Fiom – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 29 Nov 2019 16:34:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 1969. «Il contratto figlio dei movimenti, così gli operai furono protagonisti» https://www.micciacorta.it/2019/11/1969-il-contratto-figlio-dei-movimenti-cosi-gli-operai-furono-protagonisti/ https://www.micciacorta.it/2019/11/1969-il-contratto-figlio-dei-movimenti-cosi-gli-operai-furono-protagonisti/#respond Fri, 29 Nov 2019 16:34:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25809 Convegno Fiom. A 50 anni dalla manifestazione nazionale a piazza del Popolo a Roma. Re David: oggi come allora chiediamo salario per tutti ma le imprese dicono no

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Era un venerdì. E per la prima volta i metalmeccanici di tutta Italia scesero in piazza a Roma, raggiungendola con tutti i mezzi. Il 28 novembre 1969 è considerato unanimemente l’apice dell’autunno caldo. Cinquantanni esatti dopo la Fiom lo celebra rivendicando come quella lotta portò «al contratto nazionale più avanzato della storia sindacale» firmato un mese e mezzo dopo, l’8 gennaio 1970. Un contratto che ridusse l’orario settimanale a 40 ore, sancì il diritto di assemblea, determinò significativi aumenti salariali e il riconoscimento dei rappresentanti sindacali. «Un contratto che spostò per la prima volta il baricentro tra capitale e lavoro», come ha sottolineato nell’introduzione Adolfo Pepe. Quella manifestazione unitaria conclusa con i comizi in piazza del Popolo dei segretari generali di Fim, Fiom e Uilm Luigi Macario, Bruno Trentin e Giorgio Benvenuto fu però il frutto di una grande stagione di mobilitazione nelle fabbriche e sui territori. «L’entusiamo di quella manifestazione fu unico, ci spinse ad andare avanti», ricorda Tiziano Rinaldini, al tempo studente a Bologna e in piazza quel giorno. «Quel contratto è figlio di una ondata di vertenze territoriali che ebbe come epicentro la Fiat ma che vide una contrattazione decentrata nei mesi precedenti con centinaia di vertenze in tutta l’Emilia. Ed è merito straordinario dei gruppi dirigenti di quel periodo, anche più di Trentin, Carniti e Trentin. Al centro c’era il protagonismo dei lavoratori e la richiesta di un aumento uguale per tutti che divenne elemento condiviso dal movimento universitario e da quello delle donne», come ha ricordato anche Lia Cigarini. «Io, che il giorno dell’assunzione scioperai su indicazione della Commissione interna – racconta Gino Mazzone, allora operaio della Fatme a Roma – fui subito schedato come “pericoloso agitatore comunista” e mandato in un reparto confino. Ma da lì capì meglio la fabbrica e questo mi aiutò per preparare la trattativa che imponemmo all’azienda sulla riduzione del cottimo e l’organizzazione del lavoro: portammo Trentin in assemblea. Il giorno dello sciopero ci mandarono a fare un picchetto a Pomezia e alla manifestazione a piazza del Popolo non riuscimmo ad andare, ma fummo orgogliosi del risultato storico». A tirare le fila dei ragionamenti è stata Francesca Re David. L’attuale segretaria generale della Fiom ha ricordato come «la prima manifestazione nazionale unitaria dal dopoguerra era a rischio ordine pubblico ma tutto si svolse senza incidenti: quel giorno per la prima volta la Fiom si dotò di un servizio d’ordine». Il suo è poi stato un parallelo fra le tante similitudini fra il 1969 e oggi. «Nessuno lo sa ma il numero dei metalmeccanici è lo stesso: circa 2,4 milioni, anche se non c’è più Mirafiori e ci sono tante piccole aziende e tanti appalti e sub appalti. Anche la richiesta centrale del contratto è la stessa: aumento salariale uguale per tutti. Oggi Federmeccanica ci risponde sostenendo che le grandi aziende hanno già pagato e le piccole non hanno la forza ma così facendo mette in discussione ancora una volta lo strumento del contratto nazionale che è fondamentale anche per avere una contrattazione di secondo livello». L’occasione è servita anche per annunciare come sia tornato consultabile l’archivio nazionale della Fiom e della Flm che prestò sarà arricchito da una sezione riguardante il periodo 1901-1925, il cui fondo, conservato all’Archivio centrale di Stato, sarà digitalizzato. * Fonte: Massimo Franchi, il manifesto

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Torino ’69, l’autunno caldo iniziò a primavera https://www.micciacorta.it/2019/11/torino-69-lautunno-caldo-inizio-a-primavera/ https://www.micciacorta.it/2019/11/torino-69-lautunno-caldo-inizio-a-primavera/#respond Thu, 21 Nov 2019 09:08:44 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25784 All’assemblea organizzata dalla Fiom il racconto dei testimoni di quell’incredibile stagione di lotte alla Fiat di Mirafiori

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Una svolta radicale che rinnovò il sindacato e raccolse la spinta del movimento degli studenti TORINO. L’assemblea si è aperta con la commemorazione del compagno Norcia, mancato proprio due giorni fa. Norcia non era uno qualsiasi, per tante ragioni: cominciò con l’imporre ai sindacalisti piemontesi di parlare in italiano, visto che ormai il grosso degli operai Fiat era meridionale e il loro dialetto non lo capivano. Ma poi divenne ben più celebre perché nel drammatico 1980, quando la Fiat aveva annunciato la messa in cassa integrazione di migliaia di operai e il segretario del Pci era venuto a Mirafiori a dare solidarietà, lui, arrampicato su un pilone, gli aveva gridato: «Compagno Berlinguer, e se noi occupiamo la fabbrica, che farà il Pci?». La risposta è famosa: «Staremo con voi». Un annuncio che scandalizzò non solo i ben pensanti, ma anche molti dei fautori delle successive reincarnazioni vegetali del Pci. Giorgio Airaudo presenta un libro preparato per l’occasione, si chiama semplicemente Torino ‘69 (ed. Laterza), autori Salvatore Tropea, Ettore Boffano, ma soprattutto le foto di Mauro Vallinotto: Torino come era allora, non solo la fabbrica, ma i treni che riportano i lavoratori alle periferie a fine turno, addormentati in piedi per la stanchezza, e le soffitte dove vivono le famiglie degli immigrati. Un volume prezioso: perché allora tutta la città viveva al ritmo della grande fabbrica, oggi quella identità è stata cancellata. Mi sono emozionata, sul serio. E non solo per il ricordo di Norcia. Sono passati cinquant’anni, ma per chi ha vissuto l’esperienza di quella stagione alla porta numero 2 di Mirafiori, quando Torino era diventata per la nuova sinistra la Mecca cui non si poteva non fare riferimento, e infatti arrivavano in pellegrinaggio ragazzi non solo da tutta Italia ma anche dall’estero, è difficile non commuoversi ritrovandone i protagonisti, gli straordinari operai che imposero una svolta radicale. SIAMO NELLA GRANDE sala della Camera del lavoro, presenti circa 500 delegati del Piemonte, quelli che allora non erano nemmeno nati, ma che comunque non sono, neppure loro, più giovanissimi: di assunti negli ultimi anni ce ne sono ormai pochi. Un appuntamento dedicato alla memoria, che chi vorrebbe tener tutti chiusi nella gabbia del presente, cerca di cancellare. Perché sopprimendo il passato si fa smarrire il senso stesso del tempo e del cambiamento, per cui non si riesce più nemmeno a immaginare che possa esserci un futuro diverso. Il ricordo non è stato retorico, né parolaio: ognuno ha raccontato il proprio vissuto, in quel o quell’altro reparto, le sue fatiche e le sue rabbie per l’arbitrio totale dei 3.000 capetti che alla Fiat avevano il potere di importi quello che volevano; la felicità e l’orgoglio di quando quel potere si è riusciti a smantellarlo, trovando la forza di disubbidire tutti, di praticare l’obiettivo senza aspettare la sua legittimazione; la soddisfazione dei più giovani sindacalisti che avevano capito che le vecchie strutture di rappresentanza – le Commissioni interne – non potevano farcela e bisognava trovare forme più dirette, capaci di raccogliere l’energia della grande massa di operai nemmeno iscritti alla Fiom, tanti appena arrivati dal sud. E poi l’incontro con gli studenti, l’appoggio che ne è venuto e anche lo scontro, e però un confronto fantastico in quella straordinaria agorà che erano diventati i cancelli della fabbrica, dieci volantini diversi diffusi in contemporanea e capannelli e comizi volanti, mischiati alle grida degli ambulanti cresciuti attorno a quello che era diventato un vero suk. Perché tutti si fermavano, nessuno correva via isolato all’uscita del turno come tristemente accade ora, perché tutti volevano partecipare. È qui che l’operaio diventa protagonista. Prima invisibile, si impone in questa stagione all’immaginario collettivo, tanto che si riflette nel cinema (fra il ’70 e il ’75 una decina di film, non documentari, ma commedie, Monicelli lo fa impersonare da Tognazzi, l’attore più popolare) e nella canzone: Iannacci, De André… L’APPUNTAMENTO è stato fissato lunedì 18 perché era il 18 novembre 1969 – lo racconta Paolo Franco, allora segretario della lega Mirafiori, quella storica di Viale Unione Sovietica – quando in risposta a 200 sospensioni della Fiat gli operai si riuniscono al palazzetto dello sport per “processare” l’azienda. Che si spaventa: perché già dal maggio era cominciata la rivolta, e il sindacato stesso è sorpreso che gli operai, molti nemmeno sindacalizzati, abbandonino in massa le linee. È l’inizio della svolta che via via produrrà una mobilitazione straordinaria, anticipando la vertenza per il contratto nazionale. È un autunno caldo che qui comincia a primavera. È maggio, infatti, quando cambia il modo di impostare le vertenze, non più – ricorda Paolo Franco – nella sede esterna, ma negli stessi reparti. Quella che sancisce la nascita storica dei delegati dei gruppi omogenei viene contrattata sulle scale dietro il dancing Bambi, subito eletti 56 più altrettanti sostituti, l’embrione di quello che diventerà il “consiglione” Fiat. Racconta del timore che i segretari della Fiom e della Camera del lavoro, che non sono lì e non sono informati di questo mutamento della rappresentanza che diventa diretta e non più mediata dalle Commissioni Interne, si arrabbino per questa scelta non discussa. Ma a Torino segretari sono Paci e Pugno, due sindacalisti speciali, che accolgono la spinta nuova. E sostengono dentro tutta la Cgil il mutamento necessario. «Quando c’è la prima assemblea nazionale dei metalmeccanici per impostare il rinnovo del contratto, a Milano, dove tradizionalmente erano più avanti di noi, finalmente – racconta Franco – potemmo alzare la testa: Torino non era più la palla al piede, era diventata l’avanguardia».Sono i protagonisti stessi che testimoniano, quelli che allora avevano vent’anni e ora hanno i capelli già molto grigi. Comincia Cesare Cosi a dire cosa era l’arbitrio del capetto, che poteva decidere tutto: qualifica, trasferimento, vessazioni gratuite. 3000 capetti per 53.000 operai! Giampiero Carpo il suo primo sciopero lo fa per ottenere che il turno di notte fosse assegnato ogni 5 settimane e non ogni tre. Lui va alle scuole serali, e così incontra gli studenti, partecipa anche all’occupazione di palazzo Campana. Ma gli studenti di Torino la Fiat l’hanno scoperta dal ’67, quelli delle scuole medie hanno persino fatto un’inchiesta sui loro coetanei operai. Antonio Falcone nel riferire la sua esperienza non si trattiene dal dar voce all’amarezza: allora – dice – soffiava un vento di sinistra. Oggi se vuoi stare a sinistra devi remare, non ci sono più ideologie, puoi contare solo sulla tua forza. Ma se si lotta – conclude – viene la fiducia. È con la lotta che abbiamo cambiato la Fiat, perché all’inizio avevamo a che fare con una maestranza che se vedeva un capellone fischiava. E fischiarono anche alle donne, quando entrarono anche loro in fabbrica. Ma questo durò poco, perché anche le donne nella lotta acquistarono forza, anzi, dicevano che lì avevano ottenuto la libertà che in casa gli era negata. Silvio Canapè veniva da Napoli. Mica vero che Torino ci accolse a braccia aperte, racconta. Ma dal sud, dicono quelli del nord, dalla fine dei ’60 arrivano giovani diversi da quelli di dieci anni prima, non sono più contadini analfabeti, sono stati a scuola. E poi ne arrivano anche dalla Germania, una seconda immigrazione. E ancora Corrado Montefalchesi, operaio manifesto, che in seguito diventò nostro consigliere regionale. Veniva dall’Umbria (oggi, dice, della mia regione non posso più essere orgoglioso); e poi parla della “nostra linea”, che fu più giusta, perché polemizzò con il sindacato, ma collaborando a costruire la straordinaria esperienza dei Consigli che Lotta Continua, molto presente a Torino, invece osteggiò. Di Lotta Continua parla un suo militante illustre, in qualità di ex del collettivo studenti-operai: Giovanni De Luna, oggi storico autorevole. Dice Montefalchesi, tutto cambiò quando un dirigente del Pci (Renzi?), cui fu chiesto se stava con la Fiat o con gli operai, rispose: io sto con Marchionne. Mariangela Rosolen, invece, non era operaia, ma impiegata a Viale Marconi, la prima della categoria a ribellarsi e a scioperare. È stata anche deputata del Pci, adesso, mi dice, sono fuori da tutto. E poi dice la sua Gianni Marchetto, che da anni scrive un suo commentario politico che ricevo una volta alla settimana per e mail. Interviene anche Adriano Serafino: era segretario della Fim, che fu importante. Viene data anche a me la parola, come manifesto, il solo intervento che non è né operaio né sindacalista né studentesco, né solo giornalistico. Una grande soddisfazione, di cui sono grata alla Fiom. (Ma se guardo al Manifesto Rivista dal ’69 e poi a lungo, un po’ ce lo siamo meritati: ci sono quasi esclusivamente cronache delle lotte operaie, (una su porto Torres firmata addirittura da Luigi Berlinguer), molte scritte dagli stessi operai. Un mio lunghissimo Rapporto sulla Fiat fu persino ripubblicato su Temps Moderns, la rivista di Sartre. L’ITALIA FECE SCUOLA: perché qui la Fiom, e poi sebbene all’inizio reticente, anche la Cgil, pur fra incomprensioni reciproche e contrasti, raccolse la spinta che veniva dal movimento degli studenti e quindi dalla “nuova sinistra”, e ne veicolò molte delle innovazioni. A differenza della Cgt francese che respinse gli studenti chiamandoli “figli di papà”, senza capire che si trattava di nuovi soggetti sociali antagonisti, quelli che poi furono chiamati “intellettuali proletarizzati”. Per questo il nostro ’68 e poi il nostro ’69 durò quasi dieci anni. L’operazione più manipolatrice che si è verificata in occasione di questi cinquantenari intrecciati è di avere separato le due esperienze, per cercare di ridurre l’una a uno stupido antiautoritarismo contro il papà all’antica e il prof troppo rigido, e l’altro a una mera qualsiasi vicenda sindacale. Iniziative come quella presa dalla Fiom di Torino rendono giustizia, grazie alla testimonianza dei protagonisti, alla storia. Grazie Fiom. * Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

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I giorni della rivolta, la memoria di Piazza Statuto https://www.micciacorta.it/2019/02/i-giorni-della-rivolta-la-memoria-di-piazza-statuto/ https://www.micciacorta.it/2019/02/i-giorni-della-rivolta-la-memoria-di-piazza-statuto/#respond Fri, 22 Feb 2019 15:47:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25246 «I giorni della rivolta» di Claudio Bolognini, per Agenzia X. Come in un film, il romanzo incrocia i destini di tredici personaggi intorno ai fatti torinesi del 1962

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Nell’attuale passaggio storico caratterizzato da un’ondata di reazione e da un’impasse immaginativa, riflettere sulla rivolta del 1962 di piazza Statuto a Torino può insegnarci a leggere il presente, a capire come nascono i movimenti e, in qualche maniera, a «provocarli»? «Sì. L’analisi della trasformazione della composizione sociale e una tessitura politica delle relazioni tra soggettività apparentemente distanti sono elementi che possono aiutarci a far emergere una nuova vitalità dei movimenti di base», risponde Claudio Bolognini, autore di I giorni della rivolta. Quelli di piazza Statuto (Agenzia X, pp. 203, euro 14). SI TRATTA DI UN ROMANZO che sembra perfetto per diventare la sceneggiatura di un film, ma nello stesso tempo fa riflettere su come nascono i movimenti, sui loro periodi carsici e di formazione, che a volte sfociano in eventi incendiari di rivolta, in rivoluzioni o in strutturate rivendicazioni. I TREDICI PROTAGONISTI raccontano le tre giornate di rivolta, ognuno dalla propria esperienza e dal proprio punto di vista, ma in qualche passaggio incrociano la medesima scena vista da diversa angolazione e con diversa interpretazione: come in un montaggio cinematografico. I personaggi che agiscono nella città fordista sono giovani operai e operaie che arrivano dal profondo Sud come dal profondo Nord e dalle campagne piemontesi, ma anche una studentessa di medicina, un ragazzo calabrese uscito dal riformatorio che ci fa ripensare a Franti, il ribelle di Cuore, un poliziotto del reparto Celere, un commerciante… e un vecchio medico comunista che tesse le relazioni tra memoria, scontri di piazza e nuovi compagni. C’è tanta memoria in questo romanzo, detta e non detta: da Edmondo De Amicis, che in piazza Statuto abitava, che con i suoi testi Primo maggio e Lotte civili aleggia dal passato, alle analisi di due libri-chiave per capire quei giorni: L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi e Spartakus. Simbologia della rivolta di Furio Jesi. Due intellettuali che, quando scrissero quei testi, vivevano a Torino e avevano negli occhi gli avvenimenti di quei giorni. «CI SI APPROPRIA di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città», scrive Jesi. Nel romanzo di Bolognini succede di più, un bacio tra due dei protagonisti, Maria Rosaria e Pietro, unisce amore e rivolta e salva i diretti interessati dalla carica della polizia. NEL 1962 TORINO è una città segnata dal silenzio sociale, la sconfitta della Fiom sancisce la «normalizzazione» politica degli stabilimenti. Valletta, amministratore delegato Fiat, dichiara pacificata la situazione in fabbrica. Per sette anni in città la conflittualità si genera nelle piccole industrie, mentre il «gigante Fiat» è muto, non esprime conflitto. Alla scadenza del contratto nazionale dei metalmeccanici, le prime giornate di sciopero indette dai sindacati vedono gli operai della Fiat rimanere al di fuori dalla mischia. Poi, all’inizio di luglio, la situazione si scalda. Gli scioperi hanno un’imprevista riuscita, un successo inatteso da parte degli stessi organizzatori. Ma uno dei tre sindacati confederali, la Uil, sigla un accordo separato e si sottrae alla lotta, un gruppo consistente di lavoratori reagisce alla situazione, marcia sul centro, si reca in piazza Statuto, dove c’era la sede del sindacato colpevole d’avere rotto il fronte operaio e la cinge d’assedio. Interviene la polizia, si accendono degli scontri sempre più violenti e sempre più estesi. Per tre giorni. È in questo contesto che si svolge il romanzo, una situazione che prefigura il ventennio successivo, con il ’68, il ’77 e il passaggio dall’operaio-massa all’operaio-sociale, dalla produzione fordista a quella postfordista. IMPOSSIBILE NON PENSARE a Vogliamo tutto, il romanzo di Nanni Balestrini, che pur ambientato nel 1969 e costruito con struttura narrativa e lavoro linguistico totalmente differenti, vuole arrivare – come I giorni della rivolta – alla medesima mitopoiesi della ribellione, esistenziale e collettiva, e di una trasmissione della memoria delle lotte. Quello che ci serve oggi per ricostruire una soggettività molteplice e agente. * Fonte: Marc TibaldiIL MANIFESTO

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Fiom: costruire una rete di solidarietà antirazzista https://www.micciacorta.it/2018/07/fiom-costruire-una-rete-di-solidarieta-antirazzista/ https://www.micciacorta.it/2018/07/fiom-costruire-una-rete-di-solidarieta-antirazzista/#respond Tue, 17 Jul 2018 13:46:15 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24674 A Lamezia Terme. Re David: abbiamo 40mila iscritti migranti, costruiamo con le associazioni la risposta al fascismo montante

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Mettere in contatto le diverse realtà che si occupano di migranti per costruire una rete dell’accoglienza e della solidarietà. Ieri a Lamezia Terme (Cz) la Fiom ha tenuto l’iniziativa “Il Cammino della speranza, migranti: accoglienza, dignità, lavoro». Gli interventi di iscritti arrivati in Italia sui barconi, rappresentanti delle Ong, Mimmo Lucano, sindaco di Riace, di Marco Bertotto di Medici Senza Frontiere, di Valerio Cataldi, presidente Carta di Roma hanno portato all’idea di creare una rete fra sindacato e associazionismo. «Questa iniziativa nasce dall’appello dei migranti della Fiom, dopo il caso della nave Aquarius – dichiara Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil -. Abbiamo circa 40mila iscritti migranti. Vogliamo dare una risposta per contrastare disumanità e razzismo in preoccupante aumento. Abbiamo scelto di mettere in rete le diverse realtà che si occupano di migranti per una rete dell’accoglienza e della solidarietà. Il fascismo è nato proprio dall’idea che una razza è superiore ad un’altra. Il razzismo è presente anche nei luoghi di lavoro, è per questo che nelle Regioni del Nord stiamo organizzando diverse iniziative antifasciste e antirazziste. Dobbiamo sviluppare tutte le forme di lotta democratica per contrastare questa ondata di odio contro essere umani sfuggiti da povertà e guerre».

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Macerata: chi è sceso in piazza ci ha salvato la faccia e la Costituzione https://www.micciacorta.it/2018/02/sceso-piazza-ci-salvato-la-faccia-la-costituzione/ https://www.micciacorta.it/2018/02/sceso-piazza-ci-salvato-la-faccia-la-costituzione/#respond Sun, 11 Feb 2018 08:55:34 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24109 Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, grazie al centro sociale Sisma

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Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto. Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale. Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose. Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze. Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici. Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro. Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse. Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti. Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in una incomprensione del proprio tempo e in un’abdicazione ai propri compiti. Non aver colto che nel giorno di terrore a Macerata si era consumata un’accelerazione inedita nel degrado civile del Paese, col rischio estremo che quell’ostentazione fisica e simbolica di una violenza che del fascismo riesumava la radice razzista, si insediasse nello spazio pubblico e nell’immaginario collettivo, fino ad esserne accolta e assimilata; aver derubricato tutto ciò a questione ordinaria di buon senso, o di buone maniere istituzionali accogliendo le richieste di un sindaco incapace d’intendere ma non di volere, accettando i diktat di un ministro di polizia in versione skinhead, facendosi carico delle preoccupazioni elettorali di un Pd che ha smarrito il senno insieme alla propria storia e rischiando così di umiliare e disperdere le forze di chi aveva capito… Tutto questo testimonia di una preoccupante inadeguatezza proprio nel momento in cui servirebbe, forte, un’azione pedagogica ampia, convinta e convincente. Un’opera di ri-alfabetizzazione che educasse a «ritornare umani» pur nel pieno di un processo di sfarinamento e di declassamento sociale che della disumanità ha ferocemente il volto e che disumanità riproduce su scala allargata. Quell’ opera che un tempo fu svolta dai partiti politici e dal movimento operaio, i cui tardi epigoni ci danzano ora davanti, irriconoscibili e grotteschi. Negli inviti renziani a moderare i toni e a sopire, mentre fuori dal suo cerchio magico infuria la tempesta perfetta, o nelle esibizioni neocoloniali del suo ministro Minniti, quello che avrebbe voluto svuotare le vie di Macerata delle donne e degli uomini della solidarietà allo stesso modo in cui quest’estate aveva svuotato il mare delle navi della solidarietà, quasi con la stessa formula linguistica («o rinunciate voi o ci pensiamo noi»). Il successo della mobilitazione di ieri ci dice che di qui, nonostante tutto, si può ripartire. Che c’è, un «popolo» che non s’è arreso, che sa ancora vedere i pericoli che ha di fronte e non «abbassa i toni», anzi alza la testa. Ed è grazie a questo popolo che si è messo in strada, se del nostro Paese non resterà solo quell’immagine, terribile e grottesca, di un fascista con la pistola in mano avvolto nel tricolore. FONTE: Marco Revelli, IL MANIFESTO

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Antirazzismo e antifascismo:«Ma quale retromarcia, domani noi andiamo a Macerata» https://www.micciacorta.it/2018/02/24095/ https://www.micciacorta.it/2018/02/24095/#respond Fri, 09 Feb 2018 09:31:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24095 Cresce il dissenso alla decisione di Anpi, Arci, Cgil e Libera di ritirare l'adesione alla manifestazione antifascista di domani a Macerata

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Un appello interno all'Arci raccoglie le firme di 150 circoli e 10 comitati territoriali. Malumori anche nell’Anpi, che oggi lancerà il nuovo corteo a Roma La decisione di ritirare l’adesione alla manifestazione antifascista di Macerata, che le leadership di Anpi, Arci, Cgil e Libera hanno dovuto prendere in solitudine e in poco tempo mercoledì, sta provocando numerose reazioni di dissenso. Clamorose nell’Arci, dove 150 circoli e dieci comitati territoriali (Avellino, Como, Cosenza, Rimini, Pisa, Palermo, Lecco, Pavia, Reggio Calabria e Siracusa) hanno sottoscritto un appello che chiede alla dirigenza di ripensarci. La presidenza nazionale dell’Arci si riunirà oggi e, a questo punto, non ci ripenserà. Ma proverà a spiegare in un documento le ragioni di una scelta «sofferta», soprattutto dalla base. In aiuto dovrebbe arrivare il contemporaneo lancio per iniziativa dell’Anpi di «una grande manifestazione nazionale antifascista», a Roma il 24 febbraio. Ma anche l’associazione partigiani è attraversata dal dissenso. Sulle bacheche facebook come nella mail che arrivano alla presidenza. Soprattutto dalla Toscana, dove qualche circolo (Pontassieve, Bagni a Ripoli) così come un intero comitato provinciale, quello di Siena, hanno deciso di rendere pubblico il loro disaccordo con la retromarcia di Macerata. Critiche anche dal Piemonte (Bussoleno) e dal Lazio, dove il circolo Anpi dedicato alla memoria di Renato Biagetti, antifascista ucciso dai neri a Roma nel 2006, ha voluto dire no «a un nuovo Aventino». Anche la Fiom si è smarcata dalla decisione della Cgil e ha annunciato al sua partecipazione al corteo di Macerata «in difesa del diritto costituzionale di manifestare». Gli organizzatori confermano la manifestazione a dispetto degli avvertimenti del ministro dell’interno. Nessun divieto ufficiale ha fatto seguito al minaccioso «ci penserà il Viminale a fermare le manifestazioni» pronunciato da Minniti e copiato dalla prefettura. Una situazione di sospensione che può preludere a una pericolosa decisione all’ultimo minuto. Anche perché nel frattempo al dietrofront delle quattro grandi organizzazioni hanno risposto molte nuove adesioni. Dopo Potere al popolo, adesso anche Liberi e Uguali parteciperà. Ci saranno le donne di Non una di meno, la Rete degli studenti medi, l’Unione degli universitari. E molti pullman già prenotati dall’Arci partiranno ugualmente. L’organizzazione è quella che ha subito il contraccolpo più grosso. Mercoledì il sindaco di Macerata ha chiamato la presidente dell’Arci e poi i vertici di tutte le altre organizzazioni. Tutti, da Libera all’Arci alla Cgil, hanno dovuto decidere in una manciata di ore. Ma solo nell’Arci il dissenso ha preso piede immediatamente dopo che la scelta di fare un passo indietro è stata resa pubblica. L’appello è partito da un circolo storico di Pisa, la casa dei popolo Rinascita aperta nel 1946 e rilanciata qualche anno fa da un gruppo di giovani. Le adesioni che si sarebbero dovute chiudere ieri mattina sono continuate ad arrivare fino a sera, tra gli ultimi un circolo di Roma che è il secondo a livello nazionale per numero di tessere staccate. «I nostri non capiscono», racconta Tiziana Passarini del circolo Brecht di Bologna, che esiste da 55 anni e riunisce 800 soci. «Proprio in questi giorni stiamo raccogliendo le firme all’appello “Mai più fascismi”, ma quando si tratta di fare qualcosa di concreto decidiamo di tirarci indietro? Noi no, andremo a Macerata». Molte perplessità si possono raccogliere anche tra i vertici dell’associazione, che conta un certo numero di rappresentati candidati alle prossime elezioni nelle fila di Liberi e Uguali e uno in Potere al Popolo, liste che a Macerata ci saranno e che stanno criticando la linea del silenzio – «meglio non alzare la tensione» – teorizzata da Renzi e messa in pratica da Minniti. «Se ci fossimo dovuti adeguare a messaggi del genere non saremmo andati neanche a Genova nel 2001», è il tipo di ragionamento che si coglie parlando con più di un dirigente, a taccuino chiuso. Una pagina facebook ha cominciato a raccogliere foto di iscritti Arci che, tessera in mano, annunciano l’intenzione di raggiungere Macerata. «Non si possono vietare contemporaneamente manifestazioni neofasciste e manifestazioni antifasciste: nessun parallelismo può e deve essere tollerato», dice il comitato Anpi di Siena. Oggi l’associazione dei partigiani comunicherà la data della manifestazione nazionale a Roma. Alla quale il Pd, ha fatto sapere ieri il vice segretario Martina, ha già preventivamente aderito. FONTE: Andrea Fabozzi, IL MANIFESTO

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Maurizio Landini, sette anni in salita combattendo per i diritti https://www.micciacorta.it/2017/07/23523/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23523/#respond Fri, 14 Jul 2017 07:35:59 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23523 Landini, da Pomigliano al passaggio in Cgil. Il duello con Marchionne e vinto grazie alla «via giudiziaria». La sovraesposizione mediatica

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Quando fu eletto segretario generale il primo giugno del 2010 in pochi conoscevano Maurizio Landini. Certo, era segretario nazionale della Fiom, aveva seguito vertenze «rognose» come Electrolux, Piaggio, Indesit ma nessuno poteva prevedere come «l’uomo con la maglietta della salute» potesse diventare un punto di riferimento per la riconquista della dignità «di chi per vivere deve lavorare». SCELTO DAL CONTERRANEO reggiano Gianni Rinaldini si propone in continuità nel periodo già lungo dei contratti separati. Proprio in quei giorni però sta per scoppiare la bomba Fiat, quella che segnerà tutta la segreteria Landini. Il «ricatto» di Marchionne parte da Pomigliano, la fabbrica napoletana che diventerà il simbolo della strategia del «manager col maglioncino». In cambio del lavoro e di un nuovo modello – la Panda – ai sindacati e ai lavoratori viene chiesto di rinunciare a buona parte dei diritti conquistati: diciotto turni, pause ridotte da 40 a 30 minuti, aumento dello straordinario obbligatorio e, «più «inaccettabile di tutto», la clausola di salvaguardia sugli scioperi che sanziona lavoratori e organizzazioni che dichiarano scioperi. Il tutto in deroga al contratto nazionale costruendone in pratica uno nuovo: il Contratto collettivo specifico di lavoro. Landini va a Pomigliano e, nonostante le forti pressioni anche dentro la Cgil per «una firma tecnica», guida la protesta al «modello Marchionne» e la campagna sul No al referendum che si tiene il 22 giugno e il plebiscito voluto da Marchionne e dai sindacati firmatari (Fim, Uilm, Fismic, Ugl) si ferma al 63,4 per cento. Nonostante tutto il mondo politico si schieri per il Sì la Fiom da sola porta il No ad oltre il 36 per cento. Da lì parte la battaglia per i diritti che porta alla grande manifestazione di piazza San Giovanni a Roma del 16 ottobre con un milione di persone, la prima in cui sul palco salgono non solo sindacalisti e lavoratori ma Gino Strada di Emergency e il comitato per l’acqua pubblica inaugurando un modello innovativo di alleanza sociale che si allargherà a Libera di Don Ciotti, a Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky. SE SUL PIANO MEDIATICO è imbattibile e viene conteso da ogni talk show – da Santoro a Mediaset per finire a La7 perché come ha ricordato ieri Canio Calitri «la crediblità gli viene dal fatto che in tv dice le stesse cose che dice in fabbrica» – a livello organizzativo a Corso Trieste lascia molto a desiderare: accentratore e poco incline all’ascolto in molti territori l’organizzazione ha problemi non da poco. Se la Fiom torna (o diventa) un punto di riferimento perfino per giovani, precari e disoccupati, Marchionne può sempre sostenere di aver vinto la sua guerra: a Mirafiori vince solo con il 54% (e fra gli operai perde) ma il suo modello si allarga e, “grazie” all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori abilmente utilizzato, caccia la Fiom e la Cgil dalle sue fabbriche: a livello aziendale solo i sindacati firmatari degli accordi possono essere rappresentati. Le foto dei delegati di Mirafiori che fanno gli scatoloni e arrotolano le foto di Berlinguer e Trentin fanno il giro del mondo. Ma lì parte la «via giudiziaria» e la controffensiva della Fiom. Che rientra in fabbrica «con la Costituzione in mano» grazie alla sentenza della Consulta del 3 luglio del 2013 che sanziona come illegittima la norma ristabilendo la rappresentanza per il maggior sindacato italiano anche nelle fabbriche ormai diventate Fca con sede legale in Olanda e quotata a Londra e poi a New York. A posteriori si può dunque sostenere che se Marchionne non ha chiuso fabbriche in Italia lo si deve in buona parte alla battaglia Fiom. E non certo all’azione sindacale sempre acritica degli altri sindacati. Ridurre però i sette anni di Landini alla sola battaglia con Marchionne è riduttivo. L’autonomia e l’indipendenza dei metallurgici della Cgil in piena coerenza con la lezione di Claudio Sabattini sono state riconquistate grazie a proposte innovative come l’uso dei fondi pensione per investire in Italia, la battaglia per una industria verde, le tante vertenze (le manganellate prese con gli operai delle acciaierie di Terni) in cui si è riusciti a rilanciare aziende date per morte, l’alleanza coi precari, la democrazia (il voto dei lavoratori) come precondizione per qualsiasi accordo. L’ERRORE PRINCIPALE che si imputa a Landini è la presto sotterrata “Coalizione sociale”. Forse lusingato dall’attenzione che media, professori, vip e tanti politici, lancia la manifestazione di piazza del Popolo il 28 marzo 2015 viene da molti (Il Fatto in testa) percepita come la nascita di un partito o come la disponibilità di Landini a sfidare Renzi. In realtà lo stesso Landini fissa un obiettivo molto più sindacale: «Riunire il mondo del lavoro». Ma tutto finisce lì e il flop è fragoroso. Da quel momento però Landini corregge la sua posizione, si concentra solo sul sindacato. L’obiettivo è di «riconquistare un contratto nazionale unitario» dopo gli ultimi due separati. La traversata del deserto è lunga e faticosa: parte con il ricostruire i rapporti con Fim e Uilm e passa per una lunghissima trattativa con Federmeccanica. I compromessi accettati sono molti e duri da digerire: il welfare aziendale come quasi unica voce di aumento salariale, lo spazio lasciato al contratto aziendale di secondo livello. Ma l’obiettivo viene raggiunto. A questo punto Landini considera «conclusa una fase». E decide che è «venuto il momento di provare a cambiare la Cgil». Di certo la sfida maggiore delle non poche che ha già affrontato. FONTE: Massimo Franchi, IL MANIFESTO

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Viaggio nella Torino che ha inghiottito il suo passato https://www.micciacorta.it/2016/05/21838/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21838/#respond Sun, 15 May 2016 07:11:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21838 Da Mirafiori ai capannoni dove nascono (e muoiono) le start up. Dove è finita quella classe operaia che con i suoi saperi dava l’identità a Torino?

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Gli invisibili inghiottiti dal nulla nella città diventata «da bere».  Ora la disoccupazione giovanile è al 44,9% e l’imprenditoria sembra occuparsi d’altro. E al sindaco manca un progetto adeguato

Torino. Porta numero 2, carrozzerie Mirafiori, ore 14, uscita del turno mattutino. Sono qui con una reliquia del manifesto delle origini: Gianni Montani. Lo reclutai sul campo nel ’71 e da operaio-sindacalista diventò giornalista, e però per noi fu molto di più.

Ricordo un Comitato centrale del Manifesto-organizzazione dedicato a capire natura e modalità delle nuove lotte operaie, introdotto da una sua dettagliata relazione in cui ci spiegò come funzionava, reparto per reparto, l’immensa Fiat. Allora la politica era così, di questo si discuteva, non delle primarie.

Pochi giorni fa mentre assistevo al congresso nazionale della Rete della Conoscenza, l’associazione degli studenti medi e universitari, mi è tornata alla mente proprio quella nostra riunione.

Per via della difficoltà di chi, pur con tutta la buona volontà come questi studenti, cerca oggi di rapportarsi al lavoro: allora c’era una grande bella omogenea classe operaia, oggi una mucillaggine di semifigure lavorative precarie e frantumate che neppure mille Gianni Montani potrebbero riuscire a descrivere.

Sono voluta tornare qui dopo tanti anni di assenza per cominciare a dire di Torino in piena campagna elettorale.

E’ passato quasi mezzo secolo e ho il nodo alla gola. Allora dai cancelli che ora ho davanti agli occhi usciva a fine turno una fiumana di decine di migliaia di operai, lo spiazzo davanti alla porta un suq allegro e arrabbiato – carretti di arance, bibite, di tutto. Ma non era solo un mercatino, era anche l’agorà, il luogo principe della politica, fitta di capannelli volantini giornali bisticci fra nuova e vecchia sinistra accenti meridionali ancora freschissimi.

Qui alla 2 come alle altre porte, il focus di una politica misurata su cose concretissime: le conquiste proletarie.

La tuta grigio Marchionne

Dal lato opposto di viale Agnelli c’erano bar e negozi, ora a chiudere l’orizzonte un cimelio delle Olimpiadi, l’enorme edificio color ruggine di un pattinatoio. Rende lo spiazzo ancora più deserto e silenzioso, solo qualche lavoratore in cassa integrazione che per abitudine viene a farci passeggiare il cane.

Gli operai – pochissimi (nemmeno 13.000, ma ciascuno lavora solo tre giorni a settimana) – escono alla spicciolata dopo esser passati attraverso l’”imparziale”, che adesso è elettronico ( il controllo che deve scoprire se qualcuno ha rubato un pezzo di fabbrica, così chiamato perché i controllati vengono scelti a casaccio): quasi tutti hanno i capelli bianchi, la media d’età, alle carrozzerie, è di 51 anni.

Sembrano diversi da allora anche perché Marchionne ha voluto che la tuta non fosse più blu ma grigia chiara, uguale per tutti, operai tecnici e ingegneri, solo una minuscola etichetta che definisce la rispettiva categoria (e naturalmente il livello salariale, ma quello non è in vista. Quello della terza, di chi un tempo stava alla catena di montaggio e che ricordo bene perché il nostro stipendio al manifesto era a quello equiparato, più o meno come allora in lire: 1200/300 euro al mese).

Marchionne, si sa, è democratico, fa testo il suo maglione. Ma le donne – sono molte di più di un tempo – contro quella tuta protestano: il grigio si sporca, per questo si usava il blu.

Me lo spiega Giovanna Leone, nella vecchia palazzina poco distante dove tutt’ora ha sede la V Lega Mirafiori della Fiom, corso Unione Sovietica 351, che tutti però chiamavano familiarmente «URSS». Non c’è più, invece, la storica sezione Pci Mirafiori, qualche isolato più in là, a via Passo Buole. Nel locale c’è ora la “Mescita di vini piemontesi sfusi e imbottigliati”.

E naturalmente non ci sono più nemmeno nei dintorni gli ex segretari: Giuliano Ferrara, a fine ’70 (e infatti si vede nei documentari che filmarono la visita di Enrico Berlinguer quando andò a dire agli operai in lotta nell’80 che il partito era con loro). Né Fassino, che anche lui ne fu responsabile negli ’80 e ora fa invece il sindaco.

Con Gianni percorriamo tutto il perimetro Fiat,10 km di viali attorno agli stabilimenti, quasi tutti oramai adibiti a funzioni diverse dal passato, non solo perché è cambiata la tecnologia, ma perché la produzione si è enormemente ridotta, un po’ spostata a Melfi, molto in Polonia e in Serbia, qui- ma ancora per poco – la Mito, prossimamente dovrebbe partire il nuovo Suv Levante.

Molti i padiglioni già ceduti ad altre imprese: sul frontone si legge “Fiera dei vini”, “Equilibra”, Centro stile”. Sulla larga pista sopraelevata dove si svolgevano le prove (e si tenevano le assemblee del Consiglio di Fabbrica) ora si fanno le sfilate della concessionaria Fiat Village.

Chi ha comprato chi?

Nel punto nodale, la palazzina direzionale: cosa diavolo si dirige da qui? La Fca ha ormai casa a Amsterdam e a Londra lo scandalo delle evasioni non è Panama, ma le dislocazioni consentite dal fatto che dopo aver liberalizzato i movimenti di capitali l’Ue non ha provveduto ad una unificazione fiscale).

L’impressione, da Torino, è comunque che non sia la Fiat ad aver comprato la Chrysler, ma il contrario.

Anche se con grande chiasso a palazzo Chigi è stata presentata una nuova edizione di Alfa Romeo italiana. Perché i modelli dell’avvenire, quelli tecnologicamente più avanzati, qui non si fanno.

No, non mi lamento per sussulti sovranisti, né sono venuta qui per perdermi nell’Amarcord. Mica vorrei che la tecnologia non avesse cambiato la fabbrica e che tutti fossero ancora alle terribili catene di montaggio. Sono venuta per cercare di capire dove sono finiti i circa 100.000 operai della Fiat (60.000 a Mirafiori,12.000 a Rivalta, 7.800 alla Lancia di Chivasso e 4.500 a quella di Torino senza tener conto della Pinin Farina o della Bertone solo per citare le principali aziende dell’indotto), tutti quelli, insomma, che ruotavano attorno all’auto (nell’indotto si calcola 3 per ogni dipendente Fiat) e che sono esseri non digitali ma in carne ed ossa.

Non è solo una domanda strettamente economica – se lavorano o meno e dunque hanno o non hanno un salario. Quella classe operaia con i suoi saperi meccanici e politici dava da più di un secolo l’identità a Torino, disegnata sul suo ruolo di punta di diamante della modernità industriale.

Ritmavano i tempi della città. Che oggi è certo più bella, i musei sono più attraenti delle ciminiere e così le aiuole fiorite, i ristoranti, i turisti, la movida. E’ diventata una “Torino da bere”, per usare l’espressione che si usò per la Milano scintillante dell’epoca craxiana. E Fassino l’amministra benissimo. Ma quei centomila operai sono diventati invisibili, inghiottiti dal nulla, la città non li prevede: né i loro corpi né le loro teste , né quelle dei loro figli, un tempo allievi della prestigiosa Scuola Fiat, oggi per lo più titolari dei 4 milioni di voucher che si sono contati in città nel 2015 (e già aumentati del 65% nel 2016), precari sguatteri dei fast food cresciuti come una giungla.

Anche ad Ivrea è così: la storica palazzina direzionale di via Jervis, dove fu lanciata una delle più avanzate produzioni informatiche, quella della Olivetti, oggi è occupata da un gigantesco call center.

Alla Cgil il compagno Passarino mi dà i dati dell’occupazione, complicatissimi da interpretare per via di come vengono compilati dagli Uffici statistici, e perché molti non sono ufficialmente disoccupati ma in Cassa integrazione, o in Cassa in deroga, o in Cassa straordinaria, o con contratti di solidarietà, tutti ammortizzatori a fine corsa (il traguardo molto prima che si abbia diritto alla pensione) e cui comunque non si ricorre più perché le regole per ottenerli sono cambiate e non conviene più all’azienda usufruirne, le conviene licenziare.

Per riassumere basti dire che a Torino il livello della disoccupazione raggiunge la media nazionale (era del 6,2% nel 2004, ora è dell’11,9) e che quella giovanile, al 44,9, è addirittura al disopra. Il rapporto più recente, coordinato dal Centro Einaudi, parla di «marcata sofferenza» e di una quota di abbandoni scolastici simile a quella delle metropoli del Mezzogiorno. Lasciano anche perché precari – anche in questo caso più della media – sono pure i ricercatori e docenti universitari: il fenomeno colpisce tutti, quale che sia il livello di qualificazione. Con una diminuzione del volume di lavoro degli under 30 che in sei anni è stata pari al 59%, l’esilarante obiettivo dell’Unione Europea per il 2020 – «una crescita inclusiva e sostenibile» – sembra fantascienza.

Torino sta diventando una città povera. «Al sud ci sono abituati – mi dice un vecchio compagno quasi si confessasse – noi no».

Invenzioni senza investimenti

Il patrimonio che questa mano d’opera rappresenta è coinvolto in un progetto innovativo o è stato semplicemente mandato al cimitero degli elefanti? Vado in giro per la città a cercare una risposta.

Le due università – la Statale e il Politecnico – si ingegnano: la prima impegna molte energie nel covare gruppi inventivi di nuove possibili funzioni consentite dall’uso delle nuove tecnologie e passo un intero pomeriggio ad ascoltare le loro proposte e a capire le loro ricerche.

Sono in contatto col 31mo piano del nuovo altissimo grattacielo di Intesa San Paolo (da cui a Torino tutto dipende, tanto varrebbe votare anziché per un consiglio municipale per il suo Consiglio di amministrazione) dove 100 funzionari aspettano di capire le novità dei futuri clienti. Al Poli, c’è una incubatrice, che svolge un ruolo analogo. E dentro è restato il solo figlio sano del fallito matrimonio General Motors-Fiat. Dopo il precoce divorzio è diventato solo americano, se l’è tenuto la Gm.

E’ il Power Train, il pezzo più prezioso della città. Anche la Cgil ha contribuito a metter su, a Moncalieri, un contenitore simile, ricercando la collaborazione con università e enti locali. Benissimo.

Il fatto è che se non ci sono poi gli investimenti per realizzare le invenzioni, le idee restano sulla carta. La orgogliosa imprenditoria torinese, come del resto gran parte di quella italiana, sembra invece occuparsi d’altro.

Gli Agnelli, per esempio, il grosso dei loro capitali familiari li hanno collocati nella Exor, uno dei più grossi gruppi di assicurazione americani. Un investimento anticiclico, più sicuro del fluttuante settore dell’auto. Quanto al governo, nessun piano industriale, né qui né altrove.

Il lavoro si è impoverito

E invece servirebbe un piano, un’idea nuova per Torino, un progetto coordinato con altri paesi europei. Invece non c’è: le aziende di punta sono state scorporate e via via acquisite da gruppi stranieri che ne hanno portato via i pezzi più prestigiosi.

Non è, qui a Torino, l’innovazione che ha ridotto il numero degli operai, è il contrario: è il lavoro che si è impoverito. E quanto cresce – il terziario soprattutto – comunque non basta a compensare. Non dico qualitativamente, che è ovvio, ma anche quantitativamente.

L’orizzonte di Torino è tutt’ora disegnato dai tetti a sega degli antichi capannoni industriali. Non è come a Milano, dove la deindustrializzazione è avvenuta ormai da decenni e in un’epoca in cui l’economia ancora tirava.

Qui le fabbriche dismesse occupano ancora il terreno, sono tantissime. Ora si cercano nuove destinazioni e in alcune hanno trovato casa le start up e i centri di co-working. Al Tool Box la ristrutturazione di un padiglione è magnifica, alta architettura, colori e, persino, una cucina con mobili costruiti in 3D, con la stampante. Ad un’area con lunghi tavoloni si accede grazie a 100 euro al mese col proprio computer, si tratta di postazioni provvisorie in cui si gode della connessione. Con 250 mensili si accede invece ai tavoli dove la postazione è fissa; poi ci sono molti gabbiotti a cielo aperto, veri e propri ufficietti. Dentro un popolo silenziosissimo di individui impegnati a costruire la propria start up: tutti aspiranti “uomo (o donna)-impresa”. Il regno di Uber, si direbbe.

Difficile capire cosa facciano, si sa solo che la moria delle start up è altissima. Ad una parete una sorta di denso giornale murale, avvisi di friendly advises: professionisti che offrono consigli legali, panel su «Mettersi al riparo: malattia e pensioni», dalle 12 alle 13; «Freelance care», dalle 18 alle 19, eccetera.

Accanto, gli aspiranti imprenditori presentano le loro proposte, corredate di foto. Leggo: M.P.: Ascolto, informo e mi informo, sorrido accolgo e saluto. E realizzo oggetti imperfetti; «G.B.: Rassicuro osservo saluto calorosamente»; «T.M.: Mi occupo di politica e strategia di comunicazione, ma giuro che sono un bravo ragazzo».

Apprezzo l’autoironia, ma mi torna alla mente il vecchio film di Nanni Moretti, Ecce Bombo (ricordate? quello in cui lei dovendo spiegare come campa risponde «faccio cose, vedo gente…»).

Il grande errore di Fassino

Ecco: come si fa a proporsi come sindaco senza proporre un progetto adeguato ad una città come Torino?

Il grande errore di Fassino (oltre a quello di aver imbarcato metà della destra cittadina e di non avere nemmeno uno degli “invisibili” nelle sue liste) è di essersi fatto ammaliare da Marchionne, di aver creduto alle magnifiche e progressive sorti del capitalismo, di non aver preparato una trasformazione autonoma della città.

Il pensiero lungo, una consapevolezza alternativa, serve anche nelle elezioni amministrative. E naturalmente anche non sottomettersi alla deriva della politica nazionale.

In tasca – l’ho preso a casa fra i miei vecchi libri e me lo sono portato dietro in questo viaggio attraverso Torino 2016 – ho un libriccino edito nel 1969 dalla Feltrinelli: si chiama La Fiat è la nostra Università. Inchiesta fra i giovani lavoratori. Era stata condotta dai “gruppi fabbrica” di alcuni licei e facoltà torinesi, quasi 100 pagine fitte di notizie.

Alla risposta n.82 che dà l’operaio di terza categoria si legge «Io penso che al 1969 l’operaio dovrebbe lavorare molto più poco, tanto più perché con l’automazione che ci va solo a favore dei padroni e non degli operai, ma per questo bisogna cambiare la società».

Sarà antiquato, ma oggi il progetto appare anche più attuale.

Non lo può accantonare neppure una campagna elettorale amministrativa, anche se non si potrà realizzarlo nei prossimi cinque anni. Ma se si perde l’orizzonte, anziché moderni si resta chiusi nella gabbia del medioevo.

E’ questo – anche questa cosa oltre all’immediato – che fa la differenza di Torino in comune. E il suo candidato sindaco, Giorgio Airaudo, è il solo che sembra occuparsene. Non solo perché è più bravo, ma perché si è posto il problema di rappresentare quel pezzo grandissimo di società cui non basta essere fruitori di musei.

La “buona politica” è, prima di tutto, rappresentanza. Da chi si rappresenta dipende l’aggettivo “di sinistra”.

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L’epifania operaia del 20 aprile https://www.micciacorta.it/2016/04/lepifania-operaia-del-20-aprile/ https://www.micciacorta.it/2016/04/lepifania-operaia-del-20-aprile/#respond Fri, 22 Apr 2016 07:21:31 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21716 Lavoro. Sono tornati gli operai, chi li ha visti

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Sono ritornati. Gli operai. Sono loro la notizia del 20 aprile, anche se sui media mainstream bisogna cercarli col lanternino. Assenti nel portale di Repubblica. Invisibili su quello de La Stampa. Non pervenuti al Corriere della sera. Eppure le poche immagini filtrate in televisione mostrano cortei come non se ne vedevano da tempo, uomini e donne come fiumi in piena con l’energia, il passo, le grida e la determinazione – e anche l’unità – cui non eravamo più abituati.

Le notizie che arrivano dal reticolo di città in cui la protesta si è espressa, frammentate nell’informazione locale, parlano ovunque di un successo dello sciopero e della mobilitazione: 80% di adesioni a Bolzano (!), tre cortei nel padovano, 90% alle Acciaierie Valbruna a Vicenza, «adesione straordinaria» a Udine, punte del 100% a Cremona, 70% in Val d’Aosta più o meno come in Abruzzo, 90% a Messina, altrettanti nel casertano, «sciopero record» in Umbria…

«Oggi le fabbriche si sono svuotate, lo sciopero è riuscito, le piazze sono piene», ha detto Landini, presente alla manifestazione di Milano. Ed è così. Nella crisi italiana c’è un nuovo protagonista, finora silente e ora furente.

In gioco non c’è solo «un contratto». Una vertenza come tante altre. C’è «il Contratto». La sopravvivenza dell’istituto contrattuale nazionale come condizione di un necessario livello di unità del mondo del lavoro. E la questione del salario.

Due aspetti che hanno finito per fondersi di fronte alla pretesa padronale di “sfondare” l’istituto nazionale cancellandone di fatto la dinamica salariale a cominciare da quella relativa ai minimi e riservandola alla sola contrattazione aziendale.

Un’ ipotesi che non prevederebbe aumenti (caso unico nella storia sindacale italiana) se non per una minoranza di lavoratori (all’incirca un 5%), offrendo in cambio un set di servizi sostitutivi del welfare pubblico in smantellamento). Dunque un tentativo neppur mascherato di spallata e di divisione dei lavoratori, a cui le piazze hanno risposto con un simmetrico e contrario grado di unità che ha coinvolto ampie fasce di precariato e di giovani.

Ma c’è, in gioco, anche molto di più.

Ci sono le opposte strategie nel cuore della crisi, con il padronato determinato a perseguire pervicacemente la via catastrofica della compressione salariale, quella che ci ha precipitato nel buco nero in cui siamo, e l’opzione opposta che vede nell’incremento del reddito – in primo luogo da lavoro, e dunque del salario – la leva per una ripresa vera, alimentata da una altrettanto vera redistribuzione della ricchezza. Tertium non datur.

L’epifania operaia del 20 di aprile ci dice che provarci è possibile. Tanto più che il ritorno in campo dei metalmeccanici avviene in corrispondenza con l’inizio della raccolta di firme per i «referendum sociali», in primis quello contro il Jobs Act, che potranno costituire la porta d’ingresso della protesta e della resistenza «dal basso» sul terreno altrimenti blindato delle vicende istituzionali e della legislazione.

Se il milione e mezzo di metalmeccanici, e gli altri milioni di lavoratori che in questi mesi sono chiamati alla lotta per i rispettivi contratti sapranno dialogare e connettersi con i 13 milioni e oltre di «cittadini consapevoli» che sono andati ai seggi nonostante la dissuasione di Renzi e Napolitano e hanno votato sì; e se entrambi, almeno un po’, decideranno di frequentare i «banchetti» a cui affidare le proprie firme, allora davvero potremo, con l’ironia che la socialità vissuta assicura, sussurrare ogni volta che lo vedremo istrioneggiare in tv: #matteostaisereno…

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Torino operaia e un film particolare https://www.micciacorta.it/2016/03/torino-operaia-un-film-particolare/ https://www.micciacorta.it/2016/03/torino-operaia-un-film-particolare/#respond Wed, 23 Mar 2016 10:07:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21558 Stracolmo il cinema delle adunate tradizionali, al centro di Borgo San Paolo, cuore della città di un tempo. 'Senza alcun permesso', l'emozionante lavoro di Perotti presentato da Aiuraudo e Landini

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lotte operaie

Il cinema è quello delle adunate tradizionali, al centro di Borgo San Paolo, cuore della Torino operaia di un tempo, l’Eliseo, e i suoi mille posti sono stipati di delegati della Fiom del Piemonte. Per l’occasione si proietta il film di un regista molto particolare: Paolo Perotti, operaio di Mirafiori dal 1969 che dall’interno e dall’esterno della fabbrica più grande d’Italia ne ha narrato con la cinepresa la storia di lotta, le vittorie straordinarie e anche la sconfitta storica del 1980. Il film – che si chiama, significativamente “Senza chiedere permesso” – è un documento straordinario di una straordinaria stagione in cui i rapporti di forza con la Fiat furono piegati grazie all’unità e all’inventiva operaia. Nei cortei immensi e nei comizi improvvisati si riconoscono i volti dei nostri storici compagni: Usai, Furchì, tanti altri di quell’epoca vittoriosa. Più di un’ora di commozione che precede una tavola rotonda, una riflessione su ieri e su oggi: c’è Giorgio Airaudo, che quand’era segretario della Fiom di Torino è stato – si può dire – il produttore spirituale del film di Perotti, e ora è candidato sindaco della città per la lista “Torino in comune”; c’è Antonio Pizzinato, ex segretario generale della Cgil, che ripercorre i giorni difficilissimi dell’80, ripensando a errori e ragioni del sindacato in quella vicenda. Ci sono anche io a ricordare di quando le porte 1 e 2 di Mirafiori erano l’agorà della politica di sinistra e Torino la capitale del movimento, una mecca del pellegrinaggio di ogni militante. Nel film di Perotti sono tante le pagine del manifesto che figurano. Ma l’assemblea è importante soprattutto per quello che dice Landini: sul che fare oggi. E’ in questa assemblea che il segretario della Fiom lancia la sfida importantissima su cui tutta la Cgil, ufficialmente, proprio ieri si è impegnata: dal 9 aprile inizierà la raccolta di firme per un progetto di legge di iniziativa popolare che propone un nuovo statuto dei lavoratori, questa volta con un art.18 per tutti, non solo per chi lavora in aziende con più di 15 dipendenti, oramai non più molte. E, a supporto dell’iniziativa, ai gazebo in tutte le piazze d’Italia si registreranno anche le firme per tre referendum mirati all’abrogazione di altrettanti pezzi del Job Act: disciplina del voucher, norme sugli appalti e norme sui licenziamenti. Landini ha parlato anche della battaglia per il rinnovo del contratto di categoria, anche questa una prova difficilissima e decisiva non solo per i metalmeccanici. «Siamo ad un passaggio in cui ci si gioca la contrattazione collettiva, un pilastro del modello sociale europeo», ha detto. La sala è stracolma e combattiva, tantissime le donne. Anche se alla Fiat ci sono oramai solo 15 mila operai e non più 60 mila; anche se nei prossimi mesi i tantissimi che godono di ammortizzatori sociali resteranno via via senza tutela; anche se Torino annega in milioni di voucher che nascondono lavoro nero, nonostante tutto la Fiom è sempre la Fiom: sta in prima linea. La sua sfida ci riguarda tutti, i referendum non sono uno scherzo, come sappiamo. ————– Per chi vuole il dvd di “Senza alcun permesso”, il film di Perotti, scrivere a Pier Milanese pier@cinefonie.it .Tel 0112767870 il trailer è visibile sul sito del film

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