Dilma Rousseff – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 08 Apr 2018 08:11:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Brasile. La colpa di Lula? Aver reso possibile un altro mondo https://www.micciacorta.it/2018/04/24331/ https://www.micciacorta.it/2018/04/24331/#respond Sun, 08 Apr 2018 08:11:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24331 Brasile. Solo la popolarità dell'ex presidente spiega la ragione di un accanimento giudiziario che non ha precedenti e ha portato a un processo impensabile in qualsiasi paese democratico

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Telefonano accorati gli amici brasiliani in Italia, prime fra tutti le compagne-suore che dovettero scappare dal loro paese quarant’anni fa perché avevano aiutato Lelio Basso a preparare il processo del Tribunale internazionale dei popoli che denunciò fra i primi l’orrore della dittatura brasiliana (e da allora sono il pilastro della Fondazione ); inviano messaggi rabbiosi da Rio gli amici del Forum mondiale di Porto Alegre, da San Paolo i compagni del Pt. Il più bello da Belo Horizonte, del cantastorie Erton Gustavo Prado: «Fine corsa per lei, ex presidente alejado (dalle dita amputate), non è a causa dei tre appartamenti che lei sarà condannato. È a causa della sua audacia nell’aiutare i ragazzi a diventare avvocati, nel contribuire all’ascensione del nero della favela che oggi crede di poter studiare medicina, uscire dalla miseria e perfino di conoscere la Cappella Sistina. Fine corsa per lei ex presidente stupido: lei viene condannato non per aver rubato, perché questo non è stato provato. Il suo sbaglio è stato essere storia e fare storia sulla dimensione del Brasile – l’80 % di approvazione popolare – per aver creduto nell’uguaglianza, per aver saputo governare. Fine corsa per lei ex presidente». Da Buenos Aires chiama Adolfo Perez Esquivel, che fu per anni presidente della Lega internazionale per i diritti dei popoli, il braccio politico della Fondazione Basso (e io ho avuto l’onore di essergli vice) chiedendo sostegno alla raccolta di firme per ottenere che a Lula sia conferito – come avvenne per Martin Luther King – il Nobel per la pace. Non sempre si scrive accorati su una questione drammatica avendo anche uno stretto rapporto d’amicizia con chi ne è protagonista. È quello che ora accade a me, ma anche a molti di noi qui in Italia: perché il presidente Lula l’abbiamo conosciuto quando era dirigente dei metalmeccanici, poi segretario del Partito dei lavoratori, a San Paolo ma anche, tante volte, qui in Europa, nei tanti momenti di impegno comune nella lotta per liberare l’America Latina dall’oppressione e dalle dittature. Poi, finalmente, quando è diventato il simbolo della grande speranza di riscatto, la prova «che un altro mondo è possibile». Non credo abbia precedenti quanto sta accadendo in queste ore in Brasile: un presidente condannato a più di 12 anni di prigione che una folla immensa di lavoratori e di poveri tenta disperatamente di difendere dall’arresto, in vista di un’elezione a capo dello stato in cui resta di gran lunga il più favorito. Proprio la popolarità di Lula spiega la ragione di un accanimento giudiziario che non ha precedenti e ha portato a un processo impensabile in qualsiasi paese democratico. (Luigi Ferrajoli ne ha dettagliatamente illustrato ieri su questo giornale gli abusi). L’obiettivo, spudoratamente dichiarato era quello di impedirgli di partecipare alle elezioni, di eliminarlo come concorrente per via giudiziaria. E subito i militari, il corpo minaccioso di tutti i golpe dell’America latina, hanno fatto sentire la propria voce in favore di questo nuovo espediente per riportare la “normalità”: un governo che torni a favorire i ricchi, ponendo fine allo “scandalo” di un governo che tenta – e nel caso di Lula con notevole successo – di aiutare i più diseredati a uscire dalla miseria. Il caso di Lula non è il solo. Anche la presidente Dilma Roussef è stata liquidata allo stesso modo. E in Argentina si sta imboccando la stessa strada. Difficile a chi si oppone denunciare: nel solo 2017 sono stati ammazzati nel subcontinente 42 giornalisti scomodi. C’è però da restare sgomenti anche di fronte al modo con cui la vicenda di Lula viene raccontata dai nostri media: o in piccoli trafiletti, o, chi alla questione dedica più spazio, senza mai far cenno a come si è realmente svolto il processo. Nessuno ha detto bugie, per carità, ma le omissioni sono equivalenti. Tocca a tutti noi mobilitarsi per non lasciare solo chi si batte per impedire l’ennesima controffensiva che cerca di spegnere la speranza. E nell’ultimo decennio l’America Latina è stata una grande speranza. FONTE: Luciana Castellina, IL MANIFESTO

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L’America latina dai golpe militari a quelli mass-mediatici https://www.micciacorta.it/2015/12/lamerica-latina-dai-golpe-militari-a-quelli-mass-mediatici/ https://www.micciacorta.it/2015/12/lamerica-latina-dai-golpe-militari-a-quelli-mass-mediatici/#respond Thu, 10 Dec 2015 08:18:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20971 L'America Latina nell’ultimo decennio è stata l’unica regione al mondo dove è diminuita la disuguaglianza. Ma ora si apre una stagione di nuovi conflitti sociali

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Analisi. Oggi l'intero continente non è più sottomesso alla dittature del secolo scorso, ed è una conquista. Non a caso nell’ultimo decennio è stata questa l’unica regione al mondo dove è diminuita la disuguaglianza. Ma ora si apre una stagione di nuovi conflitti sociali L’ondata latino americana di governi di sinistra o di centro sinistra ha sofferto un duro colpo nelle ultime settimane con la sconfitta del Frente para la Victoria in Argentina e del Partido socialista unido in Venezuela. Si parla già della fine di un ciclo iniziato nel 1999 con il successo di Hugo Chávez in Venezuela. Nelle presidenziali in Argentina la vittoria di Mauricio Macri su Daniel Scioli è stata di misura 51,4 contro 48,6 %. La presidente uscente, Cristina Fernandez de Kirchner reduce di due affermazioni elettorali dopo il primo governo del marito Néstor Kirchner nel 2003 non poteva ripresentarsi. In Venezuela invece, la sconfitta arriva dopo una serie ininterrotta di 18 successi di fila. In questo caso Nicolás Maduro, che ha raccolto l’eredità di Chávez, non è riuscito nell’impresa ed è stato nettamente battuto nelle elezioni legislative di domenica scorsa (107 contro 55). Il Brasile, membro dei BRICS e uno dei principali paesi emergenti a livello globale, si trova anche in una situazione delicata con il governo di Dilma Rousseff che deve far fronte all’assedio della destra, che in piazza chiede addirittura l’intervento militare e l’impeachment. Ma anche il Brasile ha alle sue spalle un lungo periodo di governi popolari, i primi due mandati di Lula e ora quello di Rousseff, che fanno sempre capo allo stesso Pt, Partido dos Trabalhadores sono al potere dal 2002. Cosa succederà ora? È finito il sogno di una alternativa al neoliberismo globale? Tornerà a dettare le sue regole l’economia di mercato? La speculazione finanziaria si prenderà gioco della regione? Fare previsioni è impossibile. Collochiamo allora questi eventi in una prospettiva a lungo termine che parte dalla fine degli anni ’60 con il rallentamento dell’espansione capitalista del dopoguerra. Richard Nixon ne prende atto e rompe unilateralmente gli accordi di Bretton Woods sanciti nel 1948 per dare stabilità all’economia mondiale con il dollaro come moneta di riferimento per gli scambi internazionali (1 oncia 35$). Crollano i parametri che regolano il valore della moneta e inizia un periodo inflattivo. Era necessaria una nuova struttura, un nuovo modello per regolare il valore del denaro. Prima il Cile e poi l’Argentina, sotto le dittature di Augusto Pinochet e Jorge Videla a metà degli anni ’70, si sono trasformati in veri e propri laboratori dove mettere alla prova il modello di Milton Friedman subito poi esportato nel 1980 a nord, negli Stati Uniti con Ronald Reagan e nel Regno Unito con Margaret Thatcher. Ecco il nuovo ordine mondiale sancito dal Washington Consensus e assunto dalle organizzazioni finanziarie internazionali. In America Latina cominciava un periodo di apertura al mercato globale, segnato dalle privatizzazioni, chiusura delle fabbriche, disoccupazione e impoverimento generale. Anni che successivamente saranno definiti la decade persa (la decada perdida) e che avranno il suo culmine con la crisi finale che portò l’Argentina al fallimento nel dicembre 2001. Questo default segnò per la regione uno spartiacque, era necessario cambiare modello per non fare la fine dell’Argentina, primo della classe nell’applicazione delle ricette di Washington. La discontinuità con il passato si manifestò coralmente dieci anni fa, nel 2005, quando a Mar del Plata l’America Latina ha detto di no al ALCA, il Trattato di libero scambio delle Americhe. Per la prima volta un’area, tradizionalmente sotto il dominio degli Stati Uniti, riusciva a far valere la sua volontà sovrana. Il rifiuto, nato nel 2001 sotto le macerie del fallimento dell’Argentina, fu la pietra miliare sulla quale fu costruita l’unità con politiche post neoliberiste. Con diverse modalità di risposta, un gruppo di paesi si è opposto alle pressioni di George Bush di estendere il libero mercato dall’Alaska alla Terra del Fuoco. Oltre ai paesi c’erano anche un gruppo di leader tra cui Hugo Chávez, Néstor Kirchner, Luiz Inácio Lula da Silva, e poi arriveranno i vari Evo Morales, Rafael Correa e Pepe Mujica che hanno riaperto e ripreso il progetto dell’unità latinoamericana. Oggi la regione non è più sottomessa alle varie dittature militari del secolo scorso. In Argentina è la prima volta che la destra arriva al governo senza un golpe. Salvo l’Honduras e il tentato golpe in Venezuela non si sono più registrati tentativi di rovesciare governi democratici e questo è un grande successo. Ma non possiamo credere che ora tutti siano diventati democratici. Occorre chiedersi con quale modalità vengono oggi difesi gli interessi degli Stati Uniti che prima si imponevano attraverso i militari? Come si applica oggi la dottrina Monroe? Ora la punta di lancia sono i media, la costruzione della realtà è diventata la priorità per gestire il potere. Nella fusione tra potere economico finanziario e mediatico si concentra la supremazia globale che riesce ad imporre la propria volontà senza colpo ferire nel sonnambulismo del quotidiano. Siamo ormai lontani dall’idea dell’indipendenza dei media. In questa fase del capitalismo finanziario il controllo dell’informazione si traduce direttamente in ricchezza. Il valore è costruito o distrutto attraverso il gioco di rispecchiamenti e auto conferme tra grandi gruppi mediatici. È diventato così facile generare instabilità, inflazione, insicurezza e allarmi che tornare ai vecchi colpi di Stato può essere anacronista. Nell’ultimo decennio l’America Latina è stata l’unica regione al mondo dove è diminuita la disuguaglianza, dove il coefficiente di Gini, la distanza tra ricchi e poveri, è diminuito. Lo Stato ha ripreso un ruolo centrale, ha nazionalizzato o controllato alcune aziende privatizzate, ha aumentato la spesa in ricerca, educazione e salute, ha difeso i diritti umani e l’occupazione. Sostenere queste politiche dopo la crisi del 2008 non è stato facile. Anche se non ebbe un effetto immediato, la contrazione mondiale finì per colpire anche i paesi emergenti. Precipita l’economia del Brasile, locomotiva regionale. Crollano i prezzi delle comodities, per il Venezuela crolla il prezzo del petrolio, per l’Argentina quello dei cereali. I governi che, per ammortizzare la crisi globale, hanno investito sostenendo le politiche sociali e l’attività economica attraverso l’intervento dello Stato hanno man mano diminuito le proprie riserve, mentre il rallentamento dell’economia globale faceva calare esportazioni e introiti. Arrivati a questo punto le destre, in modo disordinato, si fanno avanti. Hanno generato le condizioni per riprendere in mano anche le redini dello Stato. Nello scacchiere globale l’America Latina è un’area pacifica e senza grandi conflitti. Si apre ora una stagione di grande conflittualità sociale. La mobilitazione popolare non cederà né arretrerà sulle conquiste degli ultimi anni. La Storia non conosce la parola fine.

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Dilma Roussef: «La tor­tura e il carcere restano dentro di noi» https://www.micciacorta.it/2015/06/dilma-roussef-la-tor%c2%adtura-e-il-carcere-restano-dentro-di-noi/ https://www.micciacorta.it/2015/06/dilma-roussef-la-tor%c2%adtura-e-il-carcere-restano-dentro-di-noi/#respond Wed, 03 Jun 2015 07:52:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19738 La presidente del Brasile e la lotta armata. «Ne ho parlato con Mujica, non siamo pentiti. Ma era un altro periodo»

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Lei è stata tre anni in car­cere durante la dit­ta­tura: qual è il suo bilan­cio di quel periodo? Ne ho par­lato molto con il pre­si­dente dell’Uruguay, Pepe Mujica, un altro ex pri­gio­niero poli­tico. Non siamo pen­titi di niente, ma è chiaro che è neces­sa­rio capire quali erano le cir­co­stanze poli­ti­che di que­gli anni (fine anni 60, ini­zio dei 70), cir­co­stanze che ci hanno por­tato ad agire come abbiamo fatto, cioè la lotta armata. Quella situa­zione oggi non esi­ste più, que­sta è la prima cosa. La seconda è che cia­scuno cam­bia, anche se non cam­bia lato. Anni dopo si vedono gli errori, ci sono cose che sono frutto della gio­ventù ma oggi non vado a met­termi con­tro ciò che sono stata. E non ho mai dimen­ti­cato cosa mi è suc­cesso, la mia vita ne è stata mar­cata senza alcun dubbio. Una volta ho testi­mo­niato davanti al Con­gresso e qual­cuno, un sena­tore di destra, mi ha accu­sata di aver men­tito durante le ses­sioni di tor­tura. E meno male che l’ho fatto: dire la verità sotto tor­tura signi­fi­cava con­se­gnare i pro­pri com­pa­gni, i pro­pri amici. Non cri­tico quanti sotto tor­tura hanno par­lato, ci dice­vano ’se parli smetto di tor­tu­rarti’ e que­sto sca­tena una lotta interna, cia­scuno cerca di resi­stere, cerca forza den­tro di sé e per riu­scirci biso­gna avere delle con­vin­zioni. Io non dico che chi ha resi­stito è un eroe, nes­suno è un eroe. In quei giorni per resi­stere ingan­navo me stessa, mi dicevo «adesso tor­nano» per essere pronta. E alla fine tor­na­vano, mi lega­vano al pau de arara (il «tre­spolo del pap­pa­gallo»: barra di ferro tra l’incavo delle brac­cia e l’incavo delle gambe del pri­gio­niero, a cui ven­gono poi legati i polsi alle cavi­glie, ndt), mi davano un colpo con la picana elet­trica. La stra­te­gia per resi­stere? Non biso­gna pen­sare, è quasi un eser­ci­zio di medi­ta­zione per svuo­tare del tutto la testa e non farsi cor­ro­dere dalla paura. La paura è den­tro di noi. Il dolore umi­lia, degrada. Resi­stere è difficile. Se ha resi­stito a quello, può sop­por­tare tran­quil­la­mente le pres­sioni della destra con­tro il suo governo, o no? Sono molto più facili da sop­por­tare. Non voglio dire che sia faci­lis­simo, o che siano irri­le­vanti. Il dif­fi­cile è stato resi­stere a quello, e quando uno resi­ste non torna un eroe, torna una persona. O torna presidente… Meglio arri­vare alla pre­si­denza della repub­blica senza pas­sare dalla tor­tura (ridendo). (a cura di Roberto Zanini, copy­right il manifesto/Pagina 12) Leggi il resto dell’intervista al manifesto

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Battisti libero dopo solo sette ore Si allontana l’ipotesi di espulsione https://www.micciacorta.it/2015/03/battisti-libero-dopo-solo-sette-ore-si-allontana-lipotesi-di-espulsione/ https://www.micciacorta.it/2015/03/battisti-libero-dopo-solo-sette-ore-si-allontana-lipotesi-di-espulsione/#respond Sat, 14 Mar 2015 16:14:14 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18919 «Lo Stato brasiliano conta più di un giudice». Sarkozy: l’Italia volti pagina

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SAN PAOLO Una via qualunque, nella sterminata cintura urbana di San Paolo, venti e più milioni di abitanti. La cittadina si chiama Embu das Artes, il quartiere Vila Carmem. Un parrucchiere, un piccolo ristorante, casette intonacate e dipinte come capita: in una di queste vive da tempo Cesare Battisti, con la compagna e una bella bambina di due anni. Mulatta, come la madre Joyce, conosciuta dall’allora latitante nelle notti di Rio de Janeiro, prima di essere arrestato.
Ai pochi amici e visitatori, l’ex terrorista apre le porte di casa sospettoso e sempre con la stessa battuta: «Questo è quel che chiamano il mio esilio dorato». Due stanze bagno e cucina, 200 euro di affitto al mese, un decimo di quanto costa vivere nel centro di San Paolo o guardando l’oceano a Rio, dove Battisti è riuscito a restare assai poco, dopo la scarcerazione di quattro anni fa. Gli amici che contano, nella sinistra brasiliana e francese, a un certo punto si sono defilati, il superavvocato amico del governo non poteva certo tenerselo a vita nel suo attico, così come il celebre senatore di sinistra, convinto che non abbia mai fatto male a una mosca. A Embu, dice Battisti, si vive con poco. Quel che resta dei diritti d’autore per i libri, e forse qualche euro arriva ancora da Parigi, come negli anni della latitanza glamour. Era in casa nel tardo pomeriggio di giovedì, quando agenti della polizia federale sono venuti a prenderlo per condurlo, sotto arresto, in un commissariato di San Paolo. E a casa è tornato dopo appena sette ore, uscendo da una pattuglia con il solito ghigno di sfida per riabbracciare Joyce. Tra tutti i passaggi in galera della sua vita, questo è certamente il più corto. Segno che l’interminabile battaglia della giustizia italiana per riaverlo non è ancora finita. Sempre se mai finirà. L’arresto lampo non ha cambiato il suo status: Battisti vive legittimamente in Brasile con un visto di residenza permanente, concessogli dal governo dopo che l’allora presidente Lula ha negato la richiesta italiana di estradizione. L’ultimo capitolo dell’eterna vicenda riguarda proprio questo pezzo di carta. Secondo una giudice di Brasilia, il visto è stato concesso per errore, quindi Battisti dev’essere espulso. Non sarebbe valido, dice, perché il titolare è uno straniero condannato in altro Paese (l’Italia). La sentenza è dei primi di marzo, giovedì l’idea della polizia federale che Battisti potesse restare in galera ad attendere, diceva il mandato di cattura, «l’esecuzione della deportazione». Non è stato difficile per i legali dell’ex terrorista riportarlo a casa. Perché le convinzioni della giudice di Brasilia sono all’ultimo gradino di una scala ancora totalmente favorevole a Battisti. Lo difendono l’avvocatura generale dello Stato, la Corte suprema e a tutt’oggi anche la Presidenza della Repubblica, a meno che un giorno Dilma Rousseff decida di cambiare idea. Nel ricorso che l’ha fatto uscire subito si dice proprio così: un giudice di primo grado non può contraddire il capo dello Stato. E così le speranze italiane di veder trasformata l’estradizione almeno in una espulsione dal Paese sono cadute nel vuoto ancora una volta. In Francia, invece, continuano a pensarla in altro modo. Persino l’ex presidente Nicolas Sarkozy ha lasciato intendere che sarebbe meglio metterci una pietra sopra: «La questione dell’estradizione di Cesare Battisti riguarda anche la società italiana, che deve voltare la pagina di quegli anni terribili», ha detto Sarkozy, intervistato dalla radio France Info , scatenando diverse reazioni in Italia. «Quello di Battisti è un caso doloroso, all’epoca dei fatti ero in carica. Tutto è legato a Mitterrand, che in passato aveva promesso di non estradare persino gente con sangue sulle mani, ma che si era rifugiata in Francia». Rocco Cotroneo

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