Barcellona – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 20 Aug 2017 07:32:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Luciana Castellina: Non avere paura di farsi qualche domanda https://www.micciacorta.it/2017/08/23648/ https://www.micciacorta.it/2017/08/23648/#respond Sun, 20 Aug 2017 07:32:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23648 c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati

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Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando «no tinc por». E bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso, oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato fatto a quello che viene chiamato il «nostro libero modello di vita». E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati. So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo. E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto (no, non «legale», per carità!); chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali. La nostra orgogliosa riaffermazione «non abbiamo paura» ha certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e, anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere controproducente. Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che, anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile. La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza. Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia. Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo, anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. ( Ha ragione Ben Jelloun che si è chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista). E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra, fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio. Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità. Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo un impegno politico al «non abbiamo paura». L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione. FONTE: Luciana Castellina, IL MANIFESTO

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Fearless Cities. Un municipalismo oltre la «politica della paura» https://www.micciacorta.it/2017/06/fearless-cities-un-municipalismo-oltre-la-politica-della-paura/ https://www.micciacorta.it/2017/06/fearless-cities-un-municipalismo-oltre-la-politica-della-paura/#respond Fri, 09 Jun 2017 08:29:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23390 Meeting. «Fearless Cities», a Barcellona tre giorni di convegno internazionale Esattamente due anni fa, le elezioni amministrative nello Stato spagnolo restituivano un risultato insperato, nelle proporzioni e nei suoi effetti politici: le liste delle «piattaforme civiche» conquistavano le principali città, eleggendo i sindaci di Madrid, Barcellona e di tanti altri centri minori. E questa sera, […]

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Meeting. «Fearless Cities», a Barcellona tre giorni di convegno internazionale Esattamente due anni fa, le elezioni amministrative nello Stato spagnolo restituivano un risultato insperato, nelle proporzioni e nei suoi effetti politici: le liste delle «piattaforme civiche» conquistavano le principali città, eleggendo i sindaci di Madrid, Barcellona e di tanti altri centri minori. E questa sera, nella metropoli catalana guidata da Ada Colau, prende avvio il meeting internazionale Fearless Cities («Città senza paura») promosso da Barcelona en Comú. Lanciato in poche settimane, vedrà la presenza di oltre seicento partecipanti accreditati, provenienti da oltre 180 città di 40 differenti Paesi. Si tratta, a tutti gli effetti, della prima occasione d’incontro per quelle iniziative che hanno individuato nella democrazia e nell’autogoverno locale il terreno privilegiato. Per i promotori il dato di partenza è che «in tutto il mondo, un numero crescente di città grandi e piccole si schiera nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei beni comuni». L’obiettivo del meeting è quello di «consentire ai movimenti comunali di costruire reti globali di solidarietà e speranza di fronte all’odio, ai confini e ai vecchie e nuovi muri» che li perimetrano. NUMERI assai significativi e ricca articolazione di plenarie e workshop tematici, con attivisti, sindaci e consiglieri da tutto il mondo (programma completo: www.fearlesscities.com) rivelano un fenomeno in espansione, che da più parti viene ormai definito come «nuovo municipalismo». Fenomeno che prende le mosse proprio dai risultati elettorali spagnoli del maggio 2015. Ma che sarebbe, a sua volta, incomprensibile senza il ciclo storico apertosi con l’occupazione delle piazze del 15M 2011, i movimenti di massa che da allora hanno, in susseguenti ondate, fatto irruzione sulla scena sociale spagnola, e infine le diverse sperimentazioni politiche che, in tale contesto, si sono sviluppate. SONO FATTORI che continuano a rendere il «laboratorio iberico» oggetto di straordinaria attenzione (e verrebbe da dire, di desiderio) per la verifica di pratiche adeguate a declinare, efficacemente, il tema del cambiamento sociale di fronte ai drammi e alle contraddizioni del presente. Anche perché esse rinviano, nella maggior parte dei casi, a condizioni di partenza comuni ad altri contesti, europei e globali. La forza, simbolica e materiale, di molte tra le esperienze che si confronteranno nei prossimi tre giorni a Barcellona, risiede innanzitutto nella capacità di misurarsi con le trasformazioni strutturali che hanno investito le città nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia. E con l’impatto che le politiche di austerity hanno determinato sulle aree urbane nella recente gestione europea della crisi. LA METROPOLI contemporanea è divenuta lo spazio per eccellenza della produzione e della riproduzione sociale; lo spazio attraversato e connesso dai corridoi logistici e investito dalla creazione di piattaforme estrattive; il luogo in cui, più di ogni altro, vengono esercitate le attuali forme dello sfruttamento; il terreno ideale di applicazione per la logica parassitaria del capitalismo finanziario: là dove si dispiega la sua aggressione permanente, attraverso i meccanismi dell’indebitamento individuale e collettivo, della speculazione immobiliare e della rendita mobiliare, alla ricchezza socialmente prodotta. AL TEMPO stesso, le nostre città sono lo spazio dove si affermano forme di vita comune, libere e tendenzialmente egualitarie; il luogo in cui esplodono nuovi conflitti sociali, proliferano forme di cooperazione mutualistica, iniziative culturali e produttive indipendenti. Ciò conferisce – ed è ormai la realtà quotidiana a ricordarcelo, insieme al contributo di pensatori che vanno dal geografo David Harvey al filosofo della politica Joan Subirats, da Toni Negri all’urbanista statunitense Neil Brenner – alla metropoli contemporanea il ruolo di un campo di battaglia permanente, di tensione tra forze che si misurano reciprocamente sul terreno dei rapporti di potere reali. Proprio su questa magmatica linea di frattura sono andate a collocarsi – non senza esprimere una straordinaria capacità d’innovazione nei linguaggi e nelle forme dell’azione, a partire dal nodo cruciale della «femminilizzazione della politica» – le realtà municipaliste nate dalla «confluenza» della soggettività emersa dall’ultimo ciclo dei movimenti sociali con forze politiche della sinistra, antiche e nuove, pronte a riconoscere il primato del «protagonismo cittadino». NEI PROSSIMI tre giorni queste esperienze verificheranno, nello scambio reciproco, successi e sconfitte, limiti e potenzialità proiettando su uno scenario globale, segnato dall’uso politico della «paura», la propria sfida: quella che, con i piedi ben piantati nella dimensione locale, prova con coraggio a reinventare una prassi democratica capace di intervenire sulle grandi questioni del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle migrazioni, alla giustizia sociale e redistributiva. FONTE: BEPPE CACCIA, IL MANIFESTO

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La seconda vita di Manu Chao https://www.micciacorta.it/2015/07/la-seconda-vita-di-manu-chao/ https://www.micciacorta.it/2015/07/la-seconda-vita-di-manu-chao/#respond Sun, 26 Jul 2015 06:36:05 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20075 Come canta ne «La Vida Tombola», «il mondo è una palla», Manu adesso vorrebbe poter essere Maradona, per dribblare quelli che non hanno capito che un altro mondo è possibile

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CATANIA Il mare all’orizzonte e un’onda di ragazzi che spinge la sabbia fin sul palco. «Pazza Sicilia» carica Manu Chao, dando il via a due ore e mezzo di centrifuga in cui il pubblico è un vortice di giovanissimi. Offuscati dal rodeo di questa sua seconda vita, c’è anche la generazione che lo aveva scoperto al G8 a Genova nel 2001, quando senza offrire la sua candidatura fu eletto portavoce planetario del movimento no global. Benvenuti al Sud. Manu, come chiunque lo chiama a ogni latitudine, è tornato in Italia per un viaggio in cinque tappe in luoghi dove la musica internazionale faceva fatica a sbarcare. Dopo aver fatto ballare 40 mila persone a Monza a metà giugno, ecco la spiaggia di Catania, poi il raduno sulla Sila tra pecore e mufloni, (domani) il porto di Molfetta, poi Cagliari e la chiusura del tour europeo nel parco archeologico di Vulci. Concerti a chilometro zero, per andare incontro alla gente del posto. Ogni concerto è una festa. «Sempre sold out, senza nessuna promozione: succede ed è bellissimo» racconta. E succede nonostante non faccia un disco da otto anni. Dai tempi di Genova quasi tutto è cambiato: Bush non c’è più, anche se sopravvive in qualche visual sullo schermo del concerto. Manu usa Facebook come tazebao sociale, per piccole battaglie locali. «Le uniche che hanno ancora senso. A livello assoluto vedo grande confusione: la cattiva distribuzione dei soldi ha fatto danni, ma a livello di quartiere tutto si compensa. Non credo nelle rivoluzioni, preferisco piccole conquiste» spiega infilandosi occhialini da vista e con qualche ricciolo bianco in più, mentre chatta su Skype con la fidanzata greca. Gli ideali non invecchiano, ma il cantante franco-spagnolo ha messo altri nemici nel microfono. Per esempio la multinazionale Monsanto che vuole imporre gli Ogm in America Latina. In primavera ha suonato nella giungla in Colombia per tutelare la conservazione della foresta Amazzonica. «In un mondo difficile, la mia energia può aiutare la gente a trovare coraggio, partendo dalle piccole cose». Tornando alla terra. «Alla convivenza col vicino, nel mio quartiere coltiviamo l’orto» racconta mentre mangia pomodori siciliani come fossero caviale. La sua chitarra acustica inseparabile, apparecchiata anche a tavola. In Italia è arrivato dopo i concerti in Grecia. Ad Atene ultimamente va spesso. Era lì a sostenere il «No» nei giorni del referendum. «Oki» l’ha pure tatuato sulla chitarra. «Perché Bruxelles ha paura di un’Europa diversa». Ai concerti la gente lo vuole incontrare come fosse un politico. Lui prima di metterci la faccia vuole capire. Si fa raccontare le storie, non importa in che lingua. Tanto parla inglese, francese, spagnolo, sprazzi di italiano e portoghese soprattutto con il figlio brasiliano che ora vive a Fortaleza. La prima cosa che colpisce è il buon umore che Manu infonde a chi lo circonda. Non saluta: abbraccia. Le prove prima del concerto le fa in infradito mangiando crema di caffè. Anche sul bus che porta la band verso il palco si suonano e cantano canzoni dei Beatles. Come fosse una gita scolastica: un’allegria diffusa, nonostante il bassista si sia fratturato tibia e perone due settimane fa. Chiunque avrebbe sospeso il tour: Jean Michel invece si è infilato il gesso e ha detto che non vedeva un motivo per tornare a casa. A 54 anni, Manu butta sul palco la stessa energia di quand’era ragazzino: si può pure permettere un paio di sigarette prima di rientrare per gli ultimi bis. Rimbalza sul palco come una pallina. Nonostante lo stiramento al polpaccio e la faccia rassegnata della fisioterapista due ore prima del concerto. In tour sta a dieta: solo qualche birretta dopo lo show. «La mia unica palestra sono le prime date del tour. Il problema è quando ti fermi senza suonare. Crolla l’adrenalina, c’è chi va in depressione». Dopo l’Italia, Manu tornerà a casa, a Barcellona dove vive nel Poble Nou, quartiere in espansione di movida. Dove suona per strada per aiutare gli immigrati sotto sgombero e gioca a pallone tre volte la settimana con la gente comune, in particolare bambini. Un po’ come piaceva fare a Bob Marley. Perché, come canta ne «La Vida Tombola», «il mondo è una palla» e adesso vorrebbe poter essere Maradona, per dribblare quelli che non hanno capito che un altro mondo è possibile. Stefano Landi

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