filosofia – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 17 May 2018 08:48:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory. Se la responsabilità del filosofo si fa politica https://www.micciacorta.it/2018/05/la-responsabilita-del-filosofo-si-politica-allinterno-della-stessa-vita/ https://www.micciacorta.it/2018/05/la-responsabilita-del-filosofo-si-politica-allinterno-della-stessa-vita/#respond Thu, 17 May 2018 08:42:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24492 «Da Dentro» di Sandro Chignola. Una raccolta di saggi che cercano di dare risposta ai problemi che procedono dal modo in cui l’accumulazione capitalista estrae valore ovunque dall’esistenza

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Che cosa significa Da Dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory (Sandro Chignola, Deriveapprodi, pp.190, euro 17)? Questo titolo, ci dice Chignola, «rivendica una doppia internità. Quella a un mondo che un ‘fuori’ non lo ha più, e quella a una linea di pensiero, inseparabilmente teorica politica assieme, che è stata chiamata post-operaista, il motore della quale è sempre stata l’assoluta consapevolezza che è nel campo di immanenza del reale, e non nella rarefatta atmosfera della chiacchiera più o meno filosofica, che ci si muove – assumendosi la piena responsabilità di ciò che si scrive e di ciò che si fa». QUANDO I DISPOSITIVI dell’accumulazione capitalista si sono estesi sull’intera superficie del globo, estraendo valore dalla vita, e i processi di unificazione del mondo, diretti alla sua mercificazione, hanno ormai ibridato culture e tradizioni di pensiero, è «da dentro» che la critica deve svolgersi, recuperando un sguardo di immanenza e disponendolo alla nascita della critica e della resistenza. È su questa soglia che, di conseguenza, Chignola pone il punto di trasformazione della filosofia politica: il farsi politico della responsabilità del filosofo. I nove saggi che contiene questo volumetto vogliono così dare una risposta politica a una serie di problemi, che procedono dalle nuove condizioni (totalità dell’investimento capitalistico del mondo, responsabilità etica e soggettivazione politica). E, da principio, Chignola sottolinea che le problematiche qui toccate (talora raggruppate sotto l’etichetta Italian Theory) hanno una dimensione che va ben oltre ogni limite nazionale o locale. Non è un caso se, appunto, l’importanza di questo libro sta nel fatto che esso rende conto dello spostamento del dibattito filosofico politico a cavallo del XX e XXI secolo: uno spostamento che è divenuto una radicale differenza, segnalata da tre passaggi. Chi abbia vissuto l’ultimo mezzo secolo della discussione sulla natura dello Stato e sulla crisi della democrazia, non potrà che confermare questa osservazione. IL PRIMO PUNTO sul quale questo spostamento è visibile anche allo spettatore più disattento, è la fine del riferimento, nell’analisi e nella narrazione della natura dello Stato, a posizioni quali quelle rappresentate da Carl Schmitt. Contro ogni trascendenza della sovranità si levano infatti, nella contemporaneità, i dispositivi dell’immanenza: la natura del potere è strappata a ogni possibile fondamento teologico-politico e concepita nella pluralità dei rapporti di forza sociali. La linea che va da Deleuze a Spinoza è qui assunta nella polemica contro il concetto schmittiano del politico. Con Foucault, questa riduzione del sistema dei saperi-poteri dello Stato sul terreno della biopolitica definisce un processo del potere che «investendo integralmente la vita, mostra la vita stessa come potere». Meglio detto, dall’altro lato, «la vita non viene mai integrata in modo esaustivo nelle tecniche che la dominano e la gestiscono da parte del potere». Con le parole esatte di Foucault, «essa sfugge loro senza posa». Il secondo punto, riguarda l’analisi weberiana della razionalità moderna, nella fattispecie, amministrativa e statuale. Anche questa è prospettiva ormai caduca: l’introduzione delle tematiche della «governamentalità» ha distrutto la bella immagine di una legalità includente o comunque accordata alla legittimità. Su questo terreno, gli studi costituzionali e politici italiani sono stati per un buon secolo costretti dal pensiero dominante, fra Croce e Bobbio. LE ANALISI di Deleuze e Foucault hanno disarticolato queste antiche forme della normazione e della vicenda amministrativa dello «Stato di diritto». In un saggio esemplare della raccolta (In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo), questo mutamento dell’orizzonte teorico e questa condizionalità nell’analisi dello «Stato di diritto», vengono messi radicalmente in discussione. E nei saggi – riprende altrove Chignola – le immagini della «talpa» e del «serpente» con tanto vigore segnalano una transizione fra diverse formazioni giuridiche che corrispondono alla profonda mutazione del capitalismo. Il terzo punto – ed è il più forte – riguarda le concezioni metafisiche che dematerializzano il potere allo scopo di svuotare, con esso, ogni potenza di resistenza e di rivoluzione. Da Heidegger ad Agamben si sono susseguiti questi tentativi. Qui la vita, quella vita che è stata riconquistata come potenza «dentro» la distruzione del teologico-politico, è invece pensata «come ostaggio del dispositivo di bando e come irretita dal dispositivo sovrano della Legge, e non come produttività, divenire, variazione». In questo modo, si pensa alla biopolitica come «cattura» e non come un processo di soggettivazione eccedente i biopoteri che la globalizzazione ha formato. Va a questo proposito sottolineata la rilevanza di un altro saggio qui contenuto: Sul dispositivo. Foucault, Agamben, Deleuze. È QUESTA, UNA LETTURA del concetto di «dispositivo» estremamente importante, perché mette in azione, sul limite dell’estendersi dei processi di cattura della vita e di messa a valore della cooperazione sociale, la soggettivazione: è nel dispositivo che si distende lo sguardo, dall’oppressione attuale alla resistenza futura, in un continuum di rottura – che rende appunto politica la critica. Speriamo di aver chiarito quanto sia «spietato» il procedere critico di Chignola. Non voglio qui fantasticare su cosa avrebbe detto un filosofo politico di prima del ’68 dinnanzi a questo ritratto d’epoca – e dello Stato – che Chignola ci propone. Dire che lo avrebbe indignato è poco. Avrebbe probabilmente aggiunto, in un’ipotetica dell’irrealtà, che se quanto affermato da Chignola fosse avvenuto, la «grande politica» sarebbe estinta… intendendo con ciò cosa impossibile. CIÒ È INVECE AVVENUTO: la fine dell’autonomia dello Stato e di tutti i concetti che lo facevano bello (popolo, nazione, sovranità ecc.). Eppure, di quelli antichi, un concetto è rimasto vivo (certo, assai modificato): quello di classe e di lotta di classe, perché è concetto di soggettivazione (di movimento) nel rapporto antagonistico aperto nel potere. Last but not least, la sconfinata letteratura che Chignola legge e interpreta sta a mostrare l’estrema utilità – oltre ovviamente al valore – di questo volume. FONTE: Toni Negri, IL MANIFESTO

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Zygmunt Bauman. Il pensiero errante nel flusso sociale https://www.micciacorta.it/2017/01/22850/ https://www.micciacorta.it/2017/01/22850/#respond Tue, 10 Jan 2017 08:40:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22850 Addio. È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman

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Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento. Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda. OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra. E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute. Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera. FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli. È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito. Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi. TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni. CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008. SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato. È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo. BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno. SEGUI SUL MANIFESTO

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Neuroni mirror e facoltà di negare https://www.micciacorta.it/2016/09/22481/ https://www.micciacorta.it/2016/09/22481/#respond Sat, 17 Sep 2016 10:49:25 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22481 Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività. L’anticipazione del contributo che il filosofo discuterà a Carpi (Piazza Martiri, ore 16.30) domani

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FESTIVAL FILOSOFIA. Il potere tellurico del linguaggio non smette di interrogare l’intersoggettività. L’anticipazione del contributo che il filosofo discuterà a Carpi (Piazza Martiri, ore 16.30) domani, ultima giornata del fitto programma di ospiti dell’edizione 2016. «In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia» L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali. In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione. Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.

IN ORIGINE ERA IL «NOI»

Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon. Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore. Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano. Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata». I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».

QUESTO «NON» È UN UOMO

Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale. Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione. Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile. Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror. Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane». La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione. Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».

LA SFERA PUBBLICA? UNA CICATRICE

Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato. La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale. Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili. Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati. La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana». È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza. L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo». SEGUI SUL MANIFESTO  

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Il sintomo immaginario nel «difetto di politica» https://www.micciacorta.it/2016/05/sintomo-immaginario-nel-difetto-politica/ https://www.micciacorta.it/2016/05/sintomo-immaginario-nel-difetto-politica/#respond Sat, 28 May 2016 10:54:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21927 POLEMICHE. La risposta del filosofo alle critiche mosse al suo saggio. Il rischio di deriva vitalistica individuato da Toni Negri nella sua recensione al libro «Da fuori. Una filosofia per l’Europa» non è riscontrabile

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Su queste pagine martedì 17 maggio Toni Negri ha dedicato un articolo, importante e critico – importante perché critico – al mio recente libro Da fuori. Una filosofia per l’Europa (Einaudi). Il suo rilievo sta nel fatto che con esso Negri apre una discussione sul pensiero italiano contemporaneo, rompendo la tendenza «monastica» che connota questa fase della produzione intellettuale soprattutto nel nostro Paese. Tra i tanti cultori dell’a solo, un protagonista di primo piano della vita pubblica italiana interviene criticamente su un altro testo, mettendo in luce con chiarezza concordanze e divergenze da esso. Naturalmente mi soffermo soprattutto sulle seconde, enfatizzate nel titolo e nel sottotitolo che i redattori del Manifesto hanno dato al suo intervento, calcando l’accento sulle «rassicuranti e impolitiche tonalità naturalistiche» di un libro – quello mio – che addirittura metterebbe «fuori gioco il nostro pensiero vitale». Se si considera che il libro in questione inizia con una frase di Hegel che esalta il conflitto e si chiude sulla necessità dello scontro tra i due popoli che si fronteggiano in Europa come, secondo Machiavelli e Vico, facevano i «popolari» e i «Grandi» nell’antica Roma, c’è da rimanere sorpresi. In verità Negri è troppo avvertito per scriverlo in un articolo molto più mosso e articolato. Anch’egli, però, vede il rischio, nel mio testo, di una deriva vitalistica e perfino naturalistica. E dunque di un possibile esito impolitico della «biopolitica affermativa» che da qualche anno sto provando a elaborare. Il paradosso che, secondo Negri, si delineerebbe nelle mie pagine è che «per dar contenuto alla forza vitale» finirei per «toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura». L’accusa si appoggia in realtà su non più di cinque pagine in cui richiamo la posizione di tre autori italiani – Adriano Tilgher, Giuseppe Rensi e Giorgio Colli – che contrappongono la vita alla forme in una maniera non mediabile dal concetto. Immaginare che la mia posizione coincida con la loro, in un libro di 243 pagine dedicato ai maggiori filosofi europei, è non solo fuorviante. È quel che, in linguaggio analitico, si direbbe un sintomo. Perché se c’è un autore che fa della vita, ricondotta alla sua potenza naturale, il perno della proprio proposta politica è proprio Negri. Fin nella prefazione a Comune (Rizzoli) egli scrive che l’avvento del comune presuppone la riunificazione dell’umanità e della natura con una tonalità che richiama Marcuse non meno di Deleuze: «La natura non fa salti come dicono gli evoluzionisti. Il cambiamento è tuttavia possibile a partire dagli strati più profondi del mondo e di noi stessi. Abbiamo la possibilità di intervenire in questo processo per orientarlo lungo le linee del nostro desiderio, verso la felicità». Negri ha pagine di grande efficacia, e anche di suggestione letteraria, in cui la categoria di produzione si articola con forza con quella di soggettività, convocando insieme desiderio, felicità, amore. La vita costituisce l’orizzonte ontologico in cui la moltitudine è destinata a travolgere gli ostacoli che ancora ne vincolano l’infinita potenza produttiva. Si direbbe che, pur nella gabbia dell’attuale globalizzazione, l’affermazione possa liberarsi del tutto dal negativo in un pieno appagamento degli istinti allo stesso tempo naturali e sociali. Qui Spinoza – uno Spinoza radicalmente antihobbesiano – incontra, oltre Marx, la grande tradizione utopistica della liberazione integrale, perdendo i contatti con il realismo che pure è al cuore del pensiero italiano, da Machiavelli al primo Tronti. In più occasioni ho apprezzato il tentativo di Negri di mettere in campo una linea di pensiero esterna al lessico teologico in cui è risucchiato invece il pensiero di altri autori italiani. Ma attribuire proprio a me un impulso vitalista e naturalista è quantomeno singolare. La mia impressione è che, contrariamente a quanto si può ritenere, in Negri ci sia un difetto e non un eccesso di politica. Almeno se per politica si intenda una chiara determinazione del fronte su cui ci si divide e delle forza cui ci si contrappone. La stessa categoria di moltitudine – come del resto quella di produzione – rischia di non oltrepassare la soglia della politica. Quanto più capace di inglobare le più varie forme di soggettività, tanto meno è in grado di esibire una precisa connotazione politica. Essa finisce per sottrarre l’orizzonte ontologico al lessico politico. Del resto è Negri stesso a ricordare quanto «l’ontologia sia più fondamentale del politico» (Kairós, Alma Venus, Multitudo, il Manifestolibri). Questa difficoltà ad incontrare la politica è il problema di tutte le grandi filosofie immanentistiche – da Bruno, a Spinoza a Deleuze. Una volta abolito il negativo, è difficile individuare il punto, o la linea, del contrasto. Anche il potere costituente, la cui teoria pure rappresenta forse il maggior contributo di Negri all’Italian Thought, rischia di «esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto». Sono le parole che l’autore rivolge in forma critica verso di me. Ma che ben si potrebbero indirizzare a lui. Naturalmente la storia politica di Negri ha avuto una tenuta indiscutibile sotto il profilo di un impegno mai venuto meno. La difficoltà sta piuttosto nella sua difficile articolazione con la filosofia. È come se filosofia e politica, nel suo caso, finissero, anziché per rafforzarsi a vicenda, per indebolirsi reciprocamente. Prendiamo la questione europea. Negri ha in più di un’occasione espresso la sua adesione a una prospettiva europeista – ovviamente diversa da quella della grande maggioranza dei dirigenti europei, segnata da diseguaglianze insostenibili e piegata agli interessi della finanza globale. Ma, ancora una volta, come desumerla dal paradigma di impero, che pure Negri ha avuto il merito di elaborare in anni recenti? Se l’impero, inteso come l’attuale ordine del mondo, non ammette un «fuori», dove situare e come connotare la specificità dell’Europa? Come è noto, le contraddizioni fanno spesso tutt’uno con l’interesse di un pensiero. Ne rivelano la radicalità e il coraggio, l’intelligenza e la passione. L’opera di Negri ne costituisce un’ulteriore riprova. Affrontare con franchezza, e anche con asprezza, il pensiero di altri, quando è tale, è sempre segno di forza e di generosità. Che merita una risposta altrettanto franca e decisa. Spero che questi interventi stimolino un dibattito su questioni, di filosofia e di politica, che ci uniscono in un orizzonte comune più ampio e profondo delle differenze che pure lo solcano.

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Un pensiero vitale messo fuorigioco https://www.micciacorta.it/2016/05/21854/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21854/#respond Tue, 17 May 2016 08:58:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21854 Con il saggio «Da fuori» Roberto Esposito vede nell’esilio prima e nel ritorno in Europa il passaggio necessario per superare la secolare crisi della filosofia

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È un libro complesso, che si vuole una summa del pensiero europeo a partire dalla sua crisi novecentesca. L’ipotesi di Roberto Esposito (Da fuori, Einaudi, pp. 256, euro 22) è che, per uscire dal «declino», il pensiero filosofico europeo abbia dovuto scegliere un «esodo», abitare un «esilio» e da quel «fuori» ritornare, capace di produrre una nuova proposta di rinnovamento civile sul terreno globale. La crisi: Esposito la insegue dalla fine dell’Ottocento, ricostruendo quel «nihilismo passivo» che ha caratterizzato, fra Valéry, Husserl e Heidegger, l’aprirsi del sentire filosofico contemporaneo – un sapere sul «declino» che ha avuto una narrazione efficace nel rapporto stabilito da Theodore W. Adorno tra nemesi dell’Illuminismo, crisi della Ragione e l’affermazione egemone di una dialettica del negativo, di una dialettica senza soluzione. O, peggio, nel pensiero politico, una percezione della crisi che da Max Weber, passando per Ernst Jünger e Carl Schmitt, si perde nella disperata assunzione di un’impossibile rifondazione. Di contro l’America. Un’America che a fronte della crisi europea – crisi che è ossessione di una perdita di «origine» – afferma, ad esempio con Hannah Arendt, la solidità della propria fondazione: origine e contemporaneità qui si sovrappongono. «Solo il passaggio per il “fuori” poteva restituire una sorta di egemonia a quella filosofia europea incapace ormai di ritrovarla nella propria origine greca»: così scrive Esposito. Attenzione, tuttavia: la nostalgia dell’origine ha spesso come risvolto il desiderio della supremazia. Comunque, secondo Esposito, quella vicenda si è realizzata: a partire dall’esodo degli intellettuali tedeschi dopo il ‘33, il passaggio attraverso il «fuori» americano, si è generalizzato; è negli Usa che il pensiero europeo si rinnova, è da quel «fuori» che si propone un vero e proprio salto di paradigma del pensiero europeo.

In cerca di rigenerazione

Il libro di Esposito sviluppa in quattro capitoli la sua ricerca di una nuova filosofia della e per l’Europa di cui abbiamo già colto la condizione: uscire dalla crisi del riconoscimento dell’«origine», dal nihilismo passivo nel quale la crisi era stata vissuta. Ed è attraverso il «fuori» (non semplicemente l’emigrazione verso l’America degli anni Trenta ma la circolazione transatlantica del pensiero) che potrà darsi un processo ricostruttivo. German philosophy, ovvero la ripresa di una radicale critica filosofica che riempie il proprio procedere di contenuti sociologici e di un’eccezionale capacità critica della realtà contemporanea. Un lavoro di riterritorializzazione che rifiuta, con Adorno, «di confondere la questione del “fuori” con quella del “fine”»; e trasforma dunque radicalmente la filosofia continentale, strappandola ad ogni esito metafisico. French theory: un pensiero che esalta la differenza e interpreta in maniera completamente originale il linguistic turn, facendo della «critica della parola» l’ambito di una pratica di scrittura priva di intenti normativi. (Notiamo tuttavia che qui il discorso si restringe su Jacques Derrida. Ben diverso è l’andamento del pensiero foucaultiano: critica dell’«ordine del discorso», e promozione della «presa di parola»). In entrambi i casi, tedesco e francese, il pensiero va oltre l’affermazione e la negazione dialettiche, è un «anti-Hegel» ma nel contempo mira a «neutralizzare» quel conflitto insolubile dal quale ci si era mossi, ad anestetizzare la crisi. Un’immanenza senza pieghe. E poi l’Italian thought: è «pensiero affermativo» che avendo attraversato l’immediatezza del politico e la durezza della crisi, sviluppa un pensiero costitutivo, oltre la teologia politica, un’istanza biopolitica radicale. Difficile sarebbe qui dare una chiave di lettura di questo libro che andasse oltre quanto accennato, oppure ripercorrerlo criticamente individuandone forza o aporie. Ci permettiamo di attraversarlo, di stabilire anche noi un «fuori», notando come questo lavoro sia attraversato da due paradossi e, forse, da un’illusione.

L’asse transatlantico

Il primo paradosso è implicito nel cammino stesso che Esposito ci propone. Quell’andare «fuori» per rientrare e, nel rientro, riscoprire un orizzonte di valori «affermativi». Ed è nell’italico «pensiero vivente» che questo esito si trova. È un piacere sentirselo dire! Se non che la via che va da Machiavelli a Spinoza, dai repubblicani veneziani a Harrington è senz’altro percorribile – difficile invece cogliere una strada di ritorno, per esempio da Jefferson a Gramsci, che non sia quella che passa dal piano Marshall. È vero però, senza più scherzare, che nel sapere filosofico l’egemonia si gioca su un asse transatlantico. Su di esso hanno ondeggiato german philosophy e french theory, ma questo «ondeggiare» che comincia (hegelianamente) a diventare un «dentro» l’Europa, è troppo vago. Esso trama «contro» la modernità un disegno post – e contro la dialettica un progetto decisamente anti-hegeliano – ma diventa più credibile quando lo si qualifica come un italico «indomabile pensiero vitale»? Più facile da definire è un certo oscuro pensiero italiano (fra Tilgher, Rensi e forse anche Colli) che addobba questa forza piuttosto di essere capace di esprimerne la potenza produttiva. E poi – ben conoscendo il pensiero di Esposito – quel vitalismo non assomiglia invece che a una lontana e profonda origine italiana, a quello che fu proprio di Bataille nella crisi europea dei Trenta? Qui Machiavelli rischia di esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto. Il primo paradosso consiste dunque nel voler placare quella crisi che aveva cercato salvezza in un drammatico esodo; che in Germania s’era risolta nell’ostracismo della speranza; che in Francia si era perduta in un labirinto di differenze: di placarla su un orizzonte vitalista che non va oltre la proclamazione retorica della vitalità. Messa giù in questo senso la carta dell’italian thought è davvero debole. Esposito lo sa. Eccolo dunque ricorrere a un secondo paradosso. Alla figura biopolitica che, posta come irriducibile forza vitale, non riesce a mordere il reale, vuol dare forza ontologica, attribuendole una qualificazione naturalista. L’implicazione diretta di politica e vita si scopre come implicazione di vita e natura. Il biological turn (che caratterizzerebbe una nuova dimensione globale del pensiero filosofico dopo il linguistic turn) gli permette di ripulire la scena di ogni esperimento filosofico esterno o antecedente la qualificazione naturalista del bios. La french theory e alcune correnti dell’italian thought vengono così sospinte a lato: son quelle che non sono riuscite a liberare la biopolitica dalla tentazione tanatopolitica (Mario Tronti, Massimo Cacciari) o a trasformare la biopolitica in biologia (Giorgio Agamben). Ma l’operazione è anche inclusiva. Vi sono pagine nelle quali Esposito, confrontandosi con gli autori della french theory, li vuole assolutamente con sé.

La forma dei concetti

Così Esposito introduce l’operazione: «basti confrontare gli ultimi tre testi di Foucault, Deleuze e Derrida. Pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, essi convergono sul tema della vita, a testimonianza del biological turn ormai al centro del pensiero contemporaneo, sia continentale che analitico, lungo un tragitto che va dalla biopolitica alle neuroscienze». Così Esposito ci ricorda una delle ultime considerazioni di Foucault: «dar forma a dei concetti è un modo di vivere e non di uccidere la vita; è un modo di vivere in una relativa mobilità e non un tentativo di immobilizzare la vita». Di Deleuze quello straordinario scritto L’immanence: une vie: «diciamo che la pura immanenza è UNA VITA e nient’altro. Non è l’immanenza alla vita ma l’immanenza che non è in niente, è una vita». Di Derrida: «la morte è originaria: la vita è sopravvivenza. Sopravvivere in senso corrente significa continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte». Ma questi tre brani che dovrebbero introdurci alla natura e alle neuroscienze, non sono in realtà che tre feroci affermazioni, per Foucault, contro ogni tentativo di rendere immobile la vita (tanto più di naturalizzarla), in Deleuze un’affermazione di singolarità contro l’universale della morte – e in Derrida non è quella domanda di sopravvivenza una ribellione contro ogni heideggeriana anticipazione della morte? In questi casi il biological turn è meglio lasciarlo alla fisica biologica.

Una nuova speranza

Il paradosso di Esposito lo si vede qui bene: per dar contenuto alla «forza vitale» deve toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura. Per finire. Esposito non cede a queste difficoltà. C’è ancora un progetto da perseguire. Nel ritorno dal «fuori» è incarnata l’idea, meglio, la speranza di Europa. Per la german philosophy la modernità europea è un «progetto incompiuto», per la french theory l’Europa è «esausta» – nell’italian thought la speranza è riaccesa. Perché quell’idea di Europa che nel modello di Jürgen Habermas doveva fondarsi sull’invenzione di un nuovo «patriottismo costituente» (e non ci è riuscita), che nel modello di Derrida pretendeva di esportare la crisi, e di dare così forza critica all’idea di Europa nel decentrarla per farla rinascere (e in parte, negli studi postcoloniali, vi è riuscito) – bene, all’italian thought è affidato il nucleo affermativo e costituente del progetto europeo. Reinventare la nostra civiltà nel rispetto della vita comune. Un’illusione?

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Lo scompiglio del potere https://www.micciacorta.it/2016/02/lo-scompiglio-del-potere/ https://www.micciacorta.it/2016/02/lo-scompiglio-del-potere/#respond Thu, 11 Feb 2016 09:34:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21330 Sentieri critici. Un percorso di letture, alcune cruciali e altre discutibili, sull’opera di Michel Foucault, a partire dal confronto aperto con Marx che invita a un controverso «corpo a corpo»

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munoz

La pubblicazione degli ultimi corsi e alcuni convegni hanno reso densa la bibliografia critica su Michel Foucault: dai volumi collettivi Usages de Foucault eMarx & Foucault a Le sujet des normes di Macherey, dalla monografia di Chignola Foucault oltre Foucault ai capitoli foucaultiani di Confini e frontiere di Mezzadra e Neilson e di La razón neoliberal. Economía barrocas y pragmática popular di Verónica Gago. Prova a staccarsi da questo panorama il volume curato da Daniel Zamora Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (edizioni Aden, Paris), che si propone di svelare, attraverso la comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale», una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo «ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata e spesso ignorata», e che sarebbe un significativo indice della deriva della gauche post-68.
11clt01af02 Michael Foucault
Pezzi scelti In verità, è curiosa la descrizione di un Foucault misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante Michael C. Behrent, Michael S. Christofferson e Jan Rehmann, dei quali le critiche a Foucault sono note da anni: tant’è che buona parte del volume è costituito da testi già pubblicati lo scorso decennio, o riscritture di cose già dette. Vale a dire: testi che precedono non solo il «Foucault greco» (falsificandolo in una sorta di riposo del guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale), ma anche i corsi sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si evince la presenza di Thompson e Porchnev nelle letture del Foucault preteso pre-politico. Insomma, un «ultimo Foucault» che inizia e finisce dove piace ai suoi «demistificatori». Cui si aggiunge spesso il mancato uso sistematico dei Dits et écrits, sostituiti da un utilizzo dei testi e delle citazioni secondo il metodo dei morceaux choisis. Così del corso sulla biopolitica Behrent fornisce una faziosa genealogia, che elenca l’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun nesso causale fra le traduzioni di Hayek e Friedman e il lavoro di Foucault: si allude a una concomitanza che si insinua essere non casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con episodi di militanza attiva, o con intense attività seminariali delle quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso fascicolo del 1978 di «aut aut» (n. 167–168). Così come viene riscritta la biografia intellettuale di Foucault con scivoloni marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per buona senza verifica l’affermazione che «le parole capitalista e proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970» (Eric Paras): affermazione falsa – e molte sorprese avrebbe lo sciatto lettore se cercasse anche bourgeois, o addirittura Marx; e soprattutto che non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli enunciati e dei rapporti fra cose e parole. Quanto alla tentazione neoliberale, essa è resa credibile con lo scorporo del corso del 1979 da quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di avviare, enunciando delle fondamentali «precauzioni di metodo», a un’analitica del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo – o l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru (Zamora) – per un’adesione ideologica. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages de Foucault, che Foucault ha chiarito in un’intervista inedita recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso nei Dits et écrits), come la sua «analisi positiva» delle forme di potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti di legna, non comporta alcun giudizio favorevole agli «aspetti negativi» del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti negativi di una nuova figura di potere». Lotte trasversali È Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce «dispotismo del capitale» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con buona pace di Chakrabarty, che si serve proprio di Foucault per attualizzare quel concetto marxiano). Il fatto è che Foucault non negava (si veda il dibattito con Chomsky del 1971) il carattere classista dello sfruttamento: aggiungeva però che la determinazione economica, da sola, non è sufficiente a individuare i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe». È Rehmann, per contro, a non riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di Loach: dalle lotte dei migranti nel settore dei servizi che mettono in questione la centralità e le pratiche del sindacalismo tradizionale, alle soggettivazioni di genere e alle pratiche di assoggettamento. Ciò che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude, ma riapre la ricerca foucaultiana: in direzione del rapporto fra liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo. Tutta qui, dunque, la loro capacità interpretativa? Sì e no. Perché se gli strumenti sono davvero rugginosi e spuntati, il vero scopo di questo libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio di quella politica grunf-grunf che vede nelle forme di lotta e conflitto del tempo presente il tradimento di un programma materialistico in stile-Diamat, del quale si indicano i responsabili in Foucault e nei Nietzscheani di sinistra – così Rehmann nel libro omonimo, non per caso introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni intento a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora. Quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali al loro manifestarsi, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati dalla lettura di Foucault, Nietzsche e Deleuze. Non stupisce allora che sia l’autore del saggio più teoreticamente debole, Jean-Loup Amselle, a costruire (come fece Cacciari nel 1977) una «sinistra post-moderna» a suo uso e consumo nella quale ribollono assieme Negri e Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui strategia riformista consisterebbe nella svendita all’austerità e all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche «leccalecca» come il matrimonio per le coppie omosessuali. Nondimeno, questi autori sfiorano una questione aperta: quella del mancato incrocio tra Foucault e il marxismo. Che non avvenne perché in Francia il marxismo «ufficiale» reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo strutturalismo fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico, nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in reazione al tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx. In altri termini, quel marxismo, costretto a «mollare la presa» di una critica che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva con ottusa protervia la Fortezza Bastiani da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari» in atto — così Negri nel 1978 — al quale anche Foucault contribuiva. Il potenziale dirompente Diversa era la situazione in Italia, dove un altro marxismo aveva cominciato a dialogare con Foucault – attraverso la rivista «aut aut», ma anche in quelle pagine del Marx oltre Marx dove Negri descriveva la circolazione e distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault dell’analitica del potere. Come sia stata interrotta quella ricerca teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e di fatto cominciano ad esserlo: lo testimoniano i testi già citati, e in particolare quelli del colloquio Marx & Foucault curati da Laval, Paltrinieri e Taylan. Dove al Foucault lettore di Marx, con saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un uso marxiano di Foucault, succedono tentativi, spesso riusciti, di avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (Negri, Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini). Non si tratta di elevare la foucaultiana diagnostica del presente a un «insieme di consegne che il filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come sottolineano nel proprio intervento — che conclude il volume — Nicoli e Paltrinieri, ma di usare la critica per mostrare «il potenziale dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, i grunf-grunf bastano e avanzano.

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L’ideale di Heidegger : un nazismo «ispirato» https://www.micciacorta.it/2015/11/lideale-di-heidegger-un-nazismo-ispirato/ https://www.micciacorta.it/2015/11/lideale-di-heidegger-un-nazismo-ispirato/#respond Mon, 02 Nov 2015 11:28:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20776 Il pensatore si proponeva come guida filosofica del Terzo Reich. Un giudizio a due facce Definiva «barbarico» il partito della svastica ma in ciò vedeva anche la sua potenziale grandezza se si fosse sbarazzato del «torbido biologismo»

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«Il nazionalsocialismo è un principio barbarico ». È questa una delle sentenze più famose — ma anche più fraintese — dei Quaderni neri 1931-1938 , che stanno per uscire in italiano per la casa editrice Bompiani. Li ha tradotti con rigore e fedeltà Alessandra Iadicicco, che nella sua «Avvertenza» si sofferma giustamente sulla «complessità» delle annotazioni e sulla «profondità del loro respiro teoretico». Vale la pena sottolineare che la traduzione italiana è la prima nel mondo — a indicare non solo l’interesse diffuso per questo tema, che ha coinvolto un pubblico molto vasto, ma anche la capacità della cultura italiana di accogliere temi e questioni, che vengono da fuori, rendendosi tuttavia protagonista del dibattito. I Quaderni neri 1931-1938 — che nella Gesamtausgabe , nell’opera completa, costituiscono il volume 94 — sono anzitutto un diario filosofico in cui Martin Heidegger riflette anno per anno, mese per mese, talvolta giorno per giorno, sugli avvenimenti politici più significativi. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che quello è il tempo in cui la Germania è attesa sulla scena della storia, per cambiarne il corso, per salvare l’Occidente. Heidegger ne è convinto, così come d’altra parte è certo che nessun cambiamento potrà esserci senza la filosofia. Tanto più che la Germania è il paese di Dichter und Denker , di «poeti e pensatori». Dovranno essere loro — anche a costo di «errare» — l’avanguardia del nuovo movimento. Già, però, nel 1932 Heidegger annota: Führer-sein , «Essere-capo — non: precedere, bensì poter procedere da soli». Si delinea sin dall’inizio un dissidio, destinato ad acuirsi con il tempo, non tra politica e filosofia, come si è sempre creduto, bensì tra due modi profondamente diversi di intendere quel mutamento radicale che sta per compiersi nella storia tedesca. Le pagine dei Quaderni neri 1931-1938 sfatano definitivamente un mito: che Heidegger abbia aderito solo per pochi mesi al nazionalsocialismo, tra il 1933 e il 1934, e che il periodo del rettorato abbia costituito un intermezzo politico. Non è così. La sua adesione è piena, il suo impegno si prolunga nel tempo, per tutti gli anni Trenta e oltre. Né c’è alcuno iato, per lui, tra politica e filosofia. La difficoltà personale di ricoprire una carica pubblica — «spinto all’assunzione del rettorato agisco per la prima volta contro la voce più intima» — è giustificata dalla «incomparabilità dell’ora mondiale». E anche più tardi, dopo le dimissioni, Heidegger rivendica quella scelta: «si crede che il mio “discorso del rettorato” non faccia parte della mia filosofia; posto che io ne abbia una. Eppure in esso si enuncia qualcosa di essenziale». L’errore è stato piuttosto quello di supporre che all’università tedesca vi fosse una «generazione nascosta» in grado di interrogarsi, compiendo perciò su di sé un lavoro di trasformazione interiore. Sebbene la vicenda del rettorato, com’è facile immaginare, occupi una parte rilevante dei Quaderni neri 1931-1938 , numerosi e vari sono i temi trattati. Vanno da una ripresa della propria opera, in particolare Essere e tempo , il capolavoro mai portato a termine, alla interpretazione della poesia di Friedrich Hölderlin, cui in quegli anni Heidegger dedica alcuni corsi universitari, fino ai temi più noti, quali la critica alla metafisica e l’insistenza sull’oblio dell’Essere, quella dimenticanza per cui tutti, nella tarda modernità, nell’epoca della tecnica, vivono dispersi tra gli enti, quasi in un sonno ontico. La filosofia, ricordando l’Essere, ridestando da quel sonno, assume un valore esortativo, un ruolo liberatorio. «Il filosofo non è mai fondatore — egli salta innanzi e se ne sta là da una parte e fomenta la chiarezza del domandare e protegge la durezza del concetto». Molte pagine di questi primi Quaderni neri sono dedicate alla riflessione sulla filosofia, una riflessione che, dopo il 1934, l’anno della crisi, diventa una strenua, aspra e indignata difesa. La politica che non è filosofica, che vuole, anzi, essere svincolata dalla filosofia, finisce per essere «nient’altro che le chiacchiere e lo strepito da dilettanti della “scienza politica”». Di più: finisce per ridursi a strumento della tecnica. « La nuova politica è un’intima conseguenza essenziale della “tecnica” ». Ecco che cosa distingue il nazionalsocialismo nel modo in cui lo intende Heidegger, pronto a essere guida filosofica del movimento, da quel nazionalsocialismo che pretenderebbe di non avere nulla a che fare con la «teoria», che richiamandosi a Mein Kampf vuole essere «azione», che in fondo condivide la ideologia di un « torbido biologismo », che insomma filosoficamente non solo non è nulla di nuovo, ma è un inconsapevole scientismo a buon mercato. «Oggi si può già parlare di un “nazionalsocialismo volgare” ; con ciò intendo il mondo, i parametri, le pretese e l’atteggiamento del gazzettiere e del professionista della cultura». È in tale contesto che Heidegger scrive: «Il nazionalsocialismo è un principio barbarico . Questo è il suo tratto essenziale e la sua possibile grandezza. Il pericolo non sta nel nazionalsocialismo stesso, bensì nel fatto che esso venga minimizzato a una predica su ciò che è vero, buono, bello (così si è detto nel corso di una serata educativa). E nel fatto che quelli che vogliono fare la sua filosofia, a tal fine non ricorrono a niente altro che alla ben nota “logica” del pensiero comune e della scienza esatta». Heidegger non si chiama fuori. Non c’è traccia di una presa di distanza dal «nazionalsocialismo», visto come movimento che sa rispondere all’urgenza politica del momento; piuttosto il contrasto sta nel modo di concepirlo. Solo se sarà sostenuto e «guidato» da una filosofia, in grado di attraversare la notte dell’Essere, e di avviarsi verso l’alba di un «altro inizio», quel «socialismo nazionale» potrà rappresentare il nuovo movimento politico capace di coinvolgere il «popolo» tedesco e farne l’avanguardia dei popoli europei. Con il passare degli anni, mentre appare evidente che questa missione affidata al popolo tedesco è condannata al fallimento, Heidegger resta, malgrado tutto, nel suo avamposto filosofico.

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Dio­tima. Una grammatica del vivere comune https://www.micciacorta.it/2015/09/dio%c2%adtima-una-grammatica-del-vivere-comune/ https://www.micciacorta.it/2015/09/dio%c2%adtima-una-grammatica-del-vivere-comune/#respond Tue, 29 Sep 2015 07:13:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20513 Incontri. L’«Umanità dissestata» secondo la comunità filosofica di Diotima, dal 2 ottobre a Verona e per ogni venerdì fino al 6 novembre

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«Uma­nità dis­se­stata» è il tema che la comu­nità filo­so­fica di Dio­tima ha scelto per il suo Grande Semi­na­rio di quest’anno. Anche il sot­to­ti­tolo risponde a una que­stione impor­tante: «La scom­messa fem­mi­ni­sta oggi». Levar di sesto, squi­li­brare, tur­bare ma anche creare insta­bi­lità; l’etimologia della parola «dis­se­stare» è piut­to­sto chiara e in quel «levare» com­pare qual­cosa che inter­viene a con­fon­dere ciò di cui fino a quel momento si erano potute leg­gere e codi­fi­care — con una gram­ma­tica pre­cisa — con­di­zioni, rap­pre­sen­ta­zioni e senso. Il semi­na­rio avrà ini­zio all’Università di Verona venerdì 2 otto­bre dalle ore 17,20 fino alle 19,20. Apri­ranno il ciclo di incon­tri Lucia Ber­tell e Chiara Zam­boni. Nei suc­ces­sivi venerdì, fino al 6 di novem­bre, si potranno ascol­tare gli inter­venti di Fede­rica Giar­dini, Anna­rosa But­ta­relli, Ales­san­dra Alle­grini e Luisa Muraro, Maria­li­via Alga e Sara Bigardi, Anto­nietta Potente (il pro­gramma com­pleto su www?.dio?ti?ma?fi?lo?sofe?.it). Molte le parole e le que­stioni che ver­ranno sol­le­vate: ordine sim­bo­lico e ordine sociale, imma­nenza e tra­scen­denza, radi­ca­lità, tec­no­scienze, ecce­denza e con­trad­di­zioni. Ancora una volta la comu­nità vero­nese, nata nel 1983, offre l’ottima pra­tica semi­na­riale come occa­sione di scam­bio, con­ta­mi­na­zione e inter­ro­ga­zione sul presente. Scon­quassi dell’esistente Par­tendo dal titolo scelto, una serie di nodi si fanno avanti ed è pro­prio intorno a essi che Dio­tima lan­cia la sfida di que­sto nuovo incon­tro. L’intenzione, sarà bene pre­ci­sarlo, non è l’urgenza di rista­bi­lire un ordine costi­tuito, né attrez­zarsi di un sesto cioè un com­passo attra­verso cui trac­ciare roton­dità esatte alle quali atte­nersi: «L’armonia sta­tica è una rap­pre­sen­ta­zione mor­ti­fera della realtà e chi la per­se­gue lo ha sem­pre fatto tagliando via ciò che è eccen­trico, vitale, non accetto». Uma­nità dis­se­stata è invece l’istantanea di ciò che è già acca­duto e che chiun­que ha dinanzi quo­ti­dia­na­mente, una realtà rag­go­mi­to­lata su se stessa, sbrin­del­lata e troppo pesante da soste­nere e deci­frare sovrap­po­nendo un po’ a caso un piano all’altro. Il dis­se­sto ha però più di un’accezione. Intanto è l’esito sociale, eco­no­mico e poli­tico di ciò che da un lato ci viene offerto dalla reto­rica neo­li­be­ri­sta che sug­ge­ri­sce libertà lisce e pro­met­tenti pro­getti, una pac­cot­ti­glia di signi­fi­cati mani­po­lati in cui tutti hanno ragione a patto che niente intorno cambi di una vir­gola. Per un altro verso è sul dis­se­sto che l’insorgenza del fem­mi­ni­smo ha pun­tato la pro­pria rivo­lu­zione sim­bo­lica. «Il fem­mi­ni­smo non ha mai teso ad una dif­fe­renza ses­suale armo­niz­zante in cui si desi­deri fare Uno. Anzi, ha saputo gio­care nello scarto tra l’uno e il due, nello scarto tra ricerca di sé e aper­tura all’altro, facendo leva sulle asim­me­trie sim­bo­li­che, non paci­fi­canti, sul dis­se­sto, sullo scon­quasso come per­tu­gio per cui può avve­nire altro. È così che ha saputo trac­ciare nuove vie». Una scom­messa aperta Nel docu­mento di pre­sen­ta­zione del semi­na­rio si apprende tut­ta­via anche dell’altro: «Spe­ri­men­tiamo un pieno di idee e di ini­zia­tive e di inter­pre­ta­zioni della realtà che più che aiu­tare oggi ci con­fon­dono». Ciò che ci viene sot­tratta è infatti «la pos­si­bi­lità di con­trat­tare le linee gene­rali dei movi­menti di realtà più ampi. Così pos­siamo dire che viviamo troppo di tutto, ma che è il senso della vita a scar­seg­giare». Vita e uma­nità non devono appa­rire sino­nimi ed è a que­sta altezza che emerge la prima spina. Per­ché richia­mare l’umanità da parte del fem­mi­ni­smo non deter­mina certo avva­lersi di un para­digma antro­po­cen­trico già ampia­mente scro­stato ma stare esat­ta­mente sull’orlo del suo dis­se­sto. Avere la forza, il corag­gio di nomi­nare il bara­tro e la vio­lenza etica che vi si annida e stare in pros­si­mità dei viventi. Se a creare scom­penso sono anche gli effetti ormai tri­tu­rati della glo­ba­liz­za­zione, così come l’inadeguatezza di finis­sime ana­lisi che, tut­ta­via, lasciano dram­ma­ti­ca­mente inal­te­rate le vite di cia­scuna e cia­scuno signi­fica che la scom­messa deve alzare il tiro, mutare se pos­si­bile la pro­pria gram­ma­tica. Che di que­sto dis­se­sto allora ci si fac­cia carico, con gene­ro­sità verso i viventi e la mate­ria­lità delle vite. Che di que­sta com­ples­sità si par­te­cipi non come sog­get­ti­vità eti­che chia­mate a sal­vare le sorti del mondo ma nel taglio poli­tico della realtà che il fem­mi­ni­smo ha den­tro la sua stessa nascita e in ciò che in que­sti ultimi quarant’anni ha pro­dotto in ter­mini di pen­siero e pra­ti­che poli­ti­che. «Vor­rei vedere se l’umanità viene alla luce nei momenti di emer­genza. So che ne ho biso­gno per me. Vor­rei scan­da­gliare i bassi fondi dell’umanità». Era il 17 mag­gio del 1974 quando Carla Lonzi, dalle pagine del suo dia­rio, se lo doman­dava. Rico­no­scendo il biso­gno, prima del desi­de­rio, di immer­gersi nell’umanità, «nel suo momento di pre­senza a se stessa, per esem­pio quando sof­fre o ha un destino avverso o comun­que non è ada­giata nel son­nam­bu­li­smo quo­ti­diano». Forse per­ché si deve aver toc­cato il dis­se­sto per poter discu­tere di chi lo abita. Allora verrà alla luce o no, quello che imma­gi­nava Lonzi come un luogo lon­tano dalla disu­ma­nità? E al con­tempo si potrà tro­vare rin­no­vata forza per signi­fi­care que­sto disa­stro umano del pre­sente? Si potranno tro­vare parole che ribal­tino l’assedio del disa­more dif­fuso? A que­sto riguardo, sarà inte­res­sante andare ad ascol­tare ciò che Dio­tima pensa di met­tere in cir­colo intorno alla scom­messa fem­mi­ni­sta oggi.

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