autunno caldo – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 20 May 2020 13:56:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Statuto dei lavoratori. Quando eravamo extraparlamentari https://www.micciacorta.it/2020/05/statuto-dei-lavoratori-quando-eravamo-extraparlamentari/ https://www.micciacorta.it/2020/05/statuto-dei-lavoratori-quando-eravamo-extraparlamentari/#respond Wed, 20 May 2020 13:56:14 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26132 Statuto dei lavoratori. Il timore era di smarrire la centralità che le lotte avevano assunto nel controllo sull’organizzazione della produzione

L'articolo Statuto dei lavoratori. Quando eravamo extraparlamentari sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Non era per caso che nel ’68-69 ci definissimo «sinistra extraparlamentare»: lo eravamo proprio, sia pure alcuni non molto a lungo – il Manifesto-Pdup – altri al di là del buonsenso. È un fatto che anche noi quando in Parlamento venne approvato lo Statuto dei lavoratori, il 20 maggio 1970, quasi ignorammo l’evento; e del resto, come si sa, anche il Pci, sia pure per ragioni diverse dalle nostre, prese le distanze dalla nuova legge; e si astenne. Nel cinquantesimo anniversario di quello che ora consideriamo, e a ragione , un evento storico, qualcuno ha messo in rete un articolo che Quaderni Piacentini, una delle riviste più serie dell’epoca, aveva allora dedicato all’argomento, condannando senza mezzi termini la nuova legge come una truffa ai danni dei lavoratori. In capo all’articolo l’anonima mano ha scritto: «Oggi stringiamo i denti per difendere ciò che ne è rimasto». Oggi è in effetti difficile capire come l’intera nuova sinistra abbia potuto esprimere un simile giudizio negativo sullo Statuto dei lavoratori. Fu un errore – su questo non credo ci sia più nessuno che abbia dubbi – non considerare quella legge una importante conquista. Che peraltro accoglieva una richiesta avanzata da Giuseppe Di Vittorio già al congresso della Cgil del 1952. E che introduceva la Costituzione nel recinto della fabbrica, fino ad allora spazio extraterritoriale chiuso all’interferenza di un imperio che non fosse quello dettato dal padrone. Per capire come sia potuto accadere bisogna riandare a quel tempo e al dibattito che l’accompagnò. Quel giudizio così drasticamente negativo, e il disinteresse con cui la legge fu accolta, aveva alla base un’ipotesi non del tutto destituita di fondamento, che animò infatti, allora, una vasta riflessione, che affrontava, ben oltre lo Statuto dei lavoratori, il tema generale del ruolo delle riforme. Noi tutti, e con noi una parte dello stesso sindacato, consideravamo i rapporti di forza conquistati dagli operai nelle fabbriche ben più favorevoli di quelli esistenti a livello politico e temevamo che la linea del Pci, che puntava sulle riforme, fosse un modo per ridurre la radicalità dello scontro, spostando il confitto sull’infido e incontrollabile terreno della mediazione parlamentare. Il timore, insomma, era di smarrire la centralità che con le lotte era stata data al controllo sulla organizzazione della produzione, sul cuore del sistema. Tanto è vero che quando ci si accorse che non si poteva migliorare la condizione operaia senza prendere in considerazione quanto la determinava anche fuori dallo stabilimento – l’abitazione, la scuola, la salute – le lotte in merito vennero affidate dal movimento non ai lavori parlamentari ma ai Consigli di Zona, la trasposizione sul territorio dei propri autonomi organismi di potere, i Consigli di fabbrica, forse la più importante conquista strappata nell’autunno caldo del ’69. Potere Operaio, e parte di Lotta Continua, spinsero il rifiuto del terreno istituzionale fino a teorizzare la possibilità di mettere in ginocchio attraverso la lotta di fabbrica il potere capitalista. E ritennero che le riforme avrebbero addirittura rafforzato il capitalismo, in quanto avrebbero razionalizzato il sistema. Noi, come qualche altro gruppo, ci muovemmo in modo diverso, cercando di consolidare il potere costruito in fabbrica e di garantirne l’autonomia, sì da poterlo proiettare sul terreno politico. Fu questa la linea che assunse anche la parte migliore del sindacato, a partire dalla unitaria Federazione dei lavoratori metalmeccanici (Flm); e questo garantì la lunga durata del ’68 italiano, che non aveva, né poteva avere, un obiettivo rivoluzionario, un sovvertimento che avrebbe presupposto ben altro processo storico. L’ipotesi rivoluzionaria fu, con la sua consueta causticità, ridicolizzata dal leader sindacale della Fim-Cisl Pierre Carniti in un’intervista al Manifesto: «Non esiste in astratto una distinzione fra riforme necessarie e riforme che aiutano il sistema – disse -. Il padrone non si siede al tavolo per concordare la sua estinzione. L’esito si misura dunque dal potere che l’operaio conquista, dal mutamento dei rapporti di forza». Rileggendo il Manifesto rivista – il quotidiano uscì il 28 aprile del 1971, un anno e mezzo dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori – si trova puntualmente, tuttavia, e sin dall’inizio – anche quando persiste la diffidenza per lo spostamento dell’epicentro della lotta operaia sul viscido terreno parlamentare – il richiamo alla necessità, a un certo punto, di trovare uno sbocco politico, e cioè un momento di mediazione che consolidasse il potere conquistato in fabbrica che avrebbe altrimenti rischiato di non tenere. Quello sbocco non lo trovammo, per tante ragioni che ci sono a tutti note. È un fatto che è proprio attorno allo Statuto dei lavoratori che si sono andati in questi decenni misurando i rapporti di forza nel nostro paese. Contro questa legge sono stati scagliati un referendum dopo l’altro nella speranza di debellarlo; e poi, più pesantemente, i decreti di Berlusconi, di Monti, di Renzi, con il suo jobs act. Ci si sono messi pure i radicali che, denunciando di «abuso» quella che chiamarono «Trimurti» (le tre confederazioni sindacali) cercarono con un referendum di rendere quasi impossibile il loro autofinanziamento. Ma lo Statuto è anche diventato la legge più tenacemente da decenni difesa dai lavoratori e che ha visto prodursi in suo favore la manifestazione di protesta, forse la più grande della storia sindacale italiana: quando all’appello dell’allora segretario della Cgil Sergio Cofferati risposero tre milioni di lavoratori. La linea di quasi tutta la nuova sinistra mutò con gli anni, tanto è vero che nel 1976 ,con la lista comune denominata Democrazia Proletaria, si presentarono alle elezioni politiche oltre al Pdup, anche Lotta Continua, Avanguardia operaia, il Movimento socialista dei lavoratori. Nonostante tutti i suoi limiti quella esperienza aiutò a capire quanto la forza accumulata dalla classe operaia con le lotte innescate con l’autunno caldo del 1969 poteva pesare, e abbia in effetti pesato, per strappare riforme essenziali: il sistema sanitario nazionale, le pensioni, i diritti civili.E quanto importante sia stato riuscire ad arrivare alle mediazioni che le hanno rese possibili. Già sul numero del giugno ’69 del Manifesto rivista, del resto, Lucio Magri aveva sottolineato l’ urgenza di trovare uno sbocco politico a una radicalizzazione delle lotte che altrimenti non avrebbe potuto stabilizzarsi. È quello che da allora abbiamo cercato di fare. Adesso tutto è più difficile, ma sarebbe già molto che di quella straordinaria esperienza degli anni ’70, pur carica di errori ma anche di scoperte, conservassimo la capacità di tener al centro la questione del lavoro. Ormai diversissimo da quello di allora, ma pur sempre lavoro. * Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

L'articolo Statuto dei lavoratori. Quando eravamo extraparlamentari sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2020/05/statuto-dei-lavoratori-quando-eravamo-extraparlamentari/feed/ 0
1969. «Il contratto figlio dei movimenti, così gli operai furono protagonisti» https://www.micciacorta.it/2019/11/1969-il-contratto-figlio-dei-movimenti-cosi-gli-operai-furono-protagonisti/ https://www.micciacorta.it/2019/11/1969-il-contratto-figlio-dei-movimenti-cosi-gli-operai-furono-protagonisti/#respond Fri, 29 Nov 2019 16:34:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25809 Convegno Fiom. A 50 anni dalla manifestazione nazionale a piazza del Popolo a Roma. Re David: oggi come allora chiediamo salario per tutti ma le imprese dicono no

L'articolo 1969. «Il contratto figlio dei movimenti, così gli operai furono protagonisti» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Era un venerdì. E per la prima volta i metalmeccanici di tutta Italia scesero in piazza a Roma, raggiungendola con tutti i mezzi. Il 28 novembre 1969 è considerato unanimemente l’apice dell’autunno caldo. Cinquantanni esatti dopo la Fiom lo celebra rivendicando come quella lotta portò «al contratto nazionale più avanzato della storia sindacale» firmato un mese e mezzo dopo, l’8 gennaio 1970. Un contratto che ridusse l’orario settimanale a 40 ore, sancì il diritto di assemblea, determinò significativi aumenti salariali e il riconoscimento dei rappresentanti sindacali. «Un contratto che spostò per la prima volta il baricentro tra capitale e lavoro», come ha sottolineato nell’introduzione Adolfo Pepe. Quella manifestazione unitaria conclusa con i comizi in piazza del Popolo dei segretari generali di Fim, Fiom e Uilm Luigi Macario, Bruno Trentin e Giorgio Benvenuto fu però il frutto di una grande stagione di mobilitazione nelle fabbriche e sui territori. «L’entusiamo di quella manifestazione fu unico, ci spinse ad andare avanti», ricorda Tiziano Rinaldini, al tempo studente a Bologna e in piazza quel giorno. «Quel contratto è figlio di una ondata di vertenze territoriali che ebbe come epicentro la Fiat ma che vide una contrattazione decentrata nei mesi precedenti con centinaia di vertenze in tutta l’Emilia. Ed è merito straordinario dei gruppi dirigenti di quel periodo, anche più di Trentin, Carniti e Trentin. Al centro c’era il protagonismo dei lavoratori e la richiesta di un aumento uguale per tutti che divenne elemento condiviso dal movimento universitario e da quello delle donne», come ha ricordato anche Lia Cigarini. «Io, che il giorno dell’assunzione scioperai su indicazione della Commissione interna – racconta Gino Mazzone, allora operaio della Fatme a Roma – fui subito schedato come “pericoloso agitatore comunista” e mandato in un reparto confino. Ma da lì capì meglio la fabbrica e questo mi aiutò per preparare la trattativa che imponemmo all’azienda sulla riduzione del cottimo e l’organizzazione del lavoro: portammo Trentin in assemblea. Il giorno dello sciopero ci mandarono a fare un picchetto a Pomezia e alla manifestazione a piazza del Popolo non riuscimmo ad andare, ma fummo orgogliosi del risultato storico». A tirare le fila dei ragionamenti è stata Francesca Re David. L’attuale segretaria generale della Fiom ha ricordato come «la prima manifestazione nazionale unitaria dal dopoguerra era a rischio ordine pubblico ma tutto si svolse senza incidenti: quel giorno per la prima volta la Fiom si dotò di un servizio d’ordine». Il suo è poi stato un parallelo fra le tante similitudini fra il 1969 e oggi. «Nessuno lo sa ma il numero dei metalmeccanici è lo stesso: circa 2,4 milioni, anche se non c’è più Mirafiori e ci sono tante piccole aziende e tanti appalti e sub appalti. Anche la richiesta centrale del contratto è la stessa: aumento salariale uguale per tutti. Oggi Federmeccanica ci risponde sostenendo che le grandi aziende hanno già pagato e le piccole non hanno la forza ma così facendo mette in discussione ancora una volta lo strumento del contratto nazionale che è fondamentale anche per avere una contrattazione di secondo livello». L’occasione è servita anche per annunciare come sia tornato consultabile l’archivio nazionale della Fiom e della Flm che prestò sarà arricchito da una sezione riguardante il periodo 1901-1925, il cui fondo, conservato all’Archivio centrale di Stato, sarà digitalizzato. * Fonte: Massimo Franchi, il manifesto

L'articolo 1969. «Il contratto figlio dei movimenti, così gli operai furono protagonisti» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2019/11/1969-il-contratto-figlio-dei-movimenti-cosi-gli-operai-furono-protagonisti/feed/ 0
Torino ’69, l’autunno caldo iniziò a primavera https://www.micciacorta.it/2019/11/torino-69-lautunno-caldo-inizio-a-primavera/ https://www.micciacorta.it/2019/11/torino-69-lautunno-caldo-inizio-a-primavera/#respond Thu, 21 Nov 2019 09:08:44 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25784 All’assemblea organizzata dalla Fiom il racconto dei testimoni di quell’incredibile stagione di lotte alla Fiat di Mirafiori

L'articolo Torino ’69, l’autunno caldo iniziò a primavera sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Una svolta radicale che rinnovò il sindacato e raccolse la spinta del movimento degli studenti TORINO. L’assemblea si è aperta con la commemorazione del compagno Norcia, mancato proprio due giorni fa. Norcia non era uno qualsiasi, per tante ragioni: cominciò con l’imporre ai sindacalisti piemontesi di parlare in italiano, visto che ormai il grosso degli operai Fiat era meridionale e il loro dialetto non lo capivano. Ma poi divenne ben più celebre perché nel drammatico 1980, quando la Fiat aveva annunciato la messa in cassa integrazione di migliaia di operai e il segretario del Pci era venuto a Mirafiori a dare solidarietà, lui, arrampicato su un pilone, gli aveva gridato: «Compagno Berlinguer, e se noi occupiamo la fabbrica, che farà il Pci?». La risposta è famosa: «Staremo con voi». Un annuncio che scandalizzò non solo i ben pensanti, ma anche molti dei fautori delle successive reincarnazioni vegetali del Pci. Giorgio Airaudo presenta un libro preparato per l’occasione, si chiama semplicemente Torino ‘69 (ed. Laterza), autori Salvatore Tropea, Ettore Boffano, ma soprattutto le foto di Mauro Vallinotto: Torino come era allora, non solo la fabbrica, ma i treni che riportano i lavoratori alle periferie a fine turno, addormentati in piedi per la stanchezza, e le soffitte dove vivono le famiglie degli immigrati. Un volume prezioso: perché allora tutta la città viveva al ritmo della grande fabbrica, oggi quella identità è stata cancellata. Mi sono emozionata, sul serio. E non solo per il ricordo di Norcia. Sono passati cinquant’anni, ma per chi ha vissuto l’esperienza di quella stagione alla porta numero 2 di Mirafiori, quando Torino era diventata per la nuova sinistra la Mecca cui non si poteva non fare riferimento, e infatti arrivavano in pellegrinaggio ragazzi non solo da tutta Italia ma anche dall’estero, è difficile non commuoversi ritrovandone i protagonisti, gli straordinari operai che imposero una svolta radicale. SIAMO NELLA GRANDE sala della Camera del lavoro, presenti circa 500 delegati del Piemonte, quelli che allora non erano nemmeno nati, ma che comunque non sono, neppure loro, più giovanissimi: di assunti negli ultimi anni ce ne sono ormai pochi. Un appuntamento dedicato alla memoria, che chi vorrebbe tener tutti chiusi nella gabbia del presente, cerca di cancellare. Perché sopprimendo il passato si fa smarrire il senso stesso del tempo e del cambiamento, per cui non si riesce più nemmeno a immaginare che possa esserci un futuro diverso. Il ricordo non è stato retorico, né parolaio: ognuno ha raccontato il proprio vissuto, in quel o quell’altro reparto, le sue fatiche e le sue rabbie per l’arbitrio totale dei 3.000 capetti che alla Fiat avevano il potere di importi quello che volevano; la felicità e l’orgoglio di quando quel potere si è riusciti a smantellarlo, trovando la forza di disubbidire tutti, di praticare l’obiettivo senza aspettare la sua legittimazione; la soddisfazione dei più giovani sindacalisti che avevano capito che le vecchie strutture di rappresentanza – le Commissioni interne – non potevano farcela e bisognava trovare forme più dirette, capaci di raccogliere l’energia della grande massa di operai nemmeno iscritti alla Fiom, tanti appena arrivati dal sud. E poi l’incontro con gli studenti, l’appoggio che ne è venuto e anche lo scontro, e però un confronto fantastico in quella straordinaria agorà che erano diventati i cancelli della fabbrica, dieci volantini diversi diffusi in contemporanea e capannelli e comizi volanti, mischiati alle grida degli ambulanti cresciuti attorno a quello che era diventato un vero suk. Perché tutti si fermavano, nessuno correva via isolato all’uscita del turno come tristemente accade ora, perché tutti volevano partecipare. È qui che l’operaio diventa protagonista. Prima invisibile, si impone in questa stagione all’immaginario collettivo, tanto che si riflette nel cinema (fra il ’70 e il ’75 una decina di film, non documentari, ma commedie, Monicelli lo fa impersonare da Tognazzi, l’attore più popolare) e nella canzone: Iannacci, De André… L’APPUNTAMENTO è stato fissato lunedì 18 perché era il 18 novembre 1969 – lo racconta Paolo Franco, allora segretario della lega Mirafiori, quella storica di Viale Unione Sovietica – quando in risposta a 200 sospensioni della Fiat gli operai si riuniscono al palazzetto dello sport per “processare” l’azienda. Che si spaventa: perché già dal maggio era cominciata la rivolta, e il sindacato stesso è sorpreso che gli operai, molti nemmeno sindacalizzati, abbandonino in massa le linee. È l’inizio della svolta che via via produrrà una mobilitazione straordinaria, anticipando la vertenza per il contratto nazionale. È un autunno caldo che qui comincia a primavera. È maggio, infatti, quando cambia il modo di impostare le vertenze, non più – ricorda Paolo Franco – nella sede esterna, ma negli stessi reparti. Quella che sancisce la nascita storica dei delegati dei gruppi omogenei viene contrattata sulle scale dietro il dancing Bambi, subito eletti 56 più altrettanti sostituti, l’embrione di quello che diventerà il “consiglione” Fiat. Racconta del timore che i segretari della Fiom e della Camera del lavoro, che non sono lì e non sono informati di questo mutamento della rappresentanza che diventa diretta e non più mediata dalle Commissioni Interne, si arrabbino per questa scelta non discussa. Ma a Torino segretari sono Paci e Pugno, due sindacalisti speciali, che accolgono la spinta nuova. E sostengono dentro tutta la Cgil il mutamento necessario. «Quando c’è la prima assemblea nazionale dei metalmeccanici per impostare il rinnovo del contratto, a Milano, dove tradizionalmente erano più avanti di noi, finalmente – racconta Franco – potemmo alzare la testa: Torino non era più la palla al piede, era diventata l’avanguardia».Sono i protagonisti stessi che testimoniano, quelli che allora avevano vent’anni e ora hanno i capelli già molto grigi. Comincia Cesare Cosi a dire cosa era l’arbitrio del capetto, che poteva decidere tutto: qualifica, trasferimento, vessazioni gratuite. 3000 capetti per 53.000 operai! Giampiero Carpo il suo primo sciopero lo fa per ottenere che il turno di notte fosse assegnato ogni 5 settimane e non ogni tre. Lui va alle scuole serali, e così incontra gli studenti, partecipa anche all’occupazione di palazzo Campana. Ma gli studenti di Torino la Fiat l’hanno scoperta dal ’67, quelli delle scuole medie hanno persino fatto un’inchiesta sui loro coetanei operai. Antonio Falcone nel riferire la sua esperienza non si trattiene dal dar voce all’amarezza: allora – dice – soffiava un vento di sinistra. Oggi se vuoi stare a sinistra devi remare, non ci sono più ideologie, puoi contare solo sulla tua forza. Ma se si lotta – conclude – viene la fiducia. È con la lotta che abbiamo cambiato la Fiat, perché all’inizio avevamo a che fare con una maestranza che se vedeva un capellone fischiava. E fischiarono anche alle donne, quando entrarono anche loro in fabbrica. Ma questo durò poco, perché anche le donne nella lotta acquistarono forza, anzi, dicevano che lì avevano ottenuto la libertà che in casa gli era negata. Silvio Canapè veniva da Napoli. Mica vero che Torino ci accolse a braccia aperte, racconta. Ma dal sud, dicono quelli del nord, dalla fine dei ’60 arrivano giovani diversi da quelli di dieci anni prima, non sono più contadini analfabeti, sono stati a scuola. E poi ne arrivano anche dalla Germania, una seconda immigrazione. E ancora Corrado Montefalchesi, operaio manifesto, che in seguito diventò nostro consigliere regionale. Veniva dall’Umbria (oggi, dice, della mia regione non posso più essere orgoglioso); e poi parla della “nostra linea”, che fu più giusta, perché polemizzò con il sindacato, ma collaborando a costruire la straordinaria esperienza dei Consigli che Lotta Continua, molto presente a Torino, invece osteggiò. Di Lotta Continua parla un suo militante illustre, in qualità di ex del collettivo studenti-operai: Giovanni De Luna, oggi storico autorevole. Dice Montefalchesi, tutto cambiò quando un dirigente del Pci (Renzi?), cui fu chiesto se stava con la Fiat o con gli operai, rispose: io sto con Marchionne. Mariangela Rosolen, invece, non era operaia, ma impiegata a Viale Marconi, la prima della categoria a ribellarsi e a scioperare. È stata anche deputata del Pci, adesso, mi dice, sono fuori da tutto. E poi dice la sua Gianni Marchetto, che da anni scrive un suo commentario politico che ricevo una volta alla settimana per e mail. Interviene anche Adriano Serafino: era segretario della Fim, che fu importante. Viene data anche a me la parola, come manifesto, il solo intervento che non è né operaio né sindacalista né studentesco, né solo giornalistico. Una grande soddisfazione, di cui sono grata alla Fiom. (Ma se guardo al Manifesto Rivista dal ’69 e poi a lungo, un po’ ce lo siamo meritati: ci sono quasi esclusivamente cronache delle lotte operaie, (una su porto Torres firmata addirittura da Luigi Berlinguer), molte scritte dagli stessi operai. Un mio lunghissimo Rapporto sulla Fiat fu persino ripubblicato su Temps Moderns, la rivista di Sartre. L’ITALIA FECE SCUOLA: perché qui la Fiom, e poi sebbene all’inizio reticente, anche la Cgil, pur fra incomprensioni reciproche e contrasti, raccolse la spinta che veniva dal movimento degli studenti e quindi dalla “nuova sinistra”, e ne veicolò molte delle innovazioni. A differenza della Cgt francese che respinse gli studenti chiamandoli “figli di papà”, senza capire che si trattava di nuovi soggetti sociali antagonisti, quelli che poi furono chiamati “intellettuali proletarizzati”. Per questo il nostro ’68 e poi il nostro ’69 durò quasi dieci anni. L’operazione più manipolatrice che si è verificata in occasione di questi cinquantenari intrecciati è di avere separato le due esperienze, per cercare di ridurre l’una a uno stupido antiautoritarismo contro il papà all’antica e il prof troppo rigido, e l’altro a una mera qualsiasi vicenda sindacale. Iniziative come quella presa dalla Fiom di Torino rendono giustizia, grazie alla testimonianza dei protagonisti, alla storia. Grazie Fiom. * Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

L'articolo Torino ’69, l’autunno caldo iniziò a primavera sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2019/11/torino-69-lautunno-caldo-inizio-a-primavera/feed/ 0
Il caso Annarumma. Una vecchia storia mai narrata https://www.micciacorta.it/2019/11/il-caso-annarumma-una-vecchia-storia-mai-narrata/ https://www.micciacorta.it/2019/11/il-caso-annarumma-una-vecchia-storia-mai-narrata/#respond Tue, 19 Nov 2019 08:03:14 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25777 Scaffale. Cinquant'anni dopo, l'analisi dei fatti e dei documenti nel libro «Il caso Annarumma» del giornalista Cesare Vanzella, edito da Castelvecchi

L'articolo Il caso Annarumma. Una vecchia storia mai narrata sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Quando si tenne a Roma, il 29 novembre 1969, la manifestazione nazionale dei metalmeccanici comparve un cartello: «Saragat, operai 171, poliziotti 1». Si ricordava polemicamente in questo modo al Presidente della Repubblica la lunga lista dei lavoratori uccisi dal 1947 in scontri con le forze dell’ordine. Il poliziotto menzionato era invece morto solo pochi giorni prima, il 19 novembre a Milano, nel corso degli incidenti scoppiati durante lo sciopero generale per la casa indetto da Cgil-Cisl e Uil, la prima manifestazione unitaria dal 1948, cui aderì quasi il 95% dei lavoratori italiani. Si chiamava Antonio Annarumma di soli 22 anni, originario di Monteforte Irpino, una delle aree più povere d’Italia. Di «azione criminosa di un dimostrante» parlò il ministro dell’Interno Franco Restivo, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, in un telegramma divenuto famoso, sentenziò che si era trattato di un «barbaro assassinio». Da qui il cartello. La ricostruzione di quella tragica vicenda, a distanza di cinquant’anni, la dobbiamo ora al libro del giornalista Cesare Vanzella, già direttore di «Polizia e Democrazia», Il caso Annarumma. La rivolta delle caserme e l’inizio della strategia della tensione (Castelvecchi, pp.160, euro 17.50), intenzionato a superare narrazioni precedenti e verità ufficiali basandosi scrupolosamente sull’analisi dei fatti, gli atti giudiziari disponibili e il recupero fondamentale di inedite testimonianze. IN QUEL NOVEMBRE si era in pieno «autunno caldo». I lavoratori rivendicavano assieme miglioramenti complessivi, una maggior democrazia nei luoghi di lavoro e contare di più nella vita di fabbrica e nel Paese. La richiesta di riforme andava dalle pensioni, da agganciare ai salari, alla riforma sanitaria incentrata sulla prevenzione, alla casa, da cui lo sciopero generale del 19 novembre. A fronte di queste grandi lotte di massa i fascisti, veri e propri manovali del padronato più retrivo, si scatenarono in aggressioni e violenze. In quel 1969 si conteranno alla fine ben 145 attentati, quasi tutti di riconosciuta marca fascista. La «strategia della tensione» andava prendendo corpo. Giorgio Benvenuto, all’epoca segretario della Uilm, in una delle due introduzioni al libro (l’altra è di Mario Capanna), ricorda ancora con angoscia quando fu convocato subito dopo il 19 novembre, insieme ai segretari di Fiom e Fim, dal ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin. «Siamo alla vigilia dell’ora X» – disse loro – «Il golpe è alle porte, bisogna mettere un coperchio sulla pentola che bolle». Si riferiva quanto accaduto nell’aprile del 1967 in Grecia con la presa del potere da parte dei colonnelli e alla necessità di firmare immediatamente il contratto dei metalmeccanici. La strage di piazza Fontana arriverà il 12 dicembre successivo. Già a partire dal pomeriggio del 19 novembre scoppiò letteralmente una rivolta in due caserme di Milano, dove centinaia di agenti tentarono di varcare i cancelli per farsi «giustizia» da soli. Dovettero schierarsi alcuni reparti di carabinieri per impedirlo. La morte di Annarumma aveva fatto da innesco a un malumore profondo e diffuso dovuto ai turni massacranti, a una disciplina ferrea, nonché a condizioni di vita davvero misere in alloggi scadenti, con vitto mediocre e paghe bassissime. Annarumma percepiva una retribuzione netta di 82.630 lire mensili. La repressione fu durissima con trasferimenti punitivi e allontanamenti dal corpo. Da qui comunque si svoltò, almeno sul piano di alcune iniziative di natura economica per le forze di polizia. La smilitarizzazione e il sindacato di polizia arriveranno solo molto dopo, nel 1981. I FUNERALI di Antonio Annarumma si svolsero venerdì 21 novembre. Una gran folla, stimata in cinquantamila persone, si radunò nel centro di Milano. I fascisti colsero l’occasione per riprendersi la piazza. A centinaia, organizzati in squadre, scatenarono la caccia ai «rossi», magari individuati solo per l’abbigliamento o i capelli lunghi. A farne le spese furono in diversi, ma soprattutto Mario Capanna, il leader del Movimento studentesco che si era recato alle esequie. Rischiò il linciaggio. Venne salvato a stento da alcuni funzionari di polizia che in compenso lo ammanettarono. Per la morte di Annarumma non fu mai individuato chi avrebbe colpito con una sbarra il poliziotto alla guida del gippone. Tredici furono invece gli imputati per i disordini. Otto di loro furono assolti e cinque ebbero pene minime. Chi era accanto ad Annarumma testimoniò di non ricordare nulla. Fu il festival delle amnesie. Il professor Vittorio Staudacher, primario del Policlinico, mise in dubbio che l’agente fosse stato colpito da una sbarra. L’autore di un filmato amatoriale dichiarò di aver «ripresi due gipponi che si scontravano e un agente che moriva». La conclusione di Cesare Vanzella è amara: nessuno ha mai cercato «una verità accettabile», tanto meno la polizia. «La sensazione» è che «Annarumma debba restare ancora, e forse per sempre, una storia da non raccontare». * Fonte: Saverio Ferrari, il manifesto

L'articolo Il caso Annarumma. Una vecchia storia mai narrata sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2019/11/il-caso-annarumma-una-vecchia-storia-mai-narrata/feed/ 0
’68. Ma Pier Paolo Pasolini non stava con i poliziotti https://www.micciacorta.it/2018/03/24207/ https://www.micciacorta.it/2018/03/24207/#respond Thu, 01 Mar 2018 18:33:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24207 Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi

L'articolo ’68. Ma Pier Paolo Pasolini non stava con i poliziotti sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news.
Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità. Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti». Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia… I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti. Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare. FONTE: GIOVANNI DE LUNA, IL MANIFESTO

L'articolo ’68. Ma Pier Paolo Pasolini non stava con i poliziotti sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/03/24207/feed/ 0