Carcere speciale – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 28 Feb 2021 08:42:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Grecia. Vendetta di Stato contro il leader della 17 Novembre Koufontinas, in sciopero della fame https://www.micciacorta.it/2021/02/grecia-vendetta-di-stato-contro-il-leader-della-17-novembre-koufontinas-in-sciopero-della-fame/ https://www.micciacorta.it/2021/02/grecia-vendetta-di-stato-contro-il-leader-della-17-novembre-koufontinas-in-sciopero-della-fame/#respond Sun, 28 Feb 2021 08:42:45 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26350  Trasferimento in un carcere lontano dalla famiglia e divieto di lavorare in prigione, per la legale è la vendetta della famiglia Mitsotakis. I medici avvertono: rischia di morire

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Al processo si è assunto l’intera responsabilità politica per la storia dell’organizzazione clandestina. È stato condannato a 11 ergastoli per concorso a 11 omicidi e altri atti di terrorismo. Ora Koufontinas rischia di diventare il primo detenuto politico europeo che perde la vita dopo uno sciopero della fame dopo il 1981, quando il militante dell’Ira Bobby Sands morì in carcere mentre a Londra regnava Thatcher. Ora ad Atene regna un convinto thatcheriano, Kyriakos Mitsotakis. Koufontinas è in sciopero della fame da 50 giorni. Negli ultimi giorni ha deciso di procedere anche allo sciopero della sete. Da 11 giorni è ricoverato al reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lamia. Secondo il suo medico Thodoris Zdoukos, il suo fisico sta allo stremo, rischia il coma, c’è pericolo che non arrivi a lunedì. Koufontinas protesta perché la destra al governo lo ha preso di mira. Mitsotakis prima ha affidato la gestione del sistema carcerario al ministero dell’Ordine pubblico e subito dopo ha sancito una legge ad hoc che nega ai condannati per terrorismo una serie di diritti riconosciuti agli altri detenuti: brevi permessi premio e la possibilità di eseguire la pena lavorando nelle carceri agricole. Questo malgrado le autorità abbiano sempre riconosciuto al detenuto un comportamento esemplare. L’ultimo provvedimento, quello che ha portato Koufontinas all’estrema forma di lotta, è stata la decisione del ministero di polizia di spostarlo da Atene e internarlo in un carcere speciale collocato a Domokos, località montagnosa della Grecia centrale. Carcere non solo difficilmente raggiungibile dalla moglie e dal figlio di Koufontinas ma anche noto per il sovraffollamento e le pessime condizioni di detenzione. Una decisione del tutto irregolare e illegale, che la responsabile del ministero Sofia Nikolaou ha tentato invano di giustificare ricorrendo alla pandemia, mentre metteva in campo grossolani trucchetti burocratici pur di impedire al detenuto di agire per via legale. «È evidente che si tratta di un’azione di natura vendicativa», spiega al manifesto l’avvocata Ioanna Kourtovik, difensore di Koufontinas. L’ex terrorista è ritenuto l’uomo che ha schiacciato il grilletto nell’assassinio di Pavlos Bakoyannis nel 1989. Un’azione terroristica difficilmente comprensibile. La vittima era un coraggioso giornalista schierato contro i colonnelli e poi eletto deputato di Nuova Democrazia. Ma era anche cognato dell’attuale premier, marito della sorella Dora Bakoyannis, ex sindaca di Atene ed ex ministra degli Esteri. Il figlio, Kostas Bakoyannis, è attualmente sindaco di Atene. «Sicuramente il premier ha in mente un’azione esemplare nel nome della sua dinastia politica – continua Kourtovik – ma dietro vi è anche una strategia da legge e ordine che ha scatenato dinamiche da guerra civile: distruggere il nemico o renderlo inoffensivo, per affermare la potenza dello schieramento conservatore e soffocare qualsiasi voce di protesta». Questo malgrado alcuni esponenti del governo, l’Ordine degli Avvocati, Amnesty e molti altri abbiano chiesto che i diritti del detenuto siano rispettati. Al momento il governo sembra orientato a imporre allo scioperante l’alimentazione forzata, una pratica vietata dalle convenzioni internazionali, che i medici dell’ospedale di Lamia hanno già rigettato. * Fonte: Dimitri Deliolanes, il manifesto

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Diario minimo da un altro tempo https://www.micciacorta.it/2010/05/diario-minimo-da-un-altro-tempo/ https://www.micciacorta.it/2010/05/diario-minimo-da-un-altro-tempo/#respond Tue, 25 May 2010 09:41:38 +0000 http://localhost:8888/?p=48 ma che non è detto non sia ancora qui, annidato nel tempo presente, pronto a balzar fuori

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Le Nuove di Torino, tra gli anni ’70 e gli ’80

Il sotterraneo me lo ricordo, c’ero scesa con Liviana e con suor Angela. C’erano vecchi bauli da svuotare, abiti da scena per recite di detenute dei decenni precedenti, prima della riforma. Abiti donati da signore della Torino bene, paillette, seta, frange. Abiti indossati da chissà  quali donne: chi c’era prima di noi e prima delle tossiche e prima delle rapinatrici, libere donne degli anni settanta?

C’erano le donne semilibere, qui, fino a qualche anno fa, dice suor Angela. Che angoscia, sussurro io. Bello schifo, alla faccia della riforma, dice Liviana.

Le celle sono sotto il livello del terreno, una grata piccola e oscurata da polvere, terra e ragnatele fa intravedere il ciglio del cortile di cemento. Un ottocentesco soffitto a volte percorre il lungo corridoio dove si affacciano porte di legno grigio con chiavistelli spropositatamente grandi, e spioncini piccoli. Ovunque buio e umido. Un filo di luce a mezzogiorno, e scalpiccio di pantegane, specie d’estate. Del sotterraneo, me ne aveva parlato Sara, del suo letto di contenzione alle celle delle Nuove, nell’anno della rivolta, il ’77. Del sorriso del maresciallo, dopo la lotta e le urla e il rifiuto di entrare in cella, nel girare le bende ruvide attorno ai polsi e fissarle al pancaccio. Due giorni e due notti. Lame di sole obliquo e buio e topi e mosche. E le voci delle altre, a chiamare a salutare e fischiare per non farla sentire sola. E le urla delle guardie a farle tacere.

Mani legate e corpi esposti al potere totale di un altro e buio intorno pieno di rumori da decifrare senza poter dormire e scalpiccio di topi o di anfibi militari che si avvicinano (perché vengono qui? per fare cosa? cosa accadrà , adesso?)

Santa Verdiana – Firenze – Isolamento – 1982

Voci di donne, ora, stemperano la tensione accumulata in caserma tra rumore di passi, porte aperte di scatto, uomini a cerchio sempre attorno, lo sguardo fisso sul mio viso. Il carcere mi accoglie di nuovo nel suo grembo di matrigna, mi nutre di cibo in scodelle di acciaio, mi prepara il letto con lenzuola ruvide, di quelle che durano una vita (…). Il suono femminile tenace delle voci, giù in cortile, e la femminile perversità  di accudire un corpo chiuso, mi danno una sorda tranquillità .

Le voci delle compagne, in cortile, si fanno più eccitate, rimbalzano sui muri alti del vecchio convento, passano le prime sbarre, e la rete fitta, e le seconde sbarre della piccola finestra. Le riconosco, ad ognuna il suo volto. Alcune mi emozionano. Il mio nome e poi “fuori dall’isolamento”, urlato, scandito, cantato. Sensazione calda, sono accudita, ora posso anche piangere un po’. Quasi mi assopisco, vedo la luce trascolorare verso un riflesso dorato, non ho l’orologio, intuisco un pomeriggio d’autunno che si consuma, là  fuori. Le donne, nel cortile, non scandiscono più il mio nome né gli slogan per avermi con loro. Percepisco una contrattazione, le loro voci, acute e sovrapposte, si alternano ad una voce, singolare e maschile. Le strisce di sole sul muro, ormai rosate, mi dicono che il pomeriggio volge alla fine. Dovrebbero essere chiuse in cella già  da ore. Si rifiutano di rientrare, contrattano ancora. Ho paura di sentire anfibi militari avanzare rabbiosi sul cemento del cortile, mi sento impotente. Mi sento desiderata, anche: impotente e intenerita.

Voghera – Massima Sicurezza – 1983

Le divise informi di stoffa ruvida con stampigliato sulla schiena “Trani – 1944” (ma eravamo belle lo stesso, bastardi, Dio se eravamo belle). E quando mettevano brutta musica a tutto volume sparata dagli altoparlanti in tutti i corridoi per impedirci di comunicare tra noi, noi cantavamo più forte, fino a gonfiare le vene del collo. E quando, al momento dell’arrivo, ci mettevano nude in fila e ci facevano fare sei flessioni e poi ci cacciavano a forza sotto le docce calde, per vedere se la vagina, rilassata dal calore, lasciava cadere esplosivi, messaggi cifrati, documenti politici, lettere d’amore clandestine, cacciavamo le lacrime in gola e cercavamo i nostri sguardi più sprezzanti e, perfino, qualche scintillio di ironia. E quando, rivestite delle divise naziste, e calze color militare che scendevano al polpaccio ad ogni passo e scarpe di cartone, incalzate dal fiato sul collo dello sbirro che dava il ritmo dell’apertura dell’infinita teoria dei cancelli blindati ripetendo “muoviti puttana”. Sì, anche allora eravamo belle, bastardi, Dio se eravamo belle.

Giudecca – Venezia – Isolamento 1988

Il carcere della Giudecca, con il grande portone, mi ingoia insieme alla scorta. Dovrò odiare questo luogo, anche questo luogo: me ne dispiace, è la mia città . Non è così che avrei voluto tornare, non in catene. Non si può stare chiusi, a odiare un luogo che si ama, per cui si muore di nostalgia. Ogni carcere è migliore di questo: il più buio, il più umido, il più duro. Ma qui, resistere alla struggente luce della sera, e alle campane in lontananza, e al dialetto dolce parlato dai carcerieri, e alla voce dei gabbiani. Qui la prigionia è insostenibile.

Voci e suoni domestici, la lingua cantilenante, la lingua di mia madre. A sentire sardo e napoletano, almeno, potevo proteggermi con una estraneità ; qui, invece, sono avviluppata dalla perversione della familiarità . Tutto qui mi rende inquieta: pochi cancelli, molte suore, la guardia della matricola con le pantofole friulane di velluto e gli occhi chiari, nessuno grida, pavimenti di legno antico. Eppure, i corpi sono chiusi, qui come altrove. È un penale, il carcere del tempo definitivo. Provo, per tutta questa dolcezza, un fremito di ribrezzo e, allo stesso tempo, di fascinazione. Il carcere tutto militare e maschile e duro da cui vengo mi tranquillizza e al contempo mi spaventa, visto da qui. Cosa e chi sto diventando, se addirittura lo rimpiango? Perché sono più salda sulle gambe lì che qui? Le donne qui mangiano insieme, non nelle loro celle, ma in una sala comune. C’è aria di refettorio, di convitto. Ma io ho una cella per me, non posso parlare con nessuna. Sono contenta di stare da sola. Voglio ripensare a tutto il luccicore del mare, allo Stucky che mi ha accolta. Voglio morire di nostalgia, piangere, finalmente non vista.

Posso farlo: la cella è molto grande, potrebbe ospitare sei donne, anche di più, con i letti a castello. C’è un angolo, vicino al cesso, che rimane nascosto allo spioncino, fallimento della paranoia del panopticon. Se mi metto lì, posso piangere e pensare non vista. Da quanto non ho il dono dell’invisibilità ? Si può fare, qui: sedia e tavolo e letto non sono imbullonati al pavimento, tutto si muove e si sposta, come in una stanza vera. La finestra ha sbarre e rete, lascia intravedere poco del mondo. Però, schiacciando il viso sulle sbarre, a destra, lo sguardo – forzando gli occhi fino a far male – arriva ad una cupola chiara, a uno scorcio di tetti, e proprio vicino a me, è appollaiata una coppia di colombi. Sono stanca. Prendo la sedia che mi rende invisibile e apro il mio libro.

 

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Lilium https://www.micciacorta.it/2010/05/lilium/ https://www.micciacorta.it/2010/05/lilium/#respond Tue, 25 May 2010 09:39:14 +0000 http://localhost:8888/?p=47 La frattura lancinante dell'arresto, la canna della pistola sulla nuca, la cravatta che mi ha legato i polsi, l'incrinatura improvvisa del tempo, le voci concitate e soddisfatte, erano di uomo

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Carcere di Santa Verdiana, Firenze, novembre 1982

Voci di donne, ora, stemperano la tensione accumulata in caserma tra rumore di passi, porte aperte di scatto, uomini a cerchio sempre attorno, lo sguardo fisso sul mio viso. Il carcere mi accoglie di nuovo nel suo grembo di matrigna, mi nutre di cibo in scodelle di acciaio, mi prepara il letto con lenzuola ruvide, di quelle che durano una vita. Si rifiuterà  di buttarmi fuori dal suo ventre squadrato per lungo tempo, sono entrata con un ergastolo. Ma per ora, il suono femminile tenace delle voci, giù in cortile, e la femminile perversità  di accudire un corpo chiuso, mi danno una sorda tranquillità .

La frattura lancinante dell’arresto, la canna della pistola sulla nuca, la cravatta che mi ha legato i polsi, l’incrinatura improvvisa del tempo, le voci concitate e soddisfatte, erano di uomo. Il silenzio, il lavarsi il viso, la tazza di caffé, il tempo che riprende a fluire, sebbene lento, le pantofole strascicate sul ballatoio di pietra dopo il mio grido di richiamo, sono di donna.

L’impatto rabbioso ed eccitato del primo arresto, non si ripete. Ho dentro una stanchezza d’abisso. La mia nascita, nemmeno un anno prima, da quel cortile di cemento dissacrato da venti chili di dinamite e da un amore inquieto, mi appare sprofondata nel tempo. L’eterno presente dei pochi mesi di libertà , per cui non càera passato e non càera futuro, lascia di nuovo spazio al gioco tra memoria e vuoto. Vuoto, perché da qui non si può dire “domani”. Pochi mesi di una libertà  che assomigliava troppo al suo contrario, una sorta di tempo presente cristallizzato in destino, ormai privo di casualità . Eppure, straordinariamente, a tratti felice.

Le voci delle donne, in cortile, si fanno più eccitate, rimbalzano sui muri alti del vecchio convento, passano le prime sbarre, e la rete fitta, e le seconde sbarre della piccola finestra. Le riconosco, a ognuna il suo volto. Alcune mi emozionano. Il mio nome e poi «fuori dall’isolamento», urlato, scandito, cantato. Sensazione calda, sono accudita, ora posso anche piangere un poà.

Quasi mi assopisco, vedo la luce trascolorare verso un riflesso dorato, non ho l’orologio, intuisco un pomeriggio d’autunno che si consuma, là  fuori.

Le donne, nel cortile, non scandiscono più il mio nome né gli slogan per avermi con loro. Percepisco una contrattazione, le loro voci, acute e sovrapposte, si alternano a una voce, singolare e maschile. Le strisce di sole sul muro, ormai rosate, mi dicono che il pomeriggio volge alla fine. Dovrebbero essere chiuse in cella già  da ore. Si rifiutano di rientrare, contrattano ancora. Ho paura di sentire anfibi militari sul cemento del cortile, mi sento impotente. Mi sento desiderata, anche: impotente e intenerita.

Rumori fuori dalla porta blindata della mia cella, la chiave nella serratura. Cosa vogliono, adesso, perché non mi lasciano in pace? Unàaltra chiave, nella serratura del cancello interno. Ci sono anche due guardie. Mi irrita la prospettiva di una perquisizione dopo nemmeno mezza giornata, e con la cella completamente vuota, poi. Non mi hanno lasciato nulla.

Nel rettangolo di luce lasciato libero dalla porta, il corpo da ragazzino di Alba. Un pensiero, stupido: sono cambiati i tempi, una fermata all’aria e si è già  vinto.

Un abbraccio stretto, gli occhi di Alba intensi, tristi e imbarazzati. Sto bene, le dico, sto bene, non mi hanno toccata, e voi qui, ci siete proprio tutte, non fate altre fermate, andate nei guai, non ne vale la pena, l’isolamento non durerà  a lungo, càè il processo… Mi escono fiumi di parole, non mi lascio il tempo di chiedermi perché la facciano stare nella mia cella, perché le immutabili regole del carcere siano state infrante, e poi proprio per me.

Sediamoci, dice, e mi prende una mano. Devo dirti una cosa.

Non penso, non riesco a pensare. Le guardie accostano porta e cancello. La cella mi appare, improvvisamente: ha i muri scrostati, una branda di ferro bianco, da infermeria, il buio si sta mangiando le strisce di sole. Io e Alba siamo sedute sulla branda, su una coperta militare. Attorno, nulla. Lei ha le mani piccole, ho sempre pensato che ha le mani da bambino.

Tua mamma, dice. Tua mamma è morta. Quando? riesco a dire. Due mesi fa, alla fine di agosto.

In caserma, pochi giorni prima, avevo dichiarato che mio padre e mia madre erano viventi.

Il mio presente assoluto aveva inchiodato la mia vita al suo destino, non aveva potuto trattenere la sua morte.

Mi sento sola, sola e bambina, quando Alba deve uscire e si richiudono le porte di ferro.

Come una bambina, ero certa che lei ci sarebbe stata, al mio ritorno.

I tratti del bel viso di mia madre non sono più limpidi, nel ricordo. Sovrappongo quelli dell’ultimo abbraccio, da libera, a quelli del reincontro, dopo il primo arresto, a quelli, ancora, dell’ultima volta, al colloquio, già  erosi dal male in un modo che non consentiva bugie, né a lei né a me. Il viso si era fatto più spigoloso, sofferente, improvvisamente invecchiato, come un piccolo frutto appassito. Lei, che nemmeno un anno prima, a cinquantotto anni, aveva la pelle chiara e trasparente e sottile, gli occhi verdi come certi laghi d’alta quota, circondati da una raggiera di rughe, piccole, appena percettibili nel sorriso o nello sguardo indurito.

Lei, con le gambe belle, incredibilmente asciutte e ben tornite, vanto di ragazza veneziana che ha passato la giovinezza a correre su e giù per calli e ponti. Lei, naso dritto, sorriso di seduzione, capelli scuri, le mani sui fianchi, rimprovera noi bambini, con il sorriso che le sfugge dagli angoli della bocca, incapace di prendersi sul serio.

Lei, con il male sul viso, dall’altra parte del bancone della sala colloqui, mi stringeva le mano, e non so come potevo accarezzarla con quel sogno di fuga che già  mi possedeva interamente, e che non potevo rivelarle.

«Vegnarà  un croato che te porta via», diceva quando, bambina, la stavo esasperando. E sempre quel sorriso che le sfuggiva, tenero, perché in realtà  io ero una bambina buona e giudiziosa. Un croato, nella leggenda di famiglia, era un uomo passionale che mi avrebbe rapito alla casa materna e portato con sé; ma era anche, e qui stava la minaccia, un uomo possessivo e autoritario, che avrebbe saputo dominarmi.

Avevamo riso insieme, dopo la prima cattura, quando provavo l’impossibile impresa di raccontarle quegli anni di libertà  clandestina, lontana da lei. Allora, la cosa più semplice era stato cominciare da lui, dall’uomo amato. Era attenta, intenerita da quell’amore sfortunato, da quella lontananza, dalla separazione drammatica del carcere. Cercava di dargli dei connotati, di vederlo, quell’uomo ora lontano, e da sempre assente dalla sua vita di madre. Era stata felice che fosse di origine slava, lei, così orgogliosa delle sue origini, orgogliosa di suo padre, dello sguardo randagio e inappagato di quella gente. È arrivato, allora, il croato, e abbiamo riso di nuovo con la complicità  di sempre, che pareva solo temporaneamente interrotta da quel decennio di viaggi.

Ma accade che certi viaggi non abbiano ritorno e che i cerchi non si chiudano.

Piangeva, quel giorno di un anno dopo, dall’altra parte del bancone, e non capivo quanto per il suo male, o per la nostra separazione, o per essersi dovuta spogliare davanti alla guardiana prima del colloquio. Impotente per il suo corpo che moriva, colpevole per la lunga assenza e per il progetto di fuga, non mi rimaneva che vendicare l’umiliazione imposta alla madre.

Al rientro in cella, scortata in un’aria di rancori contrapposti, chiusa dentro in tutta fretta, da dietro le sbarre mi è uscito un solo, lungo urlo. E mi sentivo il corpo squassato dall’odio, come mai prima, durante la mia guerra.

È morta, è morta a fine agosto.

Unàimmagine, un cuscino di gigli rossi sulla sua bara. Mi abbandono, non so fare altro, a questa immagine, pensando alla gondola nera che va verso l’isola popolata dai morti e dai gatti. Prima di affacciarsi sulla laguna, dove aumenta il silenzio, percorre la mappa intricata dei canali, dal piccolo rio che costeggia Caà Rezzonico all’isola, il viaggio non è breve. È il secondo tragitto che la ragazza veneziana percorre in gondola, come una turista ricca; il primo era stato per il suo matrimonio. Il remo affonda in un’acqua verde solido, ora più stretta, ora più ampia la misura tra i muri che, visti da lì, dal basso, appaiono altissimi. Rami di alberi piangenti si tuffano dai cancelli, l’aria di settembre è ferma. Il viaggio è lento, non si accorge nemmeno che il verde solido dell’acqua trascolora nel luccicore della laguna aperta. C’è tempo per osservare tutto ancora una volta, con quello sgomento dolce che accompagna l’abbandono della vita. Lo so, sai, com’é. Dal finestrino della macchina, i polsi legati dalla cravatta del carabiniere, anchàio guardo fuori, e so di guardare ciò che sto perdendo. La giornata è radiosa, non pare nemmeno fine ottobre. Da corso Sempione a via Moscova, riempio gli occhi famelici di platani autunnali, di gente, di strade. Guardo, e voglio che la memoria accolga tutto, mi riconsegni, poi, tutto comàè ora, anche con il filtro di questo scoramento.

So che lei dev’essere stata sepolta in terraferma, non sull’isola; ma nulla può censurare il desiderio che almeno un cerchio si chiuda, il suo, congiungendo acqua all’acqua, la sua nascita alla sua morte. Che almeno lei non sia orfana.

I gigli rossi, certo. Sono tra i suoi fiori preferiti.

Erano, tra i preferiti. Più ancora del prezioso giglio martagone, il nome mi faceva ridere, da bambina. Raro e nascosto, è un fiore sensuale, carnoso e allusivo quando è in boccio, tondeggiante quando, apertosi, ripiega i petali viola e neri all’indietro, secondo una curva perfetta. Il giglio rosso, invece, ha forma conosciuta, non esotica, e colore solare, grandi pistilli gialli che tingono le dita in modo indelebile. Stride il nome, lilium, il suo significato di purezza, con il colore baldanzoso, eccentrico e immodesto.

Lei scherza sempre, con il nome del fiore e il significato del mio nome. Io ti penserei lilium bianco, però, dice. Non so se indispettirmi, perché il bianco mi pare più scialbo, o se identificarmi con un’idea di perfezione. Si vedrà  quando cresci, dice.

Nei prati scoscesi, sotto la forma troneggiante e squadrata del monte Pelmo, ce nàerano tanti, di gigli rossi, venticinque anni fa. Ora, non so. Quando lei rompeva la tradizione familiare, e decideva di festeggiare il mio compleanno su, in montagna, ci si poteva riempire gli occhi con i prati di giugno.

L’erba alta, che nessuno aveva ancora falciato, rivelava fiori enormi, come cresciuti troppo per qualche evento straordinario. Mi stupivano, i prati di giugno, sembravano un eccesso, una dismisura. L’erba è alta come me, forse di più. Lei ama quella preda solare, ne raccoglie grandi mazzi. Lei suggerisce tattiche efficaci: è più facile scorgerli dall’alto. Cerchiamo i prati più scoscesi, li costeggiamo in salita, seguendo il sentiero, per poi ridiscendere in mezzo all’erba. Ci mettiamo in alto, sul ciglio di un pratone ripido, ferme e attente, come si trattasse di avvistare uno stambecco. E subito l’occhieggiare caldo dei gigli si stacca dal verde, emerge, balza fuori. Ci dividiamo con tacita intesa e scendiamo: io, a precipizio, lei lentamente, con i piedi messi di lato e di taglio, il fianco tondo rivolto alla valle, col passo cauto e pesante dei vecchi di montagna. Ma non è vecchia, ha poco più di trentacinque anni, quasi quanti ne ho io, ora.

Io sono eccitata, l’orgoglio mi fa arrossire quando posso indicarle un giglio più vicino a lei, e quando posso esibire un mazzo più rigoglioso del suo. La chiamo continuamente, pretendo la sua attenzione, voglio che mi guardi, che non perda nemmeno un attimo della mia corsa e del mio saccheggio. Guarda come sono svelta. Sono tutti per te.

Qualcuna apre lo spioncino, vuole che accenda la luce? No. Ma sta bene? Sì. Passano spesso, per guardami; hanno paura che faccia qualcosa contro il mio corpo.

Sono abituate a donne che esprimono il dolore con violenza, battono la testa contro il muro, rompono vetri e con le schegge si tagliano le vene dei polsi e delle braccia. E vengono portate, con l’aiuto di qualche uomo, in infermeria, e lasciano, come Pollicino, un sentiero di gocce di sangue lungo i ballatoi. E dopo pochi minuti appena la lavorante viene fatta uscire dalla sua cella, qualsiasi sia l’ora del giorno e della notte, per pulire quel sentiero, perché i pavimenti porosi non rendano incancellabile quell’orma di dolore e di impotenza.

Mia madre diceva che il dolore scava dentro, mi diceva di diffidare di chi lo esibisce, ne fa spettacolo. Era forse un modo per dirmi di farne esperienza, di non sputarlo fuori troppo in fretta. Lei non credeva ai riti collettivi, non attorno al dolore, almeno. Lei non credeva a dèi consolatori. O forse era solo orgoglio di figlia allevata da un padre severo, uomo di confine. Làho vista piangere poche volte, e sempre di solitudine, nascosta in cucina e colta di sorpresa. Una volta per la morte del nostro cane, e poi, l’ultima volta, dietro quel bancone. Non posso sapere quante volte ha pianto per me.

Guardano dallo spioncino ogni dieci minuti. Ogni volta accendono la luce, mi provocano piccoli balzi del cuore. Provo rabbia per questa osservazione del mio dolore.

Un ricordo mi strappa alla sconfinamento della mente. I gigli rossi, estremo tentativo di dirle ti amo anche da qui, da questa assenza. A settembre, in quel paese sulla costa, con il mercato nella piazza rinascimentale, la spiaggia piatta e poco popolata, il treno che sempre dovevo prendere al mattino presto, e sempre mi scaricava al tramonto; il tempo per un aperitivo, io e lui, prima di chiuderci nella piccola casa ammobiliata. Sentivo il tempo chiudermisi addosso, il progetto cui stavo lavorando aveva la lucidità  e la follia della battaglia finale. Mi ritagliavo scampoli di quotidianità , a volte, sola, girando per il mercato, tra le bancarelle, con le borse piene di frutti che non so se avrei mangiato, ma che mi piaceva toccare e comprare. Accanto a me, donne, e in me la sensazione tante volte provata di vivere dentro una bolla del tempo in cui si consumavano cose estreme: si combatteva una guerra, si uccideva e si moriva, si veniva catturati, picchiati, a volte torturati, si taceva o si tradiva. E poco più in là , donne che, sebbene affannate, vivevano in tempo di pace. Un vecchio vendeva oggetti antichi, piccolo antiquariato più o meno autentico. C’era una grande cesta colma di stampe di città  ottocentesche, e di fiori e piante riprodotti a mano, tratti da vecchi libri di botanica. Avevo rovistato un poà distrattamente, come fanno le donne quando non hanno fretta, fino a che non erano comparse stampe di fiori alpini; allora, avevo accelerato i movimenti. Sapevo cosa cercavo. Non era bellissima, quella riproduzione del giglio rosso, e certamente non era antica. Ma avevo bisogno di dirle qualcosa di più di quanto riuscivo a balbettare in messaggi di pochi secondi al telefono. Avevo fretta: forse per il rischio sempre maggiore che mi avvolgeva, per la sensazione di ineluttabilità  da cui non sapevo liberarmi, o forse per la sua malattia, che, scacciata dalle tensioni del giorno, si era saldamente annidata nei pensieri notturni, e da lì riaffiorava.

Estremo omaggio o atto di scongiuro, certamente slancio tardivo di figlia spaventata e colpevole.

Avevo preso un treno, percorso cento chilometri, avevo spedito la stampa ben arrotolata in un contenitore rigido che la proteggesse. Ed ero tornata a quel progetto di uomini liberi, di uomini morti, di mura da far saltare.

Passano di nuovo. Questa volta chiamo io. Mi accenda la luce; la faccia nel piccolo rettangolo è soddisfatta, come dicesse: finalmente.

Fuori dal mio tempo, il suo tempo aveva continuato a scorrere. A fine agosto, ha detto Alba. Il postino aveva consegnato il giglio rosso in una casa silenziosa, coperta dal velo invisibile di un lutto discreto. Penso a mio padre che riceve il fiore con il nome di lei, e la vede morire un’altra volta per mano della mia assenza. Mi risveglio al tempo, corruttore, così diverso dal mio eterno presente. Il messaggio della figlia in fuga alla madre morta destina il cerchio a non chiudersi mai più. L’assenza cristallizza una morte senza riti, il velo nero del lutto non potrà  più essere steso con gesto pietoso. Questa è la prima certezza che ho sul mio futuro dopo il vacillamento della cattura. Sono attonita, attonita e bambina.

Il meccanismo potente con cui ho governato la morte, quella che si cerca e si accetta e quella che si dà , chiusi dentro una dura certezza, mi si rompe tra le mani, inutile. A questa morte non posso dare senso, non c’è traccia di volontà  né di storia, non ci sono acrobazie della mente che valgano a lenire, a rassicurare. Non valgono le lingue che hanno tradotto altre morti, ne hanno allontanato se non il dolore, almeno la paura e oggi, ancora, rendono sopportabile il ricordo.

Questa è una morte senza messe e sepolture, con lei ho perso tutti gli appuntamenti.

Mi chiedo perché non piango, ora che sono arrivata al fondo e mi sono detta quasi una verità . È come se la certezza che questo dissidio sarà  l’espiazione mi concedesse una cupa, improvvisa calma.

Riappare la faccia allo spioncino e una mano senza corpo sporge all’interno qualcosa. Alba mi manda una tazza di camomilla, mi accudisce da lontano, mi cura in modo parallelo e altro dalla tutela del mio corpo fornita per legge. Con sollievo mi accorgo che è questo che desideravo, ma non mi sarei mai alzata, non avrei mai chiesto. Ancora, la sensazione di calore scioglie il grumo.

Di nuovo la faccia, appare sollevata, il mio pianto deve sembrarle finalmente normale, in regola con la situazione.

Alba e le ragazze mi mandano dei vestiti per il processo di domani.

Bisogna pensare anche a questo, a questo rito che si celebra per pareggiare certi altri conti in sospeso.

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Vuotare il bacino d’acqua dove i terroristi nuotano, lo chiamavano. Fuor di metafora voleva dire inquisirne cento per prenderne uno. E tra quei cento, molti erano persone con scarse o nessuna responsabilità , che in certi casi finivano per trascorrere anni e anni di carcere duro. E ha voluto dire, almeno in un certo periodo, torture nelle celle delle caserme e delle questure, finte esecuzioni e pestaggi dopo l’arresto, comàè successo a molti. Me compreso. Ha voluto dire partorire in una branda, in una stanzetta davanti ai poliziotti con i mitra in mano, come accadde alla nostra compagna Sonia Benedetti.

Nella mia esperienza carceraria molto tempo ho trascorso nel carcere della città  in cui abitavo, San Vittore a Milano. Da dove, complice la direzione del vento o qualche spiraglio visivo consentito dalle finestre dei piani alti, si può “annusare” la metropoli, ricordarne i ritmi, ritrovare, in questo caso piacevolmente, i rumori del traffico. In qualche modo, un supplizio di Tantalo, un tarlo metropolitano proustianamente piantato nella memoria del recluso, eppure preferibile alla nebbiosa asetticità  delle prigioni più recenti, collocate in aperta campagna o nelle estreme periferie. Proprio come le discariche dei rifiuti: sono prodotti da tutti, ma nessuno li vuole vicino.

All’epoca del mio primo soggiorno, nel 1976, dal finestrone nel corridoio del terzo raggio, si poteva scorgere un angolo dei giardini di piazza Aquileia e, in quel modo, comunicare coi gesti dellà“alfabeto muto”, sia pure un poà ostacolati dalla pesante grata, con la fidanzata o gli amici all’esterno. Una comunicazione complicata e precaria, ma pur sempre una comunicazione. Un pezzetto di libertà  sottratto alle forme sepolcrali della clausura legale. Dalle celle questo non era possibile, a causa della “bocca di lupo”, una specie di lastra tombale che chiudeva quasi interamente il vano della finestra, impedendo la vista e la circolazione dell’aria. Fattore che in estate non mancava di causare disagi. Ma, anche da lì, arrampicandosi sul davanzale, si poteva se non altro rubare uno spicchio di cielo o di stelle alla monotonia avvilente del ferro-cemento.

Altri tempi, decisamente. Allora, San Vittore somigliava un po’ alla galera turca immortalata dal film Fuga di mezzanotte: una vera e propria bolgia, in cui i detenuti, specie i mafiosetti, avevano una relativa libertà  di movimento. Nei cortili giocavano a dadi, con grandi pacchi di banconote gettate a terra, sotto gli occhi delle guardie. In ogni cella c’era il “regolamentare” coltello a scatto, comprato, naturalmente, dal “cavallo”, cioè dalla guardia, così come ogni altro oggetto proibito, alcool soprattutto; la droga, allora, non era molto diffusa e richiesta. Il coltello entrava spesso in azione per regolare i debiti di gioco, gli “sgarri”, i conti delle bande esterne e le supremazie instabili di quelle interne. C’era un ordine parallelo, esercitato da una gerarchia parallela, decisamente tollerata e talora protetta da quella ufficiale, poiché, in certa misura, il fine e l’interesse erano comuni: l’ordine, appunto, cui piegare la massa dei detenuti e le “batterie” indipendenti. Necessario alla direzione per governare la bolgia, quando non bastavano i pestaggi e i trasferimenti punitivi alle isole (in particolare all’Asinara, governata da un despota, tal Cardullo, che si atteggiava a poeta ed effettivamente era monarca assoluto di quel carcere); agli altri, i mafiosi, per preservare ed estendere i traffici e gli affari.

Un equilibrio che, proprio in quegli anni, cominciò a incrinarsi e vacillare. Per due ragioni: la riforma introdotta nel 1975, che muoveva i primi passi, introducendo un minimo di diritti, e l’ingresso di carcerati particolari, quelli delle prime organizzazioni armate di sinistra, cui si univano i detenuti protagonisti del ciclo di lotte e rivolte che aveva portato alla riforma. Allora, detenuti politici e “politicizzati” eravamo pochi: una ventina, concentrati al primo raggio. Ma la novità  era vissuta con fastidio e preoccupazione dai poteri interni: così, quell’anno, i coltelli si misero in azione, ferendo tre compagni, mentre facevano la doccia. Uno dei tre era l’avvocato Sergio Spazzali, attivo nel “Soccorso Rosso”; fu poi scarcerato, nuovamente inquisito e infine rifugiato in Francia, dov’è morto nel gennaio 1994.

Un secondo e assai più lungo soggiorno mi ha riportato a San Vittore nell’autunno del 1983 per il primo maxi-processo a Prima Linea, cui ne seguirono ininterrottamente diversi altri. Provenivo dal carcere di Torino, dove si era concluso un precedente processo e dove tornai nel 1987, al termine dei processi milanesi.

Da qualche anno, dentro l’isola di San Vittore ne era stata costruita una seconda, assai più impenetrabile e separata: la sezione speciale, ubicata nel primo raggio. Nella primavera à84, con l’inizio del processo alle BR-Walter Alasia, contemporaneo al nostro, lo speciale si estese anche a una parte del secondo raggio. Isola nell’isola, prigione nella prigione, in quel momento non aveva nulla da invidiare al più duro dei carceri speciali, quello di Nuoro. Tranne che respirare, tutto il resto era proibito. Fuori, il dinosauro della lotta armata vibrava gli ultimi colpi di coda. Dentro, l’onda lunga e incattivita dell’emergenza trattava i detenuti politici come ostaggi.

Ma, proprio allora e a partire da quel carcere, qualcosa cominciava a cambiare. Complici le udienze quotidiane del processo, pian piano, cominciammo a comunicare tra di noi e, soprattutto, con la città . La socialità  nei gabbioni dell’aula-bunker dove si svolgeva il processo ci consentì di creare crepe progressive nel coperchio della morte civile e dell’isolamento.

La sezione speciale di San Vittore, così come quella di Torino, rimase comunque ancora per anni sottoposta all’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, in base a cui era vietato avere in cella più di due paia di calze o di mutande, scrivere ad altri detenuti, pur se parenti, fare i colloqui senza vetro divisorio antiproiettile, oppure muovere un solo passo fuori dalla cella, se non scortati da due agenti di custodia.

Il polo opposto, impermeabile a qualsiasi cambiamento, era Bad ‘e carros, il carcere speciale di Nuoro. Il peggiore. Era quello cui ministerialmente mi avevano assegnato, dopo la cattura, avvenuta in viale Monza a Milano il 15 gennaio 1983. Fortunatamente allora erano in corso i maxi-processi, che duravano anche anni e quindi per lunghi periodi comportavano la detenzione nelle sezioni speciali delle prigioni delle città  in cui i processi si svolgevano, nel mio caso Firenze, Milano, Torino, Roma, Napoli, Padova. Arrivai dunque a Nuoro solo nell’estate 1983, nella pausa estiva del giudizio contro Prima Linea in corso a Torino.

I blindati dei carabinieri sui quali avevamo viaggiato, dopo la notte trascorsa in una cella del traghetto Genova-Olbia, vennero fatti fermare all’esterno, davanti al portone. Fummo fatti scendere. Eravamo a gruppi di 4 detenuti con gli “schiavettoni” ai polsi: sono dei pesanti attrezzi di ferro che tengono immobilizzate le mani. Gli schiavettoni vengono poi legati uno all’altro con una lunga e ancor più pesante catena e fissati da altrettanti lucchetti, così che si forma una fila di persone i cui movimenti sono pressoché impediti. Per questo motivo gli zaini contenenti i pochi effetti consentiti che ognuno di noi recava con sé venivano portati dai carabinieri di scorta. Le guardie a presidio del portone del carcere intervennero subito, dicendo ai militari che gli zaini, mediamente pesanti una ventina di chili, dovevano essere trasportati da noi stessi. E così fummo costretti a fare, in una penosa via crucis, ognuno barcollante sotto un paio di zaini, con le mani strattonate dai movimenti della catena collegata agli altri compagni di cordata. Era un’operazione assai difficoltosa, che comportava notevoli sofferenze, talvolta distorsioni e ferite ai polsi. Ma quello serviva a dare immediatamente il messaggio di cosàera il luogo e delle regole che vi vigevano.

La via crucis continuava con ore di attesa in una cella di transito in cui dovevano sostare i nuovi arrivati in attesa di essere immessi nella sezione. Lo stratagemma serviva ad alimentare timori e stress psicologico stante che, mentre durava l’attesa, nel corridoio sostavano drappelli di guardie schiamazzanti e ubriache che urlavano cose incomprensibili in sardo, lanciavano insulti e minacce in italiano, producevano rumori violenti.

Poi, uno per uno, si passava alla registrazione in matricola, con denudamento e non di rado pestaggio. Infine si veniva rivestiti da una sorta di divisa in ruvido panno marrone, i cui pantaloni e casacca venivano appositamente scelti dalle guardie di taglie difformi da quelle di ciascuno. A un magro venivano abiti enormi, così che i pantaloni cadenti, senza alcuna cinta o legaccio, rendessero difficile camminare. Ai più robusti di corporatura venivano date misure invece insufficienti, coi pantaloni a mezzo polpaccio e maniche che stringevano all’altezza dei gomiti. Così per le scarpe, di cuoio durissimo e private dei lacci, che venivano date di un paio di numeri inferiori oppure superiori a quello effettivo del proprio piede.

Anche qui, oltre al gusto cattivo con cui la gran parte di quegli agenti si esercitava in questo passatempo, il senso era quello di produrre un primo impatto forte di avvilimento e umiliazione. Una tecnica non dissimile da quella utilizzata nei lager e nei gulag, per come raccontata da Primo Levi e dai dissidenti russi. Quando si è privati di tutto, sinanche della possibilità  di guardarsi allo specchio o della possibilità  di parlare con i propri vicini di cella, comàè accaduto in certi braccetti speciali, spontaneo sorge l’interrogativo: “Se questo è un uomo”, se lo si è ancora e se si potrà  mai tornare a esserlo.

Arrivando lì, mi resi immediatamente conto che la fama di Bad ‘e carros era del tutto meritata, quanto a durezze e sadismi. È l’unico carcere dove io abbia mai visto non solo le squadrette degli agenti ma lo stesso direttore venire in sezione con il manganello in mano. Per andare all’aria nelle gabbie esterne o alla doccia, quando era concesso, si doveva passare, uno per volta, in mezzo a due ali di guardie che agitavano minacciosamente il manganello, pronte a usarlo; il che accadeva di sovente.

Dopo poco tempo, e riuscendo a conservare uno sguardo ancora un po’ distaccato di uno che arrivava dall’esterno, l’impressione più forte che ricavai era che fossero tutti matti. Agenti e detenuti. Erano tutti da tempo avvitati in una contrapposizione estremamente violenta e al tempo stesso rituale. Una guerra di cui nessuno forse ricordava l’origine ma che assorbiva la totalità  del tempo e delle energie di ciascuno.

Le posate naturalmente erano di plastica. Quando si rompevano i denti della forchettina, per farsela sostituire, occorreva riconsegnare non solo il manico ma tutti i singoli pezzettini di plastica. Anche il sacchettino di carta del pane era proibito. Qualsiasi cosa era interdetta. Naturalmente, nella logica dei carcerieri, importante non era il singolo oggetto in sé quanto la didattica del divieto, la spoliazione totale a rappresentare il potere illimitato sul prigioniero e sul suo corpo. E non a caso questo tradizionalmente era tanto più possibile su un’isola. Prima l’Asinara e Pianosa, poi, dopo le rivolte che spinsero allo loro chiusura, Nuoro furono i luoghi più feroci, veri e propri lager.

Dello speciale di Nuoro è rimasto paradigmatico l’episodio di un ago. Le guardie sapevano che era nascosto in una cella. Gli ospiti della cella sapevano che le guardie sapevano. La cella veniva perquisita, come tutte, più volte al giorno, senza che le guardie riuscissero a trovarlo. Dopo qualche tempo venne infine rinvenuto nel suo nascondiglio. Ma non sequestrato. Gli agenti lo lasciarono in bella vista sul tavolo. I detenuti lo occultarono di nuovo in un posto diverso, e tutto ricominciò. Era diventato una specie di maniacale giuoco di ruolo tra controllori e controllati. Un poà come la guerriglia all’esterno, ormai privata di meta e di senso.

Non c’era quasi giorno che a Nuoro non ci fossero zuffe e pestaggi. Di guardie e prigionieri ma poi anche tra detenuti con posizioni politiche o appartenenze organizzative differenti. Come per le cavie di laboratorio, quel trattamento atroce e scientificamente disumanizzante produceva follia e i reclusi cominciavano a sbranarsi a vicenda. O meglio, i brigatisti, in mancanza del nemico esterno cominciavano a inventarne uno interno. La logica stalinista e cannibalesca della caccia ai traditori stava diventando il nuovo rifugio maniacale delle brigate di campo, come si chiamavano le strutture brigatiste negli speciali. Ci provarono anche con noi. Un giorno organizzarono l’imboscata nella gabbia dell’aria per me, Maurice Bignami, Paolo Zambianchi e Sergio D’Elia. Eravamo di Prima Linea, organizzazione da loro considerata poco meno che controrivoluzionaria in quanto ritenuta portatrice di una linea sbagliata, soggettivista e movimentista. Non potevano accusarci di tradimento, perché anche la pratica della calunnia, della quale alcuni brigatisti erano decisamente professionisti, aveva dei limiti di credibilità . L’anno precedente avevo assaltato il carcere di Rovigo e, subito dopo, avevo cercato di organizzare l’assalto del carcere speciale di Fossombrone, dove contavamo di liberare parecchie decine di compagni, parecchi dei quali delle BR. E questo era da tutti risaputo. Due estati prima ero venuto a studiare le possibilità  di far evadere dei compagni proprio dal carcere nuorese in cui ora mi trovavo. Insomma, era difficile farmi passare da traditore: ero uno dei pochi in quegli anni che dedicava le sue energie e rischiava la sua pelle e libertà  nel tentativo di liberare i compagni dall’inferno delle carceri speciali. Quindi i brigatisti dovettero inventare una nuova categoria di nemici: quella degli “arresi”. In effetti, durante il processo di Torino, nell’estate 1983 PL aveva collettivamente prodotto un documento che giudicava la lotta armata non più proponibile e dichiarato il proprio scioglimento, un percorso autocritico che sfocerà  poi in una più matura desistenza. Dalle armi, non dalla critica sociale e da una visione attivamente critica dell’esistente. In quel periodo, producemmo un secondo documento, pubblicato dal quotidiano “il manifesto”[1], che esemplificava il nostro cammino e intenzioni politiche, introducendo nel dibattito la categoria della “mediazione conflittuale”; un documento che, pur mancando la firma di altri esponenti dell’organizzazione esclusivamente in ragione della difficoltà  di comunicare tempestivamente nel carcere speciale e tra maschile e femminile, rappresentava il punto di vista e il dibattito dell’intera PL e segnava una tappa evolutiva importante, come ben colse Rossana Rossanda: «Il documento che qui pubblichiamo porta le firme della dirigenza di Prima Linea, quella che è stata la formazione armata più forte assieme alle Brigate Rosse. Esso segna in modo netto – come scrive – il superamento dei e la separazione dai percorsi della lotta armata». Una riflessione importante e decisiva, scriveva Rossanda, che «va aiutata. A condizione di pensare le leggi d’uscita dall’emergenza col respiro di questo nuovo clima. Chi non lo intende e non si muove in esso, con fatica e serietà  e responsabilità , resta ancora speculare a quella logica di annientamento che nelle carceri è stata battuta»[2].

Pur valorizzando il documento, nel suo corsivo l’editorialista e storica esponente de “il manifesto”, non coglieva però la sostanziale differenza e la maggior forza e credibilità  di questo percorso rispetto alla precedente “dissociazione degli innocenti” dell’area del 7 aprile (e anzi attribuendo a questa una funzione maieutica, anziché di freno comàera obiettivamente stata), ma, soprattutto, accreditava – con generosità  ma pure miopia – anche alle BR e alla gran parte delle detenzione politica la fine della logica di guerra e annientamento. Invece, lo scontro era drammaticamente aperto e in atto nelle carceri speciali, la logica dell’annientamento permaneva, favorita anche dal silenzio all’esterno.

Tutte le organizzazioni erano pressoché sgominate, quasi tutti i militanti erano in carcere, i “pentiti” dilagavano (importante, e purtroppo a tuttàoggi rara, la riflessione di Rossanda a riguardo di questi ultimi: «Gli adepti più fragili restarono nell’ottica della “guerra”, trasferendosi dall’altra parte, come pentiti attivi, collaboratori della polizia, come tali aiutarono a scoprire covi e dirigenze, portarono anche a operazioni inaccettabili come quelle di via Fracchia. Ma quel loro passare alla delazione avrebbe al contrario ricompattato le organizzazioni combattenti (…) se queste non fossero state ormai incrinate dalla crisi politica del loro progetto»[3].

Ma, per le BR, queste erano verità  che non si volevano ancora vedere e che soprattutto non si potevano dire. Per loro i “pentiti” che collaboravano con la polizia e coloro che ponevano una riflessione politica sulla sconfitta e sul superamento delle armi, adoperandosi per una soluzione politica della prigionia, erano la stessa cosa (una lettura in cui venivano confortati da analoghi giudizi che venivano da qualche scampato a Parigi e dai soliti rivoluzionari dei salotti di casa nostra, tanto accesi verbalmente quanto inconseguenti, e ovviamente passati indenni da ogni inchiesta giudiziaria). E andavano trattati allo stesso modo.

Per questo a Nuoro volevano punirci e organizzarono l’agguato. Dal quale casualmente mi salvai, perché quel giorno non scesi all’aria (in successive occasioni in altre carceri, non fui così fortunato, pur se non riuscirono mai a farmi la pelle, come avrebbero probabilmente voluto). L’aggressione scattò comunque contro gli altri compagni ma con danni limitati, sia per la loro pronta reazione, sia per l’intervento delle guardie con gli idranti e i manganelli, che in questi casi aspettavano comunque sempre un poà prima di intervenire, per godersi lo spettacolo.

Coloro che erano rimasti in cella sentirono poco dopo il classico e purtroppo consueto frastuono del pestaggio: le urla, i colpi di manganello, le cariche delle guardie. Non ci si poteva rendere conto esattamente di ciò che succedeva, se non che era in corso un pestaggio. E quindi partimmo con una battitura delle sbarre, il solo modo di protestare di cui si disponesse. Solidarizzai così con i miei mancati aggressori. È solo uno dei tanti paradossi di quel luogo infame.

I brigatisti, furenti, il giorno dopo organizzarono un’inchiesta interna, supponendo che qualcuno di loro mi avesse messo sull’avviso. I sospetti si indirizzarono, verso un loro militante torinese, già  operaio FIAT; evidentemente era già  nella lista nera e gli infaticabili torquemada cercavano di accumulare pretesti per qualche nuovo processo ed esecuzione. La lotta armata era sconfitta, il sogno della rivoluzione decisamente in crisi, ma il “tribunale del popolo” brigatista a Nuoro e altrove non conosceva ancora pause e ripensamenti.

Noi, grazie anche al fatto di essere rimasti comunque gruppo solidale, avevamo le risorse per resistere e difenderci, pur se i burocrati del ministero e i magistrati che disponevano le assegnazioni alle varie carceri e sezioni facevano obiettivamente in modo di facilitare il lavoro ai boia delle carceri. Altri, più isolati, vennero distrutti dalla doppia e concorrente morsa di chi gestiva con ferocia le carceri speciali e delle, altrettanto e simmetricamente feroci, brigate di campo. Come Paolo Sivieri, militante delle BR, uscito da Nuoro e da quelle infami dinamiche profondamente spezzato. Quando era in cella, i brigatisti inossidabili gli gridavano dalle finestre: «Impiccati». Una volta gli fecero trovare in cella un cappio.

E con un cappio effettivamente si impiccò. A casa sua, poco dopo la scarcerazione, dopo essere stato tardivamente restituito a una libertà  vuota e disumana, com’era stata la galera e una parte dei suoi compagni.

Anche questo furono le carceri di quell’epoca. Capitoli ignobili e misconosciuti di una storia della detenzione politica tutta ancora da scrivere.

 


[1] Chicco Galmozzi, Roberto Rosso, Sergio Segio, Nicola Solimano, Un documento di Prima Linea per la soluzione politica, “il manifesto”, 17 gennaio 1984.

[2] Rossana Rossanda, Dalla critica della lotta armata all’idea di conflitto e mediazione, ivi.

[3] Ibidem.

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