antifascismo torinese – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 04 Mar 2018 08:40:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La maestra di Torino e il licenziamento in tronco in diretta https://www.micciacorta.it/2018/03/la-maestra-licenziamento-tronco/ https://www.micciacorta.it/2018/03/la-maestra-licenziamento-tronco/#respond Sun, 04 Mar 2018 08:37:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24219 Un licenziamento in tronco di un dipendente pubblico, da parte del segretario del partito di governo, in diretta televisiva, non si era mai visto. Per lo meno in democrazia. 

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È successo il 27 febbraio, quando la trasmissione Matrix, su Canale 5, ha mandato in onda le immagini registrate durante i tafferugli avvenuti a Torino in occasione di una protesta contro CasaPound, e tra queste, in particolare, quelle in cui compariva Lavinia Flavia Cassaro, maestra precaria presso una scuola elementare della periferia, ripresa in primo piano, sotto la pioggia, impegnata in una violenta invettiva contro la polizia: "Vigliacchi! Mi fate schifo..." E l'immancabile (in ogni rissa di tifoseria o studentesca) "Dovete morire...". Da cui la reprimenda renziana, favorita da un assist di Nicola Porro: "Che schifo, una professoressa che augura la morte ai poliziotti andrebbe licenziata su due piedi".   Detto fatto. A stretto giro arriva la dichiarazione della ministra della Pubblica istruzione in persona, Valeria Fedeli, che definendo "inaccettabile ascoltare dalla voce di una docente parole di odio e di violenza contro le Forze dell'Ordine", annuncia che il Miur ha "avviato un procedimento disciplinare" proponendo appunto il licenziamento della propria dipendente. Arriva anche una nota – non petita ma indubbiamente manifesta – con cui l'Ufficio Scolastico Regionale "coglie l'occasione per esprimere piena solidarietà alle forze dell'ordine per l'insostituibile e gravoso impegno nella tutela della sicurezza dei cittadini e nella salvaguardia dei valori democratici della Repubblica".   Arriva anche un'ondata digitale di volgarità e di improperi contro Lavinia Flavia Cassaro a commento delle fotografie che la ritraggono in rete (AdnKronos lo definisce l'"assalto alle foto della prof"): "Zozza comunista", "esaltata", "pazza", "merda", "zecca rossa" oltre, naturalmente, al simmetrico "devi morire" (come se il linguaggio della strada e quello dei social si rispecchiassero senza residui). E poi, nei circuiti più "elevati" della comunicazione cartacea, un volume davvero spropositato – e sproporzionato – di commenti "dotti". Così Massimo Gramellini, sul Corriere, sotto il titolo originalissimo Cattiva maestra, scomoda (a sproposito) Ennio Flaiano, "in Italia i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti" – con cui però Flaiano intendeva stigmatizzare gli ex fascisti che dopo la Liberazione si spacciavano per democratici – e qualifica la maestra di periferia come "la fascista perfetta, con gli occhi strabuzzati e la bocca sguaiata che bestemmia il buon senso e il senso dello Stato, farneticando di fucili partigiani come se fossimo ancora nella Repubblica di Salò anziché in quella di Gentiloni. La penso come Renzi (ogni tanto succede) – conclude dalla tazzina del suo Caffè –: quell’insegnante andrebbe licenziata in tronco". Mentre Mattia Feltri, su La Stampa (titolo egualmente originale: Caro maestro), parla di "maestre antifasciste per passatempo che augurano la morte ai carabinieri nell’Italia gioconda d’oggi, in cui per fascismo la morte non la rischia nessuno, se non qualche immigrato" (sic). Per concludere col senatore Esposito, che dotto per la verità non è, ma molto loquace in rete e non solo, e che ha dichiarato: "Lavinia Flavia Cassaro è pluridenunciata, è vicina al centro sociale Askatasuna, uno dei più violenti d’Italia, ha augurato la morte ai poliziotti e non ha neanche chiesto scusa, anzi. Una così non può insegnare. Se non licenziamo lei...".     Ora, lungi da me l'intenzione di fare una difesa d'ufficio dell'"incriminata", né di entrare nel merito dei fatti. Se ne occuperanno avvocati, giudici e funzionari ministeriali, ognuno per le proprie competenze. Lavinia Flavia Cassaro non è evidentemente né Augusto Monti né Umberto Cosmo (per restare ai torinesi): i professori costretti dal fascismo a lasciare la cattedra per il loro antifascismo. E i fatti accaduti in Corso Vittorio la sera del 22 febbraio non ci appartengono (quantomeno per le modalità con cui si sono svolti, a prescindere dalle possibili buone ragioni di quella mobilitazione). Ma qualche domanda ce la dobbiamo porre.   Intanto: perché tutto questo rumore? Questo coro che è cresciuto su se stesso, non partendo dal terreno dello scontro, ma dallo studio di una trasmissione televisiva (cinque giorni più tardi, "in differita" rispetto alla "cosa")? Per l'effetto TV, certo. Per la sua potenza enfatizzante, è evidente. E per la dipendenza dei commentatori e degli stessi social da quel segnale-primo che dal video passa nel salotto e nella vita. E insieme per il suo incrocio con le ultime battute della campagna elettorale. Di una campagna elettorale brutta (la più brutta da sempre, è stata definita): in buona parte respingente e in qualche passaggio ripugnante. Un incrocio di linee calde che hanno determinato per Lavinia Flavia una sorta di "tempesta perfetta"... Ma poi – e insieme – continuando nelle domande: perché questa evidente a-simmetria? Questa folgorante velocità della macchina burocratica ministeriale, solitamente pigra, lenta, tendenzialmente sorda e grigia...   Quando nell'autunno di due anni fa un'insegnante fascistoide e xenofoba pubblicò su Facebook messaggi ferocemente razzisti, sguaiati e minacciosi, rivolti – allora – non a poliziotti ma a migranti, islamici, rifugiati, i riflessi della macchina governativa (e anche dell'opinione pubblica) furono ben più attardati. "Bisogna ucciderli tutti!!!" (con tre punti esclamativi) – scriveva la docente d'inglese del liceo Marco Polo di Venezia a proposito dei migranti – o anche "Vi odio maledetti vi brucerei tutti", "Questa invasione di profughi è la peste del terzo millennio, mi dispiace sapere che qualcuno si salva", "E poi ho torto quando dico che bisogna eliminare anche i bambini dei musulmani, tanto sono tutti futuri delinquenti?". Alla notizia del malore che colse in quel periodo i fedeli nella moschea di Venezia commentava "Almeno morissero tutti". E all'indirizzo di Laura Boldrini "Schifosa, puttana. Troia"... Non si mosse, allora, nessun Capo del Governo (c'era Renzi a Palazzo Chigi, che di Facebook se ne intende) né nessun ministro dal Miur annunciò licenziamenti. Dovettero fare un'interpellanza urgente due deputati di Sel per sollevare il caso, e la procedura amministrativa per sanzionare il comportamento dell'insegnante non finì col suo licenziamento, ma con la ricollocazione in altra funzione dell'apparato scolastico, senza ruoli didattici ma col posto garantito.   E quando nel 2015, in un piccolo comune del parmense, Traversetolo, un'insegnante fu denunciata dai genitori dei bambini per i suoi atteggiamenti discriminatori e razzisti ("tornatevene nella giungla da dove siete venuti, branco di scimmie ladre”, “Ma guarda se devo occuparmi di un bambino che ha la faccia colore della merda”), non si mosse nessuna autorità scolastica, tanto che la stessa dirigente della struttura fu indiziata dalla Procura per omissione. E per determinarne l'allontanamento dalle aule dovette intervenire la magistratura. D'altra parte, sempre a proposito di asimmetrie – e per restare ai protagonisti del caso in questione: manifestanti e poliziotti –, non può non colpire l'asimmetria clamorosa, abissale, tra i fatti torinesi e quelli, ormai lontani nel tempo ma non nelle ferite tuttora aperte, della Genova del 2001. Della scuola Diaz e di Bolzaneto. Del trattamento che, da parte dello Stato, ottennero i colpevoli di allora: i funzionari e gli agenti di polizia, rei conclamati di uno dei reati più odiosi, quello di tortura. I responsabili di quella "macelleria messicana" vista pressoché in diretta da tutti, ma per i quali non si mosse nessun capo di governo per chiederne il licenziamento, anzi. Berlusconi, che allora ricopriva da poco la carica di Presidente del Consiglio, ne lodò l'operato. Come d'altra parte il suo immediato predecessore, Giuliano Amato.   Il responsabile in capo di tutto, l'allora capo della polizia Giovanni De Gennaro (Gianni per gli amici, e ne aveva tanti) era il beniamino di entrambi, che infatti fecero a gara per fargli far carriera, in tutte le branche dello Stato. Nel 2007, con Prodi, diventerà Capo di gabinetto del Ministero dell'Interno. Nel 2008, con Berlusconi, direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Nel 2012, con Monti, Sottosegretario di Stato con la delega alla sicurezza. Nel 2013, con Letta, Presidente di Finmeccanica, posizione confermata da Renzi del '14 e da Gentiloni nel '17!  Tutto questo nonostante fosse stato condannato in secondo grado per "istigazione alla falsa testimonianza" (assolto poi in Cassazione). I principali condannati, buona parte dei 16 alti funzionari ritenuti colpevoli della mattanza e del tentativo di occultarne le responsabilità, sono stati quasi tutti reintegrati e in alcuni casi promossi. Uno di essi, Gilberto Caldirozzi, condannato a 3 anni e 8 mesi, è stato da poco nominato dal ministro Minniti numero due della Direzione Investigativa Antimafia. Immediatamente sopra di lui, come più alto in grado presente sulla piazza, c'era Francesco Gratteri, anch'egli condannato e promosso prefetto prima di andare in pensione. È questa l'Italia che crocifigge Lavinia Flavia Cassaro, maestra precaria "con contratto triennale" e funzione di "compresenza in una classe" di un istituto "comprensivo" di Torino, a cui la sfortuna di essere incappata con le sue urla sconnesse in una telecamera nel finale di partita di una campagna elettorale crepuscolare è costata cara. Molto cara. Fonte: Marco Revelli, Doppiozero
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Addio a Carla Gobetti, comunista ribelle https://www.micciacorta.it/2018/01/24009/ https://www.micciacorta.it/2018/01/24009/#respond Sat, 06 Jan 2018 09:26:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24009 Nel 1950 aveva sposato Paolo Gobetti, giovanissimo partigiano GL, orfano di Piero Gobetti, e insieme avevano fatto parte della redazione dell’Unità da comunisti ribelli quali erano

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Carla Gobetti ci ha lasciato, e con lei se ne va un pezzo grande della nostra storia e della nostra vita. Era nata nel 1929 a Torino, in Borgo San Paolo (il padre, operaio Fiat, comunista, aveva pagato il suo antifascismo, lei ancora adolescente aveva dovuto aiutare la famiglia col lavoro da sarta). Nel 1950 aveva sposato Paolo Gobetti, giovanissimo partigiano GL, orfano di Piero Gobetti, e insieme avevano fatto parte della redazione dell’Unità da comunisti ribelli quali erano, anche contro la linea del partito. E infatti ne erano usciti nel ’56, senza però cessare la militanza sociale e culturale. Nel 1961 fondano, insieme a Ada Gobetti (la vedova di Piero) e a un gruppo di intellettuali torinesi il Centro Studi Piero Gobetti, custode e motore della cultura democratica antifascista. Nel 1962 realizzano il film Scioperi a Torino, eccezionale documento sulla lotta degli operai Lancia, prodromo del risveglio operaio nella capitale dell’auto (con la collaborazione di giovani come Goffredo Fofi e lo straordinario testo di Franco Fortini). Carla lavora fianco a fianco con uomini come Norberto Bobbio, Franco Antonicelli, Giorgio Agosti, Alessandro Galante Garrone, fornendo loro supporto organizzativo – è l’anima concreta del gruppo – ma anche spingendoli sempre oltre le loro naturali prudenze e collocazioni sociali, aiutandoli a schierare il Centro ogni volta sul fronte più avanzato, che si trattasse dell’appoggio alla resistenza clandestina nella Spagna di Franco o della guerra anticoloniale algerina, del Sessantotto naturalmente (a cui il figlio Andrea partecipò attivamente) e del Vietnam come della battaglia per la democratizzazione della scuola. La ricordiamo infaticabile cacciatrice di archivi, consapevole com’era che la memoria senza il sostegno delle carte è labile. E tenace cultrice dei testimoni (la galleria di memorie degli «amici di Piero» raccolte e presentate nel film Racconto interrotto ne conserva la prova). Epica fu la battaglia che condusse per difendere e valorizzare il fondo contenente le bandiere delle organizzazioni operaie sequestrate dai fascisti e poi sepolte in un sottoscala d’archivio: le ordinò, ripulì, catalogò, perseguitando ogni decisore pubblico (inseguì il presidente Pertini fin nelle sale del Quirinale) finché non ottenne infine per quei reperti un posto d’onore al Museo del Risorgimento. Sapeva stare senza timori reverenziali a fianco di Presidenti della Repubblica (Saragat, Pertini) e di ministri in visita ufficiale, forte della sua storia e del suo nome, mantenendo sempre il distacco che la cultura gobettiana prescrive nei confronti del potere ma anche la consapevolezza del peso che le istituzioni pubbliche hanno per l’identità di una nazione. Finché le forze l’hanno sostenuta ci ha accompagnato nella visita annuale, ogni mese di febbraio, al cimitero parigino del Pére Lachaise, sulla tomba di Piero Gobetti, muta testimonianza di quanto questo Paese debba ai propri padri eretici, costretti a morire in esilio. Ci mancherà immensamente. FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

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Bruno Segre, la Resistenza della Nonviolenza https://www.micciacorta.it/2017/04/23246/ https://www.micciacorta.it/2017/04/23246/#respond Wed, 26 Apr 2017 08:42:06 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23246 Intervista. Partigiano e avvocato, paladino dei diritti civili: «Ho difeso centinaia di obiettori in tutti i Tribunali militari d’Italia, perché mi convinsi che la nonviolenza è forza non debolezza. La Storia ha bisogno a volte di punti di rottura»

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TORINO. Nel suo studio settecentesco è stratificato il secolo breve. Qui lavora Bruno Segre, partigiano e avvocato. Novantotto anni di vita spesi come in un romanzo, tra pallottole bloccate da un portasigarette in metallo, alla Torino di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese, alle primissime cause in difesa degli obiettori di coscienza fino alla battaglia civile per il divorzio. Bruno Segre nella sua lunga vita ha vissuto tutto. 26storie_ginzburgLeone e Natalia Ginzburg
Partiamo da Torino, e dal suo cambiamento nel corso dei decenni. Un immenso cambiamento. Ricordo una città piccola e gentile, con le lampade a gas nelle vie del centro, poi diventata grande e caotica, che ora torna ad essere più attraente, simile a quella che ho vissuto da ragazzo. Cambiano la cultura, nelle città come nella morale: per baciare una ragazza qui a Torino ci volevano mesi, corteggiamenti serrati. Ora, non è più così: tutto è divenuto più veloce. Una città cosmopolita, lo è sempre stata. Cosmopolita e industriosa, che ha fatto del lavoro un primato morale. Io ce l’avevo con la Fiat: i benefici del lavoro operaio li hanno avuti gli Agnelli, che hanno fatto ben poco per accogliere i nuovi lavoratori che giungevano dal Sud, e non solo, nella seconda metà del Novecento. Le spese per rendere la vita civile a queste persone (trasporti, ospedali, scuole, ecc.) se le accollò il Comune di Torino. E gli Agnelli chi sono stati? I padroni della città. Cosa furono le leggi razziali a Torino? Mi colpì l’indifferenza della gente: gli ebrei in Italia erano circa quarantamila, molti occupavano cattedre universitarie, alcuni erano filantropi che avevano gratificato con donazioni le Istituzioni cittadine. Ci fu una sorta di umiliazione collettiva. Una celebre caffetteria del centro espose il cartello: «Qui gli ebrei non sono graditi». Molte ditte dovettero chiudere o cambiare denominazione. Constatai un diffuso egoismo, la gente approfittava dell’emarginazione e discriminazione degli ebrei per prendere il loro posto. Cosa ancor peggiore fu l’espulsione dalle scuole. Quando furono attuate le normative antisemite, gli studenti ebrei all’università potevano terminare gli studi (io mi laureai con Einaudi) ma non proseguire altri corsi universitari. Viceversa gli ebrei tedeschi dovettero cessare subito il corso di studi senza laurearsi. Ciò palesa la sudditanza del fascismo agli ordini del nazismo. I fascisti emergevano per ignoranza e stupidità. Molti ebrei che non sapevano di essere tali, lo scoprirono solo quando furono perseguitati.
26 STORIE cesare-pavese-santo-stefano-belbo
Cesare Pavese
              Perché entrò nella Resistenza? Sono sempre stato antifascista: da ragazzo fui cacciato dall’aula scolastica perché mi dichiaravo contro la guerra in Etiopia. Nell’inverno del ’42 sono stato tre mesi incarcerato alle Nuove perché accusato di disfattismo. Il momento dell’arresto? Nel ‘42, avevo scritto l’unico articolo antirazzista apparso in Italia sulla rivista torinese L’igiene e la vita, subito soppressa. Nelle carceri Nuove la vita era terribile, quell’inverno fu il più freddo del secolo. I vetri delle celle erano rotti dai bombardamenti. Fu il “generale inverno” a bloccare l’avanzata dei carri armati tedeschi in territorio russo. Ci trattavano come animali, alla domenica ci davano pezzi di carne tratti da un sacco con la forchetta. Nel 1944 mi spararono addosso. Finii in via Asti, volevano sapere come avevo avuto un lasciapassare tedesco. Prima però mi sporsero su una finestra, e urlavano: «O parli o ti buttiamo giù». Non parlai, sotto c’era gente che passeggiava. Inoltre ignoravo chi, in sede clandestina, mi aveva donato il documento. Cosa fu la fine della guerra? La gente ballava per le strade, angloamericani e francesi vendevano le loro pubblicazioni di propaganda. C’erano grandi speranze di rinnovamento. Io volevo uccidere l’ex prete fascista Gino Sottochiesa che aveva scritto sui giornali nazifascisti articoli contro gli ebrei fomentando la propaganda antisemita. Per fortuna non lo trovai. S’era nascosto in un convento.
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Carlo Levi
                Chi si poteva incontrare a Torino negli anni ’50? Presentai il libro di Pimo Levi, La tregua: era un personaggio solitario, malinconico. Ho frequentato Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg: Pavese diceva che Carlo Levi era un po’ esibizionista. Natalia Ginzburg era mia compagna di classe al liceo Alfieri: a scuola scriveva componimenti erotici. Spiccava per la sua intelligenza.
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Aldo Capitini
            Perché ha iniziato a difendere gli obiettori di coscienza? Conobbi Aldo Capitini alla fine anni Quaranta. Mi fece conoscere il giovane sardo, Pietro Pinna, che aveva rifiutato di impugnare le armi e io lo difesi il 31 agosto 1949 dinnanzi al Tribunale Militare di Torino. Fu un processo clamoroso, vennero giornalisti dall’estero. Da allora ho difeso centinaia di obiettori in tutti i Tribunali Militari d’Italia, perché mi convinsi che la nonviolenza è forza non debolezza. Lo stesso ho fatto con i giudizi per il divorzio. Oggi è tutto normale. La Storia ha bisogno, a volte, di punti di rottura. SEGUI SUL MANIFESTO

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