estrattivismo – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 03 Oct 2018 08:04:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Verità senza giustizia in Guatemala per il genocidio di Tierra arrasada  https://www.micciacorta.it/2018/10/verita-senza-giustizia-in-guatemala-per-il-genocidio-di-tierra-arrasada/ https://www.micciacorta.it/2018/10/verita-senza-giustizia-in-guatemala-per-il-genocidio-di-tierra-arrasada/#respond Wed, 03 Oct 2018 08:04:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24860 1982-2018. Quello subito dai popoli indigeni all’epoca di Rios Montt fu genocidio

L'articolo Verità senza giustizia in Guatemala per il genocidio di Tierra arrasada  sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Ma il generale Mauricio Rodriguez Sanchez, responsabile della tecnica militare nota come «tierra arrasada», è assolto. Una sentenza choc riapre le ferite della comunità Maya Ixil CITTÀ DELGUATEMALA. Tierra arrasada significa terra bruciata. Succede, con gli incendi, di vederne gli effetti sulla vegetazione: un grande rogo, poi il grigio della cenere nell’aria e ovunque. Non resta nulla, e presto anche la memoria dimentica quel che era prima. Qualcuno dice che il fuoco agevoli la fauna, le permetta di rigenerarsi più forte e rigogliosa. Qualcuno dice che il fuoco è solo un modo efficace per fare pulizia. Terra bruciata, in realtà, non è solo un incendio: è un binomio dal significato intrinseco, un concetto simbolico, una dichiarazione di intenti. TERRA BRUCIATA è una tecnica militare. In Guatemala, il generale Rios Montt parafrasò l’espressione con «togliere l’acqua al pesce». Nel contesto di un conflitto interno che durava da oltre 20 anni, significava annichilire qualsiasi tipo di appoggio logistico e ideologico alla guerriglia, al fine di isolarla dalla base sociale a cui si rivolgeva. Vari furono gli esiti, fra i più conosciuti vi sono il campo di sterminio clandestino Creompaz o il caso di violenza sessuale Zepur Zarco. Oppure quello del 6 dicembre 1982, quando con la giustificazione di voler recuperare 22 fucili sequestrati dai ribelli, 58 militari travestiti da guerriglieri entrarono nella comunità Dos Erres, Petén, Guatemala settentrionale. Gli uomini vennero rinchiusi nella scuola, le donne e i bambini nelle due chiese. I primi furono bendati, torturati e fucilati, mentre alle donne e ai bambini andò anche peggio: violate e seviziate sessualmente fino al giorno dopo, furono infine assassinate. I corpi vennero gettati nel pozzo, poi ricoperto da terra. Soltanto nel giugno del 1994 vennero rinvenute le ossa di 178 persone: la maggior parte erano bambini sotto i 12 anni. ALL’EPOCA DI RIOS MONTT, al potere fra il 1982 e 1983, terra bruciata significava eliminare la guerriglia e le comunità indigene sospettate di appoggiarle, il cosiddetto nemico interno. Pulizia etnica, sociale e politica, affinché non rimanesse più alcuna traccia, nemmeno nella memoria. In quel biennio, l’esercito guatemalteco uccise 10 mila persone e firmò 669 massacri, di cui quasi la metà ai danni della popolazione civile indigena Maya Ixil. 448 comunità vennero «cancellate»: non fu nessun incendio, furono i fucili; poi, tierra arrasada, il fuoco e la cenere. Il 10 maggio 2013, a 17 anni dalla firma degli accordi di pace, il Tribunal A de Mayor Riesgo riconobbe José Efrain Ríos Montt responsabile del massacro di 1771 persone e colpevole di genocidio contro la popolazione Maya Ixil, condannandolo a 50 anni di prigione, a cui venivano sommati 30 anni per crimini contro l’umanità. 80 anni di carcere, il riconoscimento del genocidio e l’inizio di un processo di giustizia transizionale. La memoria storica sembrava riprendere piede anche nelle aule dei tribunali, mentre ai famigliari dei desaparecidos e delle vittime, o a chi era stato costretto all’esilio nelle montagne del Chiapas messicano, si palesava l’opzione di credere in un nuovo binomio: verità e giustizia. Ma, si trattava di una memoria breve in una democrazia fragile, e così, soltanto 10 giorni più tardi, la Corte costituzionale annullava la sentenza e posponeva la riapertura del processo a data da definire. UNA STRATEGIA BEN NOTA in Guatemala, che nel giorno di Pasqua del 2018, lo scorso primo di aprile, permetteva al genocida di morire impune, a 91 anni e senza mai aver pagato per le sue terribili colpe. Il 26 settembre 2018, a 22 anni dagli Accordi di Pace, parte di quel che resta del popolo Maya Ixil presenzia silenziosamente a Città del Guatemala: nella piazza dei Diritti Umani, le autorità ancestrali indigene officiano una cerimonia in memoria delle vittime del genocidio. Per terra alcune candele, tanti fiori e una grande scritta in petali rossi: «Giustizia». Altre centinaia di persone aspettano di poter entrare nell’aula, dove alle 18.30 ora locale verrà emessa la sentenza. Al banco degli imputati siede Mauricio Rodriguez Sanchez, capo dell’intelligence militare di Rios Montt: il cervello che plasma il concetto, la mente che muove la mano, l’artefice della tierra arrasada. Accusato 5 anni fa insieme a Rios Montt per il genocidio della popolazione Maya Ixil, per crimini contro l’umanità e per il massacro di 1771 persone, ottenne di essere giudicato in un processo separato rispetto al capo di Stato e venne poi assolto per mancanza di prove che lo relazionassero ad azioni di sterminio di un determinato gruppo etnico. Ma il 13 ottobre 2017, il suo caso si è di nuovo aperto e ogni venerdì si sono raccolte perizie e si sono ascoltate testimonianze. OGNI VENERDÌ, Mauricio Rodriguez Sanchez si è seduto al banco degli imputati, mentre una delegazione di sopravvissuti al genocidio, organizzati nell’Associazione per la giustizia e la riconciliazione (AJR), ha affrontato oltre 10 ore di viaggio per recarsi dalla regione del Quiché, Guatemala centro-settentrionale, alla capitale. Seduti dall’altra parte e fra il pubblico, hanno raccontato quel che hanno visto e vissuto, le torture e i massacri. Quello a cui sono sopravvissuti. La memoria. In quasi un anno di udienze regolari, il Tribunal B de Mayor Riesgo ha ascoltato circa 141 testimoni, accompagnati da 66 perizie di antropologia forense. Giovedì scorso ha emesso il verdetto: ci fu genocidio, ma Mauricio Rodriguez Sanchez è innocente. È una sentenza contraddittoria, emessa per maggioranza (due giudici a favore, una contraria), che sembra volersi scrollare di dosso la portata storica che grava sulle sue spalle. Una sentenza che spacca a metà quel binomio a cui i popoli avevano cominciato a credere: verità, ma nessuna giustizia. LA QUESTIONE DEL GENOCIDIO, da anni divide la società civile: i muri delle città, i cori delle manifestazioni di piazza, i popoli originari, le organizzazioni dei famigliari delle vittime e degli scomparsi, le forze democratiche e la sinistra ripetono a gran voce che in Guatemala ci fu un genocidio. Affermano che quella della terra bruciata è una politica che dimostra la volontà di fare pulizia etnica, politica e sociale. Di sterminare. Dall’altra parte, a negare il genocidio è l’estrema destra, l’esercito, l’associazione dei veterani militari, il generale Otto Perez Molina – presidente del Guatemala fra il 2012 e il 2015 – le lobby economiche e la Fondazione contro il terrorismo, il cui stesso nome è contraddittorio. È Mauricio Rodriguez Sanchez, a dichiararsi innocente. L’argomento di forza è che in Guatemala ci fu un conflitto fra due fazioni opposte, non un genocidio. Anche se la stessa Commissione per il chiarimento storico delle Nazioni unite indica che fra gli oltre 200 mila morti e desaparecidos, l’83,3% era di etnia indigena e il 93% dei casi di violenza fu di responsabilità dello Stato. Una verità senza giustizia, la sentenza che assolve Mauricio Rodriguez Sanchez dai massacri perpetrati dal suo esercito. Come se il capo dell’intelligence militare non fosse stato a conoscenza delle azioni dei suoi soldati, come se non avesse dato gli ordini. Come se fu un genocidio non premeditato, frutto della sfortuna e del caso. Di opinioni divergenti. Come se fosse arrivato il momento di dimenticare le colpe e gli assassini, i morti e gli sconfitti. La democrazia. TERRA BRUCIATA. Succede ancora. Succede ogni giorno nel Guatemala paradiso dell’impunità che lascia a piede libero persone responsabili di genocidio e crimini contro l’umanità. Succede ovunque nell’industria dell’estrattivismo, come quando lo scorso 4 di settembre la Corte Costituzionale restituisce la licenza di lavorare all’impresa canadese Tahoe Resources, la terza miniera d’argento più grande al mondo, sospesa a processo per inquinamento e per aver negato l’esistenza della popolazione indigena Xinca. Succede ancora quando 56 ragazze adolescenti vengono lasciate bruciare vive nell’Hogar Seguro Virgen de la Asunción, l’8 marzo 2017. Succede ancora: terra bruciata, fuoco e cenere; le ombre di un genocidio silenzioso. * Fonte: Tullio Togni, IL MANIFESTO photo: Ex General Efrain Rios Montt,  By Elena Hermosa / Trocaire (https://www.flickr.com/photos/trocaire/9266597633/) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons

L'articolo Verità senza giustizia in Guatemala per il genocidio di Tierra arrasada  sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/10/verita-senza-giustizia-in-guatemala-per-il-genocidio-di-tierra-arrasada/feed/ 0
Raúl Zibechi: «Dagli zapatisti ai NoTAV, lotta globale all’estrattivismo» https://www.micciacorta.it/2018/08/raul-zibechi-dagli-zapatisti-ai-notav-lotta-globale-allestrattivismo/ https://www.micciacorta.it/2018/08/raul-zibechi-dagli-zapatisti-ai-notav-lotta-globale-allestrattivismo/#respond Sun, 19 Aug 2018 09:53:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24771 Intervista al giornalista e scrittore uruguiano Raúl Zibechi sul modello economico imperante oggi e le resistenze popolari

L'articolo Raúl Zibechi: «Dagli zapatisti ai NoTAV, lotta globale all’estrattivismo» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Intervista. «Intere comunità sono ostacoli da rimuovere per lasciar spazio a miniere a cielo aperto, monocolture, grandi opere. Ma c’è anche un estrattivismo di tipo urbano, la gentrificazione» Raúl Zibechi è un giornalista, scrittore e attivista uruguaiano, da anni impegnato nella narrazione dell’evoluzione dei movimenti sociali in America Latina. Lo scorso giugno ha partecipato a vari incontri in giro per l’Italia. A Roma, al Parco delle Energie-Csoa Ex Snia, era insieme a una quindicina di comitati che si oppongono alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, dal Tap al Tav passando per le battaglie contro gli inceneritori nel Centro Italia e per quelle di chi difende un modo diverso di produrre e distribuire il cibo. Un’occasione per approfondire con lui una serie di temi. Nei tuoi articoli e nei tuoi libri illustri e analizzi il concetto di estrattivismo, ancora poco conosciuto da noi. Puoi spiegarci di che cosa si tratta? L’estrattivismo è una forma di accumulazione fatta dal capitale finanziario, che domina attualmente nel pianeta, attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. È l’accumulazione per spossessamento, per «furto». Una differenza fondamentale tra l’estrattivismo e il sistema industriale è che per quest’ultimo gli esseri umani erano una risorsa da sfruttare, servivano a raggiungere il plusvalore. Nell’estrattivismo le persone, ma direi intere popolazioni, sono ostacoli che devono essere rimossi per lasciar spazio, per esempio, alle miniere a cielo aperto, alle monocolture, come la soia, o alle grandi opere infrastrutturali, come quelle per trasportare gli idrocarburi. Ma c’è anche un estrattivismo urbano, che si manifesta tramite la gentrificazione, che sta avvenendo in tutto il mondo. Per questo non ci troviamo di fronte solo a un modello economico, io parlo di vera e propria società estrattiva, che implica una militarizzazione del territorio che crea le basi per uno Stato di polizia. Ormai dobbiamo parlare di «elezioni senza democrazia», perché non si può scegliere che tipo di società vogliamo. Altro elemento nuovo e molto pericoloso è l’alleanza tra capitale finanziario, mafia e forze dello Stato.
Come si declina l’opposizione a questo modello in America Latina?
Partiamo dal presupposto che il soggetto che resiste sta fuori dalla produzione estrattiva, è una vittima che si trova nella zona del «non essere», dove non ha accesso ai servizi fondamentali e pressoché a nulla. Per questo sono nate forme di resistenza territoriale e collettiva, come lo zapatismo, la polizia comunitaria di Guerrero e la guardia indigena Nasa. Oltre a resistere però bisogna anche costruire un «mondo altro» per poter sopravvivere, come sta accadendo in America Latina. Come si sono posti i governi di sinistra instauratisi negli ultimi lustri nella regione nei confronti dell’estrattivismo? Coloro che resistono all’estrattivismo hanno constatato come i governi progressisti siano stati ogni volta più amici dell’estrattivismo, addirittura ampliando la sua frontiera. Hanno portato più miniere, più piantagioni di soia e più gentrificazione. Non hanno migliorato le condizioni generali dei settori popolari, hanno garantito loro solo alcuni benefici, ma non diritti. Qual è stato l’atteggiamento delle fasce popolari nei confronti di questi governi? In un primo momento li hanno appoggiati con forza, poi il sostegno si è indebolito, soprattutto tra i giovani. Il culmine della protesta si è avuto nel giugno 2013 in Brasile: 20 milioni di persone sono scese in piazza in oltre 300 città. Alle elezioni presidenziali messicane del primo luglio ci sarebbe potuta essere una candidata indigena, Marichuy, ma non ha partecipato perché non ha raggiunto il numero di firme necessarie. Come giudichi questa mossa del movimento zapatista? I zapatisti lavorano in una doppia direzione: rafforzare le comunità presenti sul territorio e rompere il loro isolamento, così da legarsi ad altri settori sociali. Un compito difficile, perché le zone zapatiste sono sotto assedio militare. Inoltre la narrazione da parte dei media produce isolamento, tanto che alcuni ignorano l’esistenza stessa dello zapatismo. La campagna di Marichuy, quindi, ha avuto l’obiettivo di creare una rete, di formare delle relazioni con i settori popolari e raccontare quello che lo zapatismo sta facendo, mandando un forte messaggio per facilitare l’auto-organizzazione del popolo. Questo è il vero obiettivo della campagna, non ha nulla a che vedere con le elezioni. Ci spieghi quale fase sta attraversando ora lo zapatismo? È un processo molto consolidato, che può contare su molte comunità, 34 municipi autonomi e cinque giunte del buon governo. Dove è presente ha una produzione e una distribuzione propria, scuole e ospedali, un suo sistema di giustizia e un autogoverno a rotazione che non comporta forme di burocrazia. C’è una crescente autonomia, come mi sono accorto frequentando l’Escuelita, la settimana in cui le comunità zapatiste hanno condiviso con altri le loro esperienze. Quanto sono cambiate le dinamiche politiche in America Latina dopo l’avvento di Trump? Ha chiaramente rafforzato la destra, non solo politica, ma anche settori più conservatori della società, come per esempio la chiesa evangelica e pentecostale o i gruppi paramilitari, che stanno attaccando in maniera continua le iniziative dei settori popolari. Il tutto in un mondo che va sempre più a destra, come vi state accorgendo anche voi in Europa. Che idea ti sei fatto della lotta all’estrattivismo in Italia? È molto presente e visibile nelle città, dove la gentrificazione è ovunque, proliferano centri commerciali e spariscono gli spazi pubblici. Poi abbiamo le grandi opere, come Tav, Tap, le mega-autostrade, lo sfruttamento degli idrocarburi, come in Basilicata. Purtroppo l’offensiva dell’estrattivismo è molto forte, con attacchi diretti alle comunità e ai migranti. Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza dei movimenti italiani? Dai tempi della centralità del movimento operaio ci sono stati dei cambiamenti molto rilevanti. Dopo il periodo in cui sono nati i centri sociali, ora si assiste a una transizione verso la territorializzazione della lotta, come nei casi della Val di Susa, di Mondeggi o di Genuino Clandestino. È un’alleanza rurale-urbana che non solo resiste, ma crea reti di distribuzione, di produzione. I territori sono i laboratori della nuova società. * Fonte: Luca Manes, IL MANIFESTO

L'articolo Raúl Zibechi: «Dagli zapatisti ai NoTAV, lotta globale all’estrattivismo» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/08/raul-zibechi-dagli-zapatisti-ai-notav-lotta-globale-allestrattivismo/feed/ 0