Genoa Social Forum – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 04 Nov 2020 09:38:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 G8. Promossi due poliziotti condannati per la «macelleria messicana» alla Diaz https://www.micciacorta.it/2020/11/g8-promossi-due-poliziotti-condannati-per-la-macelleria-messicana-alla-diaz/ https://www.micciacorta.it/2020/11/g8-promossi-due-poliziotti-condannati-per-la-macelleria-messicana-alla-diaz/#respond Wed, 04 Nov 2020 09:38:49 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26260 La denuncia di Amnesty. Pietro Troiani e Salvatore Gava sono stati recentemente nominati vicequestori dalla ministra Lamorgese e dal capo della polizia Gabrielli

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Due funzionari di polizia condannati per fatti relativi al G8 di Genova del 2001 sono stati recentemente promossi a vicequestori. La notizia, fatta circolare lunedì da Amnesty International, ha immediatamente sollevato polemiche politiche. Pietro Troiani e Salvatore Gava parteciparono all’irruzione nella scuola Diaz la sera del 21 luglio. Il primo introdusse due molotov nell’edificio e il secondo ne accertò il «ritrovamento». Per questo furono condannati a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il 28 ottobre scorso la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della polizia Franco Gabrielli li hanno promossi entrambi a vicequestori. I fatti della Diaz sono ricordati come la «macelleria messicana». L’espressione fu utilizzata nel 2007 in un’aula di tribunale da Michelangelo Fournier, che partecipò all’irruzione come vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma. Quella notte nell’edificio dormivano manifestanti legati al Genoa Social Forum. L’operazione portò all’arresto di 93 persone. Di queste 63 finirono in ospedale. Tra loro c’era anche il giornalista inglese Mark Covell, che ci arrivò in coma. Il «ritrovamento» delle molotov servì a giustificare l’intervento, che si configurò come una vera e propria mattanza. Per quella vicenda la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia in due diverse occasioni, nel 2015 e 2017, stabilendo che le forze dell’ordine avevano commesso veri e propri atti di tortura. Il regista Daniele Vicari ha ricostruito l’episodio nel film-denuncia «Don’t Clean Up This Blood» (2012). «Desta sconcerto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi», ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. La decisione ha provocato reazioni tra gli esponenti di diversi partiti politici. «Lamorgese e Gabrielli revochino la promozione – ha detto il senatore del Movimento 5 Stelle Gianluca Ferrara – Chi è stato condannato per reati così gravi dovrebbe essere radiato». Di «insulto allo stato di diritto e alle tante persone che hanno subito la brutale violenza poliziesca» ha parlato Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, partito che prese parte alle proteste. «Questa incomprensibile promozione non può che minare la fiducia già precaria verso lo Stato», hanno scritto in una nota Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, dei Radicali italiani. Per il parlamentare di Liberi e Uguali Erasmo Palazzotto: «È grave che siano concesse promozioni e avanzamenti a membri delle forze dell’ordine già condannati per violazione dei diritti umani. Serve introdurre i codici identificativi per le forze dell’ordine». L’esponente di LeU presenterà un’interrogazione parlamentare alla ministra Lamorgese * Fonte: Giansandro Merli, il manifesto

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Le voci di piazza Alimonda https://www.micciacorta.it/2016/07/22278/ https://www.micciacorta.it/2016/07/22278/#respond Thu, 21 Jul 2016 08:21:15 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22278 2001-2016. A Genova il ricordo di Carlo Giuliani. Con le parole di Don Gallo. Agnoletto: «Indecente che nell'anniversario del G8 il governo abbia affossato la legge sulla tortura»

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GENOVA «Una pioggia di lacrimogeni in via Tolemaide ha spezzato in due il corteo. Io mi assumo la mia responsabilità davanti a tutto il Paese: quella di piazza Alimonda è stata un’imboscata». La voce di Don Gallo, registrata dalla trasmissione Porta a Porta la sera di quel 20 luglio 2001 risuona in piazza Alimonda poco prima delle 17.25, ora in cui come ogni anno un lungo applauso e i pugni al cielo ricordano l’attimo in cui la vita di un ragazzo di 23 anni venne spazzata via da un colpo di pistola sparatogli in faccia da un carabiniere. Sembra quasi di vederlo il prete di strada, panama in testa e sigaro in bocca, quando in quella stessa piazza, ancora cinque anni fa nel decennale del G8, arringava come sua abitudine la folla invitando il movimento a riorganizzarsi. Anche Heidi Giuliani lo ricorda dal palco: «Non lo nomino – dice – perché è qui con noi e lui ricorderebbe con noi quei ragazzi che non hanno ucciso nessuno né ferito nessuno e sono ancora in carcere». In piazza Alimonda ci sono alcuni giovani attirati forse anche dalla presenza dei fumettisti Alessio Spataro e Zerocalcare. Gli altri sono facce note. Tra loro, con un velo di malinconia, si autodefiniscono «reduci» di un movimento imponente quanto fragile, azzerato nello spazio di una notte e mai più rinato, nonostante quelle istanze siano oggi più che mai attuali. «Abbiamo il dovere politico e morale di cercare di ricostruirlo – dice l’ex portavoce del Genova Social Forum Vittorio Agnoletto – sapendo che non basta un movimento nazionale , come ci ha insegnato la Grecia che si è scontrata con i grandi poteri finanziari globali e ha perso». Agnoletto ha anche bollato come «indecente e inaccettabile» il fatto che nell’anniversario del G8 «il governo cancelli la discussione sulla legge sulla tortura ignorando quanto è avvenuto alla Diaz e a Bolzaneto e facendo sì che l’Italia resti l’unico Paese europeo senza un legge che punisca questi abusi». «Questa decisione – commenta Antonio Bruno, consigliere comunale e portavoce dell’ormai disciolto Comitato Verità e Giustizia per Genova – significa che una parte consistente del Parlamento pensa sia lecito per le forze repressive dello Stato torturare senza che venga previsto un reato specifico come in tutti gli stati democratici». Ancora una volta qualcuno con un pennarello blu ha modificato la toponomastica ufficiale della piazza trasformandola in «piazza Carlo Giuliani». Il ceppo è lì al centro dell’aiuola: qualcuno depone dei fiori, altri posizionano un grande cartello: «Le nostre idee non moriranno mai». Sulla cancellata della chiesa ci sono gli striscioni “storici” che vengono conservati e strotolati di anno in anno. Anche il palco e la musica sono sempre gli stessi, simboli famigliari che servono a dare forza al rito collettivo della memoria. Tra i volti ci sono quelli inevitabilmente invecchiati di tanti leader di quel movimento e quelli dei giovani che sono diventanti adulti e ora portano in piazza i loro bambini. I grandi numeri non ci sono più da tempo in piazza Alimonda, ma ogni anno c’è chi vuole continuare ad esserci. «Siamo qui perché almeno la verità vogliamo che venga fuori – dice Giuliano Giuliani – vogliamo che chi avrebbe l’obbligo di lavorare per la verità si decidesse a farlo. Certo, per i processi ci vogliono magistrati che siano persone degne, come Enrico Zucca, Francesco Cardona, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati che hanno insistito per arrivare alla verità su Diaz e Bolzaneto. A noi sono toccati invece individui un po’ farlocchi che oltretutto, essendo l’omicidio di Carlo il primo fatto grave del G8, lo hanno archiviato per togliersi dall’impiccio». Il sindacato di polizia Coisp come ogni hanno ha cercato di ottenere un po’ di visibilità, prima provando a prendersi piazza Alimonda, prontamente stoppato dal diniego della Questura, poi organizzando un convegno dove aveva invitato nientemeno che Mario Placanica che però, alla fine, visto lo stato mentale in cui si trova (ancora tre mesi fa su Facebook aveva annunciato di volersi suicidare perché abbandonato da tutti) ha dato forfait. Risultato? Una sala semivuota e un cospicuo – come da tradizione – impiego di forze di polizia per tenere lontani eventuali contestatori che li hanno però saggiamente ignorati. SEGUI SUL MANIFESTO

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Il libro: Diaz, quella notte di «macelleria messicana» https://www.micciacorta.it/2015/04/il-libro-diaz-quella-notte-di-macelleria-messicana/ https://www.micciacorta.it/2015/04/il-libro-diaz-quella-notte-di-macelleria-messicana/#respond Wed, 08 Apr 2015 07:38:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19178 Una volta den­tro, i poli­ziotti pic­chia­rono sel­vag­gia­mente dal piano terra fino al quarto piano. Pic­chia­rono gente che nella pale­stra, al pian ter­reno, li accolse con le mani alzate

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Erano andati alla Diaz per­ché la piog­gia aveva reso impra­ti­ca­bili i cam­peggi uti­liz­zati in quei giorni dai mani­fe­stanti. A loro la scuola, accanto alla sede uffi­ciale del Genoa Social Forum, sem­brava «il posto più tran­quillo per pas­sare la notte». Non era così. Altri, infatti, erano pre­oc­cu­pati, tesi. Spe­cie alla Pascoli dove c’erano mili­tanti più accorti, mediat­ti­vi­sti e gior­na­li­sti, l’europarlamentare Luisa Mor­gan­tini e fino a pochi minuti prima anche l’avvocato Laura Tar­ta­rini, geno­vese, vicina ai cen­tri sociali e ai movi­menti anta­go­ni­sti e in seguito vice­pre­si­dente del con­si­glio comu­nale del capo­luogo ligure; già allora inter­lo­cu­trice diretta della que­stura e della Digos. Sia alla Pascoli che alla Diaz c’erano per­sone che in quei giorni erano state sem­pli­ce­mente tra­volte dagli avve­ni­menti, altre che ave­vano par­te­ci­pato alle varie fasi degli scon­tri, spe­cie quelli del 20 luglio che ave­vano coin­volto diverse migliaia di per­sone. Molti sape­vano che erano in corso con­trolli della poli­zia, uno l’avevano fatto lì vicino in via Trento, in un bar dove un grup­petto era andato a man­giare e a bere qual­cosa. Le voci di per­qui­si­zioni, tra i gior­na­li­sti, si rin­cor­re­vano da ore in un clima di ten­sione. Anche chi non aveva niente da nascon­dere temeva la poli­zia, per­ché assi­steva da due giorni a vio­lenze ingiu­sti­fi­cate da parte di uomini in divisa. Eppure, le mani­fe­sta­zioni con­tro il G8 erano finite. Quello che non doveva suc­ce­dere era già suc­cesso. Gira­vano, non solo fra i no glo­bal, le voci più incre­di­bili: altri morti, per­sone che non si tro­va­vano più. Si com­pi­la­vano inquie­tanti elen­chi di «scom­parsi», che poi erano quasi tutti a Bol­za­neto e non ave­vano potuto comu­ni­care. Gli scon­tri erano lar­ga­mente pre­vi­sti, il movi­mento era sceso in piazza con decine di avvo­cati, medici e infer­mieri muniti di pet­to­rina, ma nes­suno alla vigi­lia poteva imma­gi­nare una simile esplo­sione di violenza. A mez­za­notte, quando arrivò la poli­zia, gran parte degli ospiti della Diaz stava andando a letto. Erano nei sac­chi a pelo o si lava­vano i denti. Chi dor­miva fu sve­gliato. Qual­cuno, dalle fine­stre ai piani supe­riori, gridò ai poli­ziotti: «andate via», «non entrate». Anche dall’altra scuola urla­vano di non entrare: «Vi stiamo ripren­dendo, il mondo vi guarda». Sui poli­ziotti piovve dall’alto qual­che oggetto ma non il «fitto lan­cio» che scris­sero poi nei ver­bali. Non certo il «grosso maglio da car­pen­tiere» di cui scrisse Can­te­rini e parlò Mor­tola: nes­sun altro con­fermò di averlo visto e non c’è n’é trac­cia delle imma­gini girate dalla tele­ca­mera che in quel momento ripren­deva l’intero cor­tile. (…) Un altro vide volare una scri­va­nia, ma nei fil­mati non si vede nean­che quella. Una o più per­sone chiu­sero il can­cello e siste­ma­rono una panca, forse un paio di sedie, davanti al por­ton­cino di legno. Altri dis­sero che era una scioc­chezza, fecero rimo­stranze. Nes­suno indicò mai chi fosse stato a chiu­dere. L’irruzione, vista da fuori, fu tal­mente spa­ven­tosa che diversi abi­tanti della zona, presi anche loro dal panico, die­dero l’allarme al 118 e per­fino al 113. Molti sen­ti­vano i rumori, i colpi, le grida dispe­rate, l’elicottero, ma non vede­vano cosa stesse suc­ce­dendo. Le tele­fo­nate sono regi­strate, uno diceva: «Pronto, poli­zia? Qui in via Cesare Bat­ti­sti stanno attac­cando i ragazzi!». L’operatrice non sapeva cosa rispon­dere: «Sì lo sap­piamo, gra­zie». Qual­che minuto dopo un’altra chia­mate dello stesso tipo e la poli­ziotta, sem­pre più imba­raz­zata: «Siamo già lì, signora, non si preoccupi». (…) La poli­zia fornì con grave ritardo un elenco di 453 uomini (e donne) che par­te­ci­pa­rono alle varie fasi dell’operazione, com­presi i 150 cara­bi­nieri che rima­sero sem­pre all’esterno dell’edificio come del resto un gran numero di poli­ziotti. È però un elenco incom­pleto. Furono rico­no­sciuti e indi­vi­duati molti altri agenti che non figu­ra­vano nella lista. Erano diverse decine, com­presi i 30 del reparto mobile di Bolo­gna che si distinse per inter­venti piut­to­sto vio­lenti al G8 e altrove, anche con stra­sci­chi penali signi­fi­ca­tivi; più una ven­tina del reparto mobile di Roma, estra­nei al Set­timo nucleo. Uno degli uomini fuori dall’elenco è Pie­tro Tro­iani, il vice­que­store che mezz’ora dopo l’irruzione fece por­tare le molo­tov nel cor­tile della Diaz. (…) Il video girato dalla Pascoli mostra decine di agenti che si accal­cano sull’ingresso. Molti sono in tuta da ordine pub­blico scura, priva cioè del tra­di­zio­nale cin­tu­rone bianco, con i caschi azzurri opa­chi men­tre gli altri sono più lucidi: quelli vestiti così appar­ten­gono al Set­timo nucleo. Erano gli unici, nella poli­zia, a usare il tonfa. Il super­man­ga­nello con l’impugnatura late­rale è in poli­car­bo­nato molto più rigido del comune sfol­la­gente e diventa un’arma mici­diale se uti­liz­zato «a mar­tello». Dall’alto verso il basso, o peg­gio rove­sciato, per pic­chiare con il manico. Four­nier spiegò, durante inda­gini e pro­cesso, che quel man­ga­nello può ucci­dere. Quando i pm fecero seque­strare i tonfa della Diaz, uno su dieci risul­tava ancora sporco di sangue.
I pestaggi durarono 10 minuti. Sul luogo c’erano 300 poliziotti. Nessuno ha fatto un nome
Nel fil­mato si vede un agente del Set­timo che spacca i vetri di una fine­stra al pian ter­reno, evi­den­te­mente per ter­ro­riz­zare le per­sone all’interno. È ancora uno del Set­timo che forza il por­ton­cino cen­trale, quindi spo­sta la panca siste­mata a mo’ di bar­ri­cata, sca­valca qualcos’altro ed entra. Passa il secondo, poi il terzo. Ci sono anche poli­ziotti con la cin­tura bianca, altri in bor­ghese con la scritta «poli­zia» sulla pet­to­rina, altri ancora con la divisa «atlan­tica». «Una mace­do­nia di poli­zia», disse Can­te­rini. «La notte del volon­ta­riato», iro­nizzò in aula l’avv. Sil­vio Romanelli. (…) Una volta den­tro, i poli­ziotti pic­chia­rono sel­vag­gia­mente dal piano terra fino al quarto piano. Pic­chia­rono gente che nella pale­stra, al pian ter­reno, li accolse con le mani alzate. Dice­vano «peace» e «no vio­lence», erano ter­ro­riz­zati e furono aggre­diti, abbat­tuti da man­ga­nel­late e calci. «Come se fosse una carica», disse una di loro. Dal lato oppo­sto della pale­stra Lorenzo Gua­da­gnucci, gior­na­li­sta allora al Car­lino e sim­pa­tiz­zante no glo­bal, fu pestato a freddo nel sacco a pelo. Cer­cava di pro­teg­gere una ragazza che era stata già col­pita. Ebbe solo il tempo di chie­dere «per­ché?». Nes­suno lo sen­tiva. Aveva 37 anni, al momento dell’irruzione si era appena addor­men­tato. Prima che lo aggre­dis­sero ebbe modo di assi­stere al pestag­gio delle per­sone di fronte. (…) Gli agenti sem­bra­vano impaz­ziti, urla­vano «Bastardi», «Mori­rete», «Nes­suno sa che siete qui», «Vi siete diver­titi, eh? Adesso vi ammaz­ziamo». E ancora: «Froci», «zec­che». Alle ragazze stril­la­vano: «Brutta troia» e «put­tana». Alcuni pre­le­va­rono «tro­fei», cioc­che di capelli tagliate sul momento: lo rac­con­ta­rono almeno cin­que testi­moni. Un ragazzo ebbe una crisi epi­let­tica. Fu ritro­vato mate­riale fecale per­ché qual­cun altro non riu­scì a trat­te­nere la paura. Al primo piano si fecero tro­vare ai due lati del cor­ri­doio, per dimo­strare le loro inten­zioni paci­fi­che. Furono basto­nati e presi a calci uno per uno, subi­rono diverse ondate di pestaggi. Almeno due feriti rischia­rono la vita per lesioni al cra­nio, altri ripor­ta­rono frat­ture delle brac­cia, delle gambe, del costato. Tho­mas Daniel Albre­cht, all’epoca 21enne, vio­lon­cel­li­sta a Ber­lino, (…) rac­contò che i poli­ziotti li pesta­rono «senza fretta». (…) Non sapremo mai chi fece cosa. Non sapremo mai chi spezzò un brac­cio e una gamba ad Arnaldo Cestaro, allora ses­san­ta­duenne, arri­vato dal Vicen­tino solo soletto per mani­fe­stare con­tro gli otto «grandi» e rima­sto lì quella notte per­ché l’indomani voleva por­tare i fiori sulla tomba della figlia di una sua vicina. Fu uno dei primi a cadere nella pale­stra al pian ter­reno. Dice che dor­miva, pensò che ad aggre­dirli fosse chissà quale black bloc «e invece era — rac­contò ai giu­dici — la nostra poli­zia, quella che ci dovrebbe proteggere». (…) Non tutti i poli­ziotti pic­chia­rono e spu­ta­rono. Alcuni cer­ca­rono di fer­mare i col­le­ghi (…). Nes­sun agente, però, seppe indi­care i col­le­ghi che infie­ri­vano su gente indi­fesa. Nean­che uno solo.

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