente era parte Prima Linea, quando decine di migliaia di persone esprimevano un antagonismo radicale e una disponibilità generalizzata allo scontro, in manifestazioni di massa spesso armate. Molti, specialmente oggi, potrebbero pensare che avessimo scambiato lucciole per lanterne, che la spinta alla rivoluzione fosse solo un nostro vaneggiamento. Ma basterebbe leggere quanto scrisse una fonte non certo sospetta di simpatie per l’estremismo, come l’ex ambasciatore Sergio Romano, quando relativamente agli USA, ha parlato esplicitamente di situazione prerivoluzionaria: «Tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’America fu per molti aspetti in una situazione prerivoluzionaria. La guerra del Vietnam aveva provocato numerose rivolte giovanili. I campus universitari erano diventati vivai di contestazione e ribellione. Washington era attraversata da cortei di manifestanti. La bandiera americana e le cartoline di precetto venivano bruciate sulla pubblica via. I ghetti neri delle grandi città erano teatro di insurrezioni e saccheggi. Gli attentati terroristici e le manifestazioni violente erano all’ordine del giorno». Ebbene, gli stessi identici “ingredienti” erano presenti in quegli anni in Italia, coinvolgevano e convincevano decine di migliaia di giovani. Una vasta area che anche il successivo passaggio alla lotta armata non prosciugò, se sono vere le cifre indicate dalla statunitense CIA in un documento dell’aprile 1982, nel quale i simpatizzanti della lotta armata in Italia venivano stimati in un milione, con un serbatoio di sostegno e possibile arruolamento considerato del 2% degli operai su base nazionale e tra i diecimila aderenti al movimento dell’Autonomia operaia. Il nostro errore di valutazione semmai è stato quello di scambiare un tramonto per l’alba, vale a dire di non aver adeguatamente compreso la trasformazione epocale in corso, il passaggio dal fordismo al post-fordismo, e dunque la sconfitta della precedente composizione di classe, che divenne evidente a tutti solo nel 1980, con la simbolica marcia dei “quarantamila” alla FIAT e la fine di un ciclo storico. Un errore grave, che ha prodotto gravi conseguenze. Ma che, va detto, non è stato solo nostro, ha riguardato l’intera sinistra di questo paese, compresa quella parlamentare, in tutte le sue componenti e sfaccettature.” Lei è stato in carcere per 24 anni e per altrettanti è stato impegnato nella difesa dei diritti umani. Il percorso di riabilitazione con lei pare abbia funzionato. Ma non sembra che funzioni sempre, anzi. Perché? “Lo dico molto semplicemente ma con convinzione e nettezza: perché nonostante io e chi ha vissuto la mia stessa esperienza abbiamo compiuto reati, anche gravissimi, non eravamo motivati da spinte criminali. Piuttosto, come ho cercato qui di spiegare, da una spinta – o se si preferisce un’illusione – rivoluzionaria. Cessata la quale il rientro nella società e nelle sue regole è stato un fatto naturale. Il carcere, e specialmente quello violento delle sezioni speciali nelle quali siamo stati a lungo rinchiusi, ha semmai rallentato e a volte inceppato questo percorso. La riabilitazione, se questo è il termine appropriato, è avvenuta spesso nonostante il carcere, non in virtù di esso. Oggi il carcere è popolato da figure alquanto diverse, in massima parte persone con problemi di droghe, stranieri, malati. Ricordo le parole di un magistrato che, chiamato a incarichi ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, tempo fa ebbe a dire: «Sono arrivato pensando di trovare il carcere pieno di criminali, l’ho scoperto pieno di poveri». Da tempo, esauritasi la spinta propulsiva della riforma Gozzini e delle retrostanti culture politiche che l’avevano resa possibile, il carcere sembra avere deposto ogni ambizione rieducativa e finalità di reinserimento, limitandosi a contenere numeri crescenti di esclusi, a svolgere funzioni surrogate rispetto al venire meno delle politiche sociali all’esterno da un lato, e, dall’altro, a connotarsi come vera e propria vendetta sociale, risposta al rancore diffuso nella società non solo verso chi delinque ma verso gli esclusi e i poveri in generale.” Il 4bis va abolito oppure ha qualche ragione di esistere? “Il 4 bis è la formalizzazione giuridica della rinuncia alle funzioni riabilitative che la Costituzione assegna alla pena reclusiva nei confronti di alcune categorie di reati e dunque di detenuti. Dovrebbe pertanto essere abolito, al pari del 41bis e dell’ergastolo cosiddetto ostativo, che costituiscono nient’altro che una forma legalizzata di tortura. Entrambe le norme sono frutto della medesima logica di emergenza che contraddistinse la risposta giudiziaria e penitenziaria ai fenomeni armati degli anni Settanta. Allora c’era stato l’uso indiscriminato ed estensivo dei reati associativi, del “concorso morale”, l’uso disinvolto dei cosiddetti pentiti, la tortura sugli arrestati, le carceri speciali e l’articolo 90. Oggi le norme di emergenza hanno nomi e obiettivi diversi, ma è uguale il vulnus che producono nello Stato di diritto e l’irrigidimento complessivo del sistema penitenziario.” In un recente convegno lei ha citato una vecchia inchiesta Rai sulle carceri in cui l’inviato – osservando l’interno dei penitenziari – non notava un numero ingente di criminali ma un gran numero di poveri. A quali sistemi carcerari stranieri si può ispirare l’Italia per impedire che le prigioni restino delle discariche sociali? “Sì, il conduttore di quella inchiesta, dopo aver visitato un alto numero di penitenziari, era giunto alla medesima conclusione di quel magistrato che ho citato prima. Affermava che la popolazione detenuta somigliava a una “corte dei miracoli”, che i volti che vi si incontravano «sono gli stessi dei miserabili di Victor Hugo, dei sepolti vivi di Dostoevskij». Una popolazione composta da persone con basso grado di istruzione, senza lavoro, prevalentemente di origine meridionale. Una fotografia scattata quasi mezzo secolo fa ma straordinariamente, e preoccupantemente, simile a quella attuale. Oggi vi sono da aggiungere gli stranieri, arrivati a essere oltre il 34% dei reclusi, ma la ragione principale per la quale si finisce in carcere rimangono i reati contro il patrimonio e la composizione socio-economica prevalente resta quella dell’emarginazione. Vi sono paesi i cui sistemi penitenziari hanno fatto e vinto scommesse riformatrici, come ad esempio l’Islanda. Ma anche diversi paesi più grandi, magari con contraddizioni, hanno politiche di maggiore apertura e maggiore attenzione ai diritti delle persone recluse, penso ad esempio a quello all’affettività o all’abolizione della pena perpetua. Si potrà obiettare che l’Italia ha peculiarità criminali, come quelle delle mafie. Ma penso che ciò costituisca un argomento debole e pretestuoso, perché, come diceva Leonardo Sciascia, che ben conosceva il fenomeno, le mafie si battono con lo Stato di diritto, non con la terribilità delle pene. L’ergastolo, come del resto la pena di morte, non sono un vero deterrente. Il carcere duro porta a una spirale violenta non a un reale governo delle prigioni. Prima che modelli da seguire, e ce ne sarebbero, occorre però una diversa cultura della pena e della sua funzione. Per dirla con il compianto cardinal Martini, «occorre provare a immaginare alternative alla pena, non solo pene alternative». Mentre aspettiamo Godot, vale a dire che la classe politica (di destra, di centro e di sinistra) trovi questo coraggio e questa lungimiranza, si potrebbe e dovrebbe cominciare almeno rendere la pena reclusiva davvero l’extrema ratio, anziché la scorciatoia preferita per ogni genere di reato e di devianza, come è adesso.” Parliamo un po’ di politica. Se Sergio Segio avesse 20 anni, oggi in che forme sarebbe impegnato politicamente? Voterebbe qualche partito in particolare?  “Guardi, io ho avuto un imprinting e una educazione sentimentale di sinistra e rimango convinto che la giustizia sociale e l’eguaglianza siano valori e obiettivi imprescindibili. Non ho mai militato né votato partiti ma piuttosto in movimenti e gruppi extraparlamentari. Ho avuto attive simpatie per l’ultimo grande movimento che si è espresso alla fine degli anni Novanta in tutto il mondo e che è stato sanguinosamente represso a Genova nel 2001. Un movimento altermondialista e post-novecentesco, che aveva l’ambizione di provare a cambiare il mondo senza prendere il potere e che ha avuto importanti e ancora attuali intuizioni. Se pure quel movimento si è dissolto, le sue ragioni sono più che mai valide ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte globali. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società civile che a quel tempo ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld e la complicità dei Tony Blair nell’invadere l’Iraq, costruendo a tavolino prove false per poterlo fare, e che hanno innescato e addirittura teorizzato una “guerra infinita”, i cui effetti continuano oggi a devastare il Medio Oriente e a destabilizzare intere aree geografiche e indirettamente la stessa Europa, destinataria principale dei flussi di migranti che fuggono dai bombardamenti e dalle stragi. La sola guerra in Siria, in corso dal 2011, ha sinora prodotto quasi mezzo milione di morti, due milioni di feriti, 12 milioni di profughi. Il neocolonialismo, gli interessi strategici energetici e le industrie belliche occidentali sono responsabili dei milioni di morti e delle decine di milioni di profughi che hanno segnato l’inizio del nuovo secolo e che continuano senza freni o ripensamenti. E senza neppure più quel movimento mondiale che aveva la forza e la lucidità di denunciarlo. Oggi è rimasta solo la voce del papa Francesco, autorevole ma priva di reali conseguenze nelle scelte politiche. Rimango convinto che, tanto più in quest’epoca di globalizzazione e di governance tecnocratica, i parlamenti decidano assai poco. Assieme, e di conseguenza, alla crescita del potere della finanza e dei grandi gruppi multinazionali, sono infatti andati svuotandosi gli istituti del potere legislativo e la stessa democrazia. Le grandi decisioni mondiali vengono prese nei consigli di amministrazione di quelle corporation e incidono sulle nostre vite molto di più di qualsiasi parlamento. Del resto, se molte multinazionali e banche hanno bilanci superiori ai PIL degli Stati, non è difficile capire chi comanda nel mondo. Il colosso USA dei supermercati Walmart impiega 2,2 milioni di persone e realizza un fatturato di oltre 485 miliardi di dollari, come l’intero PIL dell’Argentina. Il bilancio della banca BNP-Paribas, quasi 2.000 miliardi di euro, equivale al PIL del Paese in cui ha sede, la Francia, la sesta più grande economia; eppure BNP è “solo” l’ottava banca a livello mondiale. La capitalizzazione di giganti come Google e Apple supera il PIL della Svezia, Polonia o Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, con 180 milioni di abitanti. Interi settori vitali per l’umanità, come quello alimentare e dell’agrochimica sono nelle mani e nel potere di poche corporation. I tre quarti del mercato delle sementi sono posseduti da sole dieci multinazionali; la statunitense Monsanto, da sola, ha oltre un quarto del mercato globale. Tutto ciò contribuisce a svuotare di ruolo e possibilità i partiti politici, e lo vediamo di riflesso con il crescere dei populismi e quello, sempre più minaccioso, dei nazionalismi. In ogni modo, per chi viene dalla mia storia dopo aver espiato la pena detentiva, ne continua un’altra infinita, una sorta di ergastolo sociale e della parola. Tra i diritti civili di cui siamo privati ci sono anche quelli politici, di conseguenza, anche volendo, non potrei votare né essere votato. L’unico partito al quale io mi sia mai iscritto e con cui intrattengo rapporti e simpatia è quello radicale. Prima di tutto per riconoscenza, dato che negli anni Settanta e Ottanta i radicali sono stati tra i pochi a denunciare i frequenti episodi di tortura avvenuti nei confronti dei militanti arrestati e le condizioni di detenzione nelle carceri speciali. Una gratitudine non solo in generale, ma anche per il sostegno e la vicinanza che personalmente mi espressero in occasione di un lungo sciopero della fame che io e Susanna Ronconi conducemmo per protestare contro una decisione del presidente del tribunale di sorveglianza di Torino. Una decisione che apri un conflitto, anche giuridico, tra quel magistrato e la direzione del carcere, che aveva disposto anche per noi due l’accesso al lavoro all’esterno come già era avvenuto per tutti gli altri detenuti politici della nostra sezione, ma che il magistrato invece ci rifiutava. Fatto sta che a un certo punto io e Susanna decidemmo uno sciopero della fame contro quella che obiettivamente era una discriminazione ingiustificata nei nostri confronti (opinione, peraltro, condivisa e scritta nero su bianco da personalità politiche e giuridiche di tutto rilievo, come ad esempio l’ex magistrato e poi presidente della Camera Luciano Violante, il futuro ministro di Giustizia Piero Fassino, lo stesso senatore Mario Gozzini, il giurista Neppi Modona e tanti altri). Uno sciopero totale e determinato, tanto che dopo solo una settimana fummo ricoverati al reparto-bunker dell’ospedale Le Molinette di Torino. Uno sciopero che intendevamo non come un ricatto ma come una battaglia che, pur a partire dalla nostra condizione, poneva una questione di diritto più generale. Era una situazione decisamente disperata. Noi eravamo davvero determinati a ottenere di essere trattati come gli altri, o a morire in caso diverso. Ebbene, e per farla breve, tra i non moltissimi che ci sostennero in quella battaglia di vita o di morte ci fu l’intero Partito Radicale e tutti i suoi parlamentari, Marco Pannella in testa. Sino a che, dopo un intervento dell’allora guardasigilli Giuliano Vassalli, il magistrato dovette accettare di ammettere al lavoro esterno prima Susanna e qualche tempo dopo anche me, sia pure sotto scorta e vigilanza costante degli agenti di polizia penitenziaria: lavoro esterno sotto scorta che ha costituito un fatto più unico che raro nella storia carceraria italiana. Ma, al di là delle vicende personali e della riconoscenza, poi e assieme, vi è da parte mia la considerazione di una loro profonda coerenza e anche della loro, positiva, anomalia, dato che si tratta di un partito “non partito”, dato che da tempo ha scelto di non presentarsi alle elezioni e di caratterizzarsi su di un piano transnazionale. Il che bilancia la decisa distanza che avverto riguardo invece le loro posizioni neoliberiste in economia. Infine, ma non per ultimo, perché negli anni più recenti sono rimasti davvero l’unica forza politica impegnata nella difesa dello Stato di diritto e di un garantismo non a corrente alternata, nonché contro l’ergastolo e il carcere duro del 41 bis.” Se lei dovesse definire con un aggettivo Renzi, Bersani, Berlusconi, Grillo e Salvini, quale utilizzerebbe per ognuno di loro? “Credo che da quanto ho detto sinora sia evidente che non ho vicinanza con nessuna delle forze politiche da essi rappresentate, anche se per alcune, caratterizzate da una cultura di intolleranza, di egoismo sociale e di atteggiamenti xenofobi posso avvertire una distanza maggiore. Sulle singole persone mi sono abituato a non esprimere giudizi, essendo troppe volte stato giudicato, per non dire pre-giudicato o additato alla gogna e disprezzo pubblici. I tempi in cui viviamo mostrano una facilità ai discorsi d’odio, all’insulto, ai giudizi lapidari che penso vadano contrastati, su tutti i piani e nei confronti di chiunque.” Quali sono le passioni di Segio – anche le meno impegnate – che nessuno conosce sul fronte musicale, cinematografico, sportivo.. ? “Credo valga per molti, ma io mi sento ed effettivamente sono spesso in gara con il tempo, un bene divenuto sempre più scarso, date le forme raggiunte dall’organizzazione sociale. Le mie attività e l’impegno sociale mi consentono dunque davvero poco margine per dedicarmi ad altro. Il tempo che riesco a guadagnare lo investo nella lettura, ascolto abbastanza musica, anche in sottofondo quando lavoro o scrivo, vado purtroppo troppo raramente al cinema. I miei gusti letterari, musicali e cinematografici sono rimasti abbastanza attardati al secolo scorso. Non mi sono mai interessato di sport, tanto meno di calcio, che continuo a ritenere un’arma di distrazione di massa, oltre che ormai un business più che uno gioco. Ma da alcuni anni pratico la corsa, partecipando a maratone. Detto ciò, la mia principale passione rimane quella politica, nel senso che spero di aver sin qui sufficientemente delineato: vale a dire dell’impegno sociale e della partecipazione.” Qualche tempo fa, in un incontro alla sede del Partito Radicale, poco dietro di lei c’era seduto Valerio Fioravanti. L’ha salutato? “No ma semplicemente perché non l’ho visto. In quell’occasione ho invece salutato Francesca Mambro, con la quale peraltro condivido impegno e battaglie contro la pena di morte e per i diritti umani nell’associazione Nessuno Tocchi Caino, del cui direttivo faccio parte e alla quale collaborano anche Valerio e Francesca. Una grande e nobile figura, purtroppo scomparsa nell’agosto 2016, che è stata a lungo magistrato di sorveglianza e per un troppo breve periodo anche a capo dell’amministrazione penitenziaria, Sandro Margara, ebbe a scrivere una volta che «il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima»; una profonda verità che troppi non vogliono ascoltare, specie in questi tempi incattiviti. Io penso che il carcere crei anche sentimenti naturali di solidarietà reciproca tra chi vive la medesima condizione e che spinga dunque a superare distanze e prevenzioni anche tra “ex nemici”.” Fonte: GIACOMO DI STEFANO, PROMETEO LIBERO

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Introduzione del curatore

Chi sia Sergio Segio è presto detto: cresciuto a Sesto San Giovanni, periferia nord di Milano, durante gli studi di filosofia alla Statale inizia ad occuparsi di politica fino ad aderire a Lotta Continua. Nel 1976 fonda l’organizzazione armata Prima Linea. Il 29 gennaio 1979 è l’esecutore materiale dell’omicidio del giudice Emilio Alessandrini; il 19 marzo 1980 uccide un altro magistrato, Guido Galli. Il 3 gennaio del 1982 guida con successo un’operazione per far evadere dal carcere di Rovigo quattro detenute, tra cui la sua compagna Susanna Ronconi (nella foto a dx insieme a Segio). Viene arrestato a Milano il 13 gennaio 1983, a ventisette anni. La Corte di Cassazione lo condanna all’ergastolo, poi convertito in trent’anni di reclusione in forza della c.d. legge Gozzini. Esce dal carcere nel 2004, a 49 anni, ultimo esponente di Prima Linea a riacquistare la libertà . Nel 2005 ha scritto Miccia corta. Una storia di Prima Linea (ed. DeriveApprodi) e l’anno successivo per Rizzoli Una vita in Prima Linea. L’anno scorso la sua biografia è stata oggetto di un film di Renato De Maria, La Prima Linea.

Oggi Segio si occupa delle tematiche legate al sistema penitenziario e della giustizia, alle droghe e alle tossicodipendenze, al volontariato e ai nuovi movimenti, collaborando, tra gli altri, con il Gruppo Abele e don Luigi Ciotti, con la CGIL, con il Centro culturale San Fedele di Milano e con l’ex finanziere Sergio Cusani (fonte: wikipedia).

Non l’ho conosciuto personalmente, gli ho solo mandato le domande via mail e lui gentilmente – con un po’ di attesa, vista l’ampiezza degli argomenti affrontati – mi ha risposto. Fino a poco tempo fa era solo uno dei tanti nomi che gli storici citavano a proposito dei vari movimenti di lotta armata, senonchè un giorno, tornando a casa da mia madre, le trovo un libro sul comodino: Una vita in Prima Linea. Una lettura decisamente insolita. Incuriosito, mi informo. Mi risponde che il saggio è scritto da Sergio Segio, un suo compagno di scuola ai tempi delle superiori a Sesto, mentre mio nonno faticava alla Falck e mia nonna si occupava del bar di famiglia in viale Casiraghi. E che quel Segio, da grande, è diventato un pericoloso terrorista. Il curioso e lieve intreccio tra la quieta storia della mia famiglia e la Storia che ho letto sui libri di Indro Montanelli, di Giorgio Galli e di Mario Calabresi mi infiamma. Divoro in pochi giorni il libro. Poi, casualmente, poche settimane dopo esce anche il film interpretato da Riccardo Scamarcio. Gli eventi raccontati, sia nel libro che nella pellicola, sono le portanti e contraddittorie colonne della più recente storia italiana, condite dal più efficace dei tòpos letterari: la testimonianza diretta. Ho pensato che sarebbe valsa la pena di approfondire maggiormente la questione.

Spero che questa breve intervista riesca, nei suoi limiti, a consegnare al lettore un quadro sufficientemente caratterizzante di chi fu Sergio Segio, di cosa fu il terrorismo di sinistra, delle responsabilità  e dei meriti o demeriti della politica e di quale dei suoi mille volti l’Italia degli anni Settanta si fregiava agli occhi dei cittadini. Senza mai dimenticare, nemmeno per un attimo, le vittime del terrorismo. E le persone che hanno voluto loro bene.

Milano, 23 gennaio 2010

M.A.B.

1. Poco tempo fa c’è stato il quarantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, considerata unanimamente l’inizio degli anni di Piombo. Secondo gli storici sono individuabili due ondate di terrorismo di sinistra: la prima figlia diretta del clima post Piazza Fontana, che trova la propria incarnazione nelle azioni delle Brigate Rosse di Curcio, di Franceschini e della Cagol; la seconda ondata invece è collocabile tra il 1976 e il 1977, con l’arresto di Curcio e l’avvento di Moretti a capo delle BR, la nascita di Prima Linea e le agitazioni universitarie iniziate nel febbraio del ’77. Quali motivazioni hanno spinto la sua generazione, appena adolescente ai tempi di Piazza Fontana, dieci anni dopo la prima ondata ad intraprendere la lotta armata?

Io non credo vi siano state due fasi distinte e separabili di lotta armata: c’è stata una fase di incubazione, teorizzazione, sperimentazione, propaganda e poi, con una naturale progressione, una fase di dispiegamento. Fasi che hanno seguito, pur in modo temporalmente sfalsato, le dinamiche e le curve di crescita e di crisi del movimento e delle lotte operaie di quegli anni.
Se gli albori della lotta armata sono situabili nella fase alta delle lotte, la fase espansiva ha invece corrisposto alla fase di ripiegamento del movimento, in particolare di quello del 77, la cui decadenza ed esaurimento hanno prodotto un’ondata di arruolamento dentro le organizzazioni combattenti.
Allo stesso modo, la fase precedente aveva visto nascere le prime organizzazioni combattenti in un rapporto di causa-effetto con l’esaurirsi dei gruppi extraparlamentari che avevano avuto ruolo e dimensioni significative a cavallo della fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. I due grandi serbatoi di Prima Linea – che è vero nascere ufficialmente nel 1976, ma il cui progetto era operante già  dal 1974, così come i suoi militanti erano attivi già  da tempo, spesso facendo parte delle strutture di servizio d’ordine, anche armate, dei gruppi extraparlamentari – sono stati l’area di Potere operaio, organizzazione discioltasi già  nel 1973 e, soprattutto, le progressive rotture e fuoriuscite da Lotta continua, che tuttavia si scioglierà  solo nel 1976.
Ciò anche per dire che lo sviluppo della lotta armata in Italia va letto come una sequenza di continuità  e di rotture dentro un’ipotesi rivoluzionaria e un contesto fortemente politicizzato e conflittuale, non come un'”ora x” o una decisione a tavolino. Alcuni autori, in riferimento a quei primi anni hanno parlato di «guerra civile strisciante», di onda lunga del dopoguerra italiano.
Karl von Clausewitz scriveva che la guerra è continuazione della politica con altri mezzi. In realtà , più propriamente, è una degenerazione della politica, e quegli “altri mezzi” sono la barbarie delle stragi e del sangue, dell’uccisione di esseri umani considerati come nemici, dunque disumanizzati.
Questo vale per la guerra, ma vale anche per il terrorismo. Ed è valso, in piccolo, anche per noi 30 anni fa. Quando, come si usava dire allora, decidemmo di passare dalla forza della ragione alle ragioni della forza. E, in effetti, il dibattito politico dentro Lotta Continua nella quale molti di noi militavano – iniziato nel 1972 e finito nel 1974 con la fuoriuscita di molti, me compreso – si chiamò proprio così: “questione della forza”.

Così, almeno per me e per altre centinaia di compagni, cominciò il percorso della lotta armata. Una traiettoria nata da un impasto di scelte e forzature individuali e di un contesto decisamente particolare, quale fu quello italiano dei primi anni Settanta. Un contesto – parola oggi espunta dal vocabolario per quando riguarda la riflessione storica su quegli anni, ma irrinunciabile se si vuole provare a leggere i fenomeni e non solo a esorcizzarli e demonizzarli – caratterizzato, sommariamente:
– da un amplissimo movimento operaio e studentesco, che costituiva l’onda lunga del 68-69, un’anomalia italiana, rispetto agli altri Paesi che pure avevano conosciuto i sommovimenti del ’68;
– dalla radicalità  che questo esprimeva, ovvero dalla sua forte ideologizzazione e da una costante pratica di violenza antifascista e di piazza, divenuta ancor più radicale e massificata nel 77;
– dalla presenza di una destra stragista, di forti gruppi neofascisti e neonazisti organizzati militarmente, coperti e utilizzati da settori statali italiani, oltre che sostenuti da paesi stranieri a regime dittatoriale, Grecia in primis: nei cortei a Roma o a Milano, la cosiddetta “maggioranza silenziosa” e i neofascisti gridavano: «Ankara, Atene, adesso Roma viene», mentre nella capitale manifestavano coloro che si definivano “Amici delle forze armate”, con in testa il generale dei carabinieri, poi a capo dei servizi segrete, Giovanni De Lorenzo, al grido «Basta con i bordelli, vogliamo i colonnelli»;
– da una costante e violenta repressione da parte delle forze dell’ordine, che produsse spesso morti durante le manifestazioni; morti regolarmente rimaste impunite;
– da pezzi delle istituzioni deviate e colluse con i gruppi neofascisti;
– da settori delle forze politiche, in particolare della DC, altrettanto orientate a coprire e utilizzare sia le deviazioni degli apparati di polizia sia le organizzazioni fasciste e paramilitari;
– dall’onda lunga dell’eredità  di Yalta e della divisione del mondo in blocchi e delle strutture paramilitari e culture di contrapposizione ideologica che, anche in Italia, ne erano derivate;
– dalla strozzatura delle lotte e di ogni spazio di agibilità  politica critica e radicale costituita dalla teorizzazione e poi dalla pratica del compromesso storico da parte del PCI, all’indomani del golpe in Cile del 1973.

Oggi è stato rimosso dalla memoria collettiva, dai giornali e dai libri, ma quello era il clima, quelle erano le istituzioni. C’è stato insomma un detonatore costituito da una miscela inestricabile di fattori, oltre a quelli personali ed emotivi: e qui un ruolo forte se non decisivo ha avuto in effetti la madre di tutte le stragi, quella di piazza Fontana.
Nella foga revisionista attuale, tesa ad attribuire alla sinistra ogni colpa e ad assolvere le destre, anche radicali e dichiaratamente fasciste, e in generale il sistema politico della Prima Repubblica e le sue due colonne portanti, DC e PCI, alcuni vanno dicendo che non è vero che quella strage fece “perdere l’innocenza” a una generazione, che non è vero che quello è il punto di innesco delle derive armate e violente, perché comunque già  da prima esistevano teorizzazioni e pratiche violente a sinistra. E qui basterebbe guardare alle statistiche, che mostrano come dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati opera della destra fascista, così pure l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975.

Io credo invece che una quota significativa di quella generazione vide, percepì ed elaborò la strage di piazza Fontana come un vero e proprio punto di non ritorno e come la dimostrazione che, oltre un certo limite, le lotte pacifiche non potevano andare, che alla repressione, a quel tipo di terrorismo bisognasse rispondere in modo diverso e non solo con le manifestazioni di massa.
In quel frangente, in molti prendemmo coscienza di un’iniquità  profonda che costituì la primaria, spesso decisiva, pulsione e motivazione alla milizia politica estremista e poi armata. Quello stato di iniquità  ci pareva una conseguenza diretta dell’impunità  di cui da sempre avevano goduto gli apparati dello Stato e alcuni settori del neofascismo ai primi collegati; e, più in generale, della mancata o insufficiente trascrizione sul piano politico-istituzionale delle domande collettive, delle rivendicazioni radicali, delle istanze di trasformazione che i movimenti di massa operai e studenteschi avevano espresso nel 68-69.
Stato di impunità  e mancata trascrizione produssero in noi una forte tendenza alla supplenza, e questa si espresse nel tentativo di realizzare e amministrare una “giustizia alternativa”, rivoluzionaria, attraverso l’affermazione di un diritto materiale contrapposto a un diritto formale inadempiente.

2. Come considerava la politica del Partito Comunista Italiano in quel periodo storico?

Compromessa e rinunciataria e, quanto meno dopo il 1973, pericolosa, in quanto attraverso la scelta strategica del compromesso storico rendeva inermi e consegnava alla sconfitta  i movimenti, le lotte operaie e sociali. Il golpe militare in Cile dell’11 settembre 1973, voluto e sostenuto dagli USA, che aveva rovesciato il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende, eletto democraticamente, la conseguente sconfitta della sinistra cilena e la morte di Allende rendevano ai nostri occhi evidenti i limiti e i rischi della “via pacifica” ed elettorale al socialismo anche per l’Italia.

Come la strage di piazza Fontana, anche questi avvenimenti assunsero i contorni di un punto nodale, dopo il quale nulla poteva e doveva rimanere come prima. Viceversa, il PCI di Enrico Berlinguer reagì alla grave situazione interna e internazionale rinunciando all’opposizione. Argomentando la sua proposta di compromesso storico con la DC, Berlinguer arrivò a sostenere che anche nel caso di una sua vittoria elettorale, anche raggiungendo il 51% dei voti, non si sarebbe potuto garantire un governo delle sinistre in Italia. Di nuovo, per noi questo sembrò dire – ed effettivamente diceva – che la democrazia era pura finzione, che non bastava vincere le elezioni per poter governare, che l’Italia era un paese a sovranità  limitata. Era quella la teorizzazione compiuta che di fronte ai rischi autoritari e golpisti, riconosciuti non solo reali e concreti ma del tutto attuali e «sempre incombenti» dallo stesso PCI, alle ingerenze e ai condizionamenti statunitensi e dell’alleanza atlantica, anziché informare, denunciare, reagire e mobilitare, bisognasse accordarsi con le forze che minacciavano la democrazia, con la DC che le trame aveva coperto e utilizzato.
Ai nostri occhi e nelle considerazioni delle sinistre critiche, le sollecitazioni di Berlinguer costituivano il naturale punto d’approdo della lunga marcia di un riformismo incapace di riforme e di reale cambiamento. Ciò contribuì a radicalizzare le nostre vedute e le nostre pratiche e, d’altra parte, l’alleanza PCI-DC, la rinunzia all’opposizione, determinava la progressiva chiusura degli spazi e dell’agibilità  politica per le lotte e i movimenti e una maggiore mano libera nella repressione da parte statale.

Dimostrazione e sbocco tragico di questo saranno evidenti nel 77, quando a Bologna i carabinieri uccisero un giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, sparandogli alla schiena durante una manifestazione. Il PCI, anziché condannare l’omicidio dello studente, attaccò «il ruolo di intimidazione e di provocazione di gruppi neosquadristici».
Fu così che la rossa Bologna divenne la palestra di una nuova fase e di un irriducibile antagonismo tra vecchia sinistra comunista e nuovi movimenti. Da un lato, vi era un movimento sempre più violento e radicale, dall’altro, l’alleanza operativa in funzione repressiva tra la DC di Francesco Cossiga e il PCI di Ugo Pecchioli, con i carri armati schierati lungo le strade.
Onestamente, in tempi recenti, Cossiga ha ammesso: «Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali. (…). Inviando a Bologna, dopo la morte di Lorusso, i blindati dei carabinieri con le mitragliatrici, accolti dagli applausi dei comunisti bolognesi (…) molti si spostarono verso le Brigate rosse e Prima Linea». E ancora: «Del resto fummo io e un compagno di partito di Napolitano, ora mai ricordato, Ugo Pecchioli a mettere su una operazione di guerra psicologica per trasformare i terroristi rossi in criminali comuni. Pecchioli, persona serissima, organizzatore della Gladio Rossa, si era occupato molto di queste cose. Ci aveva fornito i nomi di chi non aveva rinnovato la tessera del Pci (potenziali reclutati). E grazie a lui infiltrammo giovani del Pci nell’autonomia che ci fecero poi da spie».

A tutt’oggi, dall’ex partito comunista non è invece venuta alcuna resipiscenza rispetto a quel periodo. Certo, à  la guerre comme à  la guerre. Di fronte all’approfondirsi e all’estendersi della violenza, dal suo punto di vista, legittimamente il PCI ha potuto ritenere che il nemico prioritario da battere, con qualsiasi mezzo, fosse quell’anomalo movimento del 77, il proliferare di gruppi armati e clandestini. Ma alla base di quella degenerazione e di quel proliferare vi sono stati anche gli errori e le miopie politiche del PCI, e in generale un’idea della democrazia autoritaria ed escludente, anch’essa teorizzata dallo stesso partito con gli interventi di Asor Rosa sulle «due società », che a Bologna si erano confrontate: la «classe operaia organizzata», i garantiti, da una parte, e i giovani proletari, i precari, i disoccupati, i nuovi movimenti, dall’altra.

3. Scrive Indro Montanelli – nella sua Storia d’Italia – tentando di trovare una ratio all’omicidio che più impressionò l’opinione pubblica, quello del giudice Emilio Alessandrini: “Anche rilette con la maggiore buona volontà  di capire, se non di giustificare, le spiegazioni che i killer del commando guidato da Marco Donat Cattin diedero per l’assassinio di Alessandrini rimangono tortuose, al limite del delirio (…). Naturalmente ci fu chi provò a interpretare (…) i concetti ispiratori dei terroristi. E disse che essi obbedivano a una regola che l’estremismo di sinistra ha sempre osservato: quella di considerare i riformisti più pericolosi dei conservatori, i nemici ‘chiusi’ più insidiosi degli ‘aperti’, Moro peggio di Scalfaro, Alessandrini peggio di Sossi. Questo stesso ragionamento fu applicato poi alla ‘esecuzione’ di Walter Tobagi”. Quanto c’è di vero nell’interpretazione del giornalista di Fucecchio?

Sicuramente Montanelli ha scritto parole acute, al di là  delle aggettivazioni. In particolare, accennando al fatto di come il conflitto tra massimalisti e riformisti sia una costante storica. Non l’ha certo inventato Prima Linea. Data dal 1921 del congresso comunista di Livorno, dalla rivoluzione russa e ancora prima dai moti ottocenteschi e dalla stessa rivoluzione francese. Un conflitto spesso sanguinoso, con vittime non da una parte sola, ricordando ad esempio l’uccisione di Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht e la dura repressione degli spartachisti a opera del governo socialdemocratico nella Germania dei primi decenni del Novecento.
Ciò, beninteso, non giustifica alcunché. Ma è l’omicidio politico in quanto tale a essere forma aberrante di lotta. A volte invece, nella lettura postuma di quegli anni, parrebbero esservi omicidi in qualche modo comprensibili e altri folli e dementi, in particolare quelli rivolti contro i riformisti, Alessandrini e Tobagi in particolare.
Come per tutto il resto, anche da questo punto di vista noi abbiamo portato alle più estreme, tragiche e irreparabili conseguenze un pensiero che avevamo ereditato dai nostri padri, vale a dire dai movimenti comunisti del Novecento. Secondo il quale il nemico più insidioso e mortale di ogni rivoluzione è, appunto, il riformismo. D’altra parte, simmetricamente, e ben prima della nostra stessa esistenza, per il PCI il nemico privilegiato è sempre stato quello alla sua sinistra: gli anarchici e il POUM nella guerra civile spagnola, il bordighismo e i trotzkisti di Bandiera rossa durante la Resistenza, il gruppo de “il manifesto” nel ’68, la sinistra extraparlamentare, quella autonoma e infine quella armata negli anni Settanta.

Alessandrini in quel momento per noi rappresentava lo Stato, la magistratura che gestiva le leggi di emergenza, che aveva accettato la “delega” da parte della politica per contrastare i movimenti e sconfiggere le organizzazioni armate. Una funzione in cui veniva recuperata anche da sinistra l’ideologia dello Stato come valore in sé da difendere e non come espressione dei rapporti di forza, del dominio di una parte politica e di una classe sulle altre.
Per la sinistra al governo, dopo la scelta del compromesso storico, lo Stato delle stragi era diventato un feticcio da far proprio, e non più da smascherare e ribaltare. I magistrati democratici, alcuni dei quali sino a poco tempo prima si consideravano “quinta colonna” della rivoluzione dentro le istituzioni, ora di quelle stesse istituzioni si candidavano a essere architrave, un reparto avanzato che garantiva nuova credibilità  ed efficacia a un apparato di potere autoritario, da sempre votato alla difesa dei privilegi di classe, a garantire impunità  alla polizia e agli apparati che avevano promosso e gestito la “strategia della tensione”. E ad assicurare conoscenza dei movimenti, possedendone i “codici” culturali.
Oggi penso che la nostra analisi di allora sia stata sbagliata, ma non so se fosse «al limite del delirio», come ha scritto Montanelli. Certo era analoga a quella di tanti altri pezzi della sinistra dell’epoca, persino di settori di Magistratura Democratica, vale a dire la stessa corrente cui apparteneva Alessandrini.

Infatti, un giudizio di allarme sul ruolo nuovo e crescente della magistratura, sul suo allineamento nel colpire le lotte e il movimento dietro l’ombrello dell’emergenza e della difesa dell’ordine, sullo slittamento culturale nella sinistra che la portava a «farsi Stato», non era solo nostro. Nostra, e inescusabile, è stata la traduzione di una valutazione politica in una pratica disumana, qual è – sempre – quella dell’omicidio politico. Ma la nostra era una lettura e una denuncia politica del tutto simile, ad esempio, a quella che venti magistrati di Magistratura Democratica avevano lanciato con un documento in occasione del convegno contro la repressione di Bologna del 1977: «Ancora una volta è di attualità  il tema della repressione e dell’assetto dello Stato. Una risposta agli interrogativi che su questo tema si sono proposti non può che prendere le mosse dalla profonda svolta politica che l’accordo a sei ha ufficialmente sancito [nel luglio 1977 DC, PCI, PSI, PSDI, PLI, e PRI avevano approvato una mozione di indirizzo sul programma di governo; dopo il governo della “non sfiducia” e la presidenza della Camera affidata al comunista Pietro Ingrao, cresceva dunque il coinvolgimento del PCI nell’area di governo, nota mia]. Per questa via si sta producendo un profondo processo di impoverimento di quegli strumenti ideologici che in passato avevano consentito alla classe operaia di bloccare gli attacchi più massicci portatele contro in questi anni. Ad esempio, ieri si individuava con chiarezza il preciso segno di classe nella gestione della strategia della tensione. Oggi, gli episodi di cui quella stessa strategia continua ad alimentarsi, sono attribuiti genericamente all’azione di un oscuro nemico di tutte le classi o di una tessitura di trame importate dall’estero, trascurando di individuare la matrice politica. Alla denunzia del ruolo giocato dai vari apparati dello stato nell’attacco si è sovrapposto il concetto acritico di istituzione il cui segno è comunque democratico anche quando la struttura interna, i metodi di gestione, la incapacità  di aprirsi ad un controllo popolare sono rimasti sostanzialmente immutati». Parole inequivocabili, non dissimili dalle nostre.

4. Cosa pensò quando il 16 marzo del 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro?

A differenza di altri, non rimasi affascinato dalla «geometrica potenza». Anche perché, per conto di PL, avevo rapporti con i vertici delle BR e una relativa cognizione dei loro limiti. Ma le riserve erano e furono soprattutto politiche. Quell’azione, con tutto il suo peso specifico, era squassante per il movimento, lo poneva di fronte a una scelta obbligata: accettare il nuovo livello dello scontro, terribilmente alto, o rifluire. Dal punto di vista brigatista, quella era un’operazione coerente, lineare con la loro concezione di se stessi e dello sviluppo del processo rivoluzionario: quella di un partito comunista, centralizzato ed esterno ai movimenti, che guida le masse e decide tempi e strategie; in quel caso, un salto dalla propaganda armata sin lì praticata alla nuova fase dell’attacco al “cuore dello Stato”, alla guerra di classe. Dal nostro, era un errore strategico, un salto nel buio e nel vuoto. A noi certo di sequestrare Moro non ci sarebbe passato neppure per la testa. Non tanto per la difficoltà  militare e non solo per l’innalzamento verticale del livello dello scontro e le conseguenti difficoltà  che ciò comportava per i movimenti. Ce ne ha dato atto significativamente uno dei maggiori artefici del sequestro Moro, e uno dei pochi brigatisti che si opposero alla sua uccisione, Morucci, che in un suo libro ha scritto: «Se le BR usavano il terrorismo per fini politici, Prima Linea lo usava credendo con quello di aprire spazi, rimuovere ostacoli al dispiegamento dello scontro sociale […]. Quello di Prima Linea era un terrorismo in sintonia con le esasperate vicende di quegli anni, a differenza di quello delle BR, che traeva la sua spinta originaria dalle mummie del Cremlino. E solo a quelle guardava per averne muta approvazione. Quelli di Prima Linea, che pure uccidevano per ogni dove, a sequestrare Moro, ed entrare così nella storia, non ci avrebbero mai neanche lontanamente pensato».
Per la verità , a differenza di quel che dice Morucci, PL allora non aveva cominciato a «uccidere per ogni dove». Comincerà  a farlo dopo, di lì a poco, e sia pure sempre assai meno delle BR, in conseguenza dell’avvitamento dello scontro da loro provocato con il sequestro e l’uccisione di Moro. Ma rimane vero che un’azione di quel tipo esulava totalmente dai nostri progetti e dalla nostra visione, diciamo così, “orizzontale” e non verticistica del conflitto, che intendeva misurarsi con la ramificazione del blocco sociale avversario e non con un inesistente “cuore dello Stato”, con i poteri diffusi, non un monolitico e altrettanto ormai irreale e datato Palazzo d’inverno. Che voleva affermare spazi liberati, di contropotere, non prendere il potere.

5. Quali sono le ragioni, se ne esistono, che portarono il terrorismo di sinistra alla sconfitta?

Sono tante e intrecciate. Sono più o meno le stesse che hanno portato alla crisi della sinistra nel suo complesso, nelle sue infinite varianti, e allo svuotamento di ruolo della classe operaia e di quello che definivamo l’operaio sociale. Sono stati diversi i modi e i luoghi, essendo peraltro diverse le responsabilità . Ma sono stati relativamente comuni i tempi, l’inizio degli anni Ottanta, con la simbolica, potente ed epocale sconfitta degli operai della FIAT nell’ottobre 1980.
Quella fu la rappresentazione della fine, per quanto sempre la storia sia processuale, mal comprimibile in date precise. Ma la storia, appunto, era andata avanti senza di noi. Ci aveva spiazzato e confuso e infine consegnati a una dura sconfitta. Ciò è stato vero per noi, come per tutta la sinistra e per la composizione di classe che aveva avuto lungo corso negli anni Sessanta e Settanta.
La classe operaia e il sindacato non venivano battuti grazie ai terroristi, come sosteneva il PCI, ma dalla ristrutturazione in corso da tempo. Con l’automazione della produzione e con il superamento delle linee e della catena di montaggio, strumento forte di disciplinamento e del comando ma assieme punto vulnerabile della produzione, come le lotte avevano evidenziato. Ora vi sarebbero state le isole produttive, la fabbrica flessibile e fluida. La cibernetica e il terziario avanzato. Una rivoluzione. Che per passare aveva bisogno di una sconfitta operaia, di un ridimensionamento numerico e politico dei lavoratori, e delle loro avanguardie, di portata storica.
Nel complesso del gruppo FIAT i 212.000 operai del 1980 vennero quasi dimezzati, arrivando a 129.000 nel 1986. Egualmente drastica l’emorragia di addetti nel settore auto: dei 102.508 operai e impiegati che nel 1979 costituivano l’organico della FIAT Auto in Piemonte nel 1984 ne restavano solo 55.398. Il fatturato raddoppiò, la produttività  crebbe, il conflitto morì, il sindacato tornò quasi ai tempi di Valletta: nel 1985 solo poco più di un operaio su dieci risultava iscritto. Ed è storia di oggi.

6. Non trovava strano che all’epoca, accanto ai ragazzi delle classi sociali meno abbienti, entrassero nelle organizzazioni terroristiche figli della “borghesia” più altolocata come Marco Donat Cattin o Paolo Morandini?

Si parva licet, Che Guevara non era un sottoproletario. Direi che in ogni epoca e paese quasi sempre le guerriglie e tentativi rivoluzionari hanno visto come figure preminenti persone di classi sociali abbienti; il che è comprensibile, giacché le persone più istruite e meno condizionate da ricatti economici hanno evidentemente maggiori possibilità  di sviluppare rotture radicali e intelligenze critiche, disponendo di maggior formazione culturale. A rivoluzioni e guerriglie fallite, sono ovviamente e mediamente anche quelli che hanno maggiori possibilità  di avere un’altra chance di vita. Ma questo è un altro discorso, che depone semmai anch’esso per la necessità  di un cambiamento radicale nel senso di una maggiore eguaglianza sociale.
Detto questo, mi pare una volgarizzazione l’immagine giornalistica dei “terroristi figli di papà “. I dati statistici su quelle organizzazioni danno un’immagine sostanzialmente diversa. Per PL sono stati processati 923 militanti (di cui 201 donne; il 65% di età  compresa tra i 20 e i 30 anni, 83 con meno di 20 anni). Il 21,3% aveva un’istruzione media, il 25,6% superiore, il 21,7% aveva fatto studi universitari. Le categorie più rappresentate erano gli operai (18,1%), gli studenti (18,3%), gli impiegati (6,7%), i disoccupati (6,1%), gli insegnanti (4,3%), i lavoratori nei servizi (4,4%). I professionisti erano solo il 2,6%. Ancor più marcato il carattere operaio delle BR. Dei 911 militanti inquisiti per appartenenza a quell’organizzazione il 23,5% erano operai, l’8,9% impiegati, il 12,2% studenti, il 5,8% lavoratori nei servizi, il 3,9% insegnanti, il 2,9% disoccupati e solo il 3,8% professionisti.

7. Che impressione le fa, soprattutto alla luce della sua vicenda personale, vedere persone come Marco Barbone (l’assassino di Walter Tobagi, ndr) – e come lui molte altre – che grazie alla legge sui pentiti si sono visti socialmente riabilitati senza scontare alcuna pena effettiva?

Io ho sempre giudicato negativamente la scelta della collaborazione giudiziaria, nobilitata con il nome di “pentimento” dai magistrati e dai media. Non solo per un problema morale, in quanto rottura di vincoli umani ed affettivi, prima che organizzativi, ed espressione della logica “cannibalesca” della mors tua vita mea. Ma anche perché quella scelta, esplosa nei primi anni Ottanta, rispondeva a una logica ancora e paradossalmente “militare” e unicamente repressiva, con l’effetto di procrastinare quella opposta, quella che sceglieva di continuare a impugnare le armi pur nell’evidente sconfitta. Mentre sarebbe stata una sorta di “soluzione politica” la strada in grado di fermare del tutto e per sempre le armi. Lo capirono perfettamente, inascoltati, gli esponenti più lucidi della sinistra critica di allora, come Rossana Rossanda, che scrisse: «Gli adepti più fragili restarono nell’ottica della “guerra”, trasferendosi dall’altra parte, come pentiti attivi, collaboratori della polizia, come tali aiutarono a scoprire covi e dirigenze, portarono anche a operazioni inaccettabili come quelle di via Fracchia. Ma quel loro passare alla delazione avrebbe al contrario ricompattato le organizzazioni combattenti (…) se queste non fossero state ormai incrinate dalla crisi politica del loro progetto».
O figure di alto profilo morale intellettuale come padre David Turoldo: «Cosa dire di uno stato che fonda la sua sicurezza sulla delazione e non tiene in adeguato conto la dissociazione, che invece significa precisamente nuova coscienza e collaborazione a “capire”? Infatti, il pentito non dice perché lo ha fatto, dice solo chi c’era; invece il dissociato non dice chi c’era ma dice perché lo ha fatto. E questo è ancor più importante per uno stato che si rispetti. Naturalmente se vuol “capire” e trarne profitto, e magari cambiare».

Questo è il punto: lo stato allora, e anche dopo, intese semplicemente vincere, seppellendo qualche migliaio di persone in galera. Non gli interessò convincere, dunque “capire” i perché ed effettivamente elaborare e superare quella lacerazione. Anche per ciò, sia pure in sedicesimo, nei decenni successivi si sono verificati nuovi tentativi di organizzare la lotta armata. Tutte le ferite non curate sono destinate a infettarsi.

Naturalmente, anche qui, come in tutte le “categorie” tra i cosiddetti “pentiti” possono esservi state persone in buonafede, che hanno collaborato nel genuino intento di porre freno ai morti, e altri che invece hanno privilegiato solo le proprie convenienze e impunità , come quel Roberto Sandalo che ha poi continuato a operare sino a oggi in modo illegale, con un ruolo di provocazione al probabile servizio di qualche sottobosco di questura o di servizio segreto.
Altri, come Barbone o lo stesso Donat Cattin, nonostante l’impunità  assicurata, hanno invece poi ricevuto dalla vita un destino beffardo e doloroso.

Tuttavia, non penso che l’unica pena e risarcimento possibili siano quelli del carcere. Pur avendo io scontato la pena decisamente più lunga tra i miei compagni di PL, nonostante fossero responsabili e condannati per i medesimi reati, non ho alcun risentimento verso alcuno, “pentiti” compresi. Ho avuto modo di capire e sperimentare che il carcere non è una medicina, semmai spesso la malattia e che le persone il più delle volte cambiano e migliorano non grazie alla detenzione, ma nonostante essa. Che dunque non auguro veramente a nessuno.

8. In Italia c’è una certa area di contestatori degli anni Settanta, più o meno agguerriti, che oggi siede comodamente nelle poltrone del potere. Giusto per fare qualche nome: Marco Boato, Luigi Manconi, Paolo Cento e Marco Rizzo sono o sono stati parlamentari di lungo corso, Gianfranco Miccichè è attualmente sottosegretario, Paolo Liguori, Giampiero Mughini e Toni Capuozzo firme di punta di Mediaset, per non parlare di Adriano Sofri, da raffinato politologo ad efferato mandate di omicidio. E questi nomi fanno parte solo dall’alcova di Lotta Continua. E’ possibile che esista una lobby, magari fondata sul ricatto, che unisce queste persone ancor oggi?

Queste persone, per quanto note e rappresentative, sono un’infinitesima parte dei movimenti dell’epoca. Non credo costituiscano una lobby, anche se molte di loro hanno scelto di rimuovere quel tipo di memoria ed esperienza e di rinnegare vicinanze e contiguità . Altre, come ad esempio Luigi Manconi, l’hanno invece indagata, anche in chiave autocritica, attraverso libri e testimonianze. Certo, noi lottarmatisti ormai siamo e veniamo presentati come figli di nessuno, quando invece PL nasce sostanzialmente nelle sezioni di LC e le BR in quelle del PCI, salvo poi immediatamente separarsene. O addirittura viene rivendicata dagli estremisti di ieri una funzione di contenimento della deriva militarista da noi effettivamente rappresentata. Qui mi pare più onesto il ragionamento di Erri De Luca, anch’egli di Lotta Continua: «La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività  l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica». E il suo ricordo, a proposito delle armi in possesso di Lotta Continua: «Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare».

9. Qualche anno fa nel dibattito circa l’opportunità  o meno dell’elezione nelle file della Rosa nel Pugno di Sergio D’Elia, suo ex-compagno in Prima Linea, lei è intervenuto a suo favore. Non trova che chi ha combattuto lo Stato e il suo ordine costituito con le armi non dovrebbe poi, da vinto, farne parte? Sia chiaro, nessuno vuole privare agli ex terroristi i diritti civili (infatti D’Elia si è potuto sedere a Montecitorio senza che nessuna legge glielo impedisse), parlo solo di opportunità . Sarebbe come se Riina, dopo aver saldato il suo debito con la giustizia, diventasse sindaco di Corleone. Suona male, non trova?

Di nuovo, si parva licet, sarebbe come dire che Paolo di Tarso non avrebbe dovuto e potuto diventare cristiano. L’uomo e il reato che ha commesso, l’errore e l’errante, non sono la stessa cosa. Se il reato resta purtroppo pietrificato al momento in cui si è verificato, specie se si tratta di un reato irrimediabile come l’omicidio, l’autore del reato, l’uomo, si modifica e cambia. Questo è il presupposto del diritto moderno e dell’intero ordinamento penitenziario, senza il quale vi sarebbe spazio solo per la vendetta.
Non so se suoni male che chi ha combattuto lo stato poi vi aderisca, mi pare invece rappresenti, anche simbolicamente (e i simboli hanno grande valore ed efficacia), la vittoria dello stato di diritto sulle pulsioni di vendetta, la supremazia della democrazia sulla logica dello scontro e delle armi. Anche perché forse quello di oggi è uno stato diverso da quello dei primi anni Settanta, che era in bilico tra soluzioni autoritarie e nuova democrazia. Il nostro – tragico – errore fu di non capire che la strategia del golpe era stata definitivamente superata alla fine della prima metà  di quel decennio e che i segmenti di istituzioni e di potere politico che pure sin lì avevano coltivato e tenuto in campo quella ipotesi, da allora scelsero una nuova e più conveniente strada: quella di destabilizzare per stabilizzare, anche inizialmente lasciando mano libera all’eversione di sinistra. Non si dimentichi tuttavia che strutture occulte dello stato, come la cosiddetta Gladio civile, sono state sciolte solo nel 1984 o che il complotto della loggia massonica P2, cui aderivano, tra i tanti, tutti i vertici dei servizi segreti e dell’antiterrorismo dell’epoca, è stato scoperto e interrotto solo nel 1981.

Non è quindi solo un problema formale: le pene, tranne quelle dell’ergastolo e di morte – peraltro concettualmente simili – prevedono un termine e questo termine va accettato e rispettato, anche se capisco che può non essere facile per chi è stato colpito. Come del resto è stato accettato, senza in quel caso neppure le diffuse proteste che hanno segnato la vicenda D’Elia, che i “pentiti” di cui si parlava prima, o i Brusca di oggi, rimanessero sostanzialmente impuniti. Anche l’esclusione dai pubblici uffici, l’elettorato attivo e passivo, costituisce una pena accessoria che può essere a termine o perpetua. Se a termine, appunto termina.
Oltre alle polemiche e alle perplessità , ciò che di fondo ha rivelato il caso di D’Elia è che per una quota significativa degli intervenuti, e in particolare per diversi commentatori e opinion leader, il carcere è una pena non sufficiente. Si vorrebbe qualcosa di più. Non arriva a essere proposta la pena capitale, ma si auspica almeno la morte civile, l’ergastolo bianco: la condanna al silenzio e all’invisibilità , a un “di meno” di diritti. Un marchio perenne. Proprio come quello di cui narra Franz Kafka nella Colonia penale. Non più inciso sul corpo del condannato, ma ancora più indelebilmente nei suoi documenti, nella sua possibilità  di tornare nella società  e nel mondo del lavoro. O alla politica, se crede. Di essere cittadino come gli altri, avendo scontato per intero il corrispettivo stabilito dalla legge e dai tribunali per i reati compiuti. L’irrisarcibilità  della vita umana attiene altre sfere, quelle morali e delle coscienze individuali. E non può che essere così, pena il rischio di uno Stato etico e autoritario. Sul piano pubblico, non possono che valere le leggi, i loro confini. Ed è in ogni caso fattuale che, in virtù delle leggi d’emergenza, il trattamento penale nei confronti dei militanti armati è stato maggiorato da un terzo alla metà  in più rispetto a colpevoli dei medesimi reati senza l’aggravante di terrorismo.

Non dovrebbe poi sfuggire che la vera e propria campagna scatenatasi negli ultimi anni tesa a chiedere (ma sarebbe più proprio dire a imporre), a furor di popolo e di media il silenzio degli ex terroristi, può avere alle spalle una genuina, per quanto a senso unico, indignazione ma così pure un intento nascosto: quello di consacrare come indiscutibili, ultimative ed esaustive le ricostruzioni invece monche e falsate di quegli anni ormai sedimentate a livello sociale. Tanto che, ad esempio, si continua a sostenere da praticamente tutti i commentatori ed editorialisti che la strage di piazza Fontana è rimasta senza verità  e senza colpevoli, quando invece l’ultima sentenza, passata in giudicato, afferma la responsabilità  delle cellule neofasciste venete e in specifico di Freda e Ventura, a lungo coperti da servizi segreti e apparati statali. Il quale Freda, impunito perché non processabile due volte, può continuare a fare apertamente propaganda e attività  nazista, persino invitato nelle scuole, senza che nessuno dei tanti linciatori – di sinistra, centro e destra – di Sergio D’Elia o le associazioni delle vittime abbiano eccepito alcunché.
Con la perentoria imposizione del silenzio, assieme agli eventuali «protagonismi» di qualcuno, si inibisce qualsiasi lettura del passato difforme da quella ufficiale e interessata, la quale afferma l’esclusiva responsabilità  delle organizzazioni armate di sinistra e che ha lasciato impunito lo stragismo, così come ha autoassolto la classe politica e i pezzi di istituzioni che hanno avuto ruolo in quegli anni nel promuovere e utilizzare la strategia della tensione, oltre che nelle tante forme di degenerazione, illegalità , corruzione, rapporti con la mafia da parte delle forze di governo della Prima Repubblica.
Si tratta di una sapiente strategia che porta a compimento l’opera di falsificazione storica e semantica: i sommovimenti sociali degli anni Settanta, dei quali la lotta armata è stata una – parziale – espressione e dai quali le organizzazioni armate hanno preso le mosse, sono stati, tout court, definiti eversione. La violenza politica e il conflitto sociale radicale e antistituzionale sono stati sovrapposti ed equiparati alla lotta armata. La lotta armata di sinistra è stata definita terrorismo.
Il terrorismo, invece, è stato propriamente quello della destra, nella sua specifica versione stragista, che particolarmente in Italia, in quegli anni, è stata la strategia lucidamente e sanguinosamente utilizzata dai gruppi della destra radicale – come ho detto e come è documentato in montagne di dimenticati atti parlamentari – finanziati, appoggiati e utilizzati da ambiti della destra atlantista e dai governi (e dagli apparati militari e di intelligence) dittatoriali che circondavano allora l’Italia: Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia. Nonché protetti e utilizzati dai servizi segreti, da apparati del ministero dell’Interno e da settori delle forze politiche e di governo italiani.
Si arriva così alla tappa conclusiva di una lettura di quegli anni che, gettando ogni responsabilità  sul terrorismo (locuzione con la quale ormai si intendono solo le organizzazioni armate di sinistra), contemporaneamente e così facendo assolve (autoassolve) ogni responsabilità  istituzionale nella strategia della tensione, che ebbe lo stragismo come suo strumento.
Vi è qui, così, una riedizione postuma del compromesso storico, laddove l’ex PCI e l’ex DC collaborano a sedimentare questa verità , affinché le loro attività  – anche illegali – connesse al quadro di Guerra fredda e ai relativi rapporto internazionali possano rimanere nascoste e impunite in nome della Ragion di Stato.

Insomma, quegli strateghi e quegli esecutori (pezzi di servizi segreti, Ufficio Affari riservati del Viminale, pezzi di potere politico e di istituzioni): hanno compiuto il delitto perfetto. Non solo si sono garantiti l’impunità , ma hanno fatto in modo che dei loro delitti venisse incolpato qualcun altro, a furor di popolo e di disprezzo pubblico. Così che oggi numerosi sondaggi nelle scuole testimoniano che per la maggioranza dei giovani studenti è convinta che la strage di piazza Fontana, e quella di Brescia o di Bologna, siano state opera delle BR.
Beninteso: i terroristi non sono stati innocenti. Tutt’altro. Noi abbiamo avuto gravi e pesanti responsabilità , abbiamo commesso disastrosi e irreparabili errori. Ma tutto ciò andrebbe infine ricondotto all’analisi storica della Guerra fredda e della lotta di classe. E bisognerebbe sforzarsi di conservare un senso delle proporzioni. Cosa che da tempo i nostri commentatori non sembrano fare. Come quell’editorialista del Giornale che ha scritto, in riferimento a Erich Priebke, il responsabile della strage delle Fosse Ardeatine: «Posso dire, senza suscitare scandalo, che quest’uccisore di ostaggi m’ispira meno disgusto dei terroristi italiani».
Commenti interessati e sintomo di un galoppante e generale revisionismo storico, tanto più pericoloso in quanto non più contrastato, grazie alla cortina fumogena del rogo per gli ex terroristi.

10. Lei ha scontato 22 anni di carcere. Secondo la Costituzione, la pena serve per rieducare il condannato. E’ stato così per lei? C’è un problema carcerario in Italia? Secondo lei, perché la politica, tra una reato di immigrazione e una legge ad personam o ad personas, non se ne occupa?

Credo valga quanto scritto da Indro Montanelli che, peraltro, occorre ricordare, fu ferito dalle BR: «Le loro colpe i terroristi le hanno pagate non tanto coi lunghi anni di permanenza dietro le sbarre, quanto con la presa di coscienza non solo della inutilità , ma anche della fallacia di tutto questo». Come ho detto, avendole sperimentare a lungo, non credo alle virtù terapeutiche del carcere.
L’istituto penitenziario di oggi permane, da molti punti di vista, come un pezzo di medioevo, come una risposta sbagliata, controproducente, umanamente ed economicamente costosa, alle esigenze di difesa sociale.
E qui vorrei ricordare quanto scrisse in una lettera nel 1949 Ernesto Rossi a Piero Calamandrei: «Mentre scontavo la mia pena molte volte ho ripetuto ai compagni di cella che gli uomini politici i quali in passato avevano assaggiata la galera, portavano la grave responsabilità  dell’ordinamento carcerario esistente, indegno di un popolo civile, perché, tornati in libertà , non avevano illuminata l’opinione pubblica sul problema e non avevano mai preso seriamente a cuore la sorte dei detenuti».
Fatto sta che, anche per la sinistra, anche per i Pertini, l’umanizzazione delle pene non è mai stata una priorità . Mentre spesso ha rincorso, e sempre più rincorre, le destre in una visione distorta della sicurezza, che attribuisce alle manette e alle sbarre valore taumaturgico, mentre invece sono solo un tappeto sotto il quale si pensa di poter all’infinito nascondere la spazzatura.
Il carcere, ieri e oggi, è semplicemente e principalmente (gli imputati o condannati per gravi reati sono solo il 15%) un deposito di poveri, di vite a perdere: immigrati e tossicodipendenti in primo luogo, e poi malati psichici, senza dimora, disagiati di vario genere. Di questi poveri, il carcere è, letteralmente, gonfio. Come un ascesso pronto a esplodere. Una ferita piena di pus sociale, di scorie umane che la società  ha rifiutato e allontanato nell’illusione di preservare se stessa o nell’inconfessata tendenza a trasformare anche il delitto e l’insicurezza in un fiorente e inesauribile business.

La politica, specie quella attualmente al governo, ha cinicamente scelto di non occuparsi del problema per più motivi: per ragioni di business, appunto, per poter andare verso una crescente privatizzazione del settore, o almeno di suoi segmenti, su modello statunitense. In un libro dal titolo significativo, Il business penitenziario − La via occidentale al gulag, il criminologo Nils Christie afferma: «Il tema è semplice. Le società  di tipo occidentale si trovano ad affrontare due problemi principali: la ricchezza è distribuita ovunque inegualmente; così pure l’accesso al lavoro retribuito. Entrambi i problemi sono in potenza fonte di conflitti. L'”industria” del controllo del crimine è adatta ad affrontarli entrambi. Questa industria da una parte fornisce profitto e lavoro e dall’altra produce il controllo di coloro che altrimenti potrebbero disturbare il processo sociale».
Altro motivo risiede nel progressivo venire meno delle protezioni del welfare, così che le celle diventano un sostituto autoritario delle politiche sociali e appunto si riempiono di soggetti, problematiche e patologie che avrebbero invece necessità  di cura e sostegno sul territorio. Vi è poi, anche qui, un gioco di specchi (analogo a quello messo in atto per tutelare le verità  inconfessabili della Prima Repubblica indirizzando colpe e indignazioni oltre misura sugli ex terroristi) teso a focalizzare paure, rancori, insicurezze, sui settori della marginalità  sociale per sgravarne simmetricamente il sistema politico ed economico, quello dei privilegi e delle caste, i responsabili delle crescenti diseguaglianze, secondo il classico e sempre funzionante modello delle “guerre tra poveri”.

11. Ciclicamente, una parte dell’Italia denuncia le efferatezze o le inadempienze della magistratura, soprattutto inquirente. Siamo un Paese con un potere giudiziario anomalo oppure siamo semplicemente più insofferenti alle regole che nel resto d’Europa?

Penso sia affermabile che anche questo, e il perdurante conflitto tra politica e magistratura, siano un frutto avvelenato degli anni Settanta e della risposta emergenziale posta in essere per contrastare lotta armata e terrorismo. Allora il potere politico scelse, obtorto collo, di attribuire una delega in bianco alla magistratura attraverso appunto il complesso delle leggi di emergenza. Quella delega non è mai stata restituita. La madre di tutte le emergenze, quella sul terrorismo, ha figliato quelle successive: corruzione, mafia, droghe, immigrazione, violenza negli stadi, fondamentalismo islamico e via di questo passo, con la logica e le norme di eccezione che sono divenute prassi corrente. L’emergenza si è via via riprodotta sino a stabilizzarsi nei codici e nelle procedure, indirettamente alterando il precedente equilibrio di poteri. Da questo punto di vista vi è un’anomalia. Che legittimamente può però essere vista come risposta necessaria all’altra anomalia, quella di un potere politico che si intende irresponsabile e di un sistema economico-istituzionale gravemente e perdurantemente inquinato dal sistema delle tangenti.

12. L’Italia di oggi è diversa dall’Italia degli anni Settanta?

Molto e allo stesso tempo molto poco. È cambiato il mondo, non solo il secolo. È mutato in profondità  il sistema economico e produttivo, con il tramonto del fordismo e l’avvento della cibernetica, dell’informatica, dei beni materiali, della comunicazione istantanea e globale, delle nuove tecnologie. È mutato il sistema sociale, si è rivoluzionata persino la geografia. È avvenuta una trasformazione oserei dire antropologica della politica, e non per il meglio, con una personalizzazione, verticalizzazione, perdita di contenuti; il marketing ha soppiantato le ideologie, la navigazione a vista il progetto, il narcisismo personale ha buttato nella spazzatura la passione e dedizione alle cause. L’ossessione del presente ha smarrito ogni idea e cognizione della posterità , del futuro e delle relative responsabilità . Oggi è divenuta filosofia acquisita e cinismo corrente la battuta di Woody Allen: «Perché dovrei interessarmi dei posteri? Cosa hanno fatto loro per me?».
Il Novecento è stato secolo forse breve ma assai insanguinato: nel suo corso le persone uccise in atti di violenza di massa sono state tra i cento e i centocinquanta milioni; alcune fonti propongono addirittura la cifra di 200 milioni (anche qui, a proposito di senso della storia e delle proporzioni). Quello nuovo è cominciato, mutadis mutandis, all’insegna di un nuovo terrorismo e di un rinnovato interventismo bellico delle potenze occidentali. L’Italia è più opulenta e più disperata di quarant’anni fa. Ma ancora conserva inalterate le stesse ferite e lacerazioni. Non ha saputo né voluto elaborare quegli anni e suturare quelle ferite, almeno quelle sociali, poiché quelle individuali sono insanabili. E quella guerra civile strisciante e a bassa intensità  che la mia generazione aveva ereditato dal lungo dopoguerra italiano sembra voler cercare nuove strade per riemergere pur in forme nuove e contesti incomparabili.
Nelson Mandela ha scritto: «L’esperienza altrui ci ha insegnato che le nazioni che non fanno i conti con il passato ne sono ossessionate per generazioni». E infatti da noi c’è una polemica quotidiana e un odio diffuso che affondano ancora le radici non negli anni Settanta ma addirittura nei Venti, Trenta e Quaranta. Mandela e il suo paese, dopo un vita di carcere, di apartheid, di lotte e di guerriglie, si sono inventati il tribunale per la verità , la giustizia e la riconciliazione.
Da noi di riconciliazione non vi è nemmeno l’ombra, a parte i casi individuali, che sono tanti e nobili ma invisibili, giacché i media preferiscono enfatizzare solo le voci del rancore vendicativo. La giustizia si è contentata di celle, ergastoli e capri espiatori. E per la verità  valgono le parole dello scrittore Leo Longanesi: «Quando potremo dire tutta la verità , non la ricorderemo più».

Intervista a cura di

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Sergio Segio: “Basta con l’accanimento. Spero che un giorno si possa dire che Sinistra è libertà” https://www.micciacorta.it/2015/09/sergio-segio-basta-con-laccanimento-spero-che-un-giorno-si-possa-dire-che-sinistra-e-liberta/ https://www.micciacorta.it/2015/09/sergio-segio-basta-con-laccanimento-spero-che-un-giorno-si-possa-dire-che-sinistra-e-liberta/#respond Tue, 29 Sep 2015 10:49:51 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20517 Sergio Segio ha scontato 22 anni di reclusione per fatti di terrorismo. Oggi fa lo scrittore e dirige l’Associazione SocietàINformazione, con cui pubblica ogni anno il Rapporto sui Diritti Globali

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In questi giorni Sergio Segio sta scontando sulla sua pelle una compressione della libertà legata al film tratto dal suo libro Miccia corta. Una storia di Prima Linea (Derive Approdi, 2005). Sergio Segio ha scontato 22 anni di reclusione per fatti di terrorismo. Oggi fa lo scrittore e dirige l’Associazione SocietàINformazione, con cui pubblica ogni anno il Rapporto sui Diritti Globali. Nel 2003 ha ricevuto il premio Rosario Livatino per l’impegno sociale. Lo abbiamo contattato per chiedergli cosa pensa del rapporto tra sinistra e libertà.

Sergio Segio, sono anni che curi il Rapporto sui diritti globali, cui lavorano tante altre associazioni, pubblicato da Ediesse, la casa editrice della Cgil. Quello è senz’altro un osservatorio privilegiato sulle libertà. Come sono state trattate le libertà in questi anni e in particolare quando governava il centrosinistra?

In questi ultimi due decenni c’è stato un progressivo slittamento della parola sicurezza. Una volta stava soprattutto a significare sicurezza sociale, politiche sociali, welfare, sicurezza sui luoghi di lavoro, ma pian piano è venuta a sovrapporsi con le questioni di ordine pubblico, con le paure e le criminalità. Questo ha fortemente contribuito a svuotare di concretezza, più che di significato, la parola libertà. Uno dei risultati è che, a livello di forze politiche e parlamentari, questa parola è stata, per così dire, scippata dalla destra, che l’ha usata cinicamente in direzioni di tutt’altro genere. In questi decenni il centrosinistra ha fatto a gara con il centrodestra, rincorrendolo sul terreno di un modo autoritario e repressivo di rispondere alle lacerazioni e alle contraddizioni sociali, sia attorno ai temi della sicurezza che nell’uso delle risorse pubbliche. Ancora in questi mesi stiamo assistendo a questa gara a chi vorrebbe destinare più risorse alle forze di polizia. Nessuno dice che l’Italia, tra i 27 paesi dell’Unione Europea, è quello che già oggi ha il più nutrito schieramento di forze di polizia: 324.000 uomini, 160.000 in più rispetto al Regno Unito, 70.000 in più rispetto alla Germania. Eppure abbiamo visto crescere anche l’uso dell’esercito in funzioni di ordine pubblico. Abbiamo visto quest’ultimo barbaro e sciagurato provvedimento del centrodestra legittimare e finanziare le ronde dei cittadini. In questo clima di deriva culturale autoritaria, fa ben sperare la scelta di Sinistra e Libertà, la voglia di rendere credibile l’intreccio tra queste due parole, che storicamente hanno faticato a stare assieme. Io spero che in futuro si possa dire Sinistra è libertà, con il verbo invece che con la congiunzione. Nominare programmaticamente la libertà è intanto la fondamentale precondizione perché ciò sia possibile nel futuro.

Vuoi spiegarci cosa sta succedendo rispetto al film La Prima Linea, tratto dal tuo libro Miccia corta?

E’ sempre un po’ spiacevole e faticoso parlare di casi personali. Comunque, sta succedendo che in questo paese in modo inavvertito è stato inaugurato il Minculpop, il Ministero della censura e del controllo politico sulla libertà di espressione, in questo caso sulla libertà artistica di fare cinema, nel senso che attorno a quel progetto cinematografico è in atto una censura preventiva, che si è nutrita in questi mesi di una campagna stampa molto pesante e di un linciaggio mediatico nei miei confronti. Tutto sommato non è una novità. In questo clima di incattivimento sociale, di barbarie legislativa, è normale che  una quota di cattiveria spetti anche agli ex terroristi. E’ invece preoccupante l’assenza di reazioni che c’è stata attorno a questa vicenda. Solo ieri sul sito www.societadellaragione.it è stato pubblicato un appello che si intitola Basta con l’accanimento. Vorrei chiedere a chi è in ascolto di leggerlo e di valutare di sottoscriverlo. Parlo di questo caso perché mi sembra paradigmatico di un clima e di una fragilità in chi storicamente, politicamente e socialmente è stato sempre attento a frequentare il terreno delle libertà civili, della qualità della democrazia. In questa fase rischiamo di non sentire più neanche quella flebile voce, che non ha la capacità di cambiare le cose ma ha un grande valore di testimonianza. La libertà è un valore che ne racchiude altri contigui. Se non difendiamo lo stato di diritto, le garanzie, la civiltà giuridica, credo che il futuro rischi di essere ancora più cupo di questo presente connotato da razzismo, xenofobia, guerre tra poveri, fenomeni volutamente sollecitati da un centrodestra che tenta così di sviare le proteste e l’attenzione. C’è bisogno di una nuova sinistra, attenta ai diritti e alle libertà. Il mio caso è uno dei tanti, che dovrebbe spingere ad una reazione rispetto a queste problematiche, che non riguardano solo un pugno di ex con gravi responsabilità nel passato, ma sono le cartine di tornasole di un revisionismo storico che sta avanzando a passi da gigante, nella società come in parlamento, dove si invocano le gogne, le castrazioni o l’espulsione di poveretti che scappano dai paesi del sud del mondo. Una sinistra che vuole recuperare il fondamentale valore della libertà non può essere assente o distante rispetto a questo.

* l’intervista è tratta dalla puntata del 19.3.2009 de “Il Tuffatore”, in onda su Radio Popolare Roma, 103.3 FM

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Sergio Segio: “Ecco perché iniziò (e finì) la lotta armata” https://www.micciacorta.it/2015/09/sergio-segio-ecco-perche-inizio-e-fini-la-lotta-armata/ https://www.micciacorta.it/2015/09/sergio-segio-ecco-perche-inizio-e-fini-la-lotta-armata/#respond Mon, 28 Sep 2015 12:12:59 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20468 “La storia della lotta armata rimanda ai conflitti più che alle trame. Per quanto riguarda Prima Linea non ci sono mai stati sospetti, così come le Br non furono di sicuro un fenomeno diretto dall’alto"

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Fu arrestato nel 1983: stava preparando un assalto al carcere speciale di Fossombrone.  Terminata di scontare una condanna di 22 anni, Sergio Segio, ultimo a uscire dal carcere fra gli ex militanti di Prima Linea, tra le principali organizzazioni terroristiche italiane (di cui fu uno dei fondatori), ora è impegnato nel sociale, sui temi del sistema penitenziario e della giustizia, delle droghe e delle tossicodipendenze, del volontariato e dei nuovi movimenti.  Svolge attività giornalistica ed è ideatore e curatore del Rapporto sui diritti globali, pubblicato annualmente dalle edizioni Ediesse. E’ stato responsabile della comunicazione del Gruppo Abele e tra i più stretti collaboratori di don Luigi Ciotti. Ha ideato e realizzato l’Annuario sociale, pubblicato per alcuni anni da Feltrinelli e diretto le riviste Narcomafie e Fuoriluogo. Collabora con la Cgil e altre esperienze di associazionismo. E ha appena pubblicato un libro: “Una vita in prima linea” (casa editrice Rizzoli, 400 pagine, 18,50 euro).

Perché questo libro?
“Per capire i percorsi e le ragioni che portarono alla scelta di impugnare le armi. Poi ho anche tentato di tenere insieme il passato con il presente per elaborare la vicenda”.

Il suo stato d’animo pensando agli anni della militanza?
“Sono sereno a riguardo, il che non significa che non sono dispiaciuto per quello che ho fatto”.

Venti anni in carcere. Quasi un quarto di secolo…
“Danno il senso del cambiamento. Questa è la mia terza vita. C’è stata la militanza, il carcere (una lunga attesa) e ora il dopo carcere”.

Il libro/ Comandante Sirio. Il suo mito: Simon Wiesenthal. Sergio Segio inizia la sua militanza politica in Lotta Continua nei primi anni Settanta, fuori dalle fabbriche di Sesto S. Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” (segue…)

Quando iniziò l’avventura di Prima Linea?
“Ufficialmente nel 1976, ma il corpo militante era attivo già dagli anni precedenti. L’esplosione avvenne ai tempi del movimento del ’77. Le Br non si adeguarono ai cambiamenti di quegli anni. Così si allargò l’adesione a Pl, che stava programmaticamente dentro il movimento nascente, di cui intendeva essere ‘prima linea’ “.

Chi furono i primi militanti?
“I primi provenivano da Lotta Continua e, in minore misura, da Potere Operaio”.

Le Br e Pl non sono mai state imparentate, anzi. Che differenze intercorrevano tra i due gruppi?
“Le Br tendevano ad accreditarsi come direzione politica dei movimenti, all’opposto Pl rivendicava la propria vocazione a un legame di internità con il movimento”.

Quale l’episodio che segna la fine di Pl?
“La morte dei compagni Carla e Charlie, che scatenò quella che io definisco la furia del toro nell’arena. Da allora ci fu un gioco al rialzo. Correva il 1979. Tutti volevano combattere e più nessuno curava l’intervento politico sul territorio, l’allargamento del consenso nelle situazioni concrete, il lavoro d’inchiesta”.

Come è il mondo che si ritrova a vivere?
“Un mondo tutto diverso. Siamo passati da un mondo diviso in due blocchi a un mondo globalizzato. Non ci sono più la guerra fredda, i blocchi contrapposti, il movimento conflittuale degli studenti e degli operai contro polizia e istituzioni”.

Il muro di Berlino cadde mentre lei era in carcere. Che significato storico attribuisce all’evento?
“La caduta del muro è il simbolo della caduta dei valori del ‘900”.

Ha lasciato Milano negli anni ’80 per rivederla dopo 22 anni di carcere nel ventunesimo secolo. Come l’ha ritrovata?
“Totalmente differente: dal punto di vista architettonico, urbanistico e sociale. Sono aumentate le solitudini. Negli anni ’70 e ’80 Milano aveva la dimensione di una comunità nonostante i suoi conflitti e le sue lacerazioni. La Milano che ho ritrovato venti anni dopo è diventata un condominio, una coabitazione non più legata a una trama di interessi comuni. Mi ritrovo in quello che ha detto l’arcivescovo Tettamanzi, ovvero che c’è il rischio di una condizione esistenziale sradicata per chi abita in questa città”.

La polizia degli anni ’70 che racconta nel suo libro è un’istituzione poco democratica. E quella di oggi?
“Allora la maggior parte dei questori proveniva dai ranghi del fascismo. Il presente è un’altra cosa. Io sono cambiato. Il mondo è cambiato. Ed è cambiata fortemente la polizia. Ma mi permetto di dire che non è cambiata del tutto. Il carabiniere che ha sparato a Genova uccidendo Carlo Giuliani al G8 ha ricordato, per esempio, che al ritorno in caserma c’era chi festeggiava il ragazzo morto. C’è evidentemente ancora da migliorare…

Dopo 22 anni di carcere, una volta ottenuto il passaporto, quali sono stati i primi viaggi?
“I primi viaggi li ho fatti a Dachau, Mauthausen, Gusen e Harteim. Ho avuto bisogno di ritrovare quelle verità, oggi rimosse e indicibili, e quei pezzi fondamentali dell’identità collettiva finiti nel tritacarne dei giudizi sommari. Subito dopo i viaggi nei lager, sono stato a visitare il gulag di Tito, a Goli Otok. Vi sono i ruderi delle baracche e delle officine, mentre la natura ha ripreso ovunque il sopravvento. Non si sa quanti furono i deportati qui, le cifre ufficiali sono decisamente sottodimensionate. Ma si contano sulle mani le testimonianze dei reduci. Mi chiedo ancora perché, non può essere per il timore di vendette o per l’adesione alle indicazioni del Pci di Togliatti, che imponevano l’omertà e il silenzio assoluti”.

Senza contestualizzare la lotta armata all’interno della logica ferrea della guerra non si può capire quel pezzo di storia, scrive. Ma di sensi di colpa quando uccideva non ne provava mai?
“In quel momento no. Man mano che ci siamo separati dalla logica della violenza e abbiamo abbandonato le armi è iniziata a emergere la coscienza. Negli anni ‘70 non eravamo lucidi, e con questo non cerco giustificazioni. Ma credo che in qualsiasi guerra si finisca a essere vittima di una dinamica inevitabile che fa perdere il senso dell’umanità. Per uccidere devi negare l’umanità dell’altro, di modo da non riconoscerlo come persona. Così non hai rimorsi”.

C’è chi disse che la lotta armata fosse strumentalizzata dal potere. Cosa ne pensa?
“La storia della lotta armata rimanda ai conflitti più che alle trame.
Per quanto riguarda Prima Linea non ci sono mai stati sospetti, così come le Br non furono di sicuro un fenomeno diretto dall’alto. Ma nella storia delle Br ci sono punti inevasi che andrebbero approfonditi. Sono dettagli, però”.

Che ruolo hanno avuto i pentiti nella sconfitta del terrorismo?
“Relativo. I pentiti sono diventati uno strumento investigativo, hanno dato un contributo a evitare nuovi attentati, forse. Ma paradossalmente hanno anche aumentato la durata e l’intensità finale della lotta. Chi dice che hanno avuto un ruolo rilevante dà una lettura militare alla fine del terrorismo. Ma la vera sconfitta è stata quella politica e culturale. Quella militare è infatti passeggera”.

A cosa si deve la sconfitta della lotta armata quindi?
“Alla dissociazione, che ha innescato una revisione dei miti da cui la lotta armata era nata, con il risultato di minarne le basi”.

Negli anni ’60 si lottava il divorzio. Oggi per i Pacs..
“Già. Siamo una nuova società che ha bisogno di nuovi diritti. Milioni di persone convivono e si fa finta di non vederlo. A questi milioni di persone va dato invece un riconoscimento giuridico”.

Che opinione ha della sinistra di Prodi?
“Non sono l’uomo più idoneo a parlare di politica, ma posso dire che di fronte ai problemi degli emarginati questa sinistra ha ancora molto da fare”.

Nicole Cavazzuti

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Susanna e le altre. Tante altre, e tanti altri. Ex terroristi rossi e neri, ex brigatisti, ex comandanti o gregari della lotta armata oggi impegnati, come la Ronconi – nominata nella consulta sulle tossicodipendenze del ministero della Solidarietà – nel sociale e nel volontariato. Una scelta che molti mal tollerano – prova ne sia la levata di scudi contro l’incarico governativo alla Ronconi – o quanto meno non si spiegano, trovandola offensiva di quei valori che gli ex, quando ex non erano ancora, facevano a pezzi con le armi e ora invece affermano dalla trincea del sociale. Sergio Segio è uno di loro. Responsabile dell’associazione SocietàIN-formazione, che lotta contro il disagio, e del Gruppo Abele di Milano, ha da poco pubblicato per Rizzoli Una vita in prima linea, dove racconta gli anni in cui era il “comandante Sirio” della banda armata di cui fu anche fondatore. Poi 22 anni di carcere, e l’approdo all’associazione di don Luigi Ciotti. Nel suo libro c’è un capitolo che si intitola «Che fine hanno fatto?». Qui Segio elenca, nome per nome (ma tacendo i cognomi), i militanti di Prima Linea, raccontando che cosa fanno oggi. Su 57 mini biografie di viventi, ben 25 riguardano persone che si occupano di solidarietà.

Vita: Perché secondo lei tanti ex terroristi oggi lavorano nel sociale?
Sergio Segio: Per più di un motivo intrecciato. Uno, banale, perché solo dal sociale, o dal volontariato, c’è stata disponibilità nei nostri confronti, mentre la società era, ed è, chiusa al reinserimento di ex terroristi. Molti di noi hanno iniziato a entrare nelle associazioni quand’erano in semilibertà, e lì sono rimasti. Ma c’è anche un altro motivo, più profondo.

Vita: Ha a che fare col vostro passato?
Segio: Con la voglia di riconvertire la tensione sociale nei confronti degli ultimi che ci ha portato sciaguratamente alle armi. Prenda me, per esempio.

Vita: Come ha cominciato?
Segio: Ho iniziato a fare estremismo politico di sinistra occupando le case per i senza tetto, poi la mia strada mi ha portato alla lotta armata. Pensavo di realizzare la giustizia sociale. Un orrore di cui ho preso coscienza, ma senza perdere la tensione a spendere la mia vita a favore degli ultimi, e a cercare modi per mettermi a disposizione di chi ha problemi. Perché quella è la mia casa emotiva.

Vita: Un percorso comune ad altri della sua generazione che hanno compiuto gli stessi errori…
Segio: È naturale per noi cercare un luogo dove riconvertire le nostre inquietudini. Alcuni ci sono riusciti battendo altre strade, molti hanno scelto il sociale, trovandoci, se non la propria vocazione, almeno una risposta. Come dice Aldo Bonomi: c’è in noi una testarda voglia di stare dentro il sociale anche per distanziarci dalla politica. Vogliamo contribuire alla trasformazione sociale stando dentro e a fianco delle persone, non sopra.

Vita: Cosa cercano gli ex terroristi in questo mondo?
Segio: Di tenere assieme passato e presente. Molti, troppi sono stati costretti a tirare su un muro invalicabile tra sé e il proprio passato, se volevano lavorare e crescere i figli. Di qui una sorta di saracinesca interiore, che spezza la linea, seppure tortuosa, che ciascuno di noi cerca di mantenere tra il sé del passato e quello del presente. Io credo invece che occorre avere memoria, sia a livello individuale che sociale. Per avere coscienza di sé e dei propri errori non bisogna nasconderli, ma analizzarli e trasportarli nel presente in forma diversa.

Vita: Altrimenti cosa succede?
Segio: A livello sociale è un’operazione rischiosa. La società e la politica sbagliano a creare una cesura con la violenza degli anni di piombo. Il modo in cui non si cura la lacerazione degli anni 70 ha fatto infettare la ferita, che oggi è piena del pus dell’intolleranza. Certo, non credo che la riconciliazione possa essere demandata a chi ha sofferto per colpa del terrorismo, ma alla classe dirigente sì.

Vita: Cosa possono dare gli ex brigatisti al mondo della solidarietà?
Segio: Competenze e sensibilità. Almeno lo spero. Credo che possa essere utile, per esempio, la conoscenza che abbiamo del carcere, ma anche le esperienze sbagliate che ci portiamo dentro e di cui siamo consapevoli. Poi ci sono casi, come quello di Susanna Ronconi, in cui la competenza è stata costruita in 15 anni di lavoro sul campo. Susanna ha praticamente inventato le unità di strada per i tossicodipendenti, è stata una pioniera in Italia.

Vita: Cosa prova quando assiste a polemiche come quelle dei giorni scorsi?
Segio: Stanchezza. C’è un ostracismo senza fine, un ergastolo bianco decretato nei confronti degli ex terroristi, anche di quelli dissociati, che in tempi non sospetti avevano preso le distanze dalle armi. Io cerco di mettermi nei panni degli altri e capisco il risentimento di chi ha sofferto per ferite non rimarginabili. Ma il rancore senza fine no, non lo capisco.

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Prima Linea, fatto politico https://www.micciacorta.it/2015/09/prima-linea-fatto-politico/ https://www.micciacorta.it/2015/09/prima-linea-fatto-politico/#respond Mon, 28 Sep 2015 11:44:34 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20463 Quello che la lotta e la rivoluzione potessero e dovessero tendere alla felicità, e anzi attualizzarla, è un pensiero che aveva corso anche allora, a partire dal Movimento del ’77, che lo teorizzò e tentò di praticarlo

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Sergio Segio è stato, nel 1974, tra i fondatori di Prima Linea, con le Brigate Rosse la sigla che più insanguinò le cronache degli anni Settanta e Ottanta. Arrestato nel 1983, ha scontato 22 anni di carcere e oggi è impegnato come responsabile della “SocietàINformazione” e del Gruppo Abele di Milano. Nel libro Una vita in Prima Linea racconta i suoi anni di passione.  Registrandone il sapore amaro delle illusioni e della sconfitta. Lo abbiamo intervistato. Cos’ha provato scrivendo questo libro? Questa non è una biografia «normale». Ho provato allo stesso tempo, e contraddittoriamente, inquietudine e serenità. Ripercorrere quegli anni e la mia esperienza dentro di essi è stato un percorso faticoso e doloroso. Le morti provocate, i tanti compagni rimasti uccisi, i lunghi anni del carcere, le torture subite, la sofferta presa di coscienza di quanto le aspirazioni originarie di maggiore giustizia e libertà si fossero rovesciate nel loro contrario, incidono in profondità la mia memoria e tutta la mia vita, e non è indolore riportarle alla superficie. Ma ripercorrerle a distanza di così tanto tempo e scriverne è stato, al tempo stesso, un percorso di riconciliazione con i tanti pezzi della mia esistenza. Credo non si possa e non si debba, né a livello individuale né a livello sociale, separare il passato dal presente. Per quanto costi fatica e comporti dei prezzi da pagare, occorre tenerli assieme, con la consapevolezza delle cesure ma senza comode rimozioni. Mi ha colpito, dopo la sua liberazione, il viaggio a Mauthausen e poi a Goli Otok, luoghi della vergogna umana. Anche lei veniva da un abisso, era stato protagonista di una tragedia collettiva. Perché questa tragedia? Era proprio inevitabile? Nulla è inevitabile, perché la storia la determinano gli uomini, con le loro volontà e anche con le loro cecità. Naturalmente, le volontà dei singoli sono anche, e spesso fortemente, determinate da fattori più generali, culturali, sociali. Per quanto ci riguarda, sono convinto che le nostre scelte, la nostra tragedia – certo infinitesimale rispetto a quelle del Novecento, e nel giudizio occorre tenere sempre un senso delle proporzioni - siano state un intreccio indistricabile di intenzionalità soggettive, e dunque di responsabilità individuali, e di particolari contesti storici, culturali e politici: assolutizzare uno solo di questi fattori equivale a negare una faccia della verità. È necessario tenerli tutti presenti per capire davvero. Dopo avere citato una pagina di Uomini e no lei dice che «la rivoluzione e il comunismo erano per lei nient’altro che questo: la possibilità di essere felici e liberi, sapendo che non lo si è veramente se non lo sono tutti». Ma si può costruire la felicità propria e quella degli altri con la violenza? È, questo sulla felicità, un suo pensiero di adesso, o la pensava così anche allora? Quello che la lotta e la rivoluzione potessero e dovessero tendere alla felicità, e anzi attualizzarla, è un pensiero che aveva corso anche allora, a partire dal Movimento del ’77, che lo teorizzò e tentò di praticarlo. In aperto contrasto con la logica del comunismo tradizionale e anche delle Br, che rimandavano al «sol dell’avvenire», a un lontano futuro e ai posteri, la questione di vivere il comunismo, e non solo di lottare per costruirlo. E in conflitto con il Pci e la Cgil di Lama, che in quel tempo avanzavano la linea della politica dei sacrifici, quel movimento, provocatoriamente, parlava invece di diritto al lusso. Anche il femminismo fu, da questo punto di vista, una rivoluzione culturale, che non accettava di subordinare a una futura e lontana società il radicale mutamento delle relazioni personali e di genere. Allora pensavamo alle armi come strumento e possibilità di liberazione, dunque di felicità. Abbiamo imparato, anche a nostre spese, che violenza e felicità sono invece antitetici. Quanto influì, nella sua scelta di darsi alla lotta armata, la politica berlingueriana del compromesso storico? Sarebbe intellettualmente disonesto dire che fu determinante, ma ebbe certamente un grosso peso. Perché si tradusse in una chiusura di spazi, in una stretta autoritaria rispetto ai movimenti, in una negazione di ogni dissenso. Paradossalmente, Berlinguer, all’indomani del golpe in Cile, motivava la proposta del compromesso storico con la Dc anche con le «minacce sempre incombenti» di svolte autoritarie. Svolte che in quegli anni venivano auspicate e talvolta organizzate anche da settori della stessa Dc e da apparati di quello Stato e di quelle istituzioni entro le quali il Pci si proponeva di compiere una «lunga marcia». Una scelta che ci appariva suicida, perché lasciava inerme la classe operaia e i ceti popolari. Basti ricordare che l’anno dopo, nel 1974, ci fu una intensificazione della strategia della tensione e dei tentativi di golpe, con la strage dell’Italicus e con quella di piazza della Loggia. Quanto c’era, nella lotta armata, di continuità col mito partigiano, della Resistenza tradita? O non vi contò più, mentre imperversava la strategia della tensione, la volontà di reagire alla violenza della destra nell’ipotesi di sollevare le masse operaie? Anche per noi, seppure in misura minore che non per le Br, vi fu, quantomeno nella fase iniziale, un richiamo forte, forse più sentimentale che politico, alla Resistenza, vista quale rivoluzione interrotta. Non è casuale che molti di noi avessero scelto come nome di battaglia quello stesso dei nostri padri partigiani. A questo filo si intrecciava poi il timore del golpe, l’esigenza dell’autodifesa rispetto ai fascisti e l’organizzazione di strutture che potessero fronteggiarli; assieme, ma non ultimo, vi era il mito della palingenesi sociale, del comunismo da costruire anche attraverso la lotta armata, come ci insegnavano le guerriglie dell’America Latina o, prima, la Rivoluzione d’Ottobre. La proporzione in cui si sommavano questi tre diversi elementi variava da organizzazione a organizzazione e anche da fase a fase. È un dato ormai acquisito che la lotta armata non fu eterodiretta. Ma quanto la convince la tesi della Rossanda dell’album di famiglia? Quella tesi della Rossanda dovrebbe apparire banale, eppure fu allora dirompente, tanto forte era il tentativo del Pci di mistificare la natura di sinistra delle organizzazioni armate. Anche per nascondere il fatto che le Br erano nate nelle sezioni del partito a Reggio Emilia. Mutatis mutandis, da quella sinistra allora eravamo spesso etichettati come oscuri provocatori, oggi veniamo considerati volgari criminali.  L’intento e il risultato è il medesimo: quello di negare la nostra identità, che era quella di militanti della sinistra, e la natura politica della nostra vicenda. A proposito del Pci lei parla, sin dagli anni Sessanta, di limiti e miserie del riformismo, di attitudine al compromesso, di deriva affaristica e speculativa.  Che sarà stato magari vero, in certi casi.  Ma quale meccanismo di pensiero innescò la logica che per rifiutare quella «miseria» (posto che il riformismo sia «miseria») si doveva ricorrere a una scommessa tanto disumana quanto difficile da vincere? La critica al riformismo, che avevamo ereditato dai gruppi della sinistra extraparlamentare dell’epoca, poteva trovare fondamenti e, di volta in volta, magari ragioni, ma sostanzialmente era espressione di un estremismo spesso stupido e ideologico. E l’estremismo è un piano scivoloso e inclinato. Mi colpì molto un’affermazione di Carol Beebe Tarantelli, che solo due mesi dopo l’omicidio di suo marito da parte delle Br volle entrare in carcere a parlare con noi, con l’area della dissociazione. In quell’occasione disse: «Ho detto a questi detenuti che ci unisce un pezzo di storia; che io ho fatto un percorso simile a quelli di loro che c’erano nel ’68. E che la mia parte sovversiva l’ho conosciuta anch’io. Un’altra cosa ho voluto dire loro, quando si ostinavano a definire la morte di Ezio “un barbaro assassinio”: che non era giusto parlarne così, perché è barbaro solo ciò che sta al di fuori di noi, quello che ci è del tutto estraneo. Mentre purtroppo la lotta armata non è che l’espressione più estrema di qualcosa che ben conosciamo, l’estremismo ». Una considerazione che molta parte della sinistra ancora non riesce e non vuole fare. Veniamo a Prima Linea. Lei dice che non faceva solo lotta armata, e che in questo era diversa dalle Br. Vuole chiarire? Pl, sin dal nome, ha sempre teso a volersi e vedersi come parte interna del movimento, non come organizzazione separata, né tanto meno come partito combattente, come era invece ambizione dei brigatisti, interni a una logica e una cultura terzinternazionalista. A differenza delle Br, la lotta armata era da noi intesa come uno strumento contingente non come una strategia. Uno strumento che doveva affiancarsi agli altri, alle lotte legali, alle battaglie in fabbrica e sul territorio. Noi non siamo nati con la pistola in mano, siamo nati dalle lotte operaie e sociali. A dispetto delle nostre intenzioni e teorizzazioni, le armi hanno invece fagocitato progressivamente ogni altra pratica e appiattito ogni diversità tra noi e le Br. A proposito del Movimento del ’77 lei propone una certa equiparazione tra Pci e Br: l’uno non lo capisce, le altre non fanno nulla per capirlo. Per il primo è senz’altro vero, i partiti stentano a capire i movimenti. Per le seconde vorrei capire io.  Non erano anche le Br, pur con la loro «boria» di partito, parte di quel movimento? Figlie, quantomeno, di una scelta ribellistica che travolgeva tutto? Le Br, volendosi appunto come partito, avevano in sommo disprezzo il movimento, visto solo come «serbatoio» da cui attingere quadri, nel quale arruolare militanti. In quell’ottica, la crisi del movimento era funzionale al rafforzamento del partito. Ed è quello che puntualmente avvenne all’indomani del rapimento e uccisione di Moro. Quel movimento non era certamente pacifista, anzi praticava direttamente forme allargate di violenza e anche di lotta armata.  Ma era refrattario a ogni logica di partito e di Stato operaio, che apparteneva alle Br, ma anche al Pci. Pl, lei dice, non avrebbe mai pensato al sequestro Moro. Che, dice anche, avrebbe reso assolutamente intransigente il Pci e lo avrebbe legato monoliticamente alla Dc. Le chiedo cosa ne pensasse, allora e ora, della questione della fermezza.  Era realisticamente possibile agire altrimenti? Quella della politica della fermezza è stata e continua a essere una questione e una polemica scentrata e sterile, figlia naturale di quella mistificazione sulla nostra identità di cui ho detto prima. L’asse Dc-Pci, già cementato nel compromesso storico, si irrigidì e confermò nella scelta della fermezza, ma penso che una politica diversa avrebbe maggiormente messo in crisi i brigatisti e contribuito e frenare l’incattivimento dello scontro e la deriva del movimento. Perché Pl uccise Alessandrini? Può riassumere la «logica di allora», che ora lei considera aberrante? Come ho scritto nel libro e cercato di argomentare con documenti dell’epoca, anche della stessa Magistratura democratica, la logica che ci portò a uccidere Alessandrini, e che ora avverto come terribile e terribilmente sbagliata, era quella che vede e vuole il riformismo come il peggiore e più insidioso dei nemici di ogni istanza radicale e rivoluzionaria. Il Pci e quelle parti della sinistra che si «facevano Stato» era per noi la dimostrazione di un tradimento, oltre che un pericolo concreto. È la logica stalinista del «socialfascismo », che tanto spazio e corso ha avuto nel Novecento, che noi avevamo in qualche modo ereditato e introiettato. Lei dice: cominciammo a perdere quando le nostre azioni (di Pl e delle Br) furono assimilate al terrorismo. E certo pensa che la definizione era errata. Semplicistica. Ma, realisticamente, potevano, azioni come il sequestro Moro con lo sterminio della scorta, non essere considerate terroristiche? Credo vi sia un problema di proprietà e pertinenza delle parole. Il terrorismo, va da sé, ha come strumento e al contempo come obiettivo quello di intimorire e colpire indiscriminatamente. La nostra azione non ebbe queste caratteristiche e intenzioni, a differenza dello stragismo e, per stare ai giorni nostri, delle azioni che da ultimo caratterizzano alcune lotte di liberazione, come quella dei palestinesi. La lotta armata che noi portammo avanti, almeno inizialmente era tesa invece a cercare consenso: ad esempio tra gli operai, colpendo i capireparto o i dirigenti più invisi oppure colpendo poliziotti o esponenti fascisti dopo che studenti erano stati uccisi in piazza dalle forze dell’ordine o per la strada da neofascisti: i primi due omicidi di Pl, quello dell’esponente del Movimento sociale italiano, Enrico Pedenovi, e del brigadiere Giuseppe Ciotta, rispondono a quest’ottica: esercitare una giustizia alternativa a fronte della giustizia di classe e della costante impunità dei fascisti e di poliziotti e carabinieri. Una logica tragica e distorta, ma non è definibile terroristica.  Diversamente, in una fase successiva venne meno lo sforzo della ricerca del consenso e prevalse lo scontro diretto con lo Stato: le nostre azioni, e ancora di più quelle delle Br, divennero tese a creare spaccatura e schieramento, non a convincere, non a conquistare proseliti. La vicenda del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, da questo punto di vista costituirono un punto dirimente. Innescò un’involuzione ancora più tragica, a quel punto inevitabile: la logica delle armi finisce sempre per soffocare e annichilire la politica, la proposta. È solo distruttiva. Le parole, però, non sono mai innocenti e neutre. Basti badare al fatto che gli ex militanti della sinistra armata sono sempre etichettati come terroristi sanguinari, mentre, ad esempio, i repubblichini, autori di tante stragi e deportazioni, sono regolarmente definiti benevolmente «i ragazzi di Salò», mentre la rivolta di Reggio Calabria del 1972, che ha provocato tante distruzioni, attentati, morti e feriti, capeggiata dai «Boia chi molla» di Ciccio Franco, poi senatore del Msi, viene storicizzata con il nome di «Moti». Come giudica la scarsissima conoscenza dei giovani d’oggi riguardo al terrorismo? È indifferenza, o è un altro dei segni della scarsa cultura complessiva? Debbo dire che proprio i riscontri che ho sul mio libro, le mail che ricevo da ragazzi che allora non erano nati mi dice che se è vero che c’è scarsa conoscenza - e questo mi pare indicare l’utilità di scriverne - c’è anche voglia di conoscere e discutere di quel pezzo remoto e rimosso della storia italiana. Da parte loro ci sono minori pregiudizi, un atteggiamento mentale più libero, e mi verrebbe da dire più onesto, rispetto alle memorie e alle indignazioni a senso unico che dominano spesso i media e la pubblicistica e anche rispetto ai rancori e alle logiche biecamente vendicative che ciclicamente emergono a partire da talune forze ed esponenti politici. Ritiene possibile un ritorno della lotta armata? O la vostra esperienza, rivelatasi fallimentare, ha esorcizzato per sempre questa possibilità? Credo che noi ci siamo assunti lo scomodo ruolo di andare sino in fondo, tragicamente e ottusamente, ma anche coerentemente sino in fondo, ai miti del Novecento, compreso quello della rivoluzione politica violenta, esaurendone ogni plausibilità. Non è però estinto un filone di cultura politica estremistica e anche una logica e una pratica di violenza politica, per quanto ultraminoritaria.  

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Milano è diventata un condominio senza più legame di interessi comuni https://www.micciacorta.it/2015/09/milano-e-diventata-un-condominio-senza-piu-legame-di-interessi-comuni/ https://www.micciacorta.it/2015/09/milano-e-diventata-un-condominio-senza-piu-legame-di-interessi-comuni/#respond Mon, 28 Sep 2015 10:48:20 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20445 Intervista a Sergio Segio di Nicole Cavazzuti, e-polis, 1 febbraio 2007. Recurare le ex fabbriche è un gesto importante ma bisogna affrontare il disagio sociale di donne, immigrati e giovani precari

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È stato uno dei fondatori di Prima Linea, tra le principali organizzazioni terroristiche italiane. Arrestato nel 1983, mentre stava preparando un assalto al carcere speciale di Fossombrone, Sergio Segio ha scontato una condanna di 22 anni ed è stato l’ultimo a uscire dal carcere fra gli ex militanti del gruppo. Nato in Croazia, ma milanese d’adozione, operò soprattutto a Sesto San Giovanni e a Milano. Ora è impegnato nel sociale, sui temi del sistema penitenziario e della giustizia, delle droghe e delle tossicodipendenze, del volontariato e dei nuovi movimenti.Ha appena pubblicato un libro: “Un a vita in prima linea” (casa editrice Rizzoli, 400 pagine, 18,50 euro).

vedi l’intervista nel .pdf, a pag. 9

20070201.MI

 

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Addio alle tute bianche. “Troppi errori, cambieremo così” https://www.micciacorta.it/2010/09/segiole-brigate-rosse-sono-dentro-il-movimento/ https://www.micciacorta.it/2010/09/segiole-brigate-rosse-sono-dentro-il-movimento/#respond Thu, 02 Sep 2010 09:45:33 +0000 http://localhost:8888/?p=1327 Si abbandona lo scontro di piazza, il giottino scopre il "glocalismo"

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La Repubblica, 6 giugno 2002

di CARLO BONINI

 

INCHIESTA/ Una mappa del movimento uscito dal G8 di Genova. 

MILANO – Le “tute bianche” non ci sono più. Il vocabolario è cambiato. Le “leadership” (parola da spendere con circospezione) si scoprono improvvisamente invecchiate, delegittimate. Quel che la rètina del Paese aveva trattenuto nel luglio scorso a Genova sono immagini di una foto precocemente ingiallita. E se i numeri hanno un senso dovrà pur dire qualcosa che sabato, nelle strade di Roma, per il controvertice Fao non saranno più di 50 mila i “no-global”. Sei volte in meno di Genova, appena un anno fa. Ce ne è abbastanza per chiedersi che fine abbia fatto il “movimento dei movimenti”. Per far sorridere ironico Daniele Farina, “disobbediente” del centro sociale Leoncavallo.

E’ a Milano, negli uffici del gruppo “Abele”, dove Sergio Segio ospita un incontro di Repubblica con esponenti del movimento. “E’ vero – dice – è passato soltanto un anno, ma sembra un secolo. Diciamo pure che siamo in una fase di transizione, di sviluppo carsico. Roma non sarà un’occasione per contarci, ma soltanto un passaggio importante verso l’Autunno e il social Forum europeo di Firenze”.

“Sì – concorda Gian Marco, torinese di “Punto zip” – dopo Genova il problema è stato, e resta, evitare uno scontro di piazza continuo che ci condannerebbe all’annientamento”. Epperò, non deve essere solo storia di “cicli”. Qualcosa è accaduto.

“Glocal” – Alberto Zoratti, del nodo genovese della Rete Lilliput, ha il dono della sincerità: “Diciamocelo francamente, sono stati commessi errori. In questo anno il movimento non è stato capace di includere e ha perso per strada molti interlocutori. La metto giù semplice: cosa vuol dire “disobbedienza”? Quando mia nonna che ha 85 anni smette di comprare il caffè al supermercato e va soltanto nelle botteghe del commercio equo e solidale anche lei disobbedisce. Ma lo abbiamo spiegato?”.

Se fosse solo questione di termini, un tentativo, a ben vedere, è stato fatto. La “disobbedienza”, vestita di “tute bianche” e brandita nell’estate genovese come forma assoluta di obiezione di coscienza individuale o collettiva, la ritrovi ora declinata in una cacofonica parola d’ordine presa in prestito dalla sociologia dell’oggi: “glocal” o “glocalismo”. Dove il termine esprime l’idea che i temi della “lotta ad una globalizzazione degli interessi ma non dei diritti” si possano esportare o, meglio, radicare nelle “lotte di quartiere, di territorio”. Il blocco di un cantiere dell’Alta velocità, le barricate per proteggere dallo sfratto alloggi occupati in nome del “diritto alla casa”. Ma il problema è forse tutt’altro che questione di lessico. Quasi che l’agenda politica del movimento, i suoi temi, fosse rimasta prigioniera di Genova, della sua sindrome da scontro di piazza, venendone irrimediabilmente essiccata. Gianni De Giuli, bolognese di “Livello 57”, è convinto che “sia necessario tornare a fare società”. Termine vagamente fumoso, ma chiaro se a Gianni chiedi di tradurlo: “Siamo minacciati da un rischio di deriva politicista e per questo, finalmente, a fine giugno, a Bologna, torneremo a discutere per tre giorni di temi che parlano alla testa di tutti, a quell’italiano su tre che, tra i 15 e i 34 anni, fa uso di marijuana. Di culture e politiche antiproibizioniste, di carcere”. “Ma sì – interloquisce Zoratti – la sfida è proprio quella di uscire dalla logica dei pokemon. E in questo senso anche la Fao di Roma può aiutarci a tornare a parlare di temi veri: sovranità alimentare, immigrazione, diritti”.

E Casarini? – La fatica di ritrovarsi su contenuti e parole d’ordine che non suonino “vecchie” o stonate è anche quella di una leadership che, a ben vedere, non esiste. O, quantomeno, non esiste più. Se, parafrasando Kissinger, chiedi a Daniele Farina che “numero di telefono abbiano oggi i no-global” e quante “divisioni” contino, incassi il sorriso sconsolato di chi si dice convinto che “i media devono abituarsi a una idea diversa della rappresentanza”. Come dire: ciascuno è libero di parlare per se stesso e quella porzione di rete cui fa capo. Perché il “movimento dei movimenti” odia i leader e in qualche modo ne ha paura. Al punto che Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, icone no-global nelle cronache di stampa e televisive, ti vengono restituiti e raccontati come semplici figuranti, reduci di quel “patto del Genoa social forum che deve considerarsi sciolto con il 23 luglio 2001”.

“Per carità – spiega Casarini – un primo ciclo di lotte si è chiuso e siamo in una fase diversa. Vorrei però che fosse chiaro che nessuno, compreso il sottoscritto, gioca a fare il leader. In questo anno faticosissimo, sia io che Agnoletto, per generosità e in assoluta buona fede, abbiamo tentato di conservare e dare continuità ai contenuti, alla tensione politica che aveva prodotto Genova. Sforzandoci sempre di dire non quel che passava per la testa dei sottoscritti, ma dei tanti fratelli e sorelle con cui ogni giorno lavoriamo. E’ vero, le tute bianche non ci sono più, ma oggi esistono la disobbedienza e i disobbedienti”. Quanto dureranno anche loro, si vedrà. “Certo, esiste la necessità di smarcarsi dal ricordo di Genova per evitare che una cosa da conservare gelosamente nei ricordi del movimento si trasformi in un cappio a cui rimanere impiccati. Ricordandoci che o siamo e continuiamo ad essere globali o non siamo. Roma sarà un’ottima occasione. Non sarà come il G8. Non sfileremo per contestare la legittimità della Fao, ma per ricordare i suoi fallimenti”.

“Liste zero virgola” – Una robusta mano all’invecchiamento precoce dei figli di Genova lo ha dato qualcosa che nessun “movimento dei movimenti” poteva prevedere. L’11 settembre, evidentemente, il più globale degli eventi. E ancora: la ripresa di un conflitto sociale sui temi del lavoro che la Cgil di Cofferati ha saputo catalizzare e rendere visibile in oceaniche manifestazioni di piazza, la corsa di Rifondazione comunista a intercettare umori e istanze che quel movimento ha prodotto. Nicola Fratoianni, leader dei giovani comunisti, dice che “no, non è vero”. Che “non c’è stata corsa a mettere il cappello sul movimento, ma, semmai a farsene contaminare”. Sta di fatto che dall’incrocio con la politica dei Palazzi l’unico prodotto visibile è stata una irrilevante sortita elettorale nell’ultimo turno delle amministrative, dove le cosiddette “social list” si sono trasformate in “liste zero virgola”, raccogliendo un consenso neppure percettibile. Unica eccezione – non a caso – Genova, l’epicentro da cui l’onda è partita e dove Laura Tartarini ha oscurato i suoi concorrenti a sinistra. Daniele Farina si fa caustico: “So che non è parso e non pare vero voler leggere in quel risultato una spia dello stato di salute, ma soprattutto dei possibili sbocchi del movimento. Peccato che non sia così. Che sia soltanto un’ipotesi tanto ideologicamente dolce, quanto inconsistente. L’esperimento che è stato fatto con quelle liste non significa nulla”.

Molto sembra invece significare l’invito di Casarini, il leader che forse è e forse no: “Stiamo sperimentando. Dunque, non prendiamoci troppo sul serio. Ci farà bene”.

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