Armando Spataro – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 25 Feb 2020 15:10:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 No Tav, le richieste del pm: oltre 70 anni, rischia il carcere anche una 72enne https://www.micciacorta.it/2018/09/no-tav-le-richieste-del-pm-oltre-70-anni-rischia-il-carcere-anche-una-72enne/ https://www.micciacorta.it/2018/09/no-tav-le-richieste-del-pm-oltre-70-anni-rischia-il-carcere-anche-una-72enne/#respond Thu, 20 Sep 2018 07:43:13 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24840 Val di Susa. Per gli scontri durante la manifestazione del luglio 2015, chiesti 70 anni complessivi di pena. Per la 72enne Nicoletta Dosio e altre sedici persone

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TORINO. Solo due anni fa Armando Spataro, procuratore capo di Torino, chiese la revoca degli arresti domiciliari di Nicoletta Dosio: la donna, oggi settantaduenne, violava da tempo la sua detenzione – il suo processo era nelle fasi iniziali – e rivendicava il senso politico dei suoi continui allontanamenti da casa. Divenne un caso nazionale, sfuggito di mano al Tribunale di Torino che non poteva trascinare in carcere, come misura cautelare per altro, un’anziana signora, già docente di greco e latino presso il liceo di Bussoleno. Le misure restrittive che colpirono la signora Dosio e altri facevano seguito agli scontri del luglio 2015, quando il cancello del cantiere di Chiomonte fu attaccato e in parte danneggiato. Fu una manifestazione di massa e l’attacco giunse dopo una lunga marcia in una giornata torrida. Il Tribunale del riesame accolse la richiesta di Armando Spataro. Il processo è proseguito e ieri sono giunte le richieste di condanna: per Nicoletta Dosio e altre sedici persone il pubblico ministero Antonio Rinaudo ha chiesto oltre settanta anni di carcere. Da molto tempo il Movimento NoTav non incorreva nel rischio di condanne così pesanti: per due imputati sono stati richiesti 7 anni, 8 mesi e 15 giorni. Nicoletta Dosio, come sempre al lavoro nella sua osteria di Bussoleno, ieri commentava: «Non sono preoccupata per nulla per quanto riguarda la mia persona. Lo Stato italiano dovrebbe invece esserlo se pensa di reprimere una lotta trentennale mandando in galera una donna di settantadue anni. Quello che ho fatto, l’ho fatto con convinzione. Ciò che mi stupisce è la gravita delle richieste di condanna per i ragazzi. È solo l’ultimo colpo di coda di una giustizia che ci ha sempre e solo represso, senza mai ascoltarci. Ma la mia lotta e quella movimento vanno avanti, senza paura». La dura richiesta di condanne giunge nel momento in cui il movimento No Tav abbandona la via filogovernativa e torna ad avvicinarsi fisicamente al cantiere, con azioni non violente volte a impedire il prossimo allargamento. I lavori nel cratere di Chiomonte proseguono, nonostante le smentite degli ufficiali di collegamento del M5S presenti sul territorio, che assicurano che presto dal ministero giungeranno buone notizie. Ieri sera, presso la «Borgata 8 dicembre» si è svolta un’assemblea popolare operativa che ha deciso come rispondere materialmente alla nuova richiesta di condanne da parte del Tribunale di Torino. * Fonte: Maurizio Pagliassotti, IL MANIFESTO

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Per Nicoletta Dosio arresti domiciliari annullati https://www.micciacorta.it/2016/12/22828/ https://www.micciacorta.it/2016/12/22828/#respond Sat, 31 Dec 2016 08:01:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22828 No TAV. Una donna ultra settantenne girava da mesi l’Italia sfidando la Procura di Torino, giungendo a farsi arrestare

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Si conclude dopo sei mesi di peripezie la stravagante vicenda giudiziaria di Nicoletta Dosio, storica militante del movimento Notav. La Corte di Cassazione ha annullato l’originaria applicativa delle misure cautelari per i fatti inerenti gli scontri del giugno 2015, cancellando così tutti i successivi aggravamenti scaturenti dalla resistenza di Nicoletta Dosio, che non ha mai rispettato né l’obbligo di firma presso la caserma dei Carabinieri di Susa, e men che meno i successivi arresti domiciliari. Il cortocircuito mediatico giudiziario era ormai fuori controllo: una donna ultra settantenne girava da mesi l’Italia sfidando la Procura di Torino, giungendo a farsi arrestare, e successivamente condannare in un processo per direttissima, quando si è presentata di sua volontà presso il Tribunale di Torino lo scorso novembre. Passa quindi la linea di Armando Spataro, Procuratore della Repubblica a Torino, che da tempo chiedeva la revoca delle misure restrittive per l’evidente innocuità di Nicoletta Dosio, nonché per il danno d’immagine derivante da una vicenda che vedeva protagonista una “piccola donna”, contrapposta al gigante inquisitore. E’ stato però necessario giungere al terzo grado di giudizio perché nessun giudice torinese ha accolto le richieste del procuratore capo Armando Spataro; inoltre, come nel caso del processo per “terrorismo”, la Cassazione “smentisce” la linea intransigente della Procura di Torino. Nicoletta Dosio, già docente di greco e latino presso il liceo Norberto Rosa di Bussoleno, viene depotenziata, messa in sicurezza: estremo tentativo di mitigare l’impatto della sua resistenza che raccoglie simpatizzanti in tutta Italia. SEGUI SUL MANIFESTO

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No Tav. Nicoletta Dosio condannata a 8 mesi per disobbedienza civile https://www.micciacorta.it/2016/12/la-no-tav-nicoletta-dosio-condannata-8-mesi-la-sua-disobbedienza-civile/ https://www.micciacorta.it/2016/12/la-no-tav-nicoletta-dosio-condannata-8-mesi-la-sua-disobbedienza-civile/#respond Thu, 15 Dec 2016 08:50:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22788 Torino. Sempre più paradossale la giurisprudenza contro i No Tav. In un'udienza lampo la procura torinese ottiene la condanna a 8 mesi per violazione degli obblighi di arresti domiciliari

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La vicenda giudiziaria di Nicoletta Dosio, docente di greco e latino in pensione e fondatrice del liceo Norberto Rosa di Bussoleno, assume tratti sempre più surreali. Ieri, al termine di un’udienza lampo, è stata condannata a otto mesi per il suo rifiuto di attenersi agli arresti domiciliari. Al contempo il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino, Armando Spataro, ha fatto ricorso presso il Tribunale della libertà affinché Nicoletta Dosio venga liberata dalle misure cautelari. La ragione di tale richiesta, già prodotta e respinta dieci giorni fa, sarebbe da inquadrarsi, secondo il capo della Procura di Torino, nella pubblicità che Nicoletta Dosio sta facendo con la sua condotta disubbidiente alla lotta Notav. Nella documentazione volta alla “liberazione” di Nicoletta Dosio si possono leggere anche altri passaggi interessanti: viene infatti riconosciuta l’innocua ritualità della ex professoressa di greco e latino, e la manifesta impossibilità a reiterare i reati di cui è accusata. Non sarebbe presente, evidentemente, il rischio di fuga, perché è la stessa Dosio che si presenta alle forze dell’ordine durante manifestazioni politiche o culturali in tutta Italia. Nel testo si evidenzia che Nicoletta Dosio “fa parte di una minoranza illegale”, e si sorvola sul sostegno morale e materiale che riceve quotidianamente da una sedicente maggioranza legale del movimento. Il Procuratore, in un passaggio vagamente sconsolato, auspica “un gesto di equilibrio che farebbe onore alla Dosio: porre fine alle condotte illecite”, ma nel periodo successivo definisce questa speranza “impensabile”. «La revoca della misura cautelare in atto, oltre a costruire uno strumento razionale per interrompere la ritualità mediatica finalizzata alle ragioni della propaganda dei “militanti anti Tav” , corrisponderebbe ai parametri previsti dalla legge ed esonererebbe gli organi di polizia giudiziaria da attività impegnative e prove di reale effetto». Queste le parole firmate dal Procuratore Armando Spataro: tale richiesta è stata respinta seccamente dal giudice Alessandra Pfiffner. Il capo della Procura di Torino ha fatto appello al tribunale della Libertà che si pronuncerà entro dodici giorni. Intanto Nicoletta Dosio, mentre il Procuratore Spataro tenta una via per uscire dal pantano mediatico, viene condannata a otto mesi, proprio per evasione: si era presentata in tribunale personalmente dove era stata fermata e poi riportata a casa. “Io continuo ad evadere – commenta Nicoletta Dosio dalla sua osteria di Bussoleno – facciano cosa vogliono. E’ una scelta politica la mia, che apre una profonda contraddizione nella magistratura. Che si credeva forte e pensava di chiudere in casa senza problemi una vecchia signora: un’umiliazione a cui io mi ribello. Il procuratore Spataro in prima persona dice che sono una persona innocua e vuole liberarmi, mente un altro giudice vuole chiudermi in casa. Sono in grande difficoltà perché vogliono disinnescare non me, ma la presenza popolare che mi dà sostegno. La mia resistenza civile è una buccia di banana sotto i loro passi: io sto portando avanti un disegno preciso, destabilizzante della percezione pubblica su cosa è il movimento Notav.” Valentina Coletta, avvocata di Nicoletta Dosio commenta: “Desta qualche perplessità che la Procura che condanna Nicoletta Dosio sia la stessa che ne richiede la revoca degli arresti domiciliari, ritenendo il gesto del tutto innocuo perché finalizzato non ai controlli quanto piuttosto a palesare una mera protesta. Sarebbe stato più coerente chiederne l’assoluzione, come abbiamo fatto noi”. SEGUI SUL MANIFESTO

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Il bivio di Magistratura democratica a congresso https://www.micciacorta.it/2016/11/md-destino-della-corrente-sinistra-sul-piatto-del-congresso/ https://www.micciacorta.it/2016/11/md-destino-della-corrente-sinistra-sul-piatto-del-congresso/#comments Thu, 03 Nov 2016 08:03:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22624 In discussione il ruolo di Magistratura democratica dentro la coalizione Area. Ma il presidente uscente De Chiara esclude una rottura

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Da una parte c’è chi teme che una Md annacquata in Area significhi la fine dell’eresia dei giudici «rossi», capaci di critica non solo nei confronti di qualunque governo, ma anche dello stesso potere giudiziario – si tratti di gestione delle carriere o di atti repressivi ai danni di movimenti sociali e soggetti deboli. Dall’altra c’è chi denuncia il rischio della cacofonia, e quindi della perdita di credibilità, se la voce di Md continuerà a sovrapporsi a quella del soggetto unitario, l’unico che dovrebbe intervenire pubblicamente su tutto ciò che riguarda l’autogoverno della magistratura. Posizioni che dovranno conciliarsi nel corso delle assise bolognesi, trovando un equilibrio finalmente stabile e condiviso, oppure sfidarsi apertamente. «Ma non ci sarà nessuna rottura»: Carlo De Chiara, presidente uscente di Md, getta acqua sul fuoco. «La dialettica interna è normale, c’è voglia di partecipare e nessuno ha intenzione di sciogliere la corrente». La preoccupazione che l’investimento nell’alleanza con il Movimento di Spataro e Roberti sia culturalmente a perdere si fonda su episodi come quello dello scorso febbraio alla Scuola della magistratura, quando si scatenò un putiferio attorno al corso sulla «giustizia riparativa». Motivo: la presenza annunciata degli ex br Adriana Faranda e Franco Bonisoli per raccontare il loro percorso di riconciliazione con Agnese Moro. L’incontro saltò: decisiva la levata di scudi di molti magistrati, fra cui lo stesso Spataro. A difendere l’opportunità del confronto mancato, invece, buona parte di Md, in testa il giudice di sorveglianza e membro dell’esecutivo uscente Riccardo De Vito: «Al di là dei molti punti che accomunano le due correnti progressiste riunite in Area, Md deve continuare il suo percorso politico-culturale senza rinunciare al punto di vista esterno alla corporazione e alla sua tradizionale scelta in favore del garantismo». La Md che si ritrova a Bologna, in campo per il No al referendum costituzionale e impegnata sui dossier profughi, reato di tortura e Turchia, è lontana dai tempi in cui era egemone: con soli due consiglieri al Csm è attualmente la meno rappresentata fra le correnti «storiche» dentro l’organo di autogoverno. E anche le più recenti elezioni per il parlamentino dell’Anm sono state una battuta d’arresto per tutta Area. Fra le toghe fanno breccia le posizioni «sindacali» e «apolitiche», incarnate dalla nuova corrente Autonomia e Indipendenza di Piercamillo Davigo, megafono (da destra) del disagio che serpeggia per carichi di lavoro enormi e carenze di personale, di fronte alla sostanziale indifferenza del governo. Per Md, invece, i magistrati non devono essere corporativi, e le risposte ai loro problemi devono essere coerenti con un sistema giudiziario visto come servizio ai cittadini, soprattutto quelli più deboli. «Anche la giurisdizione deve rispondere all’imperativo dell’articolo 3 della Costituzione: rimuovere le diseguaglianze. Ed è questo – afferma De Chiara – il grande tema che mettiamo al centro del congresso: è una questione planetaria, in realtà, che dovrebbe preoccupare le istituzioni di tutti i Paesi. Apprezziamo il governo italiano quando contrasta l’austerità in Europa, lo critichiamo duramente quando fa scelte che vanno in un’altra direzione, come il jobs act». SEGUI SUL MANIFESTO

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Sabina Rossa: “Nessun imbarazzo l’ergastolo della parola sarebbe un’ingiustizia” https://www.micciacorta.it/2016/02/nessun-imbarazzo-lergastolo-della-parola-sarebbe-uningiustizia/ https://www.micciacorta.it/2016/02/nessun-imbarazzo-lergastolo-della-parola-sarebbe-uningiustizia/#respond Wed, 03 Feb 2016 08:39:40 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21268 Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, l’operaio comunista ucciso dalle Br il 24 gennaio 1979: «Non mi sentirei minimamente a disagio a parlare accanto agli ex brigatisti Faranda e Bonisoli »

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Rossa

Lei a quel corso di formazione sulla giustizia riparativa non parteciperà. «Ma solo perché ho dei problemi di salute che mi impediscono di andare a Scandicci, nonostante sia stata invitata. Non mi sentirei minimamente a disagio a parlare accanto agli ex brigatisti Faranda e Bonisoli ». Lei è Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, l’operaio comunista ucciso dalle Br il 24 gennaio 1979. «Faranda e Bonisoli sono stati invitati, non si sono certo offerti. Non vanno a fare i protagonisti. Saranno lì di fronte a 300 magistrati a spiegare quali sono stati i loro errori. Credete che sia facile? Sono persone che si mettono a nudo, vanno apprezzati». Alessandra Galli la pensa diversamente, e si dice sconcertata dalla scelta della Scuola dei magistrati di invitarli. «Non entro in polemica con il magistrato Galli, ma ribadisco: chi sbaglia non deve aprire più bocca fino alla sua morte? Io non sono d’accordo. Non credo che l’autore di un reato possa essere condannato all’”ergastolo della parola”, e non debba più apparire o esistere. E poi un corso sulla giustizia riparativa assume meno significato senza testimonianze come quella di Faranda e Bonisoli ». Ma possibile che non si potessero trovare testimoni meno ingombranti e ugualmente efficaci? «Beh, sicuramente è chiaro che la scelta è simbolica. La stagione del terrorismo e delle stragi è un periodo della nostra storia in cui non tutto è stato chiarito. Non capisco di cosa ha paura questo Paese». Se avessero invitato ex terroristi della destra eversiva la penserebbe allo stesso modo? «Non banalizziamo. La scelta dei due ex br prende le mosse da un percorso durato dieci anni, intrapreso da Agnese Moro e da altri per riavvicinare ex terroristi e familiari delle vittime, e che è sfociato nella pubblicazione del “Libro dell’incontro”. Quindi non è casuale che al corso sia stato chiamato chi ha partecipato al progetto. Dal di fuori a volte è difficile anche per me capire come siano arrivati a quella condivisione di argomenti, ma bisogna averle vissute, certe esperienze, per capire e non dare giudizi a sproposito ».

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Lite sull’ex Br alla scuola delle toghe https://www.micciacorta.it/2016/02/lite-sullex-br-alla-scuola-delle-toghe/ https://www.micciacorta.it/2016/02/lite-sullex-br-alla-scuola-delle-toghe/#respond Wed, 03 Feb 2016 08:34:16 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21265 Faranda e Bonisoli invitati a un corso: è polemica tra i magistrati. La figlia del giudice Galli: “ Inaccettabile” Onida, ideatore del seminario: “Dov’è lo scandalo?”. Ma il Csm dà subito l’altolà con il sostegno del Quirinale

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faranda

Faranda e Bonisoli “maestri” delle toghe? Per giunta nell’istituzionale sede della Scuola della magistratura di Scandicci? La notizia, con un messaggio dell’avvocato Cristina Faravelli, irrompe nella mailing list dei magistrati “Area aperta” ed è subito polemica. Niente cattedra «per chi ha voluto, pianificato, ordinato la morte di decine e decine di persone » dice il procuratore di Torino Armando Spataro, famoso pm antiterrorismo. «Scelta inopportuna» per il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Alessandra Galli, la figlia di Guido Galli, ucciso da Prima linea il 19 marzo 1980, definisce «inaccettabile il dialogo in una sede istituzionale con chi ha ucciso per sovvertire lo Stato e la Costituzione». L’ex presidente della Consulta Valerio Onida, al vertice della Scuola di Scandicci fino a un mese fa, ideatore del seminario che si sarebbe dovuto svolgere da oggi al 5 febbraio, invece si chiede: «Dov’è lo scandalo?». Perché, «se parliamo di giustizia riparativa un incontro tra le vittime e i rei fa parte del processo penale». Ma la sorte del confronto è ormai segnata. Dopo il tam tam delle toghe, tra le quali però si registrano pure voci a favore, interviene il vertice della magistratura. Dopo aver ottenuto il via libera dal capo dello Stato, nonché presidente del Csm Sergio Mattarella, il suo vice Giovanni Legnini firma, con il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio e con il procuratore generale Pasquale Ciccolo, una nota ufficiale per «esprimere dissenso» sul dibattito di Scandicci. Equivale a uno stop. «Dopo questo autorevole invito serve una doverosa rivalutazione» diceva ieri sera il neo presidente della Scuola Gaetano Silvestri, anche lui emerito della Consulta. Oggi si riunisce il comitato direttivo e il confronto sarà cancellato. Ma già ieri sera Silvestri prendeva le distanze da un incontro «programmato e definito in tutti i dettagli dal vecchio comitato, visto che noi ci siamo insediati solo il 13 gennaio». Una tempesta. Che Onida non comprende. «Esiste un libro, si chiama Il libro dell’incontro, edito dal Saggiatore. Lì si confrontano ex bierre e parenti delle vittime dopo un lavoro di anni. Gli stessi invitati a Scandicci. Adolfo Ceretti, docente di criminologia, raccoglie testimonianze di Manlio Milani, Agnese Moro, Sabina Rossa. E pone domande ad Adriano Faranda e Franco Bonisoli. Tutto qui. Non c’è alcun motivo per scatenare la polemica». Invece molte toghe insorgono. Dice un pm di Palermo: «La prossima volta per parlare di mafia inviteremo Brusca?». E Spataro: «Se fosse stato invitato un pentito anziché Faranda avrei le stesse perplessità». E ancora: «No alla presenza di ex terroristi alla Scuola della magistratura ». Da Ancona il pg Enzo Macrì: «Troppi misteri sul caso Moro, troppe reticenze da parte della coppia Morucci-Faranda». Com’era avvenuto per il caso Sofri, invitato agli Stati generali sul carcere, le voci in dissenso sono maggioritarie, pur se non mancano quelle a favore di chi, come Rita Sanlorenzo, vede «una buona occasione persa per guardarci dentro».

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No, non ne valeva la pena https://www.micciacorta.it/2010/07/no-non-ne-valeva-la-pena/ https://www.micciacorta.it/2010/07/no-non-ne-valeva-la-pena/#respond Thu, 22 Jul 2010 14:03:34 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25991 È uscito recentemente il libro di memorie del dott. Armando Spataro dall’eloquente titolo “Ne valeva la pena”. Il volume ha ovviamente – data la notorietà e il potere del personaggio - trovato subito molta attenzione

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È uscito recentemente il libro di memorie del dott. Armando Spataro dall’eloquente titolo “Ne valeva la pena”. Il volume ha ovviamente – data la notorietà e il potere del personaggio ̶ trovato subito molta attenzione da parte dei media. Meno appare ovvio – almeno dal mio punto di vista ̶ è il fatto che abbia trovato l’accoglienza migliore in ambiti di sinistra, o almeno di quella che una volta si sarebbe considerata tale, ma che ora in effetti pare aver subito una mutazione genetica, tanto da trovare i suoi riferimenti in giornalisti dichiaratamente di destra quali Marco Travaglio e ancora di più in quella parte di magistrati che viene spesso considerata giustizialista. E che, guarda caso, corrisponde in buona parte a quella che a suo tempo gestì l’“emergenza antiterrorismo”, con annessi “eccessi”. “Eccessi” misurabili in sistematiche torture nelle caserme e nelle carceri, in morti evitabili, in processi sommari con distribuzione di millenni di anni di galera. Quegli stessi magistrati dell’emergenza e delle forzature del diritto, allora giustamente criticati da tutta la sinistra, ora ne paiono diventati i referenti. Misteri del tempo che passa, e della sinistra che perde le bussole, prima che i voti. Fatto sta che il libro del procuratore è stato presentato in pompa magna alla Camera del Lavoro di Milano e lanciato da Gianni Barbacetto sul settimanale de “la Repubblica”. Addirittura, ha visto una  recensione benigna di If sul sito “Bella Ciao”, che normalmente ha un taglio decisamente antagonista. «Si può dissolvere la suggestione di ritenere flessibili i principi e ammissibili zone grigie in cui i diritti vivono in forma attenuata», scrive il dottor Spataro: pensavo fosse un’autocritica, invece si tratta della critica del procuratore aggiunto al comportamento dei governi dello Stato italiano nella vicenda Abu Omar. Una critica aspra soprattutto nei confronti del governo presieduto da Romano Prodi, colpevole di non essere stato sufficientemente prono nei confronti della magistratura giustizialista, categoria in cui il dottor Spataro sembra identificarsi al punto tale da usare al riguardo il plurale maiestatis. Devo dire che conosco poco la vicenda in questione. E poco mi appassiona, se non per la naturale solidarietà nei confronti di una persona prelevata da casa e sballottata in carcere, per di più attraverso un vero e proprio sequestro di persona: ma per quanto riguarda la vicenda processuale in sé, mi sembra soltanto l’ennesima ripetizione della guerra interna tra servizi segreti, peraltro mai deviati. Non lo erano neppure quelli delle stragi degli anni Settanta: facevano solo il loro lavoro sporco per rafforzare l’autorità dello Stato. Del resto non si sono mai visti servizi segreti fare dei lavori puliti, per i quali non ci sarebbe bisogno di alcuna segretezza. Del libro mi hanno colpito invece le pagine del tutto assolutorie del dottor Spataro nei confronti di se stesso nelle inchieste sulla lotta armata di sinistra in Italia, un argomento che conosco decisamente meglio. Ora, sono sicuramente prevenuto nei suoi confronti, per un motivo che dico subito. Il dottor Spataro dice che «il compito dei pm non è formulare ipotesi, specie in atti giudiziari, ma mettere a nudo la realtà con prove inconfutabili. E se ciò non è possibile, il pm si ferma». Sarà per questa ragione che, soltanto ed esclusivamente sulla base dei relata refero di due pentiti, ha chiesto nei miei confronti l’ergastolo per un omicidio, accusa rispetto alla quale sono stato assolto in primo grado per insufficienza di prove e in appello per non aver commesso il fatto, in base ai dettami del precedente codice di procedura penale, che permetteva di distinguere in maniera netta tra le due fattispecie. Fatti scritti nelle sentenze della Corte d’assise e della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Maliziosamente, mi verrebbe da dire oggi, visto il potere che il dottor Spataro ha accumulato in seno alla magistratura e non solo, che la prudente motivazione assolutoria di primo grado, rispetto a quella più decisa di secondo grado, sia da attribuire al fatto che il pm di primo grado fosse proprio lui. Non sono mie illazioni, ma le sue considerazioni contenute nel libro. Quando dice, per esempio, di aver cassato, da consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), la candidatura per un organismo interno alla magistratura di un pretore che diciannove anni prima (diciannove anni!) aveva osato sottoporre a critica il suo operato. O, come quando, con estremo candore, sostiene di aver chiamato il direttore de “la Repubblica” di Milano, per dirgli di non dare la parola a Sergio Segio, una persona che comunque ha scontato la pena cui era stato condannato. Sarà un caso, ma Segio non ha più scritto su “la Repubblica”, del quale era collaboratore. Forse in base alla personale legge bavaglino del dottor Spataro. O come quando ha chiesto ai suoi colleghi di disertare un convegno a Torino sul carcere indetto dalla Camera penale, solo perché a parlare di questo tema era stato chiamato un ex detenuto, sempre Sergio Segio. Probabilmente, secondo Spataro, sarebbe stato meglio chiamare a parlare di carcere uno chef o un pasticcere. Difficile anche pensare, a fronte di questi esempi rivendicati con la tenace convinzione di chi è nel giusto e non con la percezione della protervia che lo contraddistingue, che dei suoi colleghi magistrati potessero serenamente assolvere un ex carabiniere del nucleo speciale contro la lotta armata di sinistra e il giornalista intervistatore, per un articolo in cui si sosteneva una versione diversa da quella ufficiale, in merito alle notizie in possesso degli inquirenti prima e non dopo l’omicidio del giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi. Far arbitrare una partita di calcio a uno dei calciatori delle due squadre farebbe gridare allo scandalo sportivo, far arbitrare un processo in cui è coinvolto, direttamente o indirettamente, un giudice, appare come una cosa normale. Ma non lo è. Scrive Giorgio Galli in “Piombo rosso”, a proposito degli autori dell’omicidio: «Si tratta di un gruppo raccogliticcio, che Barbone descriverà così: “Marocco, Felice e la sua ragazza, Zanetti, Balice, un suo amico di Saronno, la moglie di Balice, Bellerè, De Silvestri, Gianni, un amico di De Silvestri, Rocco, (il postino, n.d.a.), Brusa e la ragazza di cui ignoro il nome, le sorelle Zoni, un certo Pranzetti (in realtà Franzetti, n.d..r.) dell’IRE, Colombo, Marchettino, pure dell’Ire di Varese, Battisaldo e sua moglie Piroli, Belloli Maria Rosa, un amico di Gianni, amico di De Silvestri”, oltre alla sua fidanzata, Caterina Rosenzweig, che Barbone non cita». Non solo: «Difatti, come è scritto in un documento dell’inchiesta sulla Brigata Lo Muscio, datato 24 settembre e firmato dal pm Armando Spataro. “su ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Milano, veniva arrestato dai CC del locale nucleo operativo Marco Barbone...I CC di Milano, inoltre, per una serie di ragioni che non è utile riassumere, avevano indicato in Marco Barbone uno dei probabili autori dell’omicidio di Walter Tobagi”. Nella requisitoria al processo dello stesso Spataro, scompare però questa “indicazione” dei CC». La citazione è tratta da Quaderni radicali. Strano ma vero, come nella Settimana Enigmistica. Nota a margine: Caterina Rosenzweig era conosciuta da tutti i compagni come una militante delle Formazioni Comuniste Combattenti (FCC), ma lo era anche dalle forze dell’ordine, essendo stato trovato il suo passaporto dopo un attentato alla B Ticino. Evidentemente, non lo era per il dottor Spataro. Altra nota a margine: per giustificare l’accanimento ossessivo che dimostra verso uno di loro, il procuratore sostiene di avere però dei buoni rapporti con altri di quelli che lui chiama ex terroristi. Per parte mia, continuo a sostenere che gli unici terroristi si sono rivelati lo Stato, i suoi servizi segreti e i suoi fedeli servi fascisti. Non a caso, gratificati oggi del potere. Ma si tratta, ovviamente, di un’opinione. Per il dottor Spataro gli “ex terroristi” con cui è in buoni rapporti sono comunque i pentiti; gli autori di dichiarazioni fuori verbale; e gli zerbini, a qualunque categoria: pentiti, dissociati o finti irriducibili, appartengano. Gli altri, anche a distanza di decenni, sono solo nemici da perseguire, per non dire perseguitare: il rancore come nuova categoria giuridica, ad personam, e la persona in questo caso non è l’attuale presidente del Consiglio. Ultima nota a margine al riguardo della vicenda in questione: il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa disse, in un’intervista a Panorama, di aver utilizzato, per chiudere l’indagine sulla Brigata 28 marzo, la massima riservatezza, la conoscenza culturale dell’avversario, l’infiltrazione. L’infiltrazione di chi? L’ancora una volta ineffabile Spataro sostiene invece ancora che tutto deriva dalla confessione spontanea di Marco Barbone dopo l’arresto. A negare l’evidenza. E qui veniamo ad alcune palesi cambiamenti del piano di realtà che Spataro opera per dimostrare la sua atavica correttezza. Si tratta di affermazioni, contenute nel libro di Spataro, che fanno a pugni con la verità:
  • Sostiene Spataro che Rocco Ricciardi, il postino di Varese, non era un infiltrato, ma un confidente. Non sono due termini assimilabili: il confidente è uno che “soffia”, dall’esterno, informazioni conosciute nell’ambiente; l’infiltrato è uno che accetta di fornire informazioni dall’interno dell’organizzazione cui appartiene. Ricciardi era un infiltrato. Lo scrivono ex compagni, in un libro del 2000, con estrema lucidità. Dice l’introduttore al libro, un personaggio importante e serio della lotta armata, che «nel testo è descritta la genesi di un pentito, o meglio di un caso particolare di pentitismo: più che di un pentito si dovrebbe parlare di un infiltrato, anche se gli atti processuali non hanno mai voluto renderne conto. In genere, la decisione di collaborare è stata presa dagli interessati dopo l’arresto. In questo caso, invece, non ci fu neppure l’arresto, e la collaborazione arrivò fino al punto di tendere trappole agli ignari compagni per farli arrestare, o peggio». Il “per farli arrestare” è sintetizzabile nella cattura di sette militanti delle Formazioni Comuniste Combattenti presso il Bar Umberto I, in piazza Matteotti, a Como, il 28 maggio 1979. Ricciardi non arrivò a quell’incontro, per la semplice ragione che aveva venduto i suoi compagni.
  • Ma c’è di peggio, di molto peggio. Rocco Ricciardi, lasciato libero, ha date le indicazioni per fare catturare il Br (già Fcc) Roberto Serafini. I carabinieri anziché catturarlo lo crivellarono di colpi in strada, assieme a un suo compagno, Walter Pezzoli. Si legge ancora nel libro-verità, a proposito di Roberto: «Eppure neanche quell’avvisaglia lo salvò anni dopo da una morte atroce ancor più dilaniante perché avvenuta proprio per responsabilità di quella stessa persona che tanto tempo prima, in una sera di brume, di laghi e di mal di pancia, a costo di forzare mille posti di blocco lo avrebbe portato sano e salvo fino all’altra parte del mondo». Sostiene invece Spataro che i carabinieri non erano appostati in via Varesina a Milano per uccidere Roberto Serafini e Walter Pezzoli, che si trovava con lui, ma per arrestare un dirigente della colonna Walter Alasia, operaio dell’Alfa Romeo, entrato in clandestinità. Roberto Serafini e Walter Pezzoli sono stati ammazzati come cani da decine di colpi: non un solo colpo, invece, risulta sparato dall’altra parte. Quel che si dice, in gergo, un agguato in piena regola. E il termine “ammazzati come cani non è gergale”: quella sera dell’11 dicembre 1980, sotto la gragnuola di colpi, fu ucciso anche un cane. Ridotto in un tale stato che i giornali del giorno dopo non riuscirono a stabilire se si trattasse di un dobermann o di un pastore tedesco. Forse è inutile aggiungere che il dirigente operaio della colonna Walter Alasia fu arrestato un anno dopo su un pullman dell’Autostradale tra Torino e Milano, senza colpo ferire. Il problema era che quel Rocco Ricciardi aveva detto ai suoi padroni che Roberto era un buon tiratore, e tanto era bastato per quella mattanza.
  • Nel libro Spataro sostiene ovviamente il suo amico Eleuterio Rea, allora a capo della Digos. «Incominciò a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse una coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le punte dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevano andare dal magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani. Mi portarono davanti a due persone in una stanza semibuia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici De Liguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte quello che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici». Si tratta di una testimonianza diretta di una persona arrestata il 17 febbraio del 1979 nell’inchiesta sui Proletari armati per il Comunismo. Ve ne sono anche altre, reperibili nel volume “Le torture affiorate”, edito da Sensibili alle foglie sull’uso della tortura, non sistematico ma puntuale in alcuni periodi, nei confronti dei militanti della lotta armata. Un argomento del tutto rimosso dai benpensanti di sinistra.
  • L’acme però, il procuratore aggiunto lo tocca nel paragrafo dedicato a Giorgio Soldati. Giorgio Soldati era stato arrestato il 13 novembre 1981 alla Stazione Centrale di Milano dopo un conflitto a fuoco in cui era morto un agente di polizia. Picchiato, aveva fatto alcuni nomi e ammissioni. A mente lucida, aveva ritrattato quanto gli era stato carpito. Tanto era bastato per mandarlo nel carcere speciale di Cuneo. Erano mesi drammatici, in cui bastava essere sospettati di delazione per finire male: il periodo che, con l’espressione efficace, Valerio Morucci in “La peggio gioventù” chiama la “camorrizzazione” delle BR, in particolare del Partito Guerriglia. Lo sapevamo tutti cosa avrebbe atteso Soldati nel carcere di Cuneo. Solo Spataro sostiene di non saperlo. Intendiamoci: la responsabilità dell’uccisione di Giorgio è nostra. Dico nostra, perché quelli erano i sentimenti di frustrazione, rabbia e rancori da cui per la maggior parte eravamo attraversati negli speciali. Tutte le ricostruzioni di quell’episodio dicono di quasi un mese passato tra l’arresto e l’arrivo in sezione, il 10 dicembre, dove Giorgio ammette di avere detto delle cose. Si consegna a quella autoreferenziale e feroce giustizia autoproclamatasi proletaria. Ma chi l’aveva mandato lì difficilmente poteva non immaginare che sorte sarebbe toccata a Giorgio, così come toccò a Ennio Di Rocco a Trani. Per negare questa evidenza, Spataro arriva a sputare sul cadavere di Giorgio Soldati. Testuali e terrificanti parole: «Mi chiedo ancora se Soldati fosse ingenuo o fanatico o entrambe le cose». No, Giorgio era solo un compagno che aveva dato delle informazioni agli inquirenti, ma che non aveva la stoffa del delatore, per cui era tornato quasi subito sui suoi passi. Il problema non era lui, ma chi l’ha mandato in quel carcere. E ovviamente, chi lo ha ucciso: noi.
Oggi il signore che scrive queste cose è diventato un’icona incontrastata della sinistra giustizialista. In particolare – duole riscontrarlo ̶ di quell’autentico OGM in cui si è trasformata negli ultimi tempi Radio Popolare. Una radio in cui ormai capita di sentire il sociologo Nando Dalla Chiesa sostenere, senza alcuna obiezione da parte del conduttore, che la proposta di abolizione di una pena inumana come l’ergastolo è una follia. Da dove l’ex carabiniere Tavaroli e poi grande spione nella vicenda Telecom può svolgere ore di sua pubblica autodifesa o dove, appunto, il dott. Spataro può attaccare il solito Segio, senza ovviamente diritto di replica. In questo caso perché Segio ha corredato un suo libro con una dedica rivolta ai figli degli ex militanti, affinché almeno per loro si interrompa la catena del rancore infinito e della “mostrificazione” dei loro genitori. Anche il dott. Spataro ha figli. Ai figli spesso si raccontano, giustamente, le favole. La prossima volta però racconti, almeno a loro, la verità. Tutta, non solo quella che fa comodo a lui. Cecco Bellosi 22 luglio 2010

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