altermondialismo – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 14 Aug 2018 08:07:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Addio a Samir Amin https://www.micciacorta.it/2018/08/addio-a-samir-amin/ https://www.micciacorta.it/2018/08/addio-a-samir-amin/#respond Tue, 14 Aug 2018 08:07:20 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24762 Scomparso a 87 anni a Parigi l’intellettuale bohemien che analizzò tra i primi lo sviluppo ineguale del capitalismo. Dalla stagione dei non allineati all’incontro con il movimento no global

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Ha attraversato la seconda metà del Novecento assistendo alla conferma e alla smentita delle sue tesi sullo sviluppo ineguale che lo hanno reso noto a livello mondiale. La tendenza e la voracità capitalistica planetaria, scriveva già agli inizi degli anni Sessanta Samir Amin, dovevano tuttavia aver bisogno della permanenza di economie non capitaliste per consentire alle merci del centro dell’impero di avere sbocchi di vendita, permettendo l’accesso predatorio alle risorse naturali del Sud del pianeta attraverso politiche neocoloniali e imperialiste. QUESTO SCRIVEVA Samir Amin, morto ieri nella capitale francese a 87 anni, dopo la laurea parigina, l’esperienza nel Consiglio per lo sviluppo egiziano durante il breve e intenso periodo nasseriano, il ruolo di Ministro dello Sviluppo economico nel Mali. A quel punto di vista rimase sempre fedele, con la capacità tuttavia, di modificarlo, aggiornarlo e articolarlo alla luce delle trasformazioni del capitalismo dopo la risacca del movimento dei paesi non allineati, il crollo del socialismo reale, la sconfitta dell’ipotesi maoista di un socialismo diverso da quello sovietico, la globalizzazione. Samir Amin nasce al Cairo nel 1931 da padre egiziano e madre francese. Si trasferisce a Parigi per frequentare l’università. Nella sua autobiografia ha descritto gli anni universitari come un intenso periodo bohemienne durante il quale ha stabilito rapporti con intellettuali provenienti da tutto il mondo. Quelli di Parigi sono anche gli anni della militanza politica, prima nel Partito comunista francese e poi nei primi gruppi «cinesi». Feroce, dopo la scelta maoista, la sua critica all’espansionismo sovietico e alla convinzione terzointernazionalista che lo sviluppo economico doveva necessariamente passare attraverso una intensiva industrializzazione. IL RITORNO AL CAIRO è qualificato come una tappa fondamentale nella sua educazione sentimentale alla politica. Aderisce al panarabismo per poi prenderne le distanze. Tutto lascia prevedere una sua carriera istituzionale nel sottobosco ministeriale egiziano. La scelta di trasferirsi in Mali e di accettare il posto di Ministro dell’Economia è però una smentita di chi lo vede già parte della nomenklatura egiziana. Sono gli anni in cui Samir Amin entra in contatto con quel gruppo di economisti, sociologici, filosofi che affronta il rapporto fortemente conflittuale tra sviluppo e sottosviluppo. André Gunter Frank, Emmanuel Arghiri, Immanule Wallerstein, Giovanni Arrighi, lo stesso Amin costituiscono, presi nel loro insieme, un laboratorio teorico e politico che accumula materiali e proposte da mettere a disposizione delle esperienze politiche nazionaliste e antimperialiste che ha come rispecchiamento politico la Cina maoista, ovviamente, ma anche tutte quelle forme politiche che in Europa, Asia e Africa puntano a intraprendere vie inedite allo sviluppo economico, tra le sirene capitaliste di Scilla e quelle sovietiche di Cariddi. Lo sviluppo capitalista esercita una vocazione egemonica che punta a disegnare il mondo a sua immagine e somiglianza, ma la persistenza di forme economiche non capitalistiche può costituire il porto di imbarco per modi di produzione sperimentali. Samir Amin è uno dei teorici più impegnati su questa scommessa politica. È l’unico che sceglie di lavorare e vivere nel Sud del mondo. Partecipa attivamente ai lavori del Forum del terzo mondo, tessendo una rete di rapporti e relazioni intellettuali e politiche sopravvissute anche dopo la sconfitta del movimento dei paesi non allineati. NEGLI ANNI OTTANTA, arriva a teorizzare la necessità di un de-linking, uno sganciamento cioè delle economie nazionali dalle interdipendenze di una capitalismo sempre più globale. La sua è una posizione rispettata, ma minoritaria anche in campo marxista. Solo negli anni d’oro della globalizzazione neoliberista il suo punto di vista incontrerà l’interesse degli attivisti del movimento noglobal nel Sud del mondo. IL VOLTO SORRIDENTE, cordiale, glamour di Samir Amin diventerà una presenza costante nei forum sociali di Porto Alegre. È una delle voci più ascoltate tanto in Asia che in America latina, anche per le sue analisi sulla crisi del capitalismo. A differenza di molti altri critici dello sviluppo, Amin è infatti convinto che la crisi del capitalismo non è un fatto accidentale, ma strutturale e che il doppio legame tra sviluppo e sottosviluppo era necessario proprio per gestire le crisi da sovrapproduzione, finanziarie e di «composizione organica del capitale» che caratterizzano l’economia mondiale. Negli ultimi anni, il non più bohemienne Samir Amin era diventato consapevole che la distinzione tra primo, secondo e terzo mondo non funzionava più. Talvolta introduceva un tema che nel suo schema analitico non era mai stato previsto: cioè che lo sviluppo capitalistico non prevedeva più un «dentro» e un «fuori» e che lo «sganciamento» dal capitalismo era la mission impossible che richiedeva un surplus di intelligenza politica della quale non c’era traccia nel mondo dominato dal pensiero unico. Accenni di un possibile nuovo percorso di ricerca mai decollato. IN UNO DEGLI ULTIMI SCRITTI ha difeso il modello cinese, sostenendo che la trasformazione della Cina in «fabbrica del mondo» non era espressione di un capitalismo governato dallo Stato, ma una contraddittoria esperienza di un socialismo di mercato che poteva costituire una alternativa al moloch della globalizzazione neoliberista. Una speranza, la sua, non proprio espressione di un principio di realtà di un intellettuale militante del lungo Novecento. Una bibliografia Il primo libro di Samir Amin pubblicato in Italia è stato «Lo sviluppo ineguale». (Einaudi, 1977). Bisogna attendere molti anni prima che la casa editrice Asterios pubblichi «Il capitalismo nell’era della globalizzazione» (1997), seguito da «Il virus liberale. La guerra permanente e l’americanizzazione del mondo» (Punto rosso, 2004), «La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?» (Punto rosso, 2009). Suoi sono anche «Per un mondo multipolare» (Punto rosso, 2006), «Il mondo arabo. Sfide sociali, prospettive mediterranee» (Punto Rosso, 2004), «Il mondo arabo nella Storia e oggi» (Punto Rosso, 2012). «Ottobre ’17: ieri e domani» (MarxVentuno) è il titolo del suo dialogo con Andrea Catone sul centenario della Rivoluzione russa. * Fonte: Benedetto Vecchi, IL MANIFESTO

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G8 di Genova 16 anni dopo. Le ragioni dimenticate dei movimenti https://www.micciacorta.it/2017/07/23563/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23563/#respond Thu, 20 Jul 2017 07:17:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23563 In quelle giornate genovesi di 16 anni fa si sono confrontate senza mediazioni due visioni del mondo

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Globalizzazione e altermondialismo Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione della spesa pubblica o obbligo di pareggio di bilancio. Proprio com’è più di recente avvenuto, e sta avvenendo, alla Grecia e ad altri membri dell’Unione, veniva in quel modo messa in discussione la sovranità dei singoli Paesi, obbligati ad aprirsi agli investimenti delle multinazionali e alle loro delocalizzazioni produttive, finalizzate allo sfruttamento di manodopera a basso costo e alla massimizzazione dei profitti. In parallelo e di conseguenza, i diritti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche i diritti umani, venivano vulnerati o fortemente ridimensionati, prima in quelle aree geografiche e, successivamente e tuttora, anche in Europa. Dove portasse quella strada divenne presto manifesto con il default dell’Argentina nel 2001. A cavallo del cambio di secolo e in reazione a quelle dinamiche, e alle strategie sottostanti, prendeva corpo, forma e forza il grande movimento altermondialista (comunemente mistificato dai media mainstream sotto l’etichetta “no global”), nato nel 1998 e decollato l’anno successivo con le mobilitazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) a Seattle. Si trattò di una prima battaglia vincente, che ha piegato sino a renderla irrilevante la potentissima organizzazione sorta nel 1995 con l’obiettivo di abbattere ogni barriera tariffaria al commercio globale di merci e servizi. Un piccolo, micidiale, cuneo era stato ficcato negli ingranaggi della globalizzazione economico-finanziaria e della liberalizzazione commerciale, dunque nel potere e nei profitti delle grandi corporation. Un intollerabile inceppamento di una strategia da tempo lucidamente tesa a un nuovo ordine globale, dopo che quello bipolare precedente, stabilizzato dalla Guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi, era venuto meno, franando su sé stesso. Un ordine spesso tragico, ma anche in alcuni tratti caratterizzato da rivoluzioni emancipative di popoli schiacciati dal colonialismo e da sistemi economici disumani, nonché, nella seconda metà del secolo, pure in Occidente, da grandi conquiste sociali, da un forte progresso delle forze del lavoro e da un significativo avanzamento di istanze democratiche e di libertà civili.   La seconda potenza mondiale Le vicende del luglio 2001 a Genova sono state la sanguinosa dimostrazione di come quel governo sovranazionale non possa tollerare interferenze e di come conservi memoria – lui sì – e timore dei processi di emancipazione, conquiste e progressi avvenuti nel secolo scorso. In quelle giornate genovesi si sono confrontate senza mediazioni due visioni del mondo. È in quel momento che le ragioni della forza iniziano a prevalere sulla forza della ragione: una “macelleria messicana” a esecuzione italiana e regia internazionale, una inequivocabile manifestazione dell’avvenuto - e costitutivo - divorzio tra democrazia e processi di globalizzazione, con gli orrori di Bolzaneto, le torture alla scuola Diaz e l’evidenza di apparati di polizia intrisi di cultura fascista e di omertà mafiosa, come hanno ben riscostruito una delle figure italiane più rappresentative di quel movimento e una delle vittime dei massacri (Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, L’eclisse della democrazia – Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, Feltrinelli, 2011). Tuttavia, ancora due anni dopo quel composito movimento globale dimostra una vitalità e dimensione sorprendenti: il 15 febbraio 2003 in ogni angolo del pianeta, contemporaneamente, si manifesta “Contro la guerra, senza se e senza ma”. Centodieci milioni di persone, un evento unico da sempre. Il giorno successivo il “New York Times” definisce quel movimento «la seconda potenza mondiale». Quel movimento non esiste più, quanto meno nelle forme e forze di allora, pur se esistono encomiabili tentativi di tenerne in vita almeno intuizioni e tensioni con il World Social Forum, nell’agosto 2016 convocato a Vancouver. Del “movimento dei movimenti” non si ricorda né l’origine, né la fine: nel quindicennale dell’uccisione di Carlo Giuliani solo una piccola e orgogliosa pattuglia di giovani ed ex giovani ha voluto ritrovarsi con i genitori di Carlo in quella piazza Alimonda, alcuni con ancora sul corpo le cicatrici di quei giorni di infamia istituzionale. Se la seconda potenza mondiale si è frammentata, ammutolita e sin quasi dissolta, le sue ragioni sono più che mai attuali ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società che ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld e le scelte criminali e complicità dei Tony Blair. Oggi è il Rapporto Chilcot che documenta quanto quelle scelte interessate e scellerate abbiano devastato e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Ci sono voluti sette anni e decine di milioni di sterline per portare a termine l’inchiesta commissionata nel 2009 dal governo britannico a una Commissione guidata da sir John Chilcot e tradotta in un Rapporto sviluppato in ben 12 volumi, ufficializzando quel che il movimento, e quel po’ di giornalismo indipendente che ancora faticosamente sopravvive, denunciava a chiare lettere e ad alta voce da subito, ovvero la volontà preordinata e rapace di dare il via a un intervento militare ingiustificato e capzioso.   La destabilizzazione del mondo e gli interessi delle corporation Nel frattempo, la guerra di Bush e Blair ha prodotto, solo in Iraq, oltre un quarto di milione di morti, destabilizzando a catena tutta l’area, sino alla guerra siriana, divenuta, oltre che un mattatoio e un deserto di rovine, la causa principale delle ondate migratorie che, a loro volta, stanno contribuendo a destabilizzare la già fragile Unione dell’Europa. Allo stesso modo e su un altro piano, solo apparentemente meno cruento e disastroso, gli avvenimenti mondiali, con la crisi scoppiata nel 2007, hanno dimostrato la fondatezza dell’analisi di quel movimento e, all’inverso, il fallimento di una globalizzazione fondata sulla libertà assoluta delle corporation e della grande finanza. Così come gli studi scientifici registrano con evidenza crescente quanto fossero centrati e realistici gli allarmi sul degrado del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui loro drammatici effetti, già presenti e futuri. Insomma, quel movimento diceva e spiegava che i grandi mali che stanno deteriorando le condizioni di vita e compromettendo il futuro sono tutti intrecciati tra loro: diseguaglianze, guerre, migrazioni, olocausto ambientale, diritti umani. Verità confermate dai fatti nel quindicennio successivo, ma ancora negate e avversate. Prenderne atto, infatti, comporterebbe il mettere radicalmente in discussione il sistema e l’attuale modello, in ogni sua articolazione. Così come il trauma dell’11 settembre 2001 non ha portato a resipiscenze, ma anzi è stato strumentalizzato per destabilizzare il mondo e per annichilire quel movimento antisistema che voleva cambiare il mondo senza prendere il potere, così la crisi economica in corso dal 2007 invece di portare a un drastico ridimensionamento del potere della finanza speculativa che l’ha provocata, sta traducendosi in un’accelerazione dei processi tecnocratici, da un lato, e populistici, dall’altro, che stanno modificando in radice in senso autoritario e antidemocratico le istituzioni rappresentative, a partire dal quadro europeo. «L’ultimo quarto di secolo ha segnato il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, divinità inique di una società ingiusta. Poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti dei governi nazionali, fuori da qualsiasi controllo che abbia una parvenza di democrazia. Totem intoccabili e vendicativi davanti a i quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America […] il paradosso delle nostre democrazie: stanno entrando una dopo l’altra in crisi attraverso l’esercizio più democratico che vi possa essere, il voto popolare. È già accaduto con il referendum britannico, può accadere negli Stati Uniti di Trump, è in incubazione nella Francia di Marine Le Pen. Altro che sistemi elettorali e riforme costituzionali, intorno a cui ci arrabattiamo noi italiani» (Luigi Vicinanza, Quando le religioni si sostituiscono alla politica, “L’Espresso”, 28 luglio 2016). A distanza di qualche lustro, insomma, nell’epoca del dominio incontrollato della finanza e per colpa dei suoi effetti, il mondo e l’Europa sono scossi e messi a rischio dal ritorno delle piccole patrie e delle frontiere blindate, dai populismi contagiosi e avvelenati di una democrazia che si autoerode. Mentre in alto il capitalismo diventa sempre più globale e imperiale, in basso lo spaesamento diventa arroccamento identitario e perimetrazione egoistica. (dall'Introduzione al 14° Rapporto sui diritti globali , Ediesse editore. Scarica qui l'introduzione integrale)

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100mila manifestano ad Amburgo per «Solidarietà senza confini» https://www.micciacorta.it/2017/07/23510/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23510/#respond Sun, 09 Jul 2017 07:00:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23510 Manifestazione finale. Ultimo giorno di vertice e grande manifestazione: un arcobaleno di colori e idee contro il modello proposto dai «Venti Grandi»

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AMBURGO. Doppio successo per «Solidarietà senza confini», la manifestazione che ha chiuso cinque giorni di proteste contro il vertice dei G20 ad Amburgo. Centomila per alcuni i partecipanti, 80mila per altri, 76mila nell’annuncio ufficiale degli scrupolosi organizzatori. Comunque tante e diverse persone hanno saputo sconfiggere la paura, creata da esponenti governativi e dai media nazionali e locali, dopo gli scontri della notte. MIGLIAIA DI GIOVANI avevano infatti tenuto impegnate le forze dell’ordine per almeno quattro ore, tra venerdì e sabato, in un vero e proprio «riot urbano»: erette e incendiate diverse barricate nel quartiere di Sternschanze, la polizia tenuta lontana dal lancio di sassi e due supermercati interamente saccheggiati. Al di là del contributo di alcuni gruppi organizzati, è stato evidente il coinvolgimento attivo di migliaia di giovani abitanti di Amburgo, prevalentemente immigrati di seconda generazione, in una sorta di «carnevale di riappropriazione e autodifesa delle strade» dal dispositivo di militarizzazione, che si era visto all’opera negli ultimi giorni. Solo verso le due del mattino gli apparati di sicurezza sono riusciti a riprendere il controllo della situazione: con ripetute cariche, l’uso degli idranti e il lancio massiccio di gas lacrimogeni e irritanti, ma anche con il rastrellamento di interi isolati, a mitra spianato, ad opera dei reparti speciali Sek. PESANTE IL BILANCIO della nottata: secondo fonti ufficiali, sono 213 gli agenti feriti, un centinaio i manifestanti (ma molti hanno preferito rivolgersi per le cure alla Sani autogestita), per fortuna nessuno in modo grave, e 203 le persone fermate. Questo clima non ha scoraggiato, anzi, quanti si sono presentati, a partire dalle 11 di sabato mattina, in Deichtorplatz. La stessa composizione del corteo ha saputo esprimere tutta la ricchezza di contenuti della mobilitazione anti-G20. Ad aprire la marcia la rappresentanza delle delegazioni internazionali presenti ad Amburgo: tra questi i greci della rete Diktyo e del City Plaza occupato, i sindacalisti francesi di Sud-Solidaires, molti attivisti scandinavi e olandesi. Poi, forte di almeno 7.000 presenze lo spezzone delle comunità curde in Germania, molte donne e molti giovani, uniti sotto le parole d’ordine del «confederalismo democratico», pronti a difendere l’esperienza della Rojava autonoma e a denunciare le ambigue relazioni tra il governo Merkel e il regime del sultano Erdogan. Subito dopo, in più di diecimila, le attiviste e gli attivisti delle reti di movimento «post-autonome» tedesche, la «Sinistra Intervenzionista» e «Ums Ganze», protagonisti della giornata dei blocchi di venerdì e, a seguire, i gruppi autonomi e anarchici di «Welcome to hell». PARTICOLARMENTE VIVACE, come da tradizione, il blocco dei tifosi del Sankt Pauli, il cui stadio è stato uno dei punti di riferimento per la preparazione nell’ultimo anno della protesta contro il vertice. Significativo lo spezzone dei movimenti dei migranti e delle associazioni di solidarietà, a partire da quelle impegnate anche nel Mediterraneo, come Sea Watch e Jugend Rettet, a marcare come la questione della libertà di movimento, dell’apertura dei confini e di un’accoglienza solidale e degna, sia tema decisivo di qualsiasi proposta politica globale. Poi arrivava l’arancione di Attac; le «tute bianche» dei movimenti contro i cambiamenti climatici e per una radicale conversione ecologica del sistema produttivo nella coalizione Ende Gelände; le bandiere rosse del partito die Linke; gli striscioni del sindacato Ver.di, dei metalmeccanici della Ig Metall e di alcune sezioni della stessa confederazione Dgb. Un arcobaleno di colori e di proposte di rottura con il modello rappresentato dai Venti Grandi e in sostanza difeso da un corteo, «Hamburg zeigt Haltung», convocato dai socialdemocratici e associazioni collaterali in nome di un generico «sostegno ai diritti umani», che avrebbe voluto controbilanciare le contestazioni, ma che ha raccolto circa 4mila partecipanti. DA SEGNALARE provocazioni della polizia: un attacco con gli idranti ai margini della piazza conclusiva e, soprattutto, diversi controlli, perquisizioni e fermi nei confronti di attivisti che venissero riconosciuti come «italiani, francesi o spagnoli». Inutili arroganze, a lavori del summit ampiamente conclusi, di cui ha fatto le spese anche l’europarlamentare della Lista Tsipras, Eleonora Forenza (poi rilasciata; mentre scriviamo altre persone sono ancora in stato di fermo). Ma al di là di questo, la riuscita della manifestazione della «Solidarietà senza confini» ha degnamente concluso una settimana di mobilitazione e lotta capace di mostrare, in modalità assai differenti fra loro, un campo ricco di proposte alternative all’esito, semplicemente disastroso, del vertice dei G20. Come tali conflitti e tali alternative siano capaci di connettersi, convergere e costruire forza comune, in modo da riequilibrare, se non rovesciare, i rapporti di potere dati, è questione strategica ancora tutta da affrontare. FONTE: Giuseppe Caccia, IL MANIFESTO

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Amburgo. I Block G20 fermano le «first ladies» https://www.micciacorta.it/2017/07/23502/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23502/#respond Sat, 08 Jul 2017 06:50:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23502 Le proteste. I Block G20 fermano le «first ladies»: Melania Trump bloccata in albergo. Disobbedienza civile e scontri

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L’annullamento di gran parte del programma di attività “turistiche” previste per le e i consorti dei Venti Grandi, con estremo disappunto di Melania Trump, potrebbe essere considerato, a ragione, la cifra simbolica e materiale della prima giornata del Vertice dei G20 ad Amburgo. Una lunghissima giornata, iniziata alle 6 del mattino, quando dai campeggi di Altona e di Entenwerder si sono mossi i diversi cortei delle “cinque dita” di BlockG20, l’azione simultanea di blocco degli accessi per “colorare la zona rossa”, promossa in particolare dalla rete della sinistra di movimento tedesca Interventionistische Linke con la partecipazione di molte delegazioni internazionali, dall’Italia e dalla Scandinavia sopra tutte. Due i concentramenti previsti per le 7, a sud di fronte al molo portuale storico del Landungsbrücke e a est alla Berliner Tor. Massiccio l’intervento della polizia, con ripetute cariche sia contro i cortei che si muovevano verso il centro cittadino, sia sui presidi autorizzati appena da qui ci si è messi in marcia verso gli accessi della “zona blu”, la più vasta area dove è scattato per 48 ore il divieto a riunirsi in gruppi di tre o più persone. In diverse situazioni gli “osservatori parlamentari” della Linke, tra cui Jan van Aken, deputato eletto proprio ad Amburgo e storico esponente dei movimenti antimilitaristi, sono dovuti intervenire per impedire che le forze dell’ordine utilizzassero la tecnica del Kessel, circondando e di fatto trattenendo all’interno di un quadrato di agenti consistenti gruppi di manifestanti. E, paradossalmente, gli attacchi nei confronti di quanti si stavano dirigendo in corteo per i blocchi hanno sortito un effetto opposto a quello desiderato. Almeno seimila attivisti si sono dispersi in piccoli gruppi, trovando di volta in volta quali fossero le forme più efficaci per disturbare, ritardare e, in alcuni casi, bloccare i convogli di limousine e mini-van neri che, sotto scorta, stavano lasciando gli alberghi di lusso della Città Antica per recarsi alla Fiera sede del vertice. Ad esempio un sit-in di duecento manifestanti sul ponte di Schwanenvik, a poche centinaia di metri dalla residenza della delegazione statunitense, ha provocato un ritardo di oltre mezz’ora per l’arrivo del presidente Trump all’incontro bilaterale col suo omologo russo Putin. Verso le 10 una delle “dita” delle azioni di “disobbedienza civile” è riuscita addirittura a spingersi, nonostante ripetute cariche con pesante utilizzo di spray irritante, all’interno della “zona rossa”, scatenando il panico nell’apparato di sicurezza. Contemporaneamente quasi mille persone prendevano parte, nella zona portuale a sud del fiume Elba, al “blocco della logistica” convocato per iniziativa della rete militante Ums Ganze!, con l’intenzione di utilizzare il palcoscenico offerto dal vertice per mostrare nella pratica la centralità dello sfruttamento del lavoro precario in questo settore, all’interno dell’attuale modello di accumulazione capitalistica. Intorno alle 11 dal piazzale antistante la Stazione ferroviaria centrale si è posso un vivace corteo composto da più di duemila studenti medi, nonostante il Senato di Amburgo, guidato dal sindaco socialdemocratico Olaf Scholz – ironicamente ribattezzato “King Olaf” per le modalità autoritarie esibite nella gestione dell’evento G20 – avesse da settimane pubblicamente minacciato di ritorsioni disciplinari gli allievi che avessero oggi scioperato. Un’ulteriore testimonianza del fatto che la contestazione contro il “summit dei Potenti” sia, al di là della campagna mediatica mainstream sui “professionisti della violenza venuti da fuori”, innnazitutto e profondamente radicata nel tessuto sociale della città anseatica. Nel frattempo, all’aeroporto di Fuhlsbüttel si risolveva positivamente il caso degli attivisti bolognesi dei centri sociali TPO e Làbas minacciati di espulsione: dopo ventiquattro ore trascorse nella “terra di nessuno” dei terminal, e grazie all’intervento del Supporto Legale NoG20 e alle pressioni congiunte dei parlamentari della Linke e di Sinistra Italiana e di quelli europei del GUE, la Corte di giustizia di Amburgo ha deciso che non vi era alcun elemento che giustificasse il loro allontanamento forzato. Un precedente importante visto il crescente utilizzo, in tutta Europa, di simili arbitrarie “misure preventive”. L’impatto delle proteste, fino a determinare una sorta di “ingovernabilità dello spazio urbano” per un pur sovradimensionato apparato di sicurezza è stato infine confermato dalla “seconda ondata” del pomeriggio: ne sono stati protagonisti almeno quindicimila giovani di Amburgo che si sono, in modo quasi sempre spontaneo, uniti agli attivisti organizzati. Una nuova generazione che ha dato vita a diffusi momenti di contestazione, molto diversi dalle forme di protesta conosciute quindici anni fa dal movimento “no-global”: blocchi stradali un po’ dappertutto nei quartieri che circondano la “zona rossa”, la pratica di un vero e proprio “sciopero metropolitano” in continui piccoli momenti di scontro con la polizia che, da parte sua, non ha lesinato cariche violente e frequente utilizzo del getto degli idranti. Ma “l’uso della violenza da parte della polizia – commenta Thomas Seibert, filosofo ed esponente dell’ISM e di DiEM25, nel bel mezzo delle barricate – è solo metà della storia: qui oggi si è vista una nuova ed eccezionale capacità di resistenza sociale. La situazione per tutti noi, in Germania come in Europa, è di nuovo aperta”. FONTE: Beppe Caccia, IL MANIFESTO

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«Welcome to hell», cariche e scontri pre G20 di Amburgo https://www.micciacorta.it/2017/07/23496/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23496/#respond Fri, 07 Jul 2017 06:25:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23496 Almeno 25mila i partecipanti: non solo anarchici ma giovani da tutta Europa. La marcia era autorizzata, attaccata con idranti

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Aspettando il vertice. Oggi giornata di disobbedienza civile. Un gruppo di attivisti bolognesi dei centri sociali Tpo e Làbas è stato fermato e verrà espulso È stata una lunga nottata, quella appena trascorsa da Amburgo, nel quartiere di Sankt Pauli. Una notte di scontri per le strade, dopo che la polizia tedesca ha attaccato a freddo la manifestazione di «Welcome to Hell», coalizione principalmente composta da gruppi autonomi e anarchici. LA TENSIONE è esplosa intorno alle 20 di ieri sera quando il corteo, peraltro autorizzato, ha iniziato a muoversi dal Fishmarkt lungo l’Elba. Superiore alle previsioni il numero dei partecipanti: non solo perché i circostanti quartieri vantano una lunga tradizione di lotte contro la speculazione immobiliare e la «gentrificazione», a partire dalle occupazioni di case della Hafenstrasse degli anni ’80 e ’90, e un profondo radicamento sociale della sinistra, istituzionale e non. Ma anche perché alla marcia di «Welcome to Hell» si sono uniti molti altri manifestanti, da Amburgo, dalla Germania, e anche giovani provenienti da tutta Europa, determinati a garantire il diritto a manifestare contro il G20. Erano oltre venticinquemila le persone in strada quando, dopo 500 metri di percorso, un impressionante schieramento di reparti speciali, agli ordini del ministro degli Interni anseatico Dudde, ha bloccato il corteo. IL PRETESTO dell’«escalation» è stata la presenza di circa duemila persone col volto coperto, ma che stavano finora manifestando pacificamente. A questo punto hanno fatto la loro comparsa sette camion-indranti di ultima generazione e sono partite ai lati del corteo ripetute, violente cariche. La risposta dei manifestanti non si è fatta attendere: in molti si sono difesi lanciando bottiglie e sassi. Diversi gruppi si sono dispersi nelle vie circostanti, mentre altre migliaia hanno provato a sfilare in diversi cortei, in un continuo mordi-e-fuggi con la polizia e i suoi mezzi, anche corazzati. L’esito di ieri sera era del resto prevedibile, visto il tentativo di sgomberare i campeggi allestiti nei parchi cittadini e l’atteggiamento aggressivo tenuto dalle forze dell’ordine negli ultimi giorni. A fare le spese di quella che la parlamentare della Linke Sabine Leidig ha definito una «militarizzazione mai vista e una inaccettabile restrizione dei diritti costituzionali», è stato nel pomeriggio anche un gruppo di attivisti bolognesi dei centri sociali Tpo e Làbas. Al momento del controllo dei passaporti, allo sbarco dall’aereo, sette di loro sono stati fermati e trattenuti, in attesa di essere espulsi e rispediti in Italia. La motivazione ufficiale è che due di essi, incensurati, risultano segnalati come «manifestanti potenzialmente violenti». «Sarebbe gravissimo – commenta il deputato di Si Erasmo Palazzotto, intervenuto sulla Farnesina – se fosse confermata l’esistenza di una «lista nera» di persone politicamente attive, cui viene preventivamente negata la libertà di movimento in Europa. Non è certo questo il continente dei diritti che vogliamo costruire». Queste le premesse di un’altra giornata, oggi con l’apertura ufficiale dei lavori del vertice G20, che si annuncia difficile. Sono infatti convocate alle 7 del mattino le prime azioni di «disobbedienza civile», con due distinti blocchi ai principali accessi della «zona blu», oltre 38 km quadrati intorno alla Fiera dove si incontreranno i Venti Grandi e le 8mila persone di contorno tra staff e giornalisti. L’OBIETTIVO è intralciare e ritardare l’arrivo delle delegazioni e boicottarne così praticamente gli incontri. E, contemporaneamente, si tenterà anche il blocco degli ingressi del porto per contestare le condizioni di «sfruttamento nel capitalismo della logistica». Alle 10.30 manifesteranno poi gli studenti delle scuole superiori (in sciopero dal momento che qui non sono ancora iniziate le vacanze estive). IL RESPIRO PLANETARIO delle alternative proposte da movimenti sociali, organizzazioni non governative, sindacati e forze politiche progressiste di tutto il mondo è stato invece offerto dal «Summit per la solidarietà globale», che ha concluso proprio ieri sera i suoi lavori al Kampnagel con duemila partecipanti ad un incontro pubblico dedicato alle «nuove strategie contro il neoliberismo e l’estrema destra», dove sono intervenuti Srecko Horvat per DiEM25, il sindacalista della IG-Metall Hans-Jürgen Urban, l’intellettuale indiana Jayati Ghosh, Renata Avila della World Wide Web Foundation e il direttore della Fondazione «Rosa Luxemburg» Mario Candeias. Alternative diffuse capillarmente e praticate quotidianamente, che già definiscono un’altra società e un’altra politica possibile, di fronte al «caos della governance globale», mostrato dalle estenuanti e inconcludenti trattative che, tra le diplomazie, stanno precedendo l’inizio del summit ufficiale, e che stanno trovando una plastica rappresentazione nelle strade di Amburgo. FONTE: Giuseppe Caccia, IL MANIFESTO

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Amburgo, città blindata. Spesi 50 milioni per la sicurezza https://www.micciacorta.it/2017/07/23494/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23494/#respond Thu, 06 Jul 2017 08:52:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23494 G20 . Polizia, elicotteri, giudici, tutti mobilitati in attesa della mobilitazione di sabato. Attese oltre 100 mila persone

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BERLINO. Spunta da un’interrogazione al Bundstag la stratosferica spesa del governo Merkel per garantire la sicurezza del G20 di Amburgo. Oltre 50 milioni di euro per trasformare la città anseatica in una fortezza a prova di terrorismo e, soprattutto, di protesta di massa. Ben 32 serviranno a dispiegare l’esercito di 15 mila agenti nella zona rossa che circonda l’area del summit. Un budget colossale, da sommare al conto complessivo della «vetrina» dei paesi industrializzati che nelle previsioni ufficiali sfiora ormai quota 185 milioni. Tutto stanziato per «il più grande schieramento delle forze dell’ordine nella storia di Amburgo» conferma il capo della polizia Ralf Martin Meyer. Senza contare la lista dei costi «accessori» al G20: dalla congestione del traffico causata dalle prove di blocco di 13 strade da parte della polizia, ai mezzi pubblici dirottati lontano dalla fiera, fino al sold-out degli alberghi adibiti a caserme provvisorie. Numeri incontrovertibili e certificati. A fine giugno il ministro dell’interno Thomas de Maizière interpellato in Parlamento dai Verdi (che ad Amburgo governano in coalizione con l’Spd) è stato costretto a rispondere con le cifre ufficiali. Quasi 21 milioni di euro per rendere operativa la Bundespolizei, compresa la sistemazione del personale; solo l’assistenza tecnico-logistica impone l’esborso di 1,6 milioni. Totale: oltre 50 milioni per far funzionare la sicurezza formato federale già sperimentata proprio ad Amburgo con la riunione Osce nel 2016. Come allora, due terzi dei poliziotti sono stati sottratti all’organico di altri Land e concentrati ad Amburgo, tra cui 3.800 agenti necessari alla sorveglianza dei luoghi nevralgici. Il Bka, ufficio criminale federale, mette a disposizione 1.100 funzionari mentre si prevede il pronto impiego di circa 140 giudici incaricati di incriminare in tempo «reale» gli autori di reato. Tutto condito da misure integrative come l’utilizzo di elicotteri, reparti a cavallo, mezzi-idrante e droni con telecamera. Nella risposta all’interpellanza dei Grünen il governo dettaglia anche l’eccezionale spesa per il trasporto degli agenti precettati: 8,8 milioni più altri 2 per movimentare il personale «supplementare». «Un’autentica provocazione» secondo la rete alternativa che in Germania si prepara al dissenso con piani non meno solidi e organizzati: dallo Zug20, il treno speciale Basilea-Amburgo, al Global solidarity summit, dalla Colorful critical mass alla maxi-manifestazione di sabato 8 dove parteciperanno oltre 100 mila persone. «Tra loro ci aspettiamo circa 8.000 dimostranti violenti» è il calcolo spannometrico della polizia di Amburgo, che prova così a giustificare la maxi-blindatura della città. A partire dalla libertà di movimento, garantita ma solo ai 6.500 membri delle 35 delegazioni accreditate al G20. Da oggi e fino al 9 l’area della fiera sarà accessibile solo via metropolitana. Ma è «occupazione» anche delle rive dell’Elba: molti hotel affacciati sul fiume sono stati prenotati per alloggiare gli agenti che non trovano più posto nelle gendarmerie. Non senza problemi di ordine pubblico. Fa notizia lo scandaloso comportamento di 210 poliziotti berlinesi immortalati dalle telecamere di videosorveglianza a compiere atti osceni nell’ex centro profughi di Bad Segeberg (Schleswig-Holstein) che li ospitava. Annoiati dal tempo libero, il 27 giugno gli agenti sono stati “beccati” a festeggiare il mancato impiego a suon di birra, devastazione dei locali e rapporti sessuali. Dopo aver urinato in pubblico e ballato in accappatoio brandendo le armi di servizio. «Condotta vergognosa e danno di immagine assai preoccupante» taglia corto Thomas Neuendorf, portavoce della polizia di Berlino. Tutti i poliziotti coinvolti nel “party” fuori-ordinanza sono stati rispediti nella capitale nel tentativo di chiudere un caso che imbarazza l’interno governo. Ma nonostante l’indignazione istituzionale nessuno di loro subirà sanzioni disciplinari. FONTE: Sebastiano Canetta, IL MANIFESTO  

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Si protesta contro «il disordine planetario» liberista al G20 di Amburgo https://www.micciacorta.it/2017/07/23483/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23483/#respond Tue, 04 Jul 2017 07:17:54 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23483 Amburgo. «Noi siamo già l’altro mondo». Contestazione ai grandi per «miseria, devastazione ambientale e guerra»

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È iniziata domenica nel peggiore dei modi la cruciale settimana di iniziative che circonderanno il vertice dei Venti Grandi, in programma ad Amburgo venerdì 7 e sabato 8 luglio. Dopo la riuscita manifestazione della «Protestwelle» con circa 25.000 partecipanti per le strade e in barca nelle acque del porto, convocati, tra le altre, da Greenpace, Campact, Nabu e Oxfam, 5.000 manifestanti si sono dati appuntamento davanti al Municipio per difendere la libertà di campeggiare. LA RISPOSTA DELLA POLIZIA non si è fatta attendere: verso le 22.30 le unità speciali hanno circondato e sgomberato il Campeggio Anticapitalista, appena insediato nel parco di Entenwerder, provocando diversi feriti e operando alcuni fermi. «Difendono l’indifendibile». Così commenta il gruppo di lavoro, che sta coordinando la partecipazione internazionale alle proteste di Amburgo. IL G20 fotograferà il tempo del «disordine globale» a quasi dieci anni dall’inizio della grande crisi finanziaria. E a quel tavolo si confronteranno almeno due distinte opzioni politiche. Una vera e propria «parata di mostri», caratterizzata dalle figure che, nel tentativo di capitalizzare il malessere sociale prodotto dalla crisi, stanno combinando il ritorno a nazionalismo politico, isolazionismo economico e autoritarismo di governo con una forte connotazione estrattivista. Con i vari Trump e Putin, Erdogan e Temer, Modi e Macri (per non parlare dei petrolsovrani sauditi) si confronteranno quanti stanno provando, da Merkel a Macron, da Xi a Trudeau (fino ai paesi più marginali, Italia inclusa) a rilanciare il business as usual dell’accumulazione flessibile, governata dall’esercizio di un multipolare soft power planetario. Né gli uni né gli altri intendono però mettere in discussione i fondamentali pilastri su cui si regge il modello neoliberista degli ultimi quattro decenni. SE È CHIARO che i processi di globalizzazione produttiva ed economica non sono reversibili, uno dei punti di forza, e al tempo stesso di permanente instabilità, dell’attuale sistema capitalistico risiede proprio nell’attitudine a giocare tutti gli elementi di eterogenità sociale, culturale, territoriale come altrettanti fattori di divisione, sfruttamento e valorizzazione differenziale, in un contesto attraversato da flussi finanziari che sono invece dematerializzati e deterritorializzati. Gli uni e gli altri saranno l’obiettivo delle mobilitazioni, che al vecchio slogan no-global «un altro mondo è possibile» fa seguire la perentoria affermazione «noi siamo già l’altro mondo». E che contesta un presente fatto di «miseria, devastazione ambientale e guerra» di cui i G20 sono, pur nelle loro diverse opzioni, tra i corresponsabili. Ad Amburgo convergeranno attiviste e attivisti dei movimenti sociali, di organizzazioni non governative e della cooperazione, di parte del sindacato, dei partiti della Sinistra, in un ampio spettro che va dalle Chiese protestanti ai gruppi autonomi, mostrando come stia nell’irruzione dei movimenti la pratica di alternative al «disordine planetario» rappresentato dai G20. Le diverse ondate globali che, negli ultimi mesi, hanno visto come protagoniste, di volta in volta, le donne e la forza del «non una di meno», i migranti e la solidarietà delle Welcome initiatives, il lavoro precario sfruttato dalle piattaforme logistiche e le sue nuove forme di sciopero, le mille lotte locali contro progetti che mettono a rischio l’ecosistema, le esperienze di conflitto per il diritto alla città che talvolta divengono governi municipali di cambiamento: tutto questo irromperà sulla scena di una metropoli che, di per sé, vanta una lunga e solida tradizione di lotte sociali. Immaginabile la militarizzazione allestita : 19mila agenti mobilitati, i controlli alle frontiere ripristinati e una estesa zona «rossa e blu» dove sarà negato il diritto a manifestare. In questo scenario da domani iniziano i due giorni di dibattito del «Summit per la solidarietà globale». Venerdì i blocchi della «disobbedienza civile» intorno al porto e al centro città. E sabato la grande manifestazione conclusiva. Nel tentativo che le giornate contro il G20 non restino un singolo evento, una isolata «fiammata» di mobilitazione. FONTE: Beppe Caccia, IL MANIFESTO

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Genova 2001. Avevamo ragione noi https://www.micciacorta.it/2017/06/23468/ https://www.micciacorta.it/2017/06/23468/#respond Thu, 29 Jun 2017 07:51:16 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23468 Storie. Del G8 del 2001 non abbiamo il romanzo finale perché quelle giornate non sono mai terminate. La vita di Fabrizio Ferrazzi diventa così una testimonianza di quelle ferite indelebili

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Perché non abbiamo ancora il romanzo definitivo sui fatti di Genova 2001, mi domandavo. Perché Genova 2001 non è ancora terminata, ho dovuto rispondermi, perché viviamo dentro al racconto della prevaricazione che è norma nella postdemocrazia. Ebbene, quando potremo inifine mettere nero su bianco quel romanzo definitivo, lo metteremo in prima persona, e terremo addosso quella prima persona, diventeremo quella prima persona. È stato un articolo di Lorenzo Carletti sul manifesto del 20 luglio 2013 a indicarci quella prima persona in Fabrizio Ferrazzi. FABRIZIO FERRAZZI, 51 anni, arriva a Genova venerdì 20 luglio 2001. Residente a La Spezia, laureato in filosofia all’università di Pisa, è un docente prestato alla campagna e abita nell’azienda agricola di famiglia, dove trova il tempo per la sua grande passione, la storia e la letteratura della Polonia. Fin dall’iniziale viaggio a Cracovia, nei primi anni ottanta, quel paese sfortunato è diventato sua patria elettiva. Erano i giorni in cui Solidarnosc faceva breccia e trovava aiuto nel Comitato di difesa degli operai. Grazie al richiamo identitario della cultura cattolica nel 1983 Fabrizio partecipa ai primi volantinaggi e alle imponenti manifestazione in occasione della visita di Papa Wojtyla. E, nel nostro romanzo, incontra i versi del poeta e drammaturgo romantico Adam Bernard Mickiewicz (1798-1855): Le mie lacrime, autentiche, profonde, discesero sulla mia infanzia idillica ed eterea, sulla frivola e immodesta giovinezza, sulla mia età d’uomo, età di sconfitte. Le mie lacrime, autentiche, profonde, discesero. I versi di Mickiewicz conquistano Fabrizio a tal punto da identificarsi col poeta nel racconto del proprio arresto avvenuto a Genova in quel venerdì 20 luglio 2001. È andata così. Fabrizio aveva partecipato in piazza Paolo da Novi al presidio pacifico organizzato da Beati i costruttori di pace e investito dalle prime cariche delle forze dell’ordine, aveva incontrato una donna, in tutta evidenza una infervorata religiosa, la quale, tra lacrimogeni della polizia e pietre degli anarchici, ripeteva Dio non vuole tutto questo. Fabrizio le era andato incontro con in mano un grande libro con cui aveva tentato di difendersi dalle manganellate delle forze dell’ordine. BRACCATO E CARICATO sul cellulare, aveva reagito cantando la Marsigliese, il canto dei rivoluzionari francesi inviso nella Polonia di Jaruzelski come nell’Italia di Mussolini. Il furgone dei carabinieri aveva fatto tappa alla caserma Fiera del Levante dove Fabrizio era rimasto dalle due del pomeriggio alle nove di sera, in piedi, il sangue rappreso in volto, in compagnia di una ventina di fermati picchiati con calci e manganello e insultati dagli uomini del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia penitenziaria. In seguito furono accusati di avere massacrato detenuti inermi, nudi e ammanettati, sferrando calci in bocca, menando pugni con guanti imbottiti e urinando addosso a persone distese a terra. Ma non basta. L’ORRORE era continuato con le torture nella caserma di Bolzaneto dove i fermati erano stati trasferiti verso le nove di quella sera, con l’elenco delle lesioni riscontrate dal medico legale: costole fratturate, traumi al cranio, lacerazioni, ecchimosi, tumefazioni. Ciascun detenuto condotto con la forza fino al corridoio e poi nell’ufficio matricola. Un percorso che prevedeva l’attraversamento della rotonda dove i malcapitati erano trascinati per i capelli e percossi da agenti vestiti in tuta mimetica con anfibi con cui infierivano anche su chi cadeva per terra. Nel pomeriggio di sabato Fabrizio era stato trasferito nel carcere di Alessandria da cui era stato rilasciato lunedì. SE NEGLI ANNI Fabrizio aveva imparato a tollerare la tachicardia o l’ansia improvvisa in forma di panico, eredità di quelle trenta ore di sequestro, ancora non tollerava la mancata giustizia. Familiari e amici avevamo appreso dei fatti dai giornali e dagli atti del tribunale, perché Fabrizio non entrava mai in argomento e, quando sollecitato, preferiva cambiare discorso. Preferiva, con continue digressioni, parlare di Adam Mickiewicz, indugiare in citazioni in polacco, in russo, dire dell’importanza del poema Konrad Wallenrod, o di Dziady, opera teatrale nella quale sono descritte le sofferenze terrene, il martirio della Polonia, comparata alla passione del Cristo, e, nell’ultima parte, il fantasma di un suicida, consumato dalla passione che lo ha portato alla morte. È NEI MOMENTI di maggiore dolore, nei lunghi mesi di ricovero ospedaliero necessari a curare le ferite riportate a Genova, che Ferrazzi affida il proprio racconto ai testi di Mickiewicz e in quel racconto la caserma di Bolzaneto diventa la prigione che fa da sfondo a quei poemi, il mattatoio dove gli invasori russi torturano i prigionieri polacchi. E racconta il Ferrazzi del nostro romanzo, racconta di ragazzi condannati, in manette, il marchio della tortura sui volti, la disillusione per non essere riuscito a far comprendere la gravità di quanto accaduto, la mancata collettivizzazione del dramma, il timore che il sacrificio non sia servito a intaccare l’avanzata di un potere antidemocratico. E racconta del risveglio che a cominciare da quei mesi del 2001 ne fa un attivista quasi a tempo pieno. RACCONTA, nel romanzo, di Genova vissuta non come un fatto personale ma come un evento che rivela profonde verità a conferma che le brutalità e il differimento dei diritti costituzionali del 2001 non furono un caso ma parte della degenerazione antidemocratica. Non crede al ruolo di vittima il Ferrazzi del nostro romanzo, crede al ruolo di testimone, ruolo che ha esercitato da cattolico militante. È difficile negare, arriva a dire il Ferrazzi del romanzo, che nei giorni di Genova fossimo noi manifestanti a essere dalla parte della ragione e che fummo picchiati, torturati, uccisi. Fabrizio, malato prima di Genova, era stato operato all’intestino e le torture di Genova lasciano una traccia indelebile. GLI INTERVENTI CHIRURGICI si succedono uno all’altro e lui continua con fatica a studiare, a scrivere, a tradurre. Denuncia i torturatori presentandosi alle prima udienze del processo, milita nel movimento contro la guerra in Afghanistan. Ma le sue condizioni degenerano. È ormai un fantasma, mangiato nel corpo e nell’anima, quando, nel dicembre 2011, decide di farla finita, consumato dalla passione come il protagonista dell’opera di Mickiewicz. Genova rappresenta un momento di passaggio. Esiste un tempo «prima Genova», punto di arrivo di quel movimento etichettato come «no-global» che si è rivelato il più convinto nel chiedere una globalizzazione dei diritti e nel denunciare i rischi che il modello neoliberista determinava. Ed esiste un tempo «dopo Genova» nel quale quegli stessi rischi si sono puntualmente concretizzati nella crisi che viviamo. IL CROLLO FINANZIARIO del 2008, la rabbia delle classi subalterne e il fallimento della sinistra riformista che non ha saputo raccogliere gli appelli del movimento, e ha lasciato che i temi su cui era nato – la critica al capitalismo e alle crescenti diseguaglianze– diventassero nutrimento dei populismi, danno ragione ai manifestanti di Genova. Perché interpretate a quindici anni di distanza, le ragioni di preoccupazione per il futuro formulate dal movimento non sono diverse da quelle attuali: neoliberismo sfrenato, dominio della finanza sull’economia, impoverimento delle classi medie, insostenibilità delle politiche fondate sul debito, polarizzazione della distribuzione delle ricchezze, riscaldamento globale, aumento del potere del privato sul pubblico, delle multinazionali sugli stati, diffusione endemica di xenofobia e razzismo per non dire delle «guerre giuste» che tali non furono e che hanno creato lo spazio fisico per il terrorismo islamista. Il nuovo bipolarismo nei paesi avanzati non è più tra destra e sinistra, ma tra aperto e chiuso. È questo il risultato dell’incauto trattamento riservato ai manifestanti di Genova e a tutti gli antagonisti della dittatura finanziaria. Ecco perché non abbiamo ancora il romanzo definitivo sui fatti di Genova 2001. Perché Genova 2001 non è ancora terminata. FONTE: Stefano Valenti, IL MANIFESTO

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Meeting a Parigi per un programma antiliberista https://www.micciacorta.it/2016/10/22566/ https://www.micciacorta.it/2016/10/22566/#comments Tue, 18 Oct 2016 07:50:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22566 Precarie, migranti e operai, collettivi e sindacati da molti paesi d’Europa parteciperanno dal 21 al 23 ottobre al meeting organizzato dalla Transnational Social Strike Platform a Parigi

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Precarie, migranti e operai, collettivi e sindacati da molti paesi d’Europa parteciperanno dal 21 al 23 ottobre al meeting organizzato dalla Transnational Social Strike Platform a Parigi. Saranno presenti molti dei protagonisti dello sciopero sociale contro la loi travail e il suo «mondo» che ha investito la Francia nei mesi scorsi: da Sud Solidaire alle commissioni di Nuit Debout al coordinamento degli intermittenti e precari dello spettacolo. Una composizione variegata è attesa anche dal resto d’Europa: dalla Polonia al Portogallo, dalla Gran Bretagna alla Slovenia, dalla Svezia alla Bulgaria. Continua la sfida lanciata a Poznan lo scorso anno al primo Tss meeting: fare dell’Europa il terreno dell’iniziativa politica a partire dal riconoscimento che la realtà in cui viviamo è segnata da dinamiche europee, lasciando da parte l’esercizio di dichiararsi pro o contro l’Europa. E farlo assumendo l’Est europeo come parte integrante e centrale dell’iniziativa politica. La serata di apertura del venerdì sarà dedicata alla cornice generale del meeting: come andare «dalla Francia all’Europa» per costruire lo sciopero sociale transnazionale. L’approvazione della loi travail, la crescente tensione sociale e politica che attraversa la Francia e l’Europa, il carattere europeo delle riforme neoliberali ci pongono ora il problema di come trasformare il movimento francese in una possibilità transnazionale. Un incontro tra lavoratori di Amazon da Germania, Francia e Polonia si terrà a ridosso del meeting e porterà i suoi risultati nel workshop sulla logistica che avrà luogo il sabato mattina, insieme quelli sui nodi che la piattaforma riconosce come centrali: il lavoro migrante e di cura, le strategie europee di precarizzazione e lo sciopero sociale come pratica unitaria per i movimenti. L’assemblea generale del pomeriggio sarà poi dedicata ad affinare i punti comuni di programma. SEGUI SUL MANIFESTO

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Il debito illegittimo https://www.micciacorta.it/2016/07/il-debito-illegittimo/ https://www.micciacorta.it/2016/07/il-debito-illegittimo/#respond Tue, 19 Jul 2016 08:29:50 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22261 2001-2016. Nel 15esimo anniversario del G8 di Genova, oggi nel capoluogo ligure una giornata di confronto tra laici e cattolici sui tempi che spinsero il grande movimento contro la globalizzazione a scendere in piazza

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Oggi per l’intera giornata a Genova, nelle sale di Palazzo Ducale, nei medesimi luoghi in cui si tenne il G8 nel luglio di 15 anni fa, ci sarà un convegno organizzato dalla Fondazione del Ducale stesso e dal Cadtm, una struttura internazionale che da poco ha significativamente modificato la propria denominazione da Comitato per l’abolizione dei debiti del terzo mondo a Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi. Il Cadtm in questi anni, oltre a promuovere una visione differente sui debiti sovrani e sul loro frequente carattere illegittimo, ha partecipato direttamente alle indagini conoscitive dei debiti di Equador e Grecia. Il convegno, dal titolo «Un Giubileo del debito?», è frutto di una crescente collaborazione di differenti soggetti collettivi e individuali che da anni dedicano attenzione al ruolo dei debiti nell’economia contemporanea. Un incontro di laici e cristiani, un incontro tra esperti del debito, come il belga Eric Toussaint e i monsignori Tommaso Valentinetti e Giovanni Ricchiuti, rispettivamente arcivescovo di Pescara e presidente di Pax Christi. Tutti accomunati dalla volontà di riflettere e ridiscutere ruolo e funzione di un’economia sempre più fondata sulla finanziarizzazione. Dalle contestazioni del G8, in cui una delle parole d’ordine era la cancellazione del debito dei paesi poveri, molte cose sono cambiate, ma molte semplicemente si sono acuite sul medesimo solco. Negli ultimi 15 anni abbiamo scoperto come il debito non sia solo un’arma della finanza globale puntata unicamente sui paesi periferici, ma anche un motore di una crescita finanziaria a livello globale. Un espediente per allontanare gli spettri di una crisi dovuta all’assenza di una effettiva crescita economica. Nel corso di questi anni i debiti sovrani, dopo aver assorbito le perdite private, si sono rivelati insostenibili anche nei paesi occidentali. Lo scorso anno il drammatico caso greco ha svelato come un debito, seppur modesto per entità, possa diventare uno strumento di dominio politico, ancor prima che economico, uno strumento per imporre regole per tutti, per piccoli come per grandi paesi. Il caso ellenico rappresenta una sorta di fallimentare laboratorio dell’austerità intesa come rimedio della crisi. Negli anni Novanta c’erano paesi africani in cui la spesa sociale costituiva un quarto delle spese per interessi sul debito, oggi il riaffacciarsi in Grecia della malnutrizione e della mortalità infantile, cioè nella vecchia e ricca Europa, rappresenta il passaggio di testimone. In questi anni, però, progressivamente si è compreso come il debito sia strumento di dominio e al contempo un viatico per imporre politiche economiche fondate su ulteriori sperequazioni sociali. Nel mondo sono emersi movimenti e organizzazioni che hanno posto l’attenzione su tali dinamiche, finendo per imporre indagini istituzionali e popolari sui bilanci pubblici nazionali e locali e fornendo quindi una radiografia dei debitori e dei creditori, di come erano stati spesi i soldi in nome della sovranità e i soggetti che da tali spese avevano tratto vantaggio. Anche in Italia, a piccoli passi, è andata diffondendosi questa consapevolezza sul piano generale e non solo. In diversi territori sono state realizzate indagini indipendenti sui bilanci delle amministrazioni locali, da Parma fino al più recente rapporto sul Comune di Roma. Anche le ultime campagne elettorali non hanno potuto evitare di riflettere sul ruolo dei debiti, sull’impossibilità di qualsiasi politica pubblica senza una rimessa in discussione degli stessi, frutto nel peggiore dei casi di malaffare e nel migliore di tagli continui da parte dello Stato centrale. Insomma sul tema qualcosa si muove. Nella prossima fase occorrerà sfidare amministrazioni nazionali e locali su tale tema, nella consapevolezza che esso costituisce nella sua rigidità una sorta di architrave di qualsiasi politica dominante e nella sua rimessa in discussione l’unica strada per ipotizzare percorsi realmente alternativi, di apertura al cambiamento e all’innovazione. Su questi temi il convegno proverà a misurarsi e a rilanciare per creare le condizioni per una vera e propria campagna contro i debiti illegittimi e le conseguenti politiche fondate sull’austerità. SEGUI SUL MANIFESTO

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