Gerardo D’Ambrosio – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 14 Dec 2019 08:34:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Stragi & segreti. Calabresi e Pinelli, quella sera a Milano che caldo faceva https://www.micciacorta.it/2019/12/stragi-segreti-calabresi-e-pinelli-quella-sera-a-milano-che-caldo-faceva/ https://www.micciacorta.it/2019/12/stragi-segreti-calabresi-e-pinelli-quella-sera-a-milano-che-caldo-faceva/#respond Sat, 14 Dec 2019 08:34:47 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25869 Pubblichiamo l'articolo di Adriano Sofri, comparso sulla sua pagina Facebook. Una documentata e puntale ricostruzione sui segreti di stato sempre meno segreti, solo a volerli guardare, su quella notte di 50 anni fa

L'articolo Stragi & segreti. Calabresi e Pinelli, quella sera a Milano che caldo faceva sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Calabresi, Pinelli: ancora? Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un’aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. Non c’ero, ma come se ci fossi. Ne ho ascoltato la registrazione nella notte tra il 10 e l’11, a Radio Radicale. Teneva svegli. Il giorno dopo ho riascoltato e guardato il filmato. Era una “Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana”, titolo: “Noi sappiamo, e abbiamo le prove”, organizzata dall’Archivio Flamigni e dall’Università. Il titolo calcato su Pasolini, con quel di più di certezza, segnava la differenza fra l’intellettuale e poeta – io so, ma non ho le prove – e le storiche e gli storici convenuti, insieme a magistrati, giornalisti e testimoni. Oggetto della mia cronaca è un episodio occorso alla fine della mattina, dopo le relazioni di Paolo Morando, sul tema del suo libro, “Prima di Piazza Fontana. La prova generale” (Laterza), di Benedetta Tobagi, sui processi tra Roma, Milano e Catanzaro (il suo libro, “Piazza Fontana. Il processo impossibile”, Einaudi), e Francesco Lisanti, sul processo a Ordine Nuovo (sua “La storia di piazza Fontana nei documenti processuali”, La Vita Felice). A questo punto una voce dal pubblico – in radio si sentiva meno, lontana dal microfono – ha chiesto compitamente di fare una domanda. L’ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. C’è stata una breve consultazione fra la coordinatrice, Ilaria Moroni, e Benedetta Tobagi, mentre l’interlocutore ripeteva la sua questione e, interrotto, aggiungeva: “Vorrei sapere se posso parlare, se non posso parlare sto zitto”. Tobagi gli ha detto che poteva, certo, e ha chiesto: “Lei chi è, scusi?” “Sono Valitutti”. Pasquale “Lello” Valitutti ha 70 anni, è stato spesso prediletto dalle cronache perché, “anarchico in carrozzina”, prende il suo posto avanzato nelle manifestazioni di strada anche quando dimostranti e polizia si scontrano. Valitutti è anche l’anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra. Valitutti è quel genere di persona di cui gli oratori di un convegno non possono fare a meno di dirsi: “Eccolo, questo rompicoglioni!” Dunque, ha potuto parlare. Ha detto quello che dice da sempre, e qualcos’altro. Dice che dal suo posto “vedeva perfettamente la porta dell’ufficio del dottor Allegra, capo della sezione politica della questura, e la porta dell’ufficio del dottor Calabresi”. Che “circa 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio venne rotto da rumori nell’ufficio di Calabresi, come di trambusto, di una rissa, di mobili smossi ed esclamazioni soffocate. Poi un incredibile silenzio”. Che nei minuti precedenti “nessuno era uscito dall’ufficio e tantomeno entrato in quello di Allegra”. Che a mezzanotte udì “un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba”. Che “un attimo dopo ho sentito uno smuoversi di sedie e passi precipitosi”. Che “due sbirri si sono precipitati da me e mi hanno messo con la faccia al muro”. Che subito dopo è arrivato Calabresi e gli ha detto: “Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato”. Che la mattina dopo l’hanno rilasciato. Che ha ripetuto la sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua e che il difensore di Calabresi non l’ha neppure controinterrogato. Che durante il sopraluogo del tribunale nella questura ha mostrato al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata nel frattempo per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli. Che il giudice D’Ambrosio non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l’unico testimone civile presente quella sera. Che Calabresi e gli altri presenti nella stanza, “tutti assassini di Pinelli”, avevano tutti mentito, e che la beatificazione di Calabresi è inconcepibile, eccetera. Tobagi si è trovata in una situazione non invidiabile, e insieme esemplare: non succede spesso che il rapporto, e il contrasto, fra l’attore e testimonio dei fatti, e i loro storici, si trovino l’uno di fronte agli altri, invocando l’uno la propria verità vissuta e gli altri la verità probabile di fonti e documenti. Tobagi ha detto: qui nessuno ha santificato Calabresi, abbiamo invitato Morando proprio per illustrare la macchinazione venuta da lontano, e fino ai livelli più alti, e la responsabilità della squadra politica diretta da Calabresi. Ha anche detto – lasciandomi qui interdetto – che la presenza degli uomini degli Affari Riservati nella questura milanese, che è la più rilevante acquisizione ultima dell’indagine e della ricerca, può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Russomanno e dagli uomini degli Affari Riservati. “Ma Calabresi ha detto che è uscito per andare da Allegra, e ha mentito”, ha ovviamente replicato Valitutti. Tobagi: ma abbiamo detto che Calabresi ha mentito, su Pinelli tutti hanno mentito. Poiché le mie citazioni non sono testuali, invito caldamente a vedere e ascoltare la registrazione sul sito di Radio Radicale, dibattiti, 4 dicembre, https://www.radioradicale.it/…/giornata-di-studi-sulla-stra… . E a procurarsi, se credono, un opuscolo, “a distribuzione gratuita”, curato da Valitutti, dal quale ho testualmente attinto: “A 50 anni da piazza Fontana. Gli anarchici non dimenticano e non perdonano”. Lasciamo per ora l’episodio, che non doveva passare inosservato, e veniamo all’eventualità che si ricominci daccapo. Tobagi ha ragione: di tutti gli sviluppi della ricerca attorno al 12 dicembre della strage degli innocenti e al 15 dicembre della defenestrazione di Pinelli, il più importante, e sbalorditivo, è la notizia (una vera “ultima notizia”, di quarant’anni dopo) dell’arrivo da Roma alla questura milanese di un manipolo di funzionari dell’Ufficio Affari Riservati” – “fra i 10 e i 15” – guidati dal vice di Federico Umberto D’Amato, Silvano Russomanno. Costoro presero da subito il comando pieno dell’indagine, direttamente sopra il capo dell’Ufficio politico, Antonino Allegra, e il giovane commissario dell’ufficio politico addetto all’estrema sinistra e agli anarchici, Luigi Calabresi. Questa dirompente notizia è diventata pubblica per la prima volta nel 2013, quando l’anarchico Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera, che dal 15 dicembre del 1969 non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli (è morto nel marzo del 2016) e Gabriele Fuga, avvocato penalista, pubblicarono un libretto intitolato “E a finestra c’è la morti” (Zero in condotta), ripubblicato poi, rivisto e arricchito di nuovi documenti, nel 2016, col titolo “Pinelli. La finestra è ancora aperta” (ed.Colibrì). Così esordivano gli autori: “Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell’interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì”. Si capisce che cosa voglia dire: nel paesaggio, per decenni studiato metro per metro, di quel quarto piano della questura, di quella stanza di Calabresi che, svelata dal sopraluogo agli occhi del giudice Biotti (“Cristo! Non credevo che fosse così piccola!”), d’improvviso bisogna collocare 14 – o 10, o 15, non importa – nuovi personaggi, ingombrantissimi, perché sono i padroni del gioco, e quali padroni. Russomanno, per esempio, il giovane repubblichino, il volontario combattente nell’antiaerea nazista, il sovrintendente del terrorismo sudtirolese e altoatesino – un’altra “prova” di frontiera del terrorismo che avrebbe attraversato il resto d’Italia. Sono gli uomini che hanno guidato da lontano, dalla primavera, la macchinazione contro gli anarchici e personalmente contro Valpreda e Pinelli. Il lavoro di Maltini e Fuga solleva qualche attenzione, non abbastanza. Gli specialisti di questi studi seguono ciascuno il proprio filone, per lo più distratti. I lettori comuni sono distrattissimi, perfino i più sensibili al tema, quelli che “c’erano”, che hanno visto la propria vita toccata intimamente da quell’antico dicembre; ne hanno abbastanza. Occorrerà il rumore di un cinquantenario per riaccendere tutte le luci, e mancavano ancora anni. Ora, finalmente, l’effetto di quella scoperta si fa sentire in alcune delle migliori pubblicazioni, di giovani storici e storiche, e di anziani militanti di allora, come Enrico Deaglio, “La bomba. Cinquant’anni di piazza Fontana” (Feltrinelli), e Paolo Brogi, “Pinelli. L’innocente che cadde giù” (Castelvecchi). Il libro di Brogi enuncia la sua fonte fin dal sottotitolo: “Dalle carte sugli Affari Riservati nuova luce su depistaggi e montature”. Gli “archivi di via Appia” sono una discarica di più meno 150 mila fascicoli non catalogati, un “archivio parallelo” degli Affari riservati, che contengono informazioni e reperti sull’operato dei servizi segreti italiani. Li rinvenne e cominciò a studiarli Aldo Giannuli nell’ottobre 1996, poco dopo la morte del gran capo della malavita spionistica italiana Federico Umberto D’Amato. (Giannuli lavorava allora come consulente del giudice Salvini). Oggi – solo oggi – tutti quei documenti sono consultabili, così come l’archivio di Russomanno (e presto, vedremo quanto spolverate, le carte di Allegra). Una caratteristica peculiare è l’assenza dei documenti dal 12 al 16 dicembre. Nelle stesse carte del “Club di Berna”, minuziosissime nella registrazione di qualunque attentato, piazza Fontana è assente. (Queste assenze ricorrono puntuali: manca la parte di registrazione della microspia a casa di Allegra nel punto in cui parla con Russomanno, suo ospite, di Calabresi. Mancano, sullo stesso argomento, i fogli cari a Guido Salvini della “fonte Como”, un informatore infiltrato in una sezione milanese di Lotta Continua). Fino a Maltini e Fuga, dunque per 44 anni, si è discusso, denunciato, giudicato e condannato di una questura di Milano spigionata di quei “10 o 15” signori dagli Affari Riservati, Russomanno, Catenacci, Alduzzi e la sua “squadra 54”… Farò un esempio risentito: nel 2009 scrissi un libro cui tenevo molto, “La notte che Pinelli” (Sellerio). Studiai con tutto lo scrupolo di cui ero capace le carte dei processi che avevano riguardato Pinelli, e specialmente quelle che avevano preteso di mettere la parola fine al “caso” della sua morte, firmate da Gerardo D’Ambrosio. Argomentai, al di là della inaccettabile tesi che passò sotto il nome di “malore attivo”, errori documentabili del giudice, che aveva per esempio frainteso il racconto dell’ultimo giorno che costituiva l’alibi di Pinelli. Era il 1975, a D’Ambrosio premeva liberare la memoria di Pinelli dalle accuse mostruose che l’avevano colpito, e insieme liberare quella di Calabresi: lo fece consacrando la versione secondo cui Calabresi era uscito dalla stanza per andare dal suo capo, Allegra, e che in quella sua assenza Pinelli, col quale erano rimasti altri quattro poliziotti e un ufficiale carabiniere, era precipitato. Nel mio libro, tenni certo conto della testimonianza, così precisa (e mai smentita, quanto alle circostanze e alle parole dette a lui da Calabresi), di Valitutti. Scrissi che doveva “almeno” essere considerata quanto quella di ogni altro testimone. Tuttavia io stesso mi volli persuadere che nel tempo non breve dell’interrogatorio di Pinelli l’attenzione di Valitutti avesse potuto attenuarsi e impedirgli di notare il passaggio di Calabresi da un ufficio all’altro. Nell’ultima riga risposi alla domanda su che cosa fosse successo quella notte nella questura di Milano: Non lo so. Mi costò quella risposta. Il giudice, poi parlamentare, D’Ambrosio, commentando il mio libro, si lasciò sfuggire un lapsus impressionante. A confermare che Calabresi uscì dalla stanza, disse, c’è anche la testimonianza oculare del giovane anarchico Valitutti. La sua memoria aveva benevolmente rovesciato la cosa. Mi colpì allora e mi colpisce di più oggi. Mi servì, scrivere quel libro. Oltretutto, la lettura attenta delle carte di indagini e processi mi permise, in un libro supplementare, necessario come un pronto intervento, di ridicolizzare le invenzioni sulla doppia bomba il doppio attentatore il doppio taxi il doppio tutto, formulate nell’incredibile ignoranza di quelle carte: un segno dei tempi. E’ sempre stato un guaio il rapporto fra l’attore-testimone e lo storico: la longevità contemporanea l’ha aggravato a dismisura. Gli storici devono pur fare il loro mestiere, ma sono circondati dagli attori e dai testimoni, duri a morire e a rassegnarsi allo specchio deformante della storia. La storia contemporanea stenta sempre di più ad avvalersi della posterità. Basta saper aspettare, del resto. Torniamo al quarto piano, alle sue porte, alle sue finestre – una sola era illuminata, quella notte. Ci sono gli uomini di Roma. Qualcuno forse è in albergo, Russomanno forse a casa di Allegra, qualcuno starà sbrigando pratiche al piano di sotto, chissà. Qualcuno magari è nella stanza con Pinelli. Dunque tutto quello che avevamo pensato e detto, io nel mio libro, e tutti gli altri, nelle istruttorie, nelle sentenze, in altri libri, era tutto campato per aria. Erano sì e no due piccoli indiani, e gli altri otto grandi e grossi a spadroneggiare non visti. E tutti, tutti, mentivano. Perché tacere, come un sol uomo, perinde ac cadaver, la presenza di quei capi degli Affari Riservati, non è un’innocua omissione: è una menzogna. Qui però c’è un altro vero problema, e piuttosto ignorato. Perché qualcuno, prima dell’anarchico Maltini e dell’avvocato libertario Fuga, era venuto a conoscenza di quel dettaglio, l’esproprio della questura milanese e dell’indagine da parte degli Affari Riservati. Precisamente, due magistrati (almeno, e i loro superiori): Grazia Pradella, giovane sostituto della Procura di Milano che condusse dal 1995 fino al 1998 una nuova inchiesta su piazza Fontana, col collega Massimo Meroni. La signora Pradella ottenne dai suoi interrogati informazioni clamorose. Lo stesso Russomanno, interrogato lungamente e rigorosamente, dichiarò di essere stato a Milano “quando morì Pinelli”. E il commissario Pagnozzi, della questura di Milano (che quel 15 dicembre era in trasferta a Roma per accompagnare Valpreda), spiegò tranquillamente che Russomanno si era insediato nella stanza di Allegra, cui era stata aggiunta un’altra scrivania e un’altra sedia. Mi auguro che abbiate fatto un salto sulla vostra, di sedia. Io ho domande irresistibili, e non polemiche, salva la prova contraria. Pradella si occupava della strage e non di Pinelli (cose difficilmente scindibili, del resto). Non le è sembrato necessario, o almeno opportuno, chiedere a Russomanno: “Ma lei dov’era durante l’interrogatorio di Pinelli?” Perché allo stato dei fatti, Russomanno poteva essere al cinema, o alla scrivania di emergenza nella stanza di Allegra (dove Calabresi si sarebbe recato), o nella stanza stessa di Calabresi. E tutte queste ipotesi hanno esattamente lo stesso valore. Cosicché resta, a far pendere la bilancia, la testimonianza di Lello Valitutti. Se non fraintendo, queste risposte la sostituta Pradella le riceve nel 1996, a ridosso del ritrovamente dell’archivio-discarica dell’Appia. Nel 1997 il suo collega a Venezia, Carlo Mastelloni, che indaga ad amplissimo raggio sulla caduta dell’Argo 16, abbattimento o incidente, trova a sua volta argomenti che rimandano agli Affari Riservati, e interroga un altro alto dirigente, Guglielmo Carlucci, che menziona anche lui la presenza milanese dell’Ufficio, definendolo “padrone delle indagini”. E spiega che nell’Italia del 1969 gli uffici politici delle questure dipendono direttamente dall’Ufficio degli Affari Riservati! (Mastelloni e Pradella forse hanno condotto interrogatori comuni, mi scuso di non saperlo verificare). Dal 1996-97 al 2013, quando per la prima volta il pubblico, “gli Italiani”, come si dice infaustamente oggi, ricevono la notizia sugli Affari Riservati nella Milano che impacchetta Valpreda e defenestra Pinelli, sono passati almeno sedici anni. Per sedici anni, “gli Italiani”, quelli che hanno interesse alla cosa, hanno rimisurato metro per metro, passo per passo di poliziotti e anarchici, il quarto piano di via Fatebenefratelli senza urtare i 10 o 15 pezzi grossi. C’è una spiegazione? Erano forse tenuti, i magistrati che avevano raccolto quella notizia sconvolgente, al segreto? E D’Ambrosio, superiore di Pradella e corresponsabile dell’inchiesta e antico firmatario di una indagine e una sentenza su Pinelli che questa notizia inficia da capo a fondo, non ne è stato informato? E quando D’Ambrosio e Pradella vengono ascoltati a Roma dalla “Commissione sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, presieduta da Giovanni Pellegrino, il 16 gennaio 1997, e non ne parlano nemmeno lì (salvo che io mi sbagli), a che cosa è dovuto il loro silenzio? E’ l’udienza in cui i due magistrati denunciano duramente l’operato di Guido Salvini: capitolo, questo delle spasmodiche rivalità fra magistrati, che non so e non voglio nemmeno sfiorare qui. Una parte ingente del libro ultimo di Salvini e Sceresini (“La maledizione di Piazza Fontana”, Chiarelettere) ne offre un quadro raccapricciante. Si tratta nientemeno che delle mutue attribuzioni di colpe nell’aver impedito il raggiungimento della verità giudiziaria e la punizione degli autori della strage! Esiste dunque un segreto di Stato, e poi dei segreti di cui non si riesce a immaginare l’origine e il movente. La distrazione, forse. “Ah, ci eravamo dimenticati di dirvi che il 12 dicembre, e il 13 e il 14 e il 15, nella Questura di Milano c’erano gli Affari Riservati”. Perciò faceva caldo.   * Fonte: Adriano Sofri, pagina Facebook

L'articolo Stragi & segreti. Calabresi e Pinelli, quella sera a Milano che caldo faceva sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2019/12/stragi-segreti-calabresi-e-pinelli-quella-sera-a-milano-che-caldo-faceva/feed/ 0
Giuseppe Pinelli, mezzo secolo dopo https://www.micciacorta.it/2019/07/giuseppe-pinelli-mezzo-secolo-dopo/ https://www.micciacorta.it/2019/07/giuseppe-pinelli-mezzo-secolo-dopo/#respond Sat, 13 Jul 2019 09:47:30 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25549 Scaffale. «Pinelli l'innocente che cadde giù» di Paolo Brogi

L'articolo Giuseppe Pinelli, mezzo secolo dopo sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Mezzo secolo ci separa, ormai, dalla madre di tutte le stragi e dalle ingiustizie che ha portato con sé. Il 12 dicembre del 1969 una bomba esplode nella Banca nazionale dell’agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano: muoiono 17 persone, 88 sono i feriti. È LA PRIMA grande strage di una stagione che intorbidirà, di sangue e non solo, almeno un quindicennio di storia nazionale. Cinquant’anni dopo, ci ritorna Paolo Brogi, con il suo Pinelli, l’innocente che cadde giù (Castelvecchi, pp. 152, euro 17,50). Lo guardo è obliquo, ma l’osservazione è generale. Brogi sceglie un punto di vista e una vicenda specifica per tornare a raccontare la storia infinita di quella che fu icasticamente definita la «strage di Stato»: la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della Questura di Milano, la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, quando era in stato di fermo perché «gravemente indiziato» di essere partecipe dell’attentato. MA DALLA MORTE di Pinelli, lo sguardo subito si allarga alle cause della impunità della strage. Nella minuziosa ricostruzione delle carte e delle testimonianze sulla morte dell’anarchico milanese, si affacciano fin da subito azioni e attori dei depistaggi che hanno lasciato la strage orfana di responsabilità penali e politiche. All’indomani della strage («la sera stessa», dice beffardamente qualcuno di loro), la Questura di Milano era occupata dagli agenti dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno. EPPURE, nelle indagini sulla morte di Pinelli, la loro presenza non è neanche registrata. Si muovono come ombre in quelle stesse stanze in cui decine di fermati vengono trattenuti e interrogati. Fantasmi che torneranno alla luce solo negli ultimi svolgimenti delle indagini su Piazza Fontana e dintorni, ma mai messi in relazione a quelle ore in cui «l’innocente cadde giù». Eppure, gli uomini degli Affari riservati non furono estranei alla pista anarchica, al grande depistaggio che vide vittime prima Pinelli e poi Pietro Valpreda, a lungo il nemico perfetto cui attribuire le responsabilità di una strage che invece era stata voluta, eseguita e coperta a destra, da gruppi neofascisti e apparati deviati. Anzi, ne furono gli attori più solerti e consapevoli. Ma in quelle ore, era come se non ci fossero. IL LAVORO di Brogi si avvale, in particolare, della desecretazione di documenti riservati fino alla direttiva Renzi del 2014. Tra le altre cose, dalla seconda inchiesta sulla morte di Pinelli – quella svolta da Gerardo D’Ambrosio e che si concluderà con la fantasiosa tesi del «malore attivo», che avrebbe fatto cadere Pinelli dall’altra parte della finestra, nella stanza in cui si trovava al termine della lettura del verbale dell’interrogatorio – emerge un graffio su un dito di una mano del brigadiere Panessa, il più prossimo a Pinelli nel momento del «malore attivo», di cui egli stesso si era dimenticato per due anni e della cui rilevanza, comunque, nessuno gli ha mai chiesto conto. BUCHI, incongruenze, incoerenze che hanno segnato i due iter giudiziari, quello per la responsabilità della strage e quello per la morte di Pinelli. IL RACCONTO di Brogi si avvale, infine, delle testimonianze delle figlie di Pinelli, Claudia e Silvia, che all’epoca avevano 8 e 9 anni e che si porteranno dietro per tutta la vita, non solo l’improvvisa e inspiegata perdita del padre, ma anche l’essere state sue figlie, motivo di curiosità e di solidarietà nelle scuole e nella Milano degli Settanta, responsabilità di una memoria da quando la madre Licia ne ha passato loro il testimone. «In questi anni – scrive Claudia al padre – ci sei sempre stato e hai permesso incontri, sguardi, condivisioni … Molta strada è ancora da percorrere… ma resisteremo a queste ondate di xenofobia e razzismo… e continueremo a credere che un mondo nuovo… è possibile». * Fonte: Stefano Anastasia, IL MANIFESTO

L'articolo Giuseppe Pinelli, mezzo secolo dopo sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2019/07/giuseppe-pinelli-mezzo-secolo-dopo/feed/ 0
Le nuove leve del neofascismo e la rinascita di Avanguardia nazionale https://www.micciacorta.it/2018/12/le-nuove-leve-del-neofascismo-e-la-rinascita-di-avanguardia-nazionale/ https://www.micciacorta.it/2018/12/le-nuove-leve-del-neofascismo-e-la-rinascita-di-avanguardia-nazionale/#respond Thu, 13 Dec 2018 08:41:25 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25075 Nell'anniversario di Piazza Fontana. Il ruolo centrale di Ao negli attentati del dicembre 1969. L'organizzazione oggi si è ricostituita da tre anni, nella più assoluta indifferenza istituzionale

L'articolo Le nuove leve del neofascismo e la rinascita di Avanguardia nazionale sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

MILANO. Avanguardia nazionale fu sciolta per decreto, sulla base della Legge Scelba, per ricostituzione del partito fascista l’8 giugno 1976, tre soli giorni dopo la sentenza della settima sezione penale del Tribunale di Roma che aveva condannato 31 “avanguardisti” a 26 anni complessivi di reclusione. Due furono gli anni comminati al fondatore Stefano Delle Chiaie. Non si attese la conclusione dell’iter giudiziario che comunque sia in appello, nel 1981, che in Cassazione, nel novembre 1982, confermò le condanne.

Il ruolo di Avanguardia nazionale negli attentati del 12 dicembre 1969, segnatamente nella strage di piazza Fontana, è stato spesso sottovalutato. In primo piano, infatti, dal punto di vista giudiziario, finirono gli uomini di Ordine nuovo, a partire dalla cellula padovana di Franco Freda e Giovanni Ventura. Eppure alcuni fatti dimostrerebbero la centralità di questa organizzazione.

LA RIUNIONE DI PADOVA

Come noto gli inquirenti che si occuparono della “pista nera” indicarono come momento di svolta nell’escalation degli attentati del 1969, la riunione di Padova del 18 aprile. Quella in cui si decise di colpire in «luoghi chiusi» con ordigni potenziati posti in «contenitori metallici» che li avrebbero resi particolarmente micidiali. Dalle intercettazioni disposte dall’allora Procuratore della Repubblica Aldo Fais, si scoprì che a questa riunione di Ordine nuovo, era atteso «il camerata Pino». L’identità dell’ospite verrà svelata tre anni dopo da uno dei partecipanti, Marco Pozzan. Si trattava di Pino Rauti, il capo riconosciuto di Ordine nuovo. Ma insieme a Rauti arrivò un secondo personaggio, che Freda, rispondendo alle insistenze di Pozzan,confidò « È un uomo del Sid». Che a questa riunione avesse partecipato «un collaboratore del Sid», lo confermò anni dopo il generale Gianadelio Maletti. Si trattava di Guido Giannettini, reclutato fin dal 1966 dal Servizio informazione della difesa. A quell’incontro, dissero alcuni, vi intervenne anche come emissario di Stefano Delle Chiaie. D’altro canto nei documenti della Questura di Roma Giannettini era in quegli anni segnalato come «elemento di rilievo di Avanguardia nazionale».

«DELLE CHIAIE ERA PRESENTE!»

Sarà però Giovanni Ventura, il 17 marzo 1973, in un lunghissimo interrogatorio di undici ore, nel carcere di Monza, che confessò che alla riunione di Padova era invece presente in prima persona Delle Chiaie. Lo ribadì il 2 novembre in un confronto con lo stesso Freda: «Il Delle Chiaie a quella riunione» – disse – «era venuto». Era da anni amico di Freda e si era più volte incontrato con lui. Vuotando il sacco a metà, Ventura, parlò anche dei finanziamenti che venivano «con prevalenza assoluta» proprio «da Stefano Delle Chiaie».

Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio non gli credette giungendo alla conclusione che Delle Chiaie non poteva essere stato a Padova, avendo subito la mattina successiva una perquisizione domiciliare a Roma. Ma non andò a fondo. Un errore, visto che il commissario di polizia che eseguì quella perquisizione la effettuò alle 11 della mattina. Orari ferroviari alla mano, Delle Chiaie avrebbe potuto benissimo partire da Padova dopo mezzanotte ed essere nella sua abitazione prima delle 10. Lo sostenne, inascoltato, l’avvocato Odoardo Ascari al processo che si tenne nel 1978 a Catanzaro.

LE BOMBE DI ROMA

Ordine nuovo e Avanguardia nazionale a Padova decisero anche di spartirsi il territorio per le azioni terroristiche da compiere: l’organizzazione di Rauti al Nord e quella di Delle Chiaie al Centro-Sud. An, tra il settembre e il dicembre 1968 aveva già compiuto a Roma ben undici attentati, quattro con bombe. Ora si doveva alzare il tiro. Puntare alla strage.

Nel giorno in cui a Milano, alle 16.37, scoppiò la bomba in piazza Fontana, a Roma ne scoppiarono altre tre: una in un corridoio sotterraneo della Banca nazionale del lavoro (tra via Veneto e via di San Basilio) e due all’Altare della Patria. Alcuni testimoniarono di aver visto uomini di Avanguardia nazionale aggirarsi da quelle parti. Diversi furono anche gli esponenti neofascisti che nel corso degli anni addebitarono ad An quegli attentati. Qualcuno (Alfredo Sestili) fece anche il nome di Mario Merlino.

ANCORA GLI STESSI

Avanguardia nazionale si è ormai ricostituita da quasi tre anni nella più assoluta indifferenza istituzionale. Un’organizzazione a tutti gli effetti fuori legge. Il simbolo è rimasto lo stesso, l’Odal, una lettera dell’alfabeto runico a forma di rombo con i lati inferiori incrociati, espressione della continuità della stirpe, a suo tempo utilizzata anche da una divisione delle Waffen-SS. Anche i dirigenti sono rimasti gli stessi, a partire da Delle Chiaie, il capo incontrastato. Tra gli altri figura ancora lo stesso Mario Merlino, l’“agente provocatore” che si infiltrò tra gli anarchici. L’idea è quella di aprire sedi e mettersi a disposizione delle nuove leve del neofascismo. Già accade a Brescia dove si intimidisce chi denuncia la loro attività e dove, tra un saluto romano e l’altro, alle riunioni si sono fatti fotografare la candidata sindaca di Azione sociale/Forza nuova alle ultime elezioni amministrative e i leader dei comitati più attivi nel minacciare i profughi e chi li accoglie.

* Fonte: Saverio Ferrari, IL MANIFESTO

L'articolo Le nuove leve del neofascismo e la rinascita di Avanguardia nazionale sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/12/le-nuove-leve-del-neofascismo-e-la-rinascita-di-avanguardia-nazionale/feed/ 0
Squarci di verità sulla morte di Pinelli https://www.micciacorta.it/2015/12/squarci-di-verita-sulla-morte-di-pinelli/ https://www.micciacorta.it/2015/12/squarci-di-verita-sulla-morte-di-pinelli/#respond Wed, 16 Dec 2015 09:30:18 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21006 Volo senza appigli. Una nuova ipotesi riemerge dalle carte dimenticate dell'inchiesta su Argo 16. L'anarchico, aggredito durante l'interrogatorio con la falsa confessione di Valpreda, avrebbe subito una pressione anche fisica

L'articolo Squarci di verità sulla morte di Pinelli sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ferroviere di 41 anni, storico dirigente del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, era stato fermato dal commissario Luigi Calabresi la sera del 12 dicembre, qualche ora dopo la strage di piazza Fontana, e trattenuto illegalmente. Come più volte è stato raccontato, dapprima si sostenne, da parte dei dirigenti della questura, che Pinelli era implicato nella strage di piazza Fontana, poi che, sentendosi perduto, si sarebbe suicidato. La conclusione giudiziaria fu scandalosa. La pietra tombale fu posta nell’ottobre 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza di proscioglimento, unica nella giurisprudenza italiana, per cui non si trattò né di omicidio né di suicidio. Giuseppe Pinelli, in spregio alle più elementari leggi della fisica e della medicina legale, causa un «malore attivo» fu preda, secondo questa ricostruzione, di un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio», che innescando «movimenti scoordinati» lo proiettò letteralmente fuori dalla finestra.

Una vergognosa invenzione

Un fenomeno senza precedenti, mai più verificatosi in nessun altro luogo e in nessun altro Paese. Ma solo quella notte, a quell’ora, in quell’ufficio della questura di Milano, vittima un ferroviere anarchico. Una ricostruzione palesemente inventata al solo scopo di non portare a processo i poliziotti e i carabinieri responsabili, tra loro il commissario Luigi Calabresi, come testimoniò Pasquale Valitutti, un altro anarchico, che lo vide entrare e non uscire da quell’ufficio prima del «volo» di Pinelli. Un atto di vergognosa sottomissione della giustizia. Da allora sono state formulate diverse ipotesi sulla fine dell’anarchico. Alcune decisamente fantasiose. Una, in particolare, tra le ultime, ha lasciato tutti esterrefatti. A esternarla non uno qualsiasi, ma addirittura un ex commissario di Polizia, Giordano Fainelli, presente quella notte in questura. In un’intervista rilasciata all’agenzia giornalistica «Il Velino», nel luglio 2006, raccontò che «Pinelli era stato lasciato completamente solo» e che «intorno a mezzanotte» gli «venne incontro il collega Mainardi concitatissimo» che gli disse «è scappato Pinelli, non si trova più». Ma la fuga si era conclusa tragicamente: l’anarchico, attaccatosi, per scappare, alla ringhiera di una porta-finestra (secondo Fainelli del terzo piano, mentre Pinelli precipitò dal quarto) era scivolato schiantandosi nel cortile sottostante. Il motivo di questo maldestro tentativo il fatto che non potesse «più negare il suo coinvolgimento» nei precedenti attentati in agosto. Incredibile che a raccontare una frottola di questa portata sia stato un funzionario di polizia, che non solo ha fatto finta di non sapere che per quegli attentati di agosto furono poi condannati con prove inoppugnabili i fascisti di Ordine nuovo, ma che in tutti questi anni ben si è guardato di riferire il suo racconto a un magistrato. Uno squarcio di verità, passato sotto silenzio, c’è stato consegnato, invece, da un’altra inchiesta, questa sì incredibilmente dimenticata. Ci riferiamo a un interrogatorio accluso agli atti dal giudice veneziano Carlo Mastelloni nel corso della sua indagine riguardante l’aereo militare C-47 Dakota, in sigla Argo 16, a disposizione dei servizi segreti italiani, caduto il 23 novembre 1973 a Marghera, in cui persero la vita quattro membri dell’equipaggio. Si ipotizzò il sabotaggio da parte del Mossad israeliano come atto di ritorsione per la politica filo araba italiana. Lo stesso velivolo, alcune settimane prima, era stato, infatti, utilizzato per riportare in Medio Oriente cinque palestinesi fermati a Ostia mentre preparavano un attentato contro un aereo della compagnia di bandiera El Al. Ebbene, in una lunga deposizione dell’ex maresciallo Giuseppe Mango, dal 1965 presso la direzione centrale del Ministero dell’interno, rilasciata il 19 aprile 1997 e riguardante il funzionamento dell’Ufficio affari riservati, si parlò anche della morte di Giuseppe Pinelli. Antonino Allegra, il dirigente dell’Ufficio politico della questura di Milano «fu convocato a Roma da D’Amato», il direttore della Divisione affari riservati, «ed entrambi si recarono da Vicari», l’allora capo della Polizia, così disse Giuseppe Mango.

Una ricostruzione chiarificatrice

«Allegra sosteneva che Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù». Una ricostruzione nuova, mai avanzata in precedenza, in palese contrasto con le deposizione di tutti coloro che si trovavano in quell’ufficio, accompagnata da un ulteriore elemento chiarificatore. «Dal D’Amato medesimo seppi che al Pinelli era stata contestata una falsa confessione di Valpreda, notizia improvvisamente portata da qualcuno, credo dal capitano dei carabinieri il quale aveva fatto irruzione nella stanza piena di personale della questura». Evidente la concatenazione dei due eventi. Pinelli di spalle alla finestra era stato violentemente aggredito da chi, attraverso una dichiarazione inventata ad arte, gli contestava la colpevolezza degli anarchici. Una pressione anche fisica. Da qui la caduta nel vuoto. Ma anche la spiegazione dell’assenza sulle sue mani e sulle sue braccia di abrasioni. In quella posizione era caduto all’indietro, a corpo morto. Non aveva neanche potuto tentare di aggrapparsi alle sporgenze del muro. Aveva picchiato sul cornicione sottostante ed era poi finito nel cortile. Forse le cose andarono proprio così.

L'articolo Squarci di verità sulla morte di Pinelli sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/12/squarci-di-verita-sulla-morte-di-pinelli/feed/ 0