Alessandro Margara – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 13 Jul 2021 10:37:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Santa Maria Capua Vetere, la coltre del silenzio e la coperta dell’impunità https://www.micciacorta.it/2021/07/santa-maria-capua-vetere-la-coltre-del-silenzio-e-la-coperta-dellimpunita/ https://www.micciacorta.it/2021/07/santa-maria-capua-vetere-la-coltre-del-silenzio-e-la-coperta-dellimpunita/#respond Tue, 13 Jul 2021 10:37:29 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26459 Senza quei video oggi non si parlerebbe dell’avvenuta «mattanza» e tutto, come spesso in carcere, rimarrebbe occultato dal silenzio. Solo ora, dopo 15 mesi dai gravi avvenimenti, che ben conoscevano, il ministero di Giustizia e il vertice dell’Amministrazione penitenziaria mandato gli ispettori e sospeso gli inquisiti

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Al solito, quando si parla di carcere, tutto risulta molto prevedibile. A fronte di una «orribile mattanza», con 283 agenti penitenziari che effettuano una spedizione punitiva contro i detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere accanendosi a freddo, con violenza e sadismo contro di loro, sono subito scattati i riflessi condizionati per difendere l’indifendibile e capovolgere la prospettiva con la quale si guardano i fatti. Davanti alla inoppugnabile documentazione video, anche i media, rimasti distratti e omertosi per oltre un anno, hanno dovuto pubblicare immagini e testimonianze. Di fronte alle quali, per la verità, alcuni si sono scandalizzati e hanno protestato non per ciò che le immagini mostrano, le inaudite violenze e torture persino contro reclusi disabili, ma per la violazione della privacy degli inquisiti e per la diffusione di immagini coperte da segreto. Segreto che, in questi casi, è funzionale alla tradizionale e ferrea impunità. Senza quei video oggi non si parlerebbe dell’avvenuta «mattanza» e tutto, come spesso in carcere, rimarrebbe occultato dal silenzio. Anche il ministero di Giustizia e il vertice dell’Amministrazione penitenziaria, a 15 mesi dai gravi avvenimenti che ovviamente ben conoscevano, come ora qualcuno comincia ad ammettere, hanno dovuto mandare a Caserta gli ispettori e sospendere gli inquisiti. Che, sino a ieri, erano tranquillamente rimasti nello stesso penitenziario, a contatto di gomito, e di manganello, con le vittime delle torture delle quali sono ora finalmente accusati. Nessuno – ci sembra – ha politicamente e pubblicamente chiesto conto dei 15 mesi di colpevole ritardo nel prendere tali provvedimenti cautelativi. Anzi. Assieme, per evitare fraintendimenti e ulteriori malumori dei numerosi e litigiosi sindacati della polizia penitenziaria (attivissimi nel lavoro di ufficio stampa, che da molti anni li ha portati a essere la principale, e spesso esclusiva, fonte di notizie sulle carceri per il sistema dei media, non solo mainstream), l’amministrazione del carcere ha però pensato bene di trasferire i detenuti che, con deciso coraggio, avevano denunciato i loro aguzzini, appunto 15 mesi fa. Dovendo poi convivere con loro e le loro immaginabili ritorsioni. Ora, tardivamente (e in ogni modo su sollecitazione della procura, poiché da sola ancora non ci era arrivata), l’amministrazione penitenziaria ha pensato di trasferire 42 reclusi. Per il loro bene e per sottrarli – dopo 15 mesi, ribadiamo – alle possibili pressioni. Va bene. Peccato che siano stati spostati non in carceri vicini, e possibilmente scelti in base all’assenza di prepotenze e violenze da parte dei custodi (il che forse non sarebbe stato facile), bensì in remote destinazioni, sino a 600 chilometri di distanza dalle famiglie. Giusto per premiarli del coraggio avuto, a proprio rischio, nel rompere il clima di paura e omertà e nel chiedere verità e giustizia. I 42 detenuti sono stati, peraltro, prelevati in piena notte, a ribadire se ce ne fosse bisogno, la logica e lo spirito col quale questa “protezione” sia stata disposta ed eseguita. Lo hanno denunciato il Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello, assieme a quello di Napoli Pietro Ioia e a quella della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore. Proprio Ciambriello aveva per primo, e da solo, 15 mesi fa denunciato i pestaggi, impedendo che calasse per sempre la coltre del silenzio e la coperta dell’impunità. Naturalmente, contro quei Garanti è già partita la virulenta campagna di attacco e delegittimazione da parte di alcuni sindacati dei poliziotti. Questa non è una novità, anzi è una consuetudine cui le cronache ci hanno abituato e che non arretra davanti a nulla e a nessuno, dato che, a suo tempo, si esercitò persino contro Alessandro Margara, capo dell’Amministrazione penitenziaria positivamente anomalo e proprio per questo presto defenestrato dall’allora Guardasigilli Olivero Diliberto. Lo ribadiamo sperando, contro ogni speranza, che prima o poi qualcuno, pur assai tardivamente, chieda scusa al compianto Margara, nel frattempo scomparso, il cui pensiero, scritti e l’intera sua carriera di magistrato dovrebbero essere la base e il modello per la formazione degli operatori penitenziari, a partire dai poliziotti. Di modo che la pianta cominci finalmente a produrre soprattutto frutti buoni. Dai filmati della «mattanza» sappiamo ora che, dei 283, uno solo ha cercato di frapporsi e limitare le violenze sui reclusi. Un percentuale che dice quel che c’è da sapere. E che dovrebbe preoccupare seriamente tutti i cittadini e forse prima ancora l’istituzione.

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La Consulta, l’ergastolo e la degenerazione giustizialista della sinistra https://www.micciacorta.it/2019/10/la-consulta-lergastolo-e-la-degenerazione-giustizialista-della-sinistra/ https://www.micciacorta.it/2019/10/la-consulta-lergastolo-e-la-degenerazione-giustizialista-della-sinistra/#respond Fri, 25 Oct 2019 07:20:15 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25715 La vera battaglia, abbandonata vent'anni fa, è quella per l'abolizione tout court dell'ergastolo

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Di fronte alla sentenza della Consulta sull’ergastolo cosiddetto “ostativo” molti si sono stracciate le vesti, gridando allo scandalo e prevedendo torme di mafiosi presto in libertà. Tra quelli che hanno alzato maggiormente la voce, magistrati già o tuttora in forza alle procure: abituati a rispettare solo le sentenze che danno loro ragione.
Naturalmente, hanno torto e i loro allarmismi sono in evidenza del tutto strumentali e ingiustificati.
Altri hanno salutato la decisione come un ritorno a uno Stato di diritto e un segnale di abbandono della voga forcaiola e giustizialista, che invece continua ad andare per la maggiore: a destra, che in precedenza ne aveva storicamente il copyright, quanto a sinistra, che anche su questo, come sulle politiche liberiste e anti popolari, in questi decenni ha strafatto, volendo soppiantare il primato e riuscendoci abbondantemente. Bastava seguire questa mattina la storica Radio popolare, i cui ascoltatori sono assai rappresentativi di quel percorso culturalmente degenerativo, da tempo intervenuto senza resistenza alcuna.
Anche costoro sbagliano, giacché la sentenza emessa ieri è del tutto insufficiente a restituire davvero umanità e ancoramento costituzionale alle pene perpetue.
Pochi, del resto, hanno annotato che la decisione è stata presa con un solo voto di scarto (otto contro sette), a rimarcare la sua precarietà.
È facile invece pronosticare che al valore simbolico – che è comunque importante e che va riconosciuto – ben difficilmente faranno seguito significativi numeri di ergastolani ostativi che otterranno benefici. I limiti e i paletti posti dalla Consulta sono, infatti, plurimi e robusti. A partire da quel necessario parere delle procure antimafia e antiterrorismo. Procure che, notoriamente e praticamente, sono esattamente quelle che sinora hanno impedito ogni beneficio con la formula di rito del «non poter escludere» collegamenti con la criminalità. Anche nel caso di reclusi da 20 o più anni nell'isolamento del 41 bis e magari appartenenti a sodalizi da tempo disciolti. Ora, certo, il magistrato di sorveglianza, confortato dalla Consulta, a differenza del passato, potrà tenere in minor e non esclusivo conto quei generici e spesso pretestuosi pareri. Ma altrettanto per certo le decisioni favorevoli saranno molto diluite nel tempo e diradate nell’estensione. Anche perché richiederanno un particolare e individuale coraggio del singolo magistrato, il quale se negasse un beneficio dovuto non incorrerebbe in nessuna censura, anzi in quel caso troverebbe soprattutto plauso; mentre sarebbe lapidato sulla pubblica piazza mediatica in caso di errore o di eccessiva disponibilità nella concessione. In carcere ogni beneficio segue percorsi e tempi sempre faticosi, improbabili e accidentati, a differenza dei peggioramenti, che hanno sempre istantanea e generalizzata applicazione.
Affermato il diritto alla pur remota speranza, questo va subito e sempre nutrito, pena il rapido disseccamento. E al riguardo l'ottimismo sarebbe fuori luogo, viste anche le reazioni univoche della politica, del governo e dell'opposizione.
Giova allora ricordare che nel 1989 venne approvato un ordine del giorno alla Camera dei deputati per l’abolizione della pena dell’ergastolo, quello “normale”, ché l’ostativo ancora doveva essere inventato. Allora vi erano circa 400 ergastolani a fronte dei 1.776 attuali e tassi di omicidi, e in genere di criminalità, assai più alti. Il 30 aprile 1998 fu invece l’Aula del Senato ad approvare l’abolizione della pena perpetua e la sua sostituzione con una pena tra i 33 e i 30 anni: 107 votarono a favore, 51 contrari e 8 astenuti, su proposta di legge avanzata da Ersilia Salvato, senatrice di Rifondazione comunista.
Abolire l’ergastolo era allora una «urgente priorità» per il ministro di Giustizia dell’epoca, il comunista cossuttiano Oliviero Diliberto, molto orgoglioso di aver recuperato dagli scantinati del ministero la scrivania del Togliatti Guardasigilli. Al tempo, Diliberto ancora non si era convertito al pactum sceleris con la parte più retriva e corporativa dei sindacati della polizia penitenziaria, che di lì a poco pretesero e da lui prontamente ottennero il licenziamento dell’allora Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, il compianto Sandro Margara, già giudice e magistrato di sorveglianza di altissima competenza e professionalità, accusato di essere troppo umano e soprattutto di voler insidiare i privilegi e un’insensata distribuzione territoriale degli agenti in servizio, per sostituirlo con quel Giancarlo Caselli che oggi critica aspramente la sentenza della Consulta.
In una lettera pubblicata su “l’Unità” del 2 aprile 1999, Margara scrisse a Diliberto: «L’onorevole Gasparri chiedeva il mio licenziamento a ogni piè sospinto: lei c’è riuscito».
Una considerazione che ci aiuta ancora oggi a capire come sia successo che la sinistra italiana, anzi le sinistre italiane si siano suicidate con impressionante determinazione, divenendo man mano spesso più forcaiole delle destre anche estreme.
Da lì bisognerebbe ripartire, non tanto per una ricostruzione dello smarrimento culturale, valoriale e identitario delle sinistre, quanto per la vera battaglia inceppatasi allora: quella dell’abolizione tout court dell’ergastolo, ostativo e non ostativo.
Photo by Alberto Barco Figari por Pixabay

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Segregazione e isolamento, la tortura soft dell’aguzzino https://www.micciacorta.it/2017/06/23460/ https://www.micciacorta.it/2017/06/23460/#respond Sun, 25 Jun 2017 07:34:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23460 Celle lisce e insonorizzate, interi reparti dove è più facile usare la violenza sui detenuti

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Le loro prigioni. Tra pochi giorni è attesa la sentenza della Corte Ue dei diritti umani sul carcere di Asti. Il testo di legge per introdurre il reato di tortura arriva alla camera lunedì. Senza correzioni Il carcere deve essere un luogo aperto, trasparente. Era il 2000 quando Antigone pubblicò il primo rapporto sulle carceri italiane titolandolo per l’appunto «Il carcere trasparente». Da allora tutti gli anni giriamo in lungo e in largo l’Italia entrando nelle prigioni e raccontando quello che osserviamo. Dal 2012 lo facciamo anche con le videocamere. Ed è questa una conquista, non solo nostra, ma anche de il manifesto con cui lanciammo la campagna affinché la stampa potesse raccontare anche con le immagini la vita nelle carceri italiane. Immediatamente dopo ci fu la condanna della Corte europea per i diritti umani nel caso Torregiani e tutte le istituzioni italiane presero coscienza della drammaticità della vita dentro. DUNQUE IN QUESTO VIAGGIO nelle carceri italiane diretto alla conoscenza del mondo di dentro molto dobbiamo a questo giornale, oltre che a chi nell’amministrazione penitenziaria non ha mai esercitato censura o posto divieti pretestuosi al nostro monitoraggio. La nostra ambizione, come da sempre ci ha insegnato Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, è che l’osservazione, mai neutrale, possa trasformare l’oggetto osservato. Entrare in una galera senza essere detenuto o essere parte dello staff è in primo luogo uno straordinario mezzo di prevenzione rispetto a tentazioni di violenza o di abusi. Più occhi esterni squarciano il buio e rompono il monopolio di controllo delle istituzioni, meno i detenuti saranno considerati cosa loro. I custodi non devono considerare i custoditi loro proprietà privata. Tra i luoghi bui del carcere vi è il reparto di isolamento, ossia il luogo dove viene scontata quella che è ritenuta la sanzione disciplinare per eccellenza. La legge prevede che l’isolamento debba durare massimo per quindici giorni. In isolamento si trovano le persone difficili, i detenuti più a rischio. È nelle celle di isolamento, spesso lisce, disadorne, vuote, tragiche, che possono venire in mente pensieri suicidari. Come i pensieri venuti nella testa di Youssef, suicidatosi nel carcere di Paola nell’ottobre del 2016. Pare avesse scritto ai suoi familiari che in quella cella d’isolamento fosse costretto a dormire per terra. Quindici giorni dopo avrebbe finito di espiare la sua condanna. In quello stesso reparto del carcere calabrese un altro detenuto, questa volta italiano, si era tolto la vita qualche settimana prima. L’isolamento è un carcere nel carcere. In giro per l’Italia si vedono ancora reparti di isolamento lontani dagli sguardi dei visitatori. ALLA FINE DEGLI ANNI NOVANTA, l’allora indimenticato capo dell’amministrazione penitenziaria Alessandro Margara con una propria circolare di fatto abrogò l’isolamento. Un detenuto, seppur sanzionato disciplinarmente, non avrebbe mai dovuto essere spostato dalla sua cella e comunque mai essere isolato, privato della comunicazione con il mondo esterno. La circolare è stata mal sopportata nella periferia penitenziaria e di conseguenza è stata scarsamente rispettata. In isolamento vengono in mente pensieri di morte, aumenta l’aggressività, si subiscono danni psico-sociali irreversibili. È più facile che in isolamento ci sia violenza gratuita come quella dei poliziotti che nel carcere di Asti nel 2004 torturarono due detenuti comuni, fino a fargli lo scalpo. Da un giorno all’altro attendiamo la sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che speriamo restituisca giustizia e memoria ad una delle due vittime. L’altra purtroppo, nel frattempo, è deceduta per cause naturali. Nei giorni in cui molto si è parlato di tortura, va ricordato che alcune azioni per prevenirla si possono fare subito. Ad esempio subito si potrebbe dare applicazione alla circolare voluta da Margara, chiudere i reparti di isolamento, chiudere tutte le celle lisce e insonorizzate. Si può fare a legislazione vigente. Si possono dare indicazioni ai direttori affinché non eccedano nell’esercizio dell’azione disciplinare. E nel caso dei minori, sarebbe buona cosa rinunciare del tutto a una pratica che è violativa, forse in modo irreversibile, del loro stato di salute e della loro crescita sana. Non si può tenere un quindicenne isolato sensorialmente e umanamente per più di pochi minuti. Isolare un ragazzo configura un trattamento inumano e degradante, contrario alle norme internazionali. IL GUARDIAN HA PROPOSTO ai suoi lettori on-line un’esperienza virtuale di isolamento. È facile trovarla in rete e provare cosa significhi per la propria lucidità stare chiusi in pochi metri quadri per ore, giorni, settimane. Seppur vero che in Italia l’isolamento disciplinare non può durare più di quindici giorni non è infrequente che tale limite venga superato intervallando due periodi di isolamento con poche ore di galera normale. Esiste poi un altro isolamento, non regolato, con eccessi di discrezionalità applicativa ed è l’isolamento giudiziario, ossia quello disposto dai giudici per ragioni investigative. Non ha limiti di tempo né modalità predeterminate. Mi è capitato negli anni di trovare persone lasciate in cella senza servizi igienici nella speranza di ritrovare gli ovuli di droga da loro presumibilmente inghiottiti prima dell’ingresso in carcere. Persone dunque costrette a vivere tra i loro bisogni. In questi giorni che si celebrano le vittime della tortura il ministero della Giustizia potrebbe fare subito quanto è nelle sue prerogative, senza aspettare avalli normativi superiori, ossia togliere di mezzo le celle di isolamento e le celle lisce. A sua volta il Csm dovrebbe dare indicazioni contro gli abusi nell’isolamento giudiziario. La tortura e i maltrattamenti hanno tante forme, alcune classiche, altre più subdole, meno appariscenti. La cultura della violenza non si sconfigge solo con le norme ma anche con pratiche rispettose della dignità umana. In questo viaggio oramai ventennale nelle prigioni d’Italia ho incontrato tantissimi operatori – direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, cappellani, medici, psicologi, volontari, insegnanti, garanti – eccezionali. Questi ultimi non vanno lasciati soli. Vanno premiati quelli che hanno il coraggio di costruire un modello di detenzione non violento e rispettoso della dignità umana, anche se più rischioso rispetto ai canoni tradizionali della sicurezza. Anche questa è prevenzione della tortura. FONTE: Patrizio Gonnella, IL MANIFESTO

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Miccia corta. Riflessioni al Campus di Torino sul carcere di ieri e su quello di oggi https://www.micciacorta.it/2017/05/miccia-corta-riflessioni-al-campus-torino-sul-carcere-ieri-quello-oggi/ https://www.micciacorta.it/2017/05/miccia-corta-riflessioni-al-campus-torino-sul-carcere-ieri-quello-oggi/#respond Fri, 26 May 2017 08:00:25 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23340 A partire dal libro “Miccia corta”, un confronto tra ex detenuti e un dirigente dell’amministrazione penitenziaria: da ruoli diversi e contrapposti a una visione non distante sulla necessità di ridurre il carcere, nella prospettiva di poterne fare a meno

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Il quarto incontro previsto nell’ambito della rassegna “eVisioni eNarrazioni” ha presentato la nuova edizione ampliata e integrata con un supporto iconografico di foto e giornali dei cd. Anni di piombo del libro scritto da Sergio Segio “Miccia corta. Una storia di prima linea’’, che racconta gli anni in cui l’esponente di Prima Linea assaltò il carcere di Rovigo liberando Susanna Ronconi e altre tre detenute politiche il 3 gennaio 1982. L’evento, tenutosi il  4 maggio 2017,  ha visto la compresenza, non comune nel dibattito pubblico su questi temi, di due punti di vista diversi e contrapposti della vicenda e di quegli anni: da un lato, Sergio Segio e Susanna Ronconi, fondatori e appartenenti a Prima linea, un’organizzazione di lotta politica armata, e dall’altro, Luigi Pagano, ex direttore del carcere di San Vittore e attuale Provveditore regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I relatori hanno cercato di porre in evidenza luci e ombre, criticità della vita carceraria (specie per i detenuti politici), sfumature, ruoli, motivazioni, emozioni e pensieri che costantemente caratterizzarono le loro vite in quegli anni e che è così difficile riuscire a trasmettere a tutti coloro che non li hanno vissuti sulla loro pelle. La scelta della lotta armata di Prima Linea venne abbandonata ufficialmente nel 1983 dagli stessi appartenenti all’organizzazione, che durante i processi decisero autonomamente di scioglierla, consapevoli che quella stagione era ormai arrivata al declino. Segio, che ha citato libri e articoli dell’epoca, testimonia come in quegli anni migliaia di detenuti, in gran parte detenuti politici della lotta armata di sinistra, fossero stati destinati al cosiddetto “carcere speciale’’. Tali istituti erano sottoposti al regime dell’art. 90 dell’Ordinamento Penitenziario che comportava in sostanza la sospensione di tutti i benefici previsti dall’ordinamento stesso. Una situazione che ricorda, per certi aspetti, la situazione odierna dei circa 700 detenuti che sono sottoposti al regime dell’art. 41 bis. Un confronto che è stato ripreso nel dibattito da Susanna Ronconi che ha ricordato come la spinta che portò i detenuti politici ad abbandonare il loro atteggiamento di radicale conflitto con le istituzioni venne favorita anche da posizioni meno dure da parte dello Stato. Due fenomeni sono stati evidenziati nell’intervento di Segio ed entrambi gravitano attorno alla presenza della violenza nel carcere di quegli anni. Violenza perpetrata dagli agenti di polizia penitenziaria (e il ricordo passa attraverso la “Squadretta dell’Ave Maria’’, modo gergale che stava a indicare la squadra dei poliziotti torturatori). Violenza perpetrata dai militanti contro altri militanti, all’interno del carcere, perché i conflitti sorgevano anche tra le organizzazioni, o gli appartenenti alle stesse, e non sempre le autorità carcerarie potevano (o volevano?) porre in atto le adeguate precauzioni per evitarli. Quando la violenza diventa la normalità prende il sopravvento il processo di disumanizzazione, l’altro non è percepito come umano e questo permette di agire con violenza. Ancora Segio, raccontando come fosse stato organizzato un gruppo di magistrati antiterrorismo, ha fatto riferimento al cosiddetto “diritto penale del nemico’’ e alla concezione del diritto che talvolta sfocia in una tendenza latente e quanto mai pericolosa nel contesto giudiziario, a perseguire, ancor più che il reato commesso, specifiche categorie di soggetti, “nemici’’, appunto. Segio ha ricordato inoltre il repartino bunker delle Molinette riservato ai detenuti con problemi sanitari, non meno terrificante del carcere. Nel ripercorrere diversi aneddoti di quei tempi, attraverso la lettura di passi di articoli e libri offerti alla platea, Segio ha ricordato con stima anche alcuni magistrati di sorveglianza, tra cui in particolare Alessandro Margara, per breve tempo anche a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel suo intervento Luigi Pagano ha invece ricordato i suoi primi anni di operatore penitenziario in cui venne “gettato” in prima linea (è proprio il caso di dirlo …) in istituti penitenziari in cui le rivolte, le evasioni e gli atti di violenza erano all’ordine del giorno non solo nell’ambito della detenzione politica, ma anche in quello della criminalità organizzata (gustoso l’aneddoto in cui il giovane vicedirettore del carcere viene snobbato da Raffaele Cutolo, celebre fondatore della Nuova Camorra Organizzata, in quanto non abbastanza in alto nella gerarchia penitenziaria: “sa, io sono l’equivalente di un direttore generale e non posso mica mettermi a parlare con uno come lei …”). Passando all’oggi, dove Segio e Ronconi sono impegnati sulle problematiche penitenziarie in vario modo, anche con l’associazione Nessuno tocchi Caino e in precedenza con il Gruppo Abele, il discorso non ha mancato di porre uno sguardo attento e critico a ciò che è diventato il carcere, alle difficoltà della detenzione, a come la prigione conduca spesso ad un processo di deresponsabilizzazione e alle difficoltà che conseguono per il successivo reinserimento in società; reinserimento che purtroppo non avviene per tutti con le stesse opportunità, il che è quanto mai lontano dalle previsioni dell’Ordinamento penitenziario e della Costituzione.

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Addio a Margara. Non mollare https://www.micciacorta.it/2016/08/22333/ https://www.micciacorta.it/2016/08/22333/#respond Thu, 04 Aug 2016 08:32:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22333 Da questo agosto 2016 il popolo delle carceri è ancora più solo. Con Sandro Margara scompare una delle figure più preparate e umanamente coinvolte nel pianeta separato e negletto delle prigioni

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«Mentre scontavo la mia pena molte volte ho ripetuto ai compagni di cella che gli uomini politici i quali in passato avevano assaggiata la galera, portavano la grave responsabilità dell’ordinamento carcerario esistente, indegno di un popolo civile, perché, tornati in libertà, non avevano illuminata l’opinione pubblica sul problema e non avevano mai preso seriamente a cuore la sorte dei detenuti».
Ernesto Rossi in una lettera a Piero Calamandrei, “Il Ponte”, marzo 1949
  Da questo agosto 2016 il popolo delle carceri è ancora più solo. Con Sandro Margara, entrato in magistratura nel 1958, scompare una delle figure più preparate e, al tempo stesso, umanamente coinvolte nel pianeta separato e negletto delle prigioni. Margara è stato uno degli artefici più professionalmente attrezzati e determinati delle – non moltissime, e spesso disapplicate, ma certo non per limiti o responsabilità sue – conquiste di civiltà che negli ultimi quarant’anni si sono faticosamente affermate nei codici e nei regolamenti penitenziari. Prima da magistrato di sorveglianza, poi da consulente e collaboratore dei – di nuovo, non moltissimi – politici, o tecnici prestati alla politica, che hanno provato nell’impresa titanica di riformare le carceri. In seguito, nel 1997, persino da Direttore dell’amministrazione penitenziaria, non per caso e assai prevedibilmente rimosso dopo soli due anni da uno dei rari Guardasigilli provenienti dalla sinistra, ma uno dei più solleciti nell’assecondare richieste e umori forcaioli dei potenti sindacati della polizia penitenziaria, i quali ben presto pretesero la testa di Margara. Infine, da Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Un ruolo, questo, di nessun potere, ma probabilmente quello più vicino alla sua cultura e ai suoi sentimenti. Del resto, per avere potere occorre se non amarlo almeno rincorrerlo, il che è stato quanto di più distante dalla sua sensibilità e lunga esperienza. Non sorprendono dunque le assenze istituzionali al suo funerale, celebrato a Firenze lunedì 1° agosto. Così come non può stupire, all’opposto, la profonda stima e vorrei dire l’affetto che gli è sempre stato riconosciuto non solo dai reclusi ma da una più ampia comunità di persone e di competenze che ruotano attorno al mondo delle carceri e a quello più vasto degli “ultimi”; che sono poi quelli che in massima parte nelle galere finiscono, trattati da scorie sociali. Un popolo di dannati già recentemente colpito dalla morte di un altro appassionato nuotatore controcorrente: Marco Pannella. Due figure assai diverse: convintamente laico e prorompente il primo, cattolico praticante e decisamente schivo il secondo. Eppure rese simili dalla passione civile e dal rigore morale da tutti loro riconosciuto, anche se da non moltissimi conosciuto per quanto riguarda Margara. Basta provare a cercare una sua immagine sul web per rendersi conto di quanto poco la sua straordinaria competenza ed esperienza fossero state, se non valorizzate, almeno registrate da un sistema mediatico – lui sì – innamorato del potere e pronto a inchinarvisi. In tempi di imperante paradigma vittimario – per dirla con lo storico Giovanni De Luna – Alessandro Margara osò incrinarne un caposaldo, affermando: «Il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima». Un concetto tanto vero e “sovversivo” quanto indigeribile per una pubblica opinione sapientemente educata da decenni a risentimenti e pratiche di vendetta sociale. In modo diverso, da Radicale e da Presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, anche Pannella ha tenacemente provato a smontare le culture vendicative che riempiono le carceri e incrudeliscono le pene, sino all’abominio dell’ergastolo e del 41bis. E proprio oggi l’associazione umanitaria, dal nome biblico e programmatico, presenta il suo nuovo Rapporto che, come ogni anno, censisce e documenta la drammatica realtà delle esecuzioni capitali nel mondo e che, con questa edizione, ha voluto conferire un Premio alla memoria proprio alla figura di Pannella e al suo storico impegno anche nel Progetto “Spes contra spem”, per porre fine non solo alla pena di morte, ma anche alla pena fino alla morte. ntc-rapporto2016 La speranza contro ogni speranza, dunque, è un lascito che ci viene da queste due figure, così simili e così diverse. La coerenza e lo spirito riformatore di Margara gli sono costati retrocessioni professionali, contrasti e impedimenti da parte della politica e dello stesso ambito della magistratura. Li ha sempre affrontati con la serenità del giusto. Come ha scritto oggi nel ricordarlo Franco Corleone (che, da sottosegretario alla Giustizia, con Margara nel 2000 ha voluto e varato il nuovo e più avanzato Regolamento penitenziario), «le disillusioni che ha vissuto, lungi da piegarlo, hanno semmai rafforzato la limpidezza del suo pensiero e delle sue scelte politiche. Tocca a noi essere alla sua altezza e non mollare». Anche se più soli, non possiamo mollare e non molleremo.

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