Amnesty International – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 04 Nov 2020 09:38:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 G8. Promossi due poliziotti condannati per la «macelleria messicana» alla Diaz https://www.micciacorta.it/2020/11/g8-promossi-due-poliziotti-condannati-per-la-macelleria-messicana-alla-diaz/ https://www.micciacorta.it/2020/11/g8-promossi-due-poliziotti-condannati-per-la-macelleria-messicana-alla-diaz/#respond Wed, 04 Nov 2020 09:38:49 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26260 La denuncia di Amnesty. Pietro Troiani e Salvatore Gava sono stati recentemente nominati vicequestori dalla ministra Lamorgese e dal capo della polizia Gabrielli

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Due funzionari di polizia condannati per fatti relativi al G8 di Genova del 2001 sono stati recentemente promossi a vicequestori. La notizia, fatta circolare lunedì da Amnesty International, ha immediatamente sollevato polemiche politiche. Pietro Troiani e Salvatore Gava parteciparono all’irruzione nella scuola Diaz la sera del 21 luglio. Il primo introdusse due molotov nell’edificio e il secondo ne accertò il «ritrovamento». Per questo furono condannati a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il 28 ottobre scorso la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della polizia Franco Gabrielli li hanno promossi entrambi a vicequestori. I fatti della Diaz sono ricordati come la «macelleria messicana». L’espressione fu utilizzata nel 2007 in un’aula di tribunale da Michelangelo Fournier, che partecipò all’irruzione come vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma. Quella notte nell’edificio dormivano manifestanti legati al Genoa Social Forum. L’operazione portò all’arresto di 93 persone. Di queste 63 finirono in ospedale. Tra loro c’era anche il giornalista inglese Mark Covell, che ci arrivò in coma. Il «ritrovamento» delle molotov servì a giustificare l’intervento, che si configurò come una vera e propria mattanza. Per quella vicenda la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia in due diverse occasioni, nel 2015 e 2017, stabilendo che le forze dell’ordine avevano commesso veri e propri atti di tortura. Il regista Daniele Vicari ha ricostruito l’episodio nel film-denuncia «Don’t Clean Up This Blood» (2012). «Desta sconcerto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi», ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. La decisione ha provocato reazioni tra gli esponenti di diversi partiti politici. «Lamorgese e Gabrielli revochino la promozione – ha detto il senatore del Movimento 5 Stelle Gianluca Ferrara – Chi è stato condannato per reati così gravi dovrebbe essere radiato». Di «insulto allo stato di diritto e alle tante persone che hanno subito la brutale violenza poliziesca» ha parlato Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, partito che prese parte alle proteste. «Questa incomprensibile promozione non può che minare la fiducia già precaria verso lo Stato», hanno scritto in una nota Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, dei Radicali italiani. Per il parlamentare di Liberi e Uguali Erasmo Palazzotto: «È grave che siano concesse promozioni e avanzamenti a membri delle forze dell’ordine già condannati per violazione dei diritti umani. Serve introdurre i codici identificativi per le forze dell’ordine». L’esponente di LeU presenterà un’interrogazione parlamentare alla ministra Lamorgese * Fonte: Giansandro Merli, il manifesto

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G20 di Amburgo. Inizia il processo a Vettorel, l’unico ancora in carcere https://www.micciacorta.it/2017/11/23867/ https://www.micciacorta.it/2017/11/23867/#respond Tue, 07 Nov 2017 08:47:49 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23867 Sul caso dello studente di Feltre è intervenuta anche Amnesty International

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Sul caso dello studente di Feltre è intervenuta anche Amnesty International che ha severamente criticato, come contrario alle stesse raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’uso della detenzione preventiva AMBURGO. Entra questa mattina nel vivo, nell’aula dell’Amtsgericht di Altona, il processo a Fabio Vettorel, proprio nel giorno in cui si compie il quarto mese di carcerazione per il diciannovenne studente di Feltre (Belluno). Fabio rimane l’unico italiano ancora detenuto ad Amburgo per la partecipazione alle giornate di protesta del luglio scorso contro il vertice del G20. La sua condizione è tanto più paradossale, considerato il fatto che si tratta del più giovane tra gli attivisti arrestati in quell’occasione, addirittura giudicato come «minorenne» secondo il diritto penale tedesco. Lo studente è imputato di reati di modesta entità, quali il «disturbo alla quiete pubblica», il «tentativo di causare danni mediante mezzi pericolosi» (lancio di oggetti) e la «resistenza a pubblico ufficiale». Maggiorenni con simili imputazioni sono stati condannati con la condizionale e subito rilasciati. Da questo punto di vista la sua detenzione preventiva ha assunto il carattere di una vendetta punitiva e, per molti aspetti, di un trattamento discriminatorio. Il processo, dopo un primo tentativo di ricusare il magistrato giudicante che già aveva negato il rilascio di Vettorel, inizierà oggi con la testimonianza di sei poliziotti presenti al suo arresto. Secondo la sua avvocata, Gabriele Heinecke, finora le autorità tedesche non sono riuscite a produrre alcuna prova specifica sul coinvolgimento del giovane nelle «azioni criminali» di cui è accusato. Fabio starebbe pagando la semplice presenza a Rondenbarg, là dove la polizia ha caricato senza giustificazione un gruppo di manifestanti che si stava dirigendo ai blocchi intorno alla «zona rossa» del Summit. Sul caso è intervenuta anche Amnesty International che ha severamente criticato, come contrario alle stesse raccomandazioni del Consiglio d’Europa, l’uso della detenzione preventiva, ritenuta «non strettamente necessaria» di fronte all’assenza del rischio di fuga e alle caratteristiche personali dell’imputato, a cominciare dalla giovane età. Per questo Amnesty ha chiesto, fin dall’ottobre scorso, il «rilascio di Fabio Vettorel in attesa del processo» e, quanto meno, di valutare l’applicazione di misure alternative al carcere nei suoi confronti, così come per gli altri detenuti del G20. Domenica pomeriggio, nel quadro della campagna UnitedWeStand, oltre duecento persone hanno dato vita ad Amburgo a un rumoroso presidio davanti al carcere di Billwerder. Al termine centinaia di pallocini, rossi e neri, sono volati in aria oltre le mura della prigione. Un benaugurante messaggio di libertà, in attesa che il castello delle accuse crolli e che anche l’incubo di Fabio, insieme agli altri ancora ostaggi dei «Venti Grandi», finisca. FONTE: Beppe Caccia, IL MANIFESTO

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Supplizi di «morti senza tomba» https://www.micciacorta.it/2016/05/21869/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21869/#respond Thu, 19 May 2016 09:15:10 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21869 SAGGI. «Il silenzio della tortura» di Marina Lalatta Costerbosa. La storia giudiziaria, sociale e politica di un crimine estremo che svuota lo stato di diritto e veicola la logica della vendetta

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street art

Nel corso di una conferenza tenuta ad Heidelberg nel 1992, il sociologo Niklas Luhmann tentò di convincere l’uditorio circa l’inesistenza di norme irrinunciabili e assolute. Lo fece utilizzando un esempio estremo ma non improbabile di questi tempi: e se ci fossero terroristi spietati in grado di colpire nel mucchio in ogni momento? Davvero in questo caso non saremmo legittimati a praticare la soluzione estrema della tortura per salvare vite umane, conoscere i piani segreti dei nemici sanguinari, disinnescare gli ordigni? L’interrogativo viene riproposto da Marina Lalatta Costerbosa, docente di filosofia del diritto, nel saggio Il silenzio della tortura (DeriveApprodi, pp. 132, euro 15). Il libro si propone di guardare negli occhi l’aguzzino, di riconoscere la tortura per combatterla per davvero. La questione è ancora più urgente nell’Italia del G8 genovese, paese occidentale della più grave violazione dei diritti umani dal dopoguerra secondo la nota sanzione di Amnesty International. Nella terra in cui alcuni sindacati di polizia di sono opposti strenuamente all’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico, rivendicando il fatto che questo avrebbe impedito ai tutori dell’ordine di svolgere il proprio mestiere serenamente. C’è poi lo stato di emergenza permanente causato dal terrorismo, che l’apologo luhmaniano sulla relatività della norma nelle società contemporanee chiama in causa. Per rispondere alla provocazione di Luhmann, l’autrice evoca una situazione altrettanto estrema: l’atroce testimonianza di Heinrich Hamann, Ss e vicecapo della polizia nazista sulla frontiera polacca. Quest’ultimo spiegò che chiaramente il suo compito di aguzzino non era quello di «ristabilire la verità». Al contrario, i suoi supplizi servivano a «costruire una solida comunità della violenza». La spietata lucidità del gerarca introduce il primo cortocircuito tra verità e menzogna cui ci si trova davanti nel compito, tutt’altro che scontato, di definire la tortura. Lalatta Costerbosa si fa carico di questa genealogia prendendo le mosse dalla nascita della sovranità moderna. Dai tempi dell’Inquisizione e del Principe di Machiavelli ai manuali di tortura della School of Americas, che si avvalse della consulenza del capo della Gestapo di Lione Klaus Barbie e che giocò di sponda con le pratiche coloniali e neocoloniali, il libro intreccia il piano giudiziario con quello sociale e politico. Il «crimine estremo» di cui si occupa il testo ha a che fare dunque sia con la ricerca della «verità» che con il mantenimento della menzogna, del potere e dell’arbitrio assoluto. La tortura colpisce un individuo ma minaccia chiunque, ha spiegato Cesare Beccaria, perché mette sullo stesso piano colpevole e innocente. Ecco la forza politica di questo atto che prima di ogni altra cosa produce silenzio, serve a distruggere legami sociali e a generare «morti senza tomba», secondo la definizione di un dramma di Jean-Paul Sartre. Il supplizio non è codificabile solo tramite parametri quantitativi. Fin quando è lecito esercitare violenza? Chi decide fin dove è legittimo posizionare l’asticella? Bisogna impiegare anche strumenti qualitativi per comprendere come il trauma della tortura distrugga la personalità della vittima, in che modo l’esercizio di un potere, al quale è impossibile sfuggire persino togliendosi la vita, produca conseguenze sociali: «La paura del tormento è tormento», scrisse ancora nel diciassettesimo secolo Jean Bodin. Siamo al secondo, tragico, paradosso, denso di significati politici ancora più del primo: l’aguzzino è abile quando riesce a far sopravvivere la sua vittima, pur sottoponendola a violenze atroci. Soltanto sopravvivendo, costretto alla confessione o alla delazione e poi ridotto al silenzio più vero, condannato alla morte senza tomba, il torturato assolverà il suo compito più profondo, performativo, politico. Se ne accorse nell’Algeria coloniale Henri Alleg, quando da giornalista e militante venne sottoposto dai francesi a sedute di waterboarding, pratica risalente all’Inquisizione, arrivata in Italia per estorcere informazioni ai militanti della lotta armata e definita nel post 11 settembre dall’allora direttore della Cia «tecnica di interrogatorio professionale». Per salvarsi, Alleg pretese che i suoi aguzzini gli dessero del «voi». Dal canto suo, l’«Intellettuale ad Auschwitz», secondo il titolo italiano del suo libro più noto, Jean Améry comprese che l’antidoto alla distruzione di sé dentro il lager era mantenere una qualche forma di umanità. Bisogna provare sempre, nonostante la sproporzione di forze, a «ribattere il colpo». Riemerge qui la capacità di resistenza e la caratteristica tipicamente umana. Tutto il contrario dell’ordine muto generato del supplizio e dalla paura solitaria che questo vuole produrre.

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È scomparsa la proposta che criminalizza la tortura https://www.micciacorta.it/2015/12/e-scomparsa-la-proposta-che-criminalizza-la-tortura/ https://www.micciacorta.it/2015/12/e-scomparsa-la-proposta-che-criminalizza-la-tortura/#comments Sat, 12 Dec 2015 09:18:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20983 Leggi. Non c’è traccia alla Commissione giustizia

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Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente. Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato — prevedibile — è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori. Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla. Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. Antigone attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo. Si arriva al 2012. Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili. La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio? (Presidente di Antigone)

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L’affaire Hacking Team https://www.micciacorta.it/2015/07/laffaire-hacking-team/ https://www.micciacorta.it/2015/07/laffaire-hacking-team/#respond Tue, 14 Jul 2015 13:27:50 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19994 Intervista a Carola Frediani

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A pochi giorni dall'attacco hacker che ha colpito Hacking Team, società milanese produttrice di spyware (software di spionaggio) governativi, l'azienda stessa afferma in un comunicato ufficiale dell'8 luglio di aver perso il controllo dei propri prodotti informatici, affermando di “non riuscire più a controllare chi li utilizza.” Il 6 luglio l'account Twitter @hackingteam è stato infatti violato prima di divenire strumento di diffusione di oltre 400 Gigabyte di materiale riservato. Ciò ha di fatto comportato la messa a nudo del funzionamento dei software di spionaggio, dei dati di accesso per il controllo di questi ultimi e di molti dei rapporti commerciali stipulati dall'azienda con governi e agenzie di intelligence, oltre che di svariate password, email e credenziali. E' quindi la stessa Hacking Team a confermare il fatto che ora buona parte dei sistemi di controllo fino ad ora venduti possano essere violati, con la conseguente possibilità che gli stessi dispositivi spiati e controllati finora dai clienti di HT vengano ora controllati da altri individui; siano essi coloro i quali hanno effettuato l'attacco informatico o chissà quali altri. L'azienda ha acquisito da diversi anni un ruolo centrale nella sorveglianza globale tramite software-spia, spiccando per supporto ai clienti ed infrastrutture complesse nonché per la rassicurazione sull' “invisibilità” (agli occhi di anti-virus) dei propri prodotti. Verso la fine del 2014 Amensty International, in cooperazione con diverse Ong ha pubblicato uno strumento open-source in grado di scovare spyware sul proprio computer: Detekt. Nonostante il progetto sia stato portato avanti da vari soggetti, il codice è firmato da Claudio Guarnieri di Citizen Lab. Disponibile solo per Windows (solo alcune versioni, visitare https://resistsurveillance.org/ per approfondimenti e download), questo strumento ha di fatto rappresentato il primo software alla portata di tutti per scovare i principali “programmi spioni” impiegati da governi identificati nelle varie ricerche. In uno scambio di email trafugate e pubblicate su WikiLeaks si nota come furono molti i clienti a dimostrarsi preoccupati per la pubblicazione di questo software che in prima battuta riusciva ad identificare agenti di proprietà HT, pare però che in seguito ad implementazioni e modifiche nel codice sorgente degli spyware essi siano tornati invisibili. Di quanto successo abbiamo parlato con Carola Frediani, giornalista e scrittrice interessata all'ambito delle nuove tecnologie e autrice di “Dentro Anonymous: Viaggio nelle legioni dei cyberattivisti” (Informant, 2012) nonché di “Deep Web – La rete oltre Google” (Quintadicopertina, 2014). In questi giorni ha pubblicato diversi articoli in merito all'affaire Hacking Team su La Stampa. Questo vuole essere un primo momento di ragionamento su alcuni nodi che il caso sta sollevando e che crediamo solleverà nel medio periodo. Sono passati ormai cinque giorni dall'attacco subito da Hacking Team. Nel comunicato ufficiale dell'azienda diffuso in data 8 luglio, questa afferma di aver perso il controllo sui software da lei commercializzati. La prima domanda che sorge spontanea è: chi potrebbe prenderne il controllo ora? Una premessa: riferisco quello che ho ricostruito come giornalista, non sono ovviamente un tecnico e per pareri più precisi è ad un esperto di Sicurezza Informatica che bisognerebbe rivolgersi. Comunque, per provare a rispondere alla domanda, chiunque abbia accesso al codice - come ad esempio mi ha spiegato l'esperto di informatica forense Andrea Ghirardini - può analizzarlo e quindi potenzialmente usarlo. Anche se va detto, come ha aggiunto il ricercatore Morgan Marquis-Boire, che mettere in piedi un'infrastruttura come quella che usava Hacking Team non è banale. Quindi diciamo che la preoccupazione più immediata, al di là di allarmismi vari, è soprattutto che possano essere identificati alcuni dei soggetti sorvegliati. Siccome poi ogni centro di controllo monitora i propri agenti (i software di intrusione) attraverso un watermark (elemento contrassegnante), questo permetterebbe in linea teorica di tracciare dei collegamenti ulteriori. In una situazione complessa come quella attuale, dove ancora buona parte del materiale non è stato visionato, quali potrebbero essere gli scenari immaginabili nell'immediato e nel lungo periodo? Quanto uscito è senza dubbio una bomba dal punto di vista della diffusione di informazioni riservate su vari livelli, informazioni che riguardano soprattutto imprese, organi statali, servizi di sicurezza, indagini, consulenti. Il solo indirizzario mail di Hacking Team è un who is who di contatti sparsi tra forze dell'ordine e servizi di molteplici Paesi. [WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione di mail sottratte ad HT con tanto di motore di ricerca per parole chiavi] Esistono delle restrizioni imposte da UE, Nato ed Onu per quanto riguarda il commercio d'armi con determinati Paesi ritenuti anti-democratici. Possiamo, visto il loro peso e la loro potenza, iniziare a pensare che questi spyware debbano essere considerati veri e propri armamenti? Questo è un argomento complesso. Ci sono politici e attivisti - per esempio la parlamentare olandese Marietje Schaake - che le considerano vere e proprie armi digitali. L'anno scorso era stata lanciata una campagna internazionale per regolamentarle, cui hanno aderito Ong come Privacy International e Human Rights Watch. Semplificando: sì, esistono restrizioni di vario tipo ma ancora non stringenti o ben definite: una è il Wassenaar arrangement, un accordo che raccoglie 41 Paesi esportatori di armi e che è stato modificato tempo fa per includere tecnologie di questo tipo (https://cyberlaw.stanford.edu/publications/changes-export-control-arrangement-apply-computer-exploits-and-more). L'Unione Europea ha aggiornato un regolamento per includere questi programmi di sorveglianza nei controlli sulle esportazioni. Oltre a ciò è evidente che l'Onu consideri questi software o almeno il loro utilizzo in certe circostanze come equiparabile a materiali di ausilio militare. Per questo voleva informarsi sul Sudan dove vige un embargo. Ma non ci sono ad esempioo sanzioni o controlli a livello europeo, qualcosa che vorrebbe invece Marietje Schaake. Va anche detto che il mondo dell'Information Security non è né così entusiasta né così convinto sul tema regolamentazioni: la paura è che ne possa soffrire la libera ricerca. Anche fra Ong europee e statunitensi ci sono posizioni diverse al riguardo. Tra il materiale trafugato all'azienda vi è una lista dettagliata di clienti con tanto di documenti finanziari, alcuni dei quali -parrebbe- in diretta violazione delle restrizioni di cui sopra. Negli anni non di rado sono state avanzate critiche e accuse di illegittimità se non di violazione dei diritti umani ad HT da vari soggetti ed organizzazioni che si occupano espressamente di diritti digitali (fra i quali Citizen Lab, Electronic Frontier Foundation e Privacy International), ma l'azienda ha sempre respinto queste accuse. Alla luce dei documenti pubblicati, cosa emerge? Il dato principale che emerge è il commercio con Paesi poco democratici se non autoritari e repressivi. In alcuni di questi è stata trovata prova dell'uso di tali software contro attivisti, giornalisti, avvocati. Tuttavia per molti di questi Stati non c'erano restrizioni chiare al riguardo. C'è sicuramente una questione etica. Secondo la già citata Marietje Schaake, HT avrebbe violato le sanzioni europee contro il Sudan e quelle sulla Russia. Questo non è il primo caso di hack subito da un'azienda appartenente a questo specifico settore. Vi può essere una correlazione fra i vari casi? Nonostante possano essere solo ipotesi in un contesto articolato e palesemente complesso, chi potrebbe aver dato origine all'attacco? Sì, c'è correlazione. L'account che aveva diffuso i documenti hackerati di Gamma/FinFisher un anno fa ha "rivendicato" l'attacco ad Hacking Team mentre si stava svolgendo, risvegliandosi dopo un anno di silenzio (ed essendo a sua volta ritwittato da chi in quel momento stava diffondendo i documenti di Hacking Team attraverso il suo profilo twitter hackerato). Quindi sembra proprio lo stesso soggetto, chi sia ovviamente nessuno credo possa dirlo. Però chi può essere interessato a colpire a un anno di distanza due diverse società di questo tipo, entrambe accusate di violazioni dei diritti umani da vari attivisti e ricercatori? Un anno fa si pensava che l'hacker di FinFisher appartenesse al mondo hacktivista. Le modalità di azione sono riconducibili a quell'ambiente. Detto ciò, tutto è possibile allo stato attuale. Al di là di restrizioni UE, Nato e Onu, si pone il problema della legittimità di un impiego massificato di strumenti atti al controllo sociale tramite mobile device e personal computer. Sono diversi i rapporti redatti da soggetti già citati che affermano di aver trovato tracce di virus progettati da Hacking Team su dispositivi appartenenti a giornalisti dissidenti ed attivisti politici.

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