dittature sudamericane – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 10 Jul 2021 07:01:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Plan Condor. Sentenza storica a Roma: ergastolo per i torturatori delle dittature https://www.micciacorta.it/2021/07/plan-condor-sentenza-storica-a-roma-ergastolo-per-i-torturatori-delle-dittature/ https://www.micciacorta.it/2021/07/plan-condor-sentenza-storica-a-roma-ergastolo-per-i-torturatori-delle-dittature/#respond Sat, 10 Jul 2021 07:01:27 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26457 America Latina. La Corte di Cassazione di Roma ha condannato in via definitiva 14 ex militari e gerarchi delle dittature cilene e uruguaiane. «La decisione ha un significato profondo per la giustizia sovranazionale», dice al manifesto l'avvocato dei familiari delle 43 vittime italiane

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Nel primo pomeriggio del 9 luglio a Roma i giudici della Corte di Cassazione hanno letto una sentenza storica: sono stati tutti condannati all’ergastolo gli imputati del maxi-processo Condor. Iniziato nel 2015, riguarda 43 cittadini italiani che sono state vittime delle sanguinose dittature sudamericane degli anni ’70. SONO 14 IMPUTATI tra militari e gerarchi dei regimi militari cileni e uruguaiani che ora sono stati condannati all’ergastolo dalla giustizia italiana, fra cui spicca l’ex fuciliere della Marina uruguaiana Jorge Nestor Troccoli. Fuggito nel nostro Paese quando in Uruguay si è aperto un processo contro di lui, vive in Italia dal 2007 e ha la cittadinanza italiana. Sarebbe ricoverato da due giorni in ospedale, per cui non sarebbe possibile al momento arrestarlo. È il primo importantissimo caso in cui un torturatore delle dittature sudamericane residente nel nostro Paese viene processato in Italia. Un precedente fondamentale per avviare nuovi processi contro altre persone, accusate di torture e omicidi avvenuti durante le dittature sudamericane degli anni ’70, che oggi vivono in Italia. Come Carlos Luis Malatto, ex tenente argentino accusato del sequestro e della tortura di decine di militanti, che vive nel nostro Paese da oltre 10 anni e per il cui caso il 26 maggio del 2020 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato a istruire un processo nei suoi confronti. O come don Franco Reverberi, ex cappellano militare accusato di aver assistito alle torture di vari detenuti in un campo di sterminio argentino nella cittadina di San Rafael. Reverberi oggi celebra messa a Sorbolo, un piccolo comune in provincia di Parma e lo scorso aprile dall’Argentina è stata richiesta per la seconda volta l’estradizione nei suoi confronti. IN AULA C’È STATA enorme commozione tra i familiari e gli avvocati che portano avanti il processo da oltre sette anni. Giancarlo Capaldo, l’ex pubblico ministero che ha dato il via alle indagini per iniziare il processo, ha dichiarato al manifesto: «La sentenza di oggi è un importantissimo traguardo per l’Italia, uno sforzo di civiltà giuridica che potrà essere un insegnamento per tutti gli altri Paesi. È una pagina storica per l’Italia. È stato un percorso lungo e difficile per arrivare alla sentenza pronunciata oggi, un cammino reso possibile dall’incredibile collaborazione umana che si è sviluppata tra i familiari, i sopravvissuti e gli avvocati». È dello stesso parere Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari, che dice: «Questa sentenza è importantissima sia per l’Italia che per l’America latina perché si appura una colpevolezza per imputati che si sono macchiati di reati atroci e gravissimi che hanno condizionato la storia di un intero continente. Ora si deve valorizzare il senso di questa sentenza che ha un significato profondo che riguarda sicuramente la giustizia italiana, ma anche quella sovranazionale». LA SENTENZA È ARRIVATA ieri a conclusione di due intensi giorni di discussione di fronte ai giudici della Corte di Cassazione nell’Aula Magna a Roma. Per molte ore giovedì si sono susseguite le discussioni degli avvocati dei familiari delle vittime, seguiti dagli avvocati difensori degli imputati. L’ULTIMO A PARLARE è stato Francesco Guzzo, legale dell’ex fuciliere uruguaiano Jorge Nestor Troccoli, che ha definito l’imputato un «bersaglio». La presidente della Corte, Maria Stefania di Tommasi, ha preso la parola: «Gli unici bersagli sono state le vittime del processo che con le loro dichiarazioni hanno fatto piangere tutti noi, anche lei avvocato Guzzo, ne sono sicura». * Fonte: Elena Basso, il manifesto

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America latina. Plan Condor, gli avvoltoi delle dittature https://www.micciacorta.it/2021/07/america-latina-plan-condor-gli-avvoltoi-delle-dittature/ https://www.micciacorta.it/2021/07/america-latina-plan-condor-gli-avvoltoi-delle-dittature/#respond Thu, 08 Jul 2021 07:03:33 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26454 Uruguay, 1977: Carlos viene torturato per giorni da Jorge Nestor Troccoli. 39 anni dopo ne riconosce ancora la voce e il volto e testimonia a Roma nello storico processo contro l’operazione del 1975 di otto dittature sudamericane: oggi la sentenza definitiva della Corte di Cassazione

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Carlos Alberto Dosil era un militante, aveva 21 anni e si trovava nella sua casa a Montevideo. Era il 28 novembre del 1977 quando qualcuno ha bussato alla porta, Carlos ha aperto: ha sentito subito il freddo del metallo di un mitra che un uomo gli stava puntando alla gola. Lo stesso uomo lo ha spinto contro il muro e il giovane militante si è trovato faccia a faccia con lui. Era piuttosto giovane e corpulento, circa un metro e 75 di altezza. Lo ha colpito soprattutto la voce bassa e roca con cui impartiva ordini secchi. I due uomini armati lo hanno malmenato, bendato e portato al Fusna, la base dei fucilieri navali nel porto di Montevideo, trasformata durante la dittatura in un campo clandestino di sterminio. Erano gli anni dei sanguinosi regimi latinoamericani e anche nel piccolo Stato dell’Uruguay erano diventati pratica comune i sequestri e le torture per chiunque si opponesse alla dittatura. Nelle celle del Fusna Carlos è stato sottoposto per giorni a pratiche disumane senza che mai gli venisse tolta la benda dagli occhi. Gli hanno fatto la roulette russa: sentiva forte il rumore del grilletto del revolver contro le tempie. Lo tiravano con le corde alle estremità del corpo fino quasi a spezzargli i tendini. Se cadeva lo rimettevano in piedi a calci e poi lo appendevano per i piedi con dei ganci mentre gli applicavano la corrente elettrica per tutto il corpo. Carlos non sapeva se sarebbe sopravvissuto, il dolore era lancinante e spietato. Non sapeva da quanti giorni si trovasse in quella cella umida, ma aveva una sola certezza: la voce di chi lo stava torturando era sempre la stessa dell’uomo che gli aveva puntato il mitra alla gola quando lo avevano sequestrato alcuni giorni prima. 39 anni dopo le torture e il sequestro, il 7 luglio 2016 Carlos Alberto Dosil è entrato nell’Aula bunker di Roma per testimoniare davanti ai giudici per il maxi-processo Condor. Si è seduto e ha ricostruito nei dettagli le torture, il sequestro, la prigionia e l’umiliazione. Ha descritto la fisicità e la voce del suo torturatore. All’inizio della sua testimonianza uno degli avvocati si è avvicinato al banco dove sedeva Carlos porgendogli una foto e domandando: «È questa la persona che l’ha sequestrata e detenuta nel 1977 a Montevideo?». Carlos ha guardato l’immagine e non ha avuto esitazioni, ha restituito la foto all’avvocato dicendo: «Sì, è lui». L’avvocato ha preso la foto e l’ha appoggiata al banco. Lì, a colori, era stampato il volto senza sorriso di Jorge Nestor Troccoli. Ex capo dei servizi di intelligence uruguaiani accusato della sparizione di decine di militanti, Troccoli dal 2007 vive in Italia e oggi 8 luglio la Corte di Cassazione emetterà la sentenza con cui ribalterà o confermerà l’ergastolo a cui è stato condannato in secondo grado nel luglio 2019. Troccoli negli anni ’70 faceva parte del Fusna, gruppo che aveva il compito di reprimere chiunque si opponesse alla dittatura. Era anche il capo dell’S2, l’intelligence della marina uruguaiana, e nel 1977 divenne il militare di collegamento fra Argentina e Uruguay nell’ambito del Plan Condor, l’operazione nata nel novembre del 1975 a Santiago del Cile con cui otto Stati sudamericani si impegnavano a catturare, torturare e far sparire i militanti esiliati in America latina, negli Stati uniti e in Europa. Troccoli era un militare di spicco: sono decine le persone che testimoniano la sua presenza sia all’interno del Fusna che dell’Esma, uno dei più grandi centri di sterminio argentini, dove sono stati sequestrati più di 5mila cittadini. Nel 2007 la giustizia uruguaiana ha cominciato a occuparsi del suo caso e, quando si è ufficialmente aperto un processo contro di lui, Troccoli è scappato rifugiandosi in Italia. Pochi anni prima aveva ottenuto la cittadinanza italiana grazie alle origini dei suoi avi e ha vissuto diversi anni di tranquillità insieme alla moglie Betina, prima nel piccolo comune cilentano di Marina di Camerota (da dove venivano i suoi avi) e poi a Battipaglia, in provincia di Salerno. Fino a quando nel 2015 a Roma è stato istituito il maxi-processo Condor che riguarda 43 vittime di origine italiana sequestrate nell’ambito del Plan Condor. Gli imputati del processo sono 24 militari uruguaiani, cileni, boliviani e peruviani, fra cui Jorge Nestor Troccoli, l’unico attualmente residente in Italia. Il processo Condor è uno dei più grandi procedimenti giudiziari che riguarda i crimini commessi durante le dittature sudamericane degli anni ’70 istituito fuori dal continente. C’è molta attesa per la sentenza che pronuncerà la Cassazione oggi a Roma, la condanna in secondo grado era stata storica: 24 ergastoli. Dal 2015 sono decine i testimoni volati a Roma per deporre contro Troccoli, il suo caso è molto noto anche in Uruguay, non solo perché è stato uno dei capi della repressione ma anche perché nel 1996 è stato il primo militare uruguaiano a raccontare pubblicamente quali erano state le pratiche del terrorismo di Stato durante la dittatura. Dopo un’inchiesta apparsa sul giornale uruguaiano PostData in cui due testimoni accusavano Troccoli di aver preso parte al terrorismo di Stato, l’ex fuciliere uruguaiano, con una lunga e dettagliata lettera aperta inviata al quotidiano El Pais e perfino con la pubblicazione di un libro intitolato L’ira del Leviatano, ha ammesso di aver sequestrato e torturato i militanti che si opponevano alla dittatura. Il fatto che Troccoli sia imputato nel maxi processo Condor è importantissimo e crea un precedente fondamentale per il nostro Paese: apre la strada per nuovi processi contro altre persone accusate di torture e omicidi avvenuti durante le dittature sudamericane degli anni ’70, che oggi risiedono in Italia. Come Carlos Luis Malatto, ex tenente argentino accusato del sequestro e della tortura di decine di militanti, che vive nel nostro Paese da oltre 10 anni. Il 26 maggio 2020 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato a istruire un processo contro di lui in Italia. O come don Franco Reverberi, ex cappellano militare accusato di aver assistito alle torture di vari detenuti in un campo di sterminio argentino. Reverberi oggi celebra messa a Sorbolo, piccolo comune in provincia di Parma. Lo scorso aprile dall’Argentina ne è stata richiesta per la seconda volta l’estradizione. * Fonte: Elena Basso, il manifesto

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Uruguay. Marcia del Silenzio, verità e giustizia per i desaparecidos https://www.micciacorta.it/2020/05/uruguay-marcia-del-silenzio-verita-e-giustizia-per-i-desaparecidos/ https://www.micciacorta.it/2020/05/uruguay-marcia-del-silenzio-verita-e-giustizia-per-i-desaparecidos/#respond Fri, 22 May 2020 14:14:45 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26140 Intervista . Anche quest'anno il Paese si è fermato, chiedendo verità e giustizia per le vittime della dittatura militare, nel giorno in cui venne assassinato l’ex senatore Michelini. Il figlio Zelmar ne ricorda la figura

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Dal 1996 c’è un giorno in cui l’Uruguay si ferma. Non si parla, non ci sono rumori in città, si sentono solo i passi di migliaia di persone che marciano nel più totale silenzio. I cittadini si riversano nelle strade di Montevideo e sfilano reggendo tra le braccia una foto in bianco e nero e margherite: è la Marcia del Silenzio, che si tiene ogni 20 maggio da 25 anni per chiedere verità e giustizia per i desaparecidos della dittatura uruguaiana. Quest’anno a causa del coronavirus la marcia è stata virtuale, ma non solo: alle 17 centinaia di veicoli hanno sfilato in una carovana silenziosa, mentre un camion con uno schermo gigante marciava per la città, sopra i volti degli scomparsi. Alle 19 è stato trasmesso un video con le foto dei desaparecidos mentre alle radio erano scanditi i loro nomi. Dai balconi e dalle finestre riecheggiava l’urlo «presente!». Nelle abitazioni, nei luoghi di lavoro e di sequestro i familiari hanno appeso la foto dei loro cari accompagnata dal motto «Son memoria. Son presente. Dónde están?».
Ogni 20 maggio i familiari dei desaparecidos accompagnano la foto dei loro cari con il motto «Son memoria. Son presente. Dónde están?» (foto Ap)
La Marcia del Silenzio si tiene il 20 maggio per l’anniversario dell’assassinio dell’ex senatore uruguaiano Zelmar Michelini, sequestrato il 18 maggio del 1976 a Buenos Aires insieme all’ex presidente della Camera dei deputati Hector Gutiérrez Ruiz e ai militanti Rosario del Carmen Barredo e William Whitelaw Blanco. I loro cadaveri sono stati rinvenuti due giorni dopo nella capitale argentina. Fra chi non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per le vittime della dittatura uruguaiana c’è Zelmar Michelini – figlio dell’ex senatore di cui porta il nome – 65 anni, membro fondatore di Dónde están?, associazione organizzatrice della Marcia. Qual è la storia di tuo padre Zelmar Michelini? Mio padre ha avuto una lunga carriera politica in Uruguay, prima è stato sindacalista, poi deputato, ministro e senatore. Dal ’67 fino al ’73 è stato il principale oppositore delle forze armate, denunciando costantemente l’uso della tortura sui cittadini. Ogni giorno riportava alle Camere le testimonianze dei detenuti e per queste denunce i militari lo avevano già condannato a morte. Molti sopravvissuti alle torture sono poi andati in Senato per recapitargli il messaggio dei militari: «Se continui così ti ammazziamo». Qual era in quegli anni la situazione in Uruguay? Nel dicembre del 1967 Jorge Pacheco Areco è diventato presidente del Paese e l’Uruguay ha smesso di essere uno stato di diritto. Non c’era ancora la dittatura, ma è cominciato il periodo della cosiddetta dictablanda: un regime nel quale il potere esecutivo violava costantemente la Costituzione, governava con uno stato di emergenza permanente, deteneva leader sindacali e studenteschi, censurava la stampa, perseguitava i partiti politici di sinistra. Nel 1968 il governo ha represso in modo sanguinario le proteste del movimento studentesco suscitando molta indignazione. E come conseguenza la gioventù del Paese si è radicalizzata e molti di loro hanno impugnato le armi contro il governo. Per sopprimere la guerriglia le forze armate hanno cominciato ad applicare sistematicamente la tortura. Inizialmente per ottenere informazioni dai detenuti, dopo con l’unico scopo di terrorizzare la popolazione. Così sono iniziati gli anni del terrorismo di stato in Uruguay. La dictablanda è andata avanti fino al golpe di Juan María Bordaberry con cui si è ufficialmente instaurata la dittatura militare. E dopo il golpe cosa è accaduto? Mio padre è stato costretto a rifugiarsi a Buenos Aires, dove vivevamo sotto sorveglianza all’hotel Liberty. In quegli anni mio padre ha continuato a denunciare ciò che avveniva in Uruguay e ad aiutare i connazionali che si trovavano in difficoltà. A un certo punto ha ricevuto un invito dall’Italia: era Lelio Basso che gli chiedeva di partecipare al Tribunale Russel II. Il Tribunale Russel – tribunale di opinione fondato da Bertrand Russel e Jean-Paul Sartre nel 1966 – si era in precedenza occupato della guerra in Vietman ottenendo un grandissimo impatto a livello internazionale. Si era quindi deciso di creare un secondo tribunale che indagasse sulla situazione sudamericana. Mio padre accettò l’invito e il suo è stato il primo discorso ufficiale sulla dittatura in Uruguay. Prima di andare a Roma lo ripeteva ogni notte, tanto che a un certo punto ho detto: «Prima mi addormentavo con mia mamma che cantava canzoni per bambini e ora lo faccio ascoltando mio padre che ripete il discorso per il Tribunale Russel». Qual è stato l’impatto di quel discorso? È stato enorme, soprattutto a livello internazionale. Per questo il clima intorno a lui è diventato sempre più ostile e pericoloso. Anche perché le forze armate potevano esercitare una forte pressione su mio padre: nel 1972 mia sorella maggiore, Elisa, era stata sequestrata ed era detenuta. Elisa aveva 20 anni, era una militante Tupamaros, ma non era certo una figura importante. Era stata sequestrata con accuse false con il solo scopo di fare pressione su mio padre. Quando è tornato da Roma ha ricevuto una chiamata, dall’altro capo del telefono una minaccia: «Finora non abbiamo toccato tua figlia, ma se rifai qualcosa di simile cominciamo a torturarla. Possiamo rendere impossibile la sua vita». E così mio padre si è trovato di fronte a un dilemma: continuare o tacere per il bene di sua figlia. Lui ha deciso di continuare, era un rappresentante del popolo uruguaiano e non poteva venire meno al suo mandato. Anche in quelle circostanze. Nel 1975 ha scritto una lettera a un professore canadese in cui denunciava nuovamente le violazioni dei diritti umani che avvenivano in Uruguay. Un giorno nella stanza dell’hotel dove vivevamo l’ho visto piangere per la prima volta in mia. Mi ha guardato e mi ha detto: «Stanno torturando Elisa». Qual era la situazione in Argentina? Alla fine del 1975 la situazione era molto tesa. Mancavano pochi mesi al colpo di stato del 24 marzo 1976. Il 18 maggio del 1976, due mesi dopo il golpe, mio padre è stato sequestrato, insieme all’ex presidente della camera dei deputati Hector Gutiérrez Ruiz e a due giovani militanti Tupamaros Rosario del Carmen Barredo e William Whitelaw Blanco. Il 20 maggio hanno ritrovato i loro corpi a Buenos Aires. Dopo il golpe moltissime persone hanno consigliato a mio padre di lasciare l’Argentina: la sua vita era davvero in pericolo. Ma mio padre ha rifiutato e io ho sempre pensato che su questa decisione abbia influito il fatto che mia sorella fosse detenuta. Ho sempre creduto che nel momento decisivo abbia pensato: «Non posso aver sacrificato la salute di mia figlia, per poi andarmene nel momento in cui a essere in gioco è la mia vita». E così è rimasto.
Zelmar Michelini

UN ARCHIVIO PER I DESAPARECIDOS ITALIANI

Durante le dittature sudamericane di fine ‘900 in migliaia sono stati assassinati per le loro idee politiche. Sequestrati, torturati e fatti sparire perché del loro esempio non rimanesse traccia. Fra di loro moltissimi italiani, le cui famiglie ancora oggi aspettano di conoscere la verità sulla sorte dei loro cari. Archivio desaparecido è un progetto di memoria attiva del Centro di giornalismo permanente, con cui i tre autori – Elena Basso, Marco Mastrandrea e Alfredo Sprovieri – intendono ricostruire le loro storie. L’Archivio sarà multimediale e interattivo e conterrà centinaia di biografie dei desaparecidos italiani, le testimonianze delle loro famiglie e i racconti degli esuli sudamericani rifugiati nel nostro Paese. Anche questa intervista a Zelmar Michelini pubblicata dal manifesto fa parte dell’Archivio. Gli autori hanno promosso una raccolta fondi su Produzioni dal Basso per poter proseguire nel lavoro d’inchiesta. * Fonte: Elena Basso, il manifesto

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Golpismo. Oggi la sentenza italiana sul Plan Condor https://www.micciacorta.it/2017/01/22875/ https://www.micciacorta.it/2017/01/22875/#respond Tue, 17 Jan 2017 09:11:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22875 La III Corte di Assise di Roma si dovrà pronunciare nell’ambito del processo contro 33 imputati che, con diverso ruolo e funzione, hanno preso parte al «Plan Condor» e per i quali l’accusa ha chiesto 27 ergastoli e una assoluzione

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vittime della dittatura argentina

È prevista per oggi una delle sentenze più importanti degli ultimi anni, in grado non solo di fare giustizia ma anche di aggiungere un altro pezzo di verità a una delle pagine più nere della storia degli ultimi decenni, quella che riguarda le dittature sudamericane degli anni ‘70 e ‘80 e le migliaia di morti e desaparecidos che provocarono. La III Corte di Assise di Roma si dovrà pronunciare nell’ambito del processo contro 33 imputati che, con diverso ruolo e funzione, hanno preso parte al «Plan Condor» e per i quali l’accusa ha chiesto 27 ergastoli e una assoluzione. Un processo che ha un grande valore giuridico e politico. È infatti il secondo in assoluto nel mondo, dopo quello in Argentina, a occuparsi esplicitamente degli intrecci repressivi, sotto l’egida della Cia, dei regimi del Cono Sur, nella persecuzione, sequestro, l’interscambio e la sparizione degli oppositori oltre i confini nazionali. Finora la giustizia nei diversi paesi aveva, in maniera diseguale, avanzato sui singoli casi, processando e condannando soprattutto gli esecutori materiali, ma senza mai riuscire a individuare il nesso causale politico ed il coordinamento tra le diverse dittature. Questo processo individua invece un reato associativo transnazionale: processa proprio quel coordinamento criminale tra le diverse dittature latinoamericane. Il Plan Condor fu un’organizzazione criminale finalizzata alla sparizione di persone, messa in atto dalle dittature militari che controllarono, nel decennio ’70-’80, i governi di Cile, Paraguay, Uruguay, Brasile, Bolivia e Argentina. In un documento, oggi desecretato, che un agente dell’Fbi inviò nel 1976 alla sua ambasciata a Buenos Aires si spiega il piano: «Operazione Condor è il nome in codice per l’individuazione e l’interscambio dei cosiddetti ‘sinistrorsi’ comunisti o marxisti, instaurata tra i servizi segreti dell’America del Sud. Il passaggio più concreto implica la formazione di squadre speciali dei paesi membri con la facoltà di viaggiare ovunque nel mondo con il compito di castigare e assassinare i terroristi e chi li appoggiano». Il Piano nacque all’indomani del colpo di stato in Cile che, l’11 settembre 1973, destituì il presidente Allende cui subentrò Pinochet. Fu Manuel Contreras, capo della Dina, la famigerata polizia segreta cilena, ad organizzarlo. Molti individuano in Henry Kissinger segretario di Stato Usa, il gestore principale del processo dittatoriale instaurato in America latina in quegli anni, nonché il mandante supremo del Condor. È sicuramente possibile affermare che fu al corrente di tutto fin dall’inizio, proprio per il filo diretto che aveva con Contreras. Secondo cifre indicative durante il Piano 50.000 persone furono assassinate, 30.000 furono i desaparecidos e 400.000 persone vennero incarcerate. Dagli esposti di familiari di persone di origine italiana scomparse nacque il processo italiano. Questi esposti vennero raccolti dal Pm Giancarlo Capaldo che fece partire le investigazioni nel lontano 1999.   Le vittime per le quali si è proceduto sono in totale 43, 6 italo-argentini, 4 italo-cileni e 13 italo-uruguaiani insieme ad altre 20 vittime uruguaiane per le quali sorti l’imputato è Jorge Nestor Troccoli. In quest’ultimo caso è possibile procedere non per le origini delle vittime ma per quelle dell’imputato, residente in Italia, paese del quale ha anche la cittadinanza. Tra le 43 vittime ci sono anche Alfredo Moyano Santander e Juan José Montiglio Murua. Alfredo, militante della Resistencia Obrero Estudiantil (Roe) in Uruguay e del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaro (Mln-T) in Argentina fu sequestrato il 30.12.1977 presso il suo domicilio a Berazategui in Argentina insieme alla moglie María Artigas, incinta di un mese al momento della detenzione, e detenuto presso i centri clandestini di Pozo Quilmes, Pozo de Banfield e Cot1 Martínez. Alfredo Moyano e sua moglie sono ancora desaparecidos. La figlia Maria Victoria nasce il 25.08.1978 nel centro di detenzione e recupera la propria identità solo nel 1987 grazie all’opera delle Abuelas de Plaza de Mayo. Juan José era invece cileno e militante del Partito Socialista, nonché capo della «Guardia de Amigos del Presidente» (Gap), la scorta personale e più fidata di Allende. Arrestato durante gli scontri a fuoco che si verificarono l’11 settembre 1973 nel «Palacio de La Moneda« a Santiago, fu imprigionato, torturato, fucilato a colpi di mitra e fatto saltare in aria con delle bombe a mano nella caserma Tacna dai militari comandati da Rafael Francisco Ahumada Valderrama. È uno dei 3mila desaparecidos cileni: il suo corpo non è mai stato ritrovato. Il reato che viene contestato agli imputati è quello di omicidio plurimo aggravato. Purtroppo l’assenza di una normativa riguardante i reati di «desaparición» e il trentennale ritardo nell’approvare il delitto di tortura, non ha consentito di procedere anche in tal senso. * Antigone/Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili SEGUI SUL MANIFESTO PER APPROFONDIRE

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