ex deportati – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 23 Jan 2016 08:41:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Per ricordare e ricostruire, pietra su pietra https://www.micciacorta.it/2016/01/per-ricordare-e-ricostruire-pietra-su-pietra/ https://www.micciacorta.it/2016/01/per-ricordare-e-ricostruire-pietra-su-pietra/#respond Sat, 23 Jan 2016 08:41:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21203 Giornata della Memoria. L'artista tedescoGunter Demnig ha iniziato a posizionare le pietre di inciampo a Colonia nel 1995 poste di fronte alle abitazione degli ebrei deportati. Ora sononelle città di tutta Europa e, in questi giorni anche a Torino

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pietre d'inciampo

TORINO. Si chiamava Eleonora Levi, abitava in corso Massimo d’Azeglio 12, a Torino. Ma «i tedeschi» se la portarono via da un letto della clinica Sanatrix dove era ricoverata. Morì ad Auschwitz nel 1944, aveva sessant’anni. La Pietra d’Inciampo che la ricorda, incastonata nel selciato davanti alla casa di Eleonora, è la numero cinquantamila in Europa. Pietra d’inciampo, Stolpersteine, un porfido di ottone lucente, dieci centimetri per dieci, che porta incisi la dicitura «Qui abitava», il nome, la data di nascita, il luogo di deportazione e, quando ciò è possibile, la data di morte. Si deve all’artista tedesco Gunter Demnig l’idea di far «inciampare», in questa minuscola memoria coloro che non hanno vissuto i giorni e i mesi della più grande tragedia del ’900. Inciampare. Cioè accorgersi di quelle presenze, leggere nomi e date, sentirsi spronati a riflettere. Le pietre di Demnig sono divenute il monumento dal basso più diffuso nel Vecchio Continente. Della loro posa, infatti, non sono le istituzioni pubbliche a decidere, ma i singoli cittadini e le associazioni che vogliono ricordare una vittima del nazifascismo. Le Pietre d’Inciampo in Italia si incontrano, tra le altre città, a Brescia, Genova, Livorno, Reggio Emilia, Venezia, Ostuni, Teramo. Meina, duemila abitanti, provincia di Novara, ne conta tre, in memoria degli adolescenti che, con altri tredici ebrei, vennero trucidati dalle SS il 22 e il 23 settembre del ’43 all’Hotel Meina, di proprietà di Alberto Behar, turco di origine ebrea. Nelle pietre di Roma inciampano i cittadini di molti quartieri, da Trastevere a Monti, dal Quadraro al Pigneto, da Monteverde a Prati. Succede, pur suonando assurdo, che qualche cittadino, se così vogliamo chiamarlo, si senta autorizzato a divellerle, come successe il 12 gennaio del 2012 nella trasteverina via Santa Maria in Monticelli 67, la casa delle tre sorelle Spizzichino cui tornò, da Auschwitz, soltanto Settimia, morta nel 2000. Autore dell’atto di vandalismo un inquilino del palazzo di fronte. Le pietre, disse, gli davano fastidio. Venti nel gennaio del 2015, quarantasette nell’identico mese del 2016. Tante sono le pietre deposte a Torino, dal centro storico e zone adiacenti al quartiere «bene» della Crocetta, dai quartieri operai di Borgo Dora, San Paolo, Barriera di Milano alle prime periferie di corso Regio Parco e Borgo Vittoria. Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, museo che meriterebbe maggiore attenzione e più visitatori, evidenzia un aspetto particolare delle Stolpersteine torinesi: «La città vide una deportazione di ebrei assai inferiore rispetto a quella degli attivisti politici, o presunti tali. Ricostruire i numeri è impresa difficile, perché, da un certo momento in poi, per la deportazione si usarono gli autobus al posto dei treni, i convogli si unirono ad altri, gli smistamenti avvennero da campi diversi. Grossomodo, stando ai dati accertati, si parla di 246 ebrei contro 515 politici». C’è un ingresso quasi nascosto sotto i portici di piazza CLN, dietro via Roma, la via razionalista disegnata dall’architetto Marcello Piacentini. È l’ingresso dell’Albergo Nazionale, durante la seconda guerra mondiale sede del comando della Gestapo presieduto dall’Obersturmbannführer Hugo Kraas. Il Nazionale ha chiuso nel 2010, ma la città esoterica, per decenni, ha sussurrato di anime senza pace, incapaci di andarsene da quelle stanze in cui avevano conosciuto la ferocia senza pietà delle torture. Dall’albergo, gli arrestati venivano portati dentro Le Nuove, le carceri di Corso Vittorio Emanuele oggi dismesse. La via crucis si concludeva a Porta Nuova, la vicina stazione ferroviaria. Auschwitz attendeva gli ebrei, Mauthausen i politici. Sottolinea Vaglio «La topografia delle pietre evidenzia il tributo altissimo che gli operai pagarono agli scioperi del marzo ’43 e ’44. Era dichiaratamente uno sciopero contro il regime e contro la guerra. Il momento pubblico di quest’anno è stato dedicato non a caso a Luigi Nada, operaio delle Ferriere, che arrivato nel campo tentò la fuga e venne ucciso». Nada, classe 1910, morì a Gusen, Linz, nel 1944. La pietra che lo ricorda è in Strada Comunale Bertolla 9b, allora campagna distante da Torino. Sul fronte della persecuzione razziale, la storia della famiglia Colombo, negozio di tessuti in piazza Castello 161, fa emergere una figura di cui il nazifascismo si servì a piene mani, il delatore. Dopo la promulgazione delle leggi che vietavano di fatto agli ebrei ogni attività, i Colombo intestarono il negozio a un loro dipendente, che qualche giorno dopo li chiamò con la scusa di chiarimenti lavorativi. Benvenuto, Enrico e Mario trovarono le SS ad attenderli. Di lì in poi, a servire la clientela, fu un nuovo titolare. Il dipendente. Il progetto delle Pietre d’Inciampo, promosso, oltre che dal Museo, da Goethe Institut, Comunità Ebraica di Torino e Aned, l’associazione degli ex deportati, coinvolge una decina di scuole medie e superiori. Ancora Vaglio: «Una classe lavora proprio sulla vicenda dei Colombo, e i ragazzi hanno preso atto con un certo stupore della delazione come strumento per attuare le persecuzioni. Forse le nuove generazioni non sono ancora del tutto immuni dalla falsa convinzione circolata per molto tempo che siano stati i tedeschi cattivi a fare tutto». Un’altra pietra significativa si incontra in via San Domenico zero, sul sagrato della chiesa medioevale. Da lì fu prelevato don Giuseppe Girotti, morto a Dachau, dopo una spiata che lo accusava di accogliere i partigiani feriti e di nascondere gli ebrei. Prima delle pietre, esisteva, secondo Vaglio, una coscienza collettiva del prezzo pagato da Torino in termini di vittime e in nome della libertà? «Siamo in una fase particolarmente delicata di passaggio dalla memoria alla storia. La generazione dei testimoni diretti si sta esaurendo, le giovani generazioni vivono queste vicende come ormai lontane. Tutto è andato affievolendosi, affidato al ricordo ufficiale di più di trecento lapidi. Pezzi di muro che, però, quasi nessuno nota. La mappa delle Pietre d’Inciampo è nata e si sta ampliando grazie alle famiglie dei deportati, innesca un meccanismo di ricerca, fa riemergere lettere e documenti, porta a tracciare biografie di persone prima sconosciute». Perché chiedere una pietra settant’anni dopo? La risposta, forse, sta nel semplice desiderio di poter sostare in preghiera, pensare, sentirsi uniti a chi una tomba non l’ha mai avuta. Le pietre, nella loro forma e nella loro idea, non fanno distinzioni di ceto, non classificano il valore dei meriti. Ma sanno suscitare emozioni a dispetto del lungo tempo trascorso? «Emozionarsi, commuoversi, è naturale da parte dei parenti delle vittime. Analoga cosa avviene nei ragazzi delle scuole. Se, da un lato, penso sia un rischio accostarsi a una materia così delicata puntando troppo sulle emozioni, dall’altro venirne coinvolti, ricavandone un testo, uno spettacolo, un video, è un fatto sicuramente positivo». La Pietra d’Inciampo racconta, chiede che non si dimentichi chi ha creduto che un futuro fosse possibile. La Pietra d’Inciampo unisce, o almeno prova a farlo in questo nostro Paese eternamente disunito.

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Un fil rouge di padre in figlio https://www.micciacorta.it/2015/11/un-fil-rouge-di-padre-in-figlio/ https://www.micciacorta.it/2015/11/un-fil-rouge-di-padre-in-figlio/#respond Sun, 29 Nov 2015 09:36:23 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20921 Oggi a Milano alla Casa della Memoria, per la decima giornata della «Memoria familiare-figli e nipoti raccontano» l'Aned, l'Associazione degli ex deportati, propone una originale bibliografia di storie personali

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Storie. Oggi a Milano alla Casa della Memoria, per la decima giornata della «Memoria familiare-figli e nipoti raccontano» l'Aned, l'Associazione degli ex deportati, propone una originale bibliografia di storie personali che si intrecciano con la memoria collettiva legata alla Resistenza Eugenio Iafrate cercava notizie di un suo zio scomparso in Germania, e viene a conoscenza del primo treno di deportati partito dalla stazione Tiburtina di Roma interamente organizzato e gestito da agenti di pubblica sicurezza italiani. Era il 4 gennaio del ’44; il «treno prototipo», l’avrebbero poi chiamato, il modello cui riferirsi per tutti i successivi viaggi della morte dall’Italia liberata a metà verso Dachau, Auschwitz, Mauthausen, l’orrore del castello di Hartheim. Elvira Pajetta voleva raccontare suo padre Giuliano, fratello di Giancarlo, come lui stesso e il suo mondo non le sembrava fossero riusciti a fare, e restituisce alla storia la complessità e l’umanità di una persona-monumento dell’antifascismo, la cui vita ha sostanzialmente coinciso con quella del Pci. Verificando con precisione documentale come la Resistenza, al di là dell’iconografia eroica dei partigiani in armi, l’abbiano fatta una miriade di piccoli gesti sostenuti da una coscienza politica capace di guardare oltre la sopravvivenza: distribuire il pane, certo, ma allo stesso modo informare sull’andamento della guerra. Possedere una radio era un crimine, in un mondo in cui annientare coscienza e capacità critica era l’obiettivo.

Le fabbriche in prima linea

Giuseppe Valota si è messo sulle tracce del padre Guido mai conosciuto, deportato politico da Sesto San Giovanni a Mauthausen, e finisce per ricomporre in modo dettagliato il quadro dell’area industriale di quegli anni in tutto il milanese, trainata da Breda, Pirelli, Magneti Marelli, Falck, le grandi fabbriche che (insieme a Fiat e Olivetti almeno) fecero la storia economica d’impresa del Dopoguerra. Ed è un’angolazione inedita, la sua, perché lo sguardo è quello di chi è rimasto a casa ad aspettare, le mogli coi bambini da crescere, le sorelle, le madri senza più figli, le figlie senza più padri. Lo sguardo delle donne. Iafrate con «Elementi indesiderabili», Pajetta con «Compagni», Valota con «Dalla fabbrica ai lager»: i loro libri, tutti usciti quest’anno, raccontano storie personali che si intrecciano con la memoria collettiva italiana, sono biografie e storiografie sconosciute agli archivi ufficiali, frutto di indagini certosine costruite in un arco temporale ventennale. Li presentano oggi a Milano alla Casa della Memoria (dalle 10,30) per la decima edizione della giornata della «Memoria familiare-figli e nipoti raccontano» organizzata dall’Aned, l’Associazione degli ex deportati. Non sono gli unici libri di cui si parlerà, ne verranno presentati una decina, di cui pubblichiamo a parte le indicazioni.

Passato e presente

«La giornata della Memoria familiare è stata la nostra prima iniziativa rivolta non ai deportati, ma ai loro parenti — spiega Dario Venegoni, neopresidente dell’Aned, eletto dopo la morte di Gianfranco Maris — L’obiettivo non è solo la rievocazione: è un appuntamento carico di energie, in cui si incontrano spesso per la prima volta persone che quel percorso di indagine della memoria familiare l’hanno gia’ fatto o lo faranno. Nei momenti di pausa non fanno che parlare tra loro, si scambiano informazioni, metodologie, ricostruiscono la dislocazione della documentazione disponibile, frammentata tra Berlino, Londra, Washington, Mosca. L’epoca del testimone diretto è finita o va finendo, ma da qui a quella dello storico, la cui indagine si esaurisce tra gli archivi, esiste una terra di mezzo, quella appunto degli archivi familiari: sono loro, i figli, i nipoti, i depositari di un pezzo di memoria non altrimenti rintracciabile. Dei miei genitori (Venegoni stesso e’ figlio di deportati, ndr) nessuno storico saprà mai quello che so io». C’è anche di più. C’è quel fil rouge che sempre attraversa la storia, che lega la guerra di allora a quelle, nuove, di oggi, i viaggi nei vagoni piombati a quelli dei profughi stipati in fretta nei barconi. È tutto diverso ed è tutto così maledettamente simile, ed è sempre lì, la Necessità, a muovere le fila. Come dice Venegoni: «Torna in auge la guerra quale risoluzione dei problemi internazionali. L’ideologia che prevale sulla realtà dell’uomo. Quando nella piazza di Mosul hanno bruciato dei libri considerati blasfemi, ho ripensato subito ad una frase di Heinrich Heine, ripresa da Primo Levi, secondo cui chi brucia libri finisce per dare fuoco alle persone. Una settimana dopo, il video dell’Isis col pilota giordano chiuso in una gabbia ed arso vivo. Ad oggi non abbiamo soluzioni facili in mano. Mi ricordo quella vignetta di Altan che dice “mi vengono in mente idee che non condivido”: la guerra, appunto, e tutte quelle risposte alla crisi di oggi che tendono a mettere in discussione i nostri valori più importanti, la libertà, la privacy, la solidarietà».

Un modo per fare politica

Gli autori che parlano oggi alla Casa della Memoria lo sanno in partenza, o ci arrivano a fine percorso: per tutti loro «conoscere la storia per capire il presente» non è pura astrazione. «Ho iniziato a cercare — racconta Iafrate — per fare i conti con qualcosa di importante che mi appartiene, e ho scoperto, io che di politica nella vita ne ho fatta tanta, un nuovo modo per continuare a farla. Ho capito studiando i viaggi dei deportati che tutto, allora come oggi, è regolato da rapporti di forza economica: dai biglietti per le famiglie consegnati agli agenti in cambio di un po’ di cibo o di un orologio, dalla mutua tedesca che pagava i nazisti per questi lavoratori-schiavi, dal fatto che un treno non potesse partire con meno di 300 persone. Era antieconomico, capisce?». Il «treno prototipo» della linea Roma-Mauthausen, partito all’indomani di giorni di guerriglia urbana dopo l’8 settembre, e mentre dilagava la guerra civile, ne trasportava 329, una rappresentanza di indesiderabili molto estesa: età variabile tra i 14 e i 66 anni, comunisti, socialisti, anarchici, ex militari, ebrei. Torneranno in 62, di questi alcuni moriranno subito dopo. L’ultimo reduce ad andarsene è stato, l’anno scorso, quel Mario Limentani protagonista di un altro libro presentato oggi.

Le cure di Anna Kuliscioff

Perché ovviamente le memorie raccontate sono spesso intrecciate tra loro, e mentre il faro si accende su una storia faticosa di persone comuni ne vediamo passare accanto un’altra, altrettanto sofferta, di chi ha fatto la storia politica e istituzionale del Dopoguerra. Succede nel libro di Valota dove, scorrendo le 89 testimonianze riportate, si arriva alla moglie di un deportato che aveva curato a Milano Anna Kuliscioff immergendola in bagni di latte per lenirne i dolori causati dalle sofferenze del carcere. Spuntano Pertini, Parri e Rosselli, processati in contumacia, mentre nell’immediato Dopoguerra a Sesto San Giovanni è Armando Cossutta che consulta per le donne in cerca di notizie gli elenchi dei deportati. Tra i più accesi organizzatori del Soccorso rosso — che in gran parte è un pezzo di pane e un po’ di farina dietro la porta, o una moneta che passa di mano — c’è la contessa Bonacossa, grande amica del generale Raffaele Cadorna, nipote dell’omonimo che aveva comandato le truppe italiane nella presa di Roma del 1870. Le interviste ci portano nell’intimo della classe operaia sestese, falcidiata dalle deportazioni seguite ai grandi scioperi del ’44, 570 deportati politici, 223 morti direttamente nei campi. L’unico industriale che non collabora con i nazifascisti sarà Alberto Pirelli. Valota è riuscito nell’intento, ha ricostruito la sua memoria familiare fino in fondo: «Ho scoperto che mio padre è morto in una marcia della morte tra Vienna e Mauthausen. Mi hanno proprio indicato il luogo preciso, sono fortunato: so dov’è».

Differenze abissali

Il fil rouge, allora. Quello che intreccia queste vite tra loro, e che lega tutte loro a noi, oggi. «Mi chiedo spesso: come potrebbe essere il fare, ora? — si interroga Elvira Pajetta — Mio padre ripeteva sempre che era fondamentale conoscere l’economia, la geografia e le lingue, e io credo che questi siano i parametri essenziali ancora oggi. Se fosse vivo, si misurerebbe con la globalizzazione, con le novità geopolitiche, credo lavorerebbe coi giovani, pur in questo assoluto vuoto di rappresentanza. Questo è un mondo abissalmente diverso da quello in cui ha vissuto lui: eppure io credo che il bisogno umano di lottare per la libertà, l’uguaglianza, la fraternità o, per dirla in chiave moderna, i diritti, non possa che riprodursi ancora e ancora».

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