Arcelor Mittal – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 15 Nov 2019 15:49:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 “Ilva a denti stretti”, un racconto per immagini dell’inferno quotidiano https://www.micciacorta.it/2019/11/ilva-a-denti-stretti-un-racconto-per-immagini-dellinferno-quotidiano/ https://www.micciacorta.it/2019/11/ilva-a-denti-stretti-un-racconto-per-immagini-dellinferno-quotidiano/#respond Fri, 15 Nov 2019 15:49:44 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25770 Ilva a denti stretti è un documentario realizzato da Stefano Bianchi: andato in onda su Rai2 la scorsa settimana, è visibile su Raiplay/Raireplay

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Ilva a denti stretti è un documentario realizzato da Stefano Bianchi: andato in onda su Rai2 la scorsa settimana, è visibile su Raiplay/Raireplay. Dura un’ora, ma bastano i primi 4 minuti per capire che siamo di fronte a qualcosa che farà male. Qualcosa che colpirà sotto la cintura del linguaggio accomodato e concordato dell’informazione mainstream. L’infernale visione della Fabbrica di notte, con i camini che scaricano morte dai camini, sottolineata dalle musiche delle processioni della settimana santa: perché Taranto è prigioniera in un eterno venerdì santo, nel quale, come la Madonna in cerca del figlio, cerca invano una speranza vagando di strada in strada. Dalla processione a Floriano Dandolo, il padre di Chiara, una bambina di 5 anni che lotta contro una leucemia linfoblastica di tipo T. Dalla tragedia di Chiara a quella delle mamme di Taranto in corteo, aperto dalle foto dei figli morti, ciascuna accompagnata dalla scritta «Io dovevo vivere», e seguito dalle croci bianche. E di seguito, scorie e rifiuti, sbuffi di fumo che fuoriescono dai fanghi di produzione accanto ai campi di grano. Il chimico già responsabile di laboratorio all’Ilva che spiega come il controllo e monitoraggio farlocco continui pari pari con Arcelor-Mittal, e racconta del benzoapirene presente nelle falde acquifere bel oltre il limite consentito. Il maquillage della copertura dei parchi minerari fatto senza bonificare il terreno, e anzi scavando per porre le fondamenta delle coperture, senza che si sappia dove sono finiti i materiali di scavo inquinati. Il camino E 312 privo degli elettrofiltri. Le coltivazioni di cozze nel primo seno del Mar Piccolo che non dovrebbero più esserci e invece sono ancora lì. La voce di don Diana: per amore del mio popolo non tacerò. E al minuto 43, Carla Lucarelli, che ha perso Giorgio, assassinato a 15 anni da un sarcoma ai tessuti molli causato dalla diossina: una delle due mamme che aveva fatto dono alla ministra Bellanova del quadro, raffigurante un teschio, composto con le polveri dell’Ilva. Quel quadro che finì gettato in un’aiuola. Oggi la ministra accampa una “baraonda emotiva” «perché di baraonda bisogna parlare quando da madre a madre sei costretta a discutere sulla morte di un figlio»; ma le immagini dicono altro: mostrano una ministra che non si alza neanche dalla sedia, e nei 48 secondi che dedica alle due madri trova solo il tempo di rivendicare i propri provvedimenti e dire a una di loro, che aveva affermato (citando il docufilm Mittal: il volto nascosto dell’impero) che «Mittal entra nei governi, corrompe, e poi chiude, lasciando una devastazione ambientale pazzesca» che «non ha il diritto di pensare è che Mittal corrompe una persona come me». Eppure basta il dizionario dei sinonimi per smentire la ministra: in lingua italiana, «corruzione» esprime il vizio, il deterioramento, la fermentazione maligna che stempera e scioglie; «corrompere» significa condurre a tali errori o vizi, che il suo stato d’animo appare malsano come cosa putrefatta, e desti nell’anime quel senso che desta l’aspetto, il contatto, l’alito di cosa putrida; chi corrompe, ispira l’amore o la tolleranza del male, infettando la persona di mali sentimenti, di male opinioni, in qualunque sia il modo. Basta sfogliare il Tommaseo, per sapere che la ministra Bellanova, come i suoi predecessori, è persona corrotta, senza bisogno di ipotizzare transazioni di denaro. O guardare questo Ilva a denti stretti, per sapere che l’inferno – perché, con buona pace dei negazionisti dell’informazione che invocano «un linguaggio meno spettacolare e più veritiero», di inferno e non di impianti bisogna parlare e scrivere –, come scriveva Calvino, «è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme». Da qui due strade, due lati della barricata: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». È un compito rischioso, che esige attenzione e apprendimento continui. L’altra «riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più». Stefano Bianchi, tutto questo lo sa. * Fonte: Girolamo De Michele, il manifesto

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La città-fabbrica dove neppure i morti sono al sicuro https://www.micciacorta.it/2019/11/la-citta-fabbrica-dove-neppure-i-morti-sono-al-sicuro/ https://www.micciacorta.it/2019/11/la-citta-fabbrica-dove-neppure-i-morti-sono-al-sicuro/#respond Thu, 07 Nov 2019 08:44:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25747 l’Italsider-Ilva-ArcelorMittal ha costituito per Taranto una sorta di Alien che, mentre la teneva in vita, le succhiava ogni risorsa vitale, fino a ucciderla

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Ci sono tre testi che tutti quelli che parlano di Ilva-Mittal dovrebbero conoscere, e per la più parte dicono di averli letti: le inchieste di Antonio Cederna del 1972 e di Walter Tobagi del 1979, e il romanzo La dismissione di Ermanno Rea. Cederna, con due lunghi articoli sul Corriere, evidenziava il nesso fra l’insediamento industriale attuato senza alcun rispetto per gli equilibri ambientali, la devastazione del territorio, e un’urbanistica impazzita: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito visitatore. Stretta nella morsa della speculazione privata e di un processo di industrializzazione che si realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse generale, essa può ben essere presa a simbolo degli errori della politica fin qui seguita per il Mezzogiorno». Tobagi sottolineava «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno», cogliendo le linee essenziali del rapporto fra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati. In sintesi, scriveva, «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia». Rea, infine, nella figura allucinata e alienata di Vincenzo Buonocore, l’operaio che incapace di concepire una vita senza la fabbrica, è disposto a smontarla lui stesso per poterla poi ricostruire in Cina. In questi scritti c’è tutto quello che ci sarebbe da dire, oggi: con buona pace di chi continua a recitare la fiaba del modello di sviluppo trainato dal Centro Siderurgico, che con un salto logico incongruo diventa la premessa all’ineluttabilità della sua esistenza, dunque all’impossibilità di pensare un futuro per Taranto senza Fabbrica, l’Italsider-Ilva-ArcelorMittal ha costituito per Taranto una sorta di Alien che, mentre la teneva in vita, le succhiava ogni risorsa vitale, fino a ucciderla. Avvelenandone non solo l’aria, con emissioni e polveri, e il sottosuolo, con scarichi dei quali tutt’ora si sa poco; ma anche, devastandone la struttura sociale, e imponendosi come la tetra forma mentale di un destino al quale non si può sfuggire. Da qui, le petizioni di principio di enunciati nei quali l’impossibilità di liberarsi dall’acciaio viene dato come presupposto, laddove sarebbe da dimostrare che di un acciaio di cattiva qualità, prodotto con tecniche vetuste e altamente inquinanti non solo a valle, ma anche a monte (con prelievi di minerali ferrosi inquinanti e senza controllo in Brasile), in una fabbrica con materiale in scadenza, sia davvero necessario, a fronte di giganti della siderurgia che producono in fabbriche di nuova costruzione a minore impatto ambientale, riciclando buona parte del materiale ferroso invece di estrarlo, con una maggiore qualità del prodotto finito. Di fatto, non c’è formazione o leader politico che non abbia, non importa con quale buon uso della lingua italiana, recitato il mantra del «Taranto non può vivere senza la Fabbrica»: un mantra nel quale Taranto diventa un luogo neutro e vuoto, una volta cancellato il tributo di sangue e tumori pagato dai tarantini. Un mantra che, con un’altra capriola logica, predica la ricerca del bravo imprenditore che risanerà la Fabbrica, o del buono e bravo Stato che, nazionalizzandola, la risanerà: ignorando la sostanza dell’imprenditoria orientata solo al profitto, o l’incapacità di una pianificazione industriale di lungo periodo. Nel quale, peraltro, i tarantini saranno probabilmente tutti morti, e sepolti in un cimitero con lapidi rosate, perché le bianche si tingono subito della polvere rossa della Fabbrica: come in un incubo benjaminiano, neanche i morti sono al sicuro, a Taranto. * Fonte: Girolamo De Michele, il manifesto

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