Giorgio Napolitano – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 12 Dec 2019 08:31:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La clemenza «politica» di Mattarella per gli agenti Cia https://www.micciacorta.it/2015/12/la-clemenza-politica-di-mattarella-per-gli-agenti-cia/ https://www.micciacorta.it/2015/12/la-clemenza-politica-di-mattarella-per-gli-agenti-cia/#respond Sun, 27 Dec 2015 08:08:20 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21031 La decisione di Mattarella ha lo scopo di rafforzare le alleanze necessarie per sbloccare la complessa trattativa per il rientro dei militari italiani detenuti in India

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Mattarella

Non è la prima volta che accade. Il Presidente Napolitano aveva già concesso la grazia al colonnello Joseph Romano, coinvolto nel sequestro di Abu Omar. Ora il suo successore Mattarella firma l’atto di clemenza nei confronti di due cittadini americani coinvolti anch’essi nella vicenda dell’imam egiziano. Nessuno di essi è mai stato detenuto in Italia, vivono nel proprio paese liberi da ogni accusa, protetti dal governo degli Stati Uniti. La concessione delle grazie, pertanto, non aprirà le porte delle carceri, che non sono state mai varcate. Questo fa ritenere la decisione di Mattarella un fatto prevalentemente simbolico, posto in essere più che altro allo scopo di rafforzare le alleanze necessarie per sbloccare la complessa trattativa per il rientro dei militari italiani detenuti in India. Almeno così raccontano le cronache. Eppure alcune domande di un certo peso devono essere poste. La questione più delicata riguarda la legittimazione costituzionale dell’atto adottato. Secondo la Corte costituzionale, infatti, il potere presidenziale di grazia può essere esercitato solo «per eccezionali ragioni umanitarie», non potendosi fondare su ragioni esclusivamente politiche (sentenza n. 200 del 2006). L’atto di clemenza nei confronti di due cittadini americani non ha alcuna ragione umanitaria, bensì esclusivamente politico-diplomatica. Come è possibile una così evidente discordanza tra i due custodi della costituzione (Corte costituzionale e Presidente della Repubblica)? Certo la decisione della Consulta non è esente da colpe. Immaginare che la grazia possa essere concessa solo per risolvere casi umanitari non ha molto senso, l’atto di clemenza contenendo già in sé una sua politicità. Eppure non può ammettersi che essa sia completamente rimessa alla libera volontà del Capo dello Stato. Se si vuole estendere il potere presidenziale anche ai casi politicamente sensibili diventa necessario prevedere controlli sul suo operato e limiti al suo esercizio. La Corte ha – forse un po’ troppo sbrigativamente – ritenuto l’atto di concedere la grazia «formalmente e sostanzialmente» presidenziale, facendo così venir meno ogni controllo istituzionale, ma ciò non vuol dire che si sia trasformato in un potere senza limiti. L’indicazione della natura «umanitaria», se non può essere intesa come esclusiva, deve almeno essere ritenuta parte essenziale della valutazione presidenziale (una condizione necessaria, anche se non necessariamente sufficiente); può venir bilanciata con le ragioni politiche, ma non può essere completamente elusa. A rigore, dunque, si dovrebbe escludere che si possa adottare un atto di clemenza privo di alcun rilievo umanitario. Come, invece, è stato nei casi che hanno coinvolto i cittadini americani. La via prescelta dalla presidenza è stata un’altra, non essendosi operato alcun bilanciamento tra ragioni umanitarie e valutazioni politiche. In questa prospettiva credo ci si debba chiedere – a maggior ragione – quali diverse cautele debbano circondare il potere presidenziale di grazia. Il comunicato del Quirinale mostra – o almeno così appare – una certa prudenza e consapevolezza della delicatezza costituzionale dell’atto che viene compiuto: «la decisione – si legge — tiene conto del parere favorevole formulato dal Ministro della Giustizia a conclusione della prevista istruttoria», a segnalare una consonanza di vedute con il Governo. Poi, però, nel merito, la decisione assunta risulta tutt’altro che cauta. L’atto di clemenza si sostanzia in un intervento diretto a modificare le decisioni adottate dal potere giudiziario per la salvaguardia di equilibri politici internazionali di cui si ritiene ci si debba far garanti anche a scapito delle ragioni dello stato di diritto. Il Presidente ha ritenuto, infatti, di dover «riequilibrare» il trattamento sanzionatorio inflitto ai due cittadini americani a seguito di un regolare processo svoltosi nelle sedi giudiziarie competenti che ha coinvolto altre ventiquattro persone tutte condannate per il medesimo reato. Dunque, sostituendosi ai giudici, il presidente ha effettuato una nuova valutazione dei fatti, della loro gravità, ed ha stabilito una diversa sanzione. Ma non è questo il punto più delicato (la grazia interviene sempre su sentenze passate in giudicato), quel che essenzialmente rileva è la motivazione che si pone alla base del provvedimento di clemenza: «nella valutazione delle domande di grazia – scrive il Quirinale — il Capo dello Stato ha in primo luogo considerato la circostanza che gli Stati Uniti hanno, sin dalla prima elezione del Presidente Obama, interrotto la pratica delle extraordinary renditions, giudicata dall’Italia e dalla Unione Europea non compatibile con i principi fondamentali di uno Stato di diritto». Questo dimostra come si sia passati dalla grazia umanitaria (secondo l’indicazione della Corte costituzionale) alla grazia esclusivamente politica. Se la prima poteva rappresentare una visione riduttiva del potere che di fatto viene esercitato dal Capo dello Stato, la seconda rischia di trascinarlo in un terreno non suo. Quel che ci si chiede, in particolare, è se l’istituto della grazia individuale, che deve riguardare i singoli fatti e le posizioni personali degli individui condannati, possa trasformarsi in uno strumento al servizio della politica internazionale. Un ultimo interrogativo. La presidenza Mattarella si è sin qui caratterizzata per sobrietà, lontana dalla ribalta e dal protagonismo che aveva qualificato le ultime presidenze. Toni bassi nel tentativo di riconciliare le parti e non esasperare gli animi. Un guardiano silente, auspicabilmente non assente. Perché allora questa così decisa presa di posizione?

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La narrazione delle foibe https://www.micciacorta.it/2015/12/la-narrazione-delle-foibe/ https://www.micciacorta.it/2015/12/la-narrazione-delle-foibe/#respond Wed, 16 Dec 2015 11:23:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21009 grave lo scambio di una foto più volte diffusa come «documento» delle violenze jugoslave in cui al contrario sono rappresentati soldati del regio esercito che fucilano civili sloveni

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Saggi. «Fenomenologia di un martirologio mediatico» di Federico Tenca Montini, per le edizioni Kappa VU. La messa in scena della storia attraverso una serie di immagini e racconti Quali processi comunicativi costruiscono una «narrazione» sostitutiva della storia? Come l’immaginario pubblico viene modellato e definito intorno a codici comunicativi empatici? Quale finalità politica sottende a una operazione di questa natura? A queste domande prova a rispondere un libro ben scritto da Federico Tenca Montini, dottorando presso l’Università di Teramo, che al netto di un titolo impegnativo, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, (Edizioni Kappa VU), presenta un testo agile che affronta in modo originale i processi di composizione del «discorso pubblico» sulla questione del confine orientale. Senza soffermarsi troppo sui permanenti temi polemici di una vicenda largamente abitata da toni propagandistici, il saggio propone più piani comparativi come misura discorsiva del ragionamento storico e proprio attraverso questa chiave di lettura restituisce un’interpretazione complessiva del come si sia giunti agli avvitamenti di significato e senso dello storia cui abbiamo assistito nel decennio delle «giornate della memoria» in Italia. Dai voti bipartisan in Parlamento alle fiction; dai discorsi celebrativi dei presidenti della Repubblica alle messe in scena teatrali; dalla retorica della memoria condivisa all’oblio della storia del fascismo tutto ha concorso da un lato alla semplificazione della grammatica pubblica (che sottrae a categorie di già complessa interpretazione come genocidio, pulizia etnica o discriminazione il loro tratto peculiare e distintivo) e dall’altro, all’affermazione di una lettura vittimaria della storia nazionale che ha trovato il suo punto di massima forzatura nella questione delle foibe e del confine orientale, da dove il ventennio mussoliniano è espunto e sostituito da una omissiva categoria di «italianità». In questo modo si è progressivamente assistito a una continua e faticosa torsione che non ha mancato di fornire spunti, a volte gravi, altre grotteschi: celebre l’incidente diplomatico del 2007 tra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il capo del governo croato Stipe Mesic all’indomani del primo intervento dell’ex comunista al Quirinale per la giornata del 10 febbraio; grave lo scambio di una foto più volte diffusa come «documento» delle violenze jugoslave in cui al contrario sono rappresentati soldati del regio esercito che fucilano civili sloveni, il più goffo episodio si registrò negli studi Rai della trasmissione di Bruno Vespa; surreale la sovrapposizione tra Shoah e foibe presentata da manifesti pubblici di diversi comuni (che il libro di Tenca Montini riproduce in appendice) che però serve a mostrare il significato dell’operazione mediatica ovvero l’assimilazione valoriale del conflitto fascismo/antifascismo declinato attorno al paradigma della condanna della violenza «da qualsiasi parte provenga e di qualsiasi colore sia». La risultante visiva è stata la pianificazione di una messe di articoli, film-tv, pubblicistica varia e improbabili dibattiti televisivi che dal 2004, anno dell’istituzione per legge del «giorno del ricordo», ha investito il paese riuscendo però soltanto a comunicare dei messaggi senza mai informare realmente sui fatti, tanto che se soltanto il 6% dei maturandi scelse il tema di storia sulle foibe negli esami del 2010 più di un italiano su due dichiara di non conoscere le vicende delle foibe e dell’esodo. Se da un lato, tali scarni riscontri non rappresentano certamente una novità in termini di conoscenza della storia da parte degli italiani, dall’altro è l’assenza di un contesto narrativo completamente «raccontato» e «raccontabile» il fattore che sembra aver reso strutturalmente debole il radicamento nel senso comune del «martirologio mediatico». L’impossibilità, vista la natura vittimistica della «operazione foibe», di ricostruire i crimini di guerra italiani nei Balcani e, più in generale, di porre il fascismo come perno del ragionamento storico ha rappresentato da sempre il vizio d’origine mai superato di una ricorrenza che già nella stessa definizione della data in cui viene celebrata (anniversario della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947) non nasconde la sua contraddizione implicita. Tuttavia più che una contestazione di legittimità il lavoro di Tenca Montini, e questo appare il suo pregio maggiore, si configura come uno strumento molto utile per diffidare, decrittandola culturalmente, della costruzione mediatica del racconto del nostro passato.

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Il film La prima linea. La censura democratica https://www.micciacorta.it/2015/03/il-film-la-prima-linea-la-censura-democratica/ https://www.micciacorta.it/2015/03/il-film-la-prima-linea-la-censura-democratica/#respond Sat, 21 Mar 2015 16:01:59 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18993 l'introduzione di Sergio Segio alla seconda edizione del suo libro Miccia corta. Una storia di Prima linea, uscita nell'ottobre 2009

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«Oltre quattro anni fa, licenziando questo libro, ho provato una sensazione di soddisfazione: quella di aver portato a termine ciò che si ritiene un proprio dovere, un impegno morale. Il dovere era quello della memoria. L’impegno era riferito a una storia collettiva, troppo spesso negata, rimossa o mistificata. Talvolta anche da chi l’ha vissuta in prima persona».

Comincia così l’introduzione di Sergio Segio alla edizione del suo libro Miccia corta. Una storia di Prima linea, uscita nell’ottobre 2009, per le edizioni di DeriveApprodi.

Nella nuova introduzione, l’autore riepiloga e documenta la vicenda del film La Prima Linea, assai liberamente tratto dal suo libro, ma fortemente condizionato da polemiche, censure e autocensure da parte di sceneggiatori, regia e produzione, tanto da spingere Segio a non riconoscerlo e a prendere le distanze:

«Il film La prima linea è stato sottoposto a pressioni, intimidazioni e censure che non sarebbero state tollerate in nessun altro paese democratico. Perché, ormai, si vuole sia questa la Storia, l’unica storia da raccontare di quegli anni: quella che dice della ferocia e dell’esclusiva responsabilità delle organizzazioni armate di sinistra. Così che tutti continuino a guardare il dito, dimenticandosi della luna, vale a dire degli “armadi della vergogna” e della realpolitik delle istituzioni e dei governi della Prima Repubblica. Armadi ben altrimenti zeppi di scheletri. E così che Scamarcio, nel film, possa infine assumersi la totalità degli errori e delle responsabilità, che andrebbero invece assai largamente condivise.
Come quasi sempre nella storia, il rancore e la vendetta esigono personificazione, capri espiatori, figure simboliche da mandare al rogo, o almeno al linciaggio morale, se non a quello fisico. È quello che è successo e che sta succedendo», conclude l’introduzione.

Scarica il file dell’introduzione

Segio-introduzione-miccia-corta-2a

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Pinelli e la revisione della Storia. Le tappe di un delitto perfetto https://www.micciacorta.it/2009/05/pinelli-e-la-revisione-della-storia-le-tappe-di-un-delitto-perfetto/ https://www.micciacorta.it/2009/05/pinelli-e-la-revisione-della-storia-le-tappe-di-un-delitto-perfetto/#respond Sat, 09 May 2009 06:20:13 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25849 La decisione del Capo dello Stato di invitare (anche) Licia Pinelli alla Giornata della Memoria del 9 maggio rappresenta un ulteriore passo verso la revisione della Storia italiana degli anni Settanta e in generale della seconda metà del Novecento

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La decisione del Capo dello Stato di invitare (anche) Licia Pinelli alla Giornata del 9 maggio rappresenta – anche al di là delle intenzioni – un ulteriore passo verso la revisione della Storia italiana degli anni Settanta, ma più in generale della seconda metà del Novecento. Forse l’ultima, decisiva, tappa di un percorso di allontanamento dalla verità, al contrario di quel che ha titolato un quotidiano. Un percorso che muove da lontano. 1) La prima tappa Punto d’avvio è stato quello di una falsificazione semantica (riconosciuta come tale, peraltro, da uno dei suoi principali artefici dell’epoca, Francesco Cossiga: cfr. intervista in “Sette” del “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2002). I sommovimenti sociali degli anni Settanta, dei quali la lotta armata è stata una – parziale – espressione e dai quali le organizzazioni armate hanno preso le mosse (in particolare Prima Linea, che è stata interna al movimento del 77, mentre le BR, con cinica logica da partito, ne hanno fagocitato la crisi, successivamente e grazie al sequestro e uccisione di Aldo Moro), sono stati, tout court, definiti «terrorismo». La violenza politica e il conflitto sociale radicale e anti istituzionale sono stati sovrapposti ed equiparati alla lotta armata. La lotta armata di sinistra è stata definita terrorismo. Il terrorismo, invece, era quello della destra, nella sua specifica versione stragista, che particolarmente in Italia, in quegli anni, è stata la strategia lucidamente e sanguinosamente utilizzata dai gruppi della destra radicale, finanziati, appoggiati e utilizzati da ambiti della destra atlantista e dai governi (e dagli apparati militari e di intelligence) dittatoriali che circondavano allora l’Italia: Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia. Nonché protetti e utilizzati dai servizi segreti, da apparati del ministero dell’Interno e da settori delle forze politiche e di governo italiani. Come esplicitamente teorizzato in un convegno del 1965 (vedi nota 1), l’anno dopo del tentato golpe, cosiddetto “Piano Solo” (vedi nota 2). Un fatto, questo, acclarato (anche se prontamente rimosso e silenziato). Ammesso persino da un ministro dell’Interno dell’epoca, Paolo Emilio Taviani. Più volte ministro e vicepresidente del Consiglio, tra i più potenti esponenti Dc, Taviani, già “partigiano bianco”, fu tra i padri della struttura occulta Gladio; quando Gladio verrà scoperta, nel 1991, Cossiga lo nominerà prontamente senatore a vita, per metterlo al riparo da possibili incriminazioni. Ebbene, secondo Taviani (le cui memorie sono state pubblicate solo dopo la morte, avvenuta nel 2001), la strage sul treno Italicus (4 luglio 1974, 12 morti e 48 feriti) vide la responsabilità di agenti alle dipendenze del ministero, sia pure assunti in una fase precedente da un suo collega, il democristiano Restivo. Giulio Andreotti ha commentato così le memorie di Taviani: «Di particolare rilievo è la rievocazione del decreto di scioglimento del gruppo estremista di destra “Ordine Nuovo”, che Taviani adottò in dissenso da Moro. […] C’è però una pagina di Taviani da sottolineare relativa ai servizi deviati. Racconta che, come corollario della liquidazione coatta dei neofascisti, mandò a casa agenti di complemento e confidenti che erano stati assunti nel periodo ministeriale di Restivo. Alcuni di questi divennero schegge impazzite e a essi vengono ricondotti episodi gravissimi, come la strage dell’Italicus» (Giulio Andreotti, Le memorie di Taviani, Editoriale della rivista “30 giorni”, giugno 2002). Per farla breve: nella storia di questo Paese, il terrorismo è stato prerogativa delle destre e delle forze statali che diedero vita alla strategia della tensione. La quale è un’articolazione della direttiva del generale USA Westmoreland (vedi nota 3) e il cui primo atto fu la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, che provocò 17 vittime e quasi cento feriti. Giuseppe Pinelli fu la diciottesima vittima di quella strage (nell’esplosione della Banca morirono 16 persone, ma un ferito deceduto in seguito, portò il totale a 17). In questo senso, sì, fu una vittima del terrorismo, ma del terrorismo di Stato. La paziente e tenace falsificazione semantica, a decenni di distanza dai fatti, e dalla loro genuina memoria, ha fatto sì che è ormai sedimentata nell’opinione pubblica e nel senso comune l’equiparazione: lotta armata di sinistra = terrorismo; stragismo = terrorismo, dunque stragismo = lotta armata di sinistra. Tanto che numerosi sondaggi e inchieste hanno dimostrato che l’opinione prevalente dei giovani nelle scuole sia che le stragi di piazza Fontana, di piazza della Loggia o della stazione di Bologna siano state opera delle Brigate Rosse. Non ne sono state fatte a livello di popolazione generale, ma sicuramente darebbero analoghi, se non peggiori, risultati. Viceversa, tra le molle che portarono alla nascita delle organizzazioni armate di sinistra vi fu – non solo ma anche – il contrasto dello stragismo e dei tentativi golpisti e autoritari di cui le stragi furono strumento.   2) Seconda tappa Il secondo, determinante, passaggio è stato il varo della legge 4 maggio 2007, n. 56, promulgata da Napolitano. La legge ha istituito il «Giorno della memoria, dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice». E così recita: «La Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell'uccisione di Aldo Moro, quale “Giorno della memoria”, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice». Si ribadisce così l’assunto: il terrorismo, la lotta armata e le stragi sono la stessa cosa; il terrorismo è (solo) quello di sinistra, quello che ha ucciso Aldo Moro.   3) Terza tappa Nel suo discorso del 9 maggio 2008, il Capo dello Stato ricorda non solo le vittime del terrorismo e delle stragi, ma «anche le vittime causate da fatti di diversa natura, dal disastro di Ustica all'intrigo delittuoso della Uno Bianca, ai caduti nell'adempimento del loro dovere e ai semplici cittadini, uomini e donne, che hanno perso la vita in torbide circostanze, su cui non sempre si è riusciti a fare pienamente chiarezza e giustizia. Più in generale, mi inchino a tutti i caduti per la Patria, per la libertà e per la legalità democratica, e dunque – come dimenticarle ! – alle tante vittime della mafia e della criminalità organizzata». Così che, in un’opinione pubblica già resa convinta dalla annosa falsificazione semantica che il terrorismo e le stragi siano state opera delle (sole) organizzazioni armate di sinistra, si radica il messaggio che a quel terrorismo (dunque alle organizzazioni armate di sinistra) sono addebitabili anche le vittime di Ustica (27 giugno 1980, 81 morti a causa della precipitazione di un aereo, che successivamente ha visto alacremente all’opera servizi segreti e militari, italiani e non solo, per depistare e garantire impunità) e quelle dell’Uno bianca (eseguite da una banda di poliziotti, che ha prodotto 24 morti, 102 feriti), nonché le tante vittime delle mafie. Nella stessa occasione il Capo dello Stato chiede esplicitamente che gli ex terroristi (vale a dire i militanti delle organizzazioni armate di sinistra) stiano zitti e che nessuno offra più «tribune» a «simili figuri». Un invito perentorio cui tutti i media si allineano. Da allora non sono più uscite interviste a ex terroristi, se non paradossalmente per fare loro dire che gli ex terroristi debbono stare zitti (sic!). Così l’intervista di Massimo Numa su “La Stampa” del 25 agosto 2008 al brigatista in semilibertà Francesco Pagani Cesa, a suo tempo “irriducibile”, che ora gestisce un giornale del carcere. Gli chiede il giornalista: «Sul suo giornale non ha mai pensato di recensire libri o film sulle Br? L'ultimo film, il "Sol dell'Avvenire", tratto dal libro di Alberto Franceschini, ha sollevato polemiche...». Risponde: «Non li recensirei, né, confesso, li andrei a vedere. «Il silenzio, per me, è stato un dovere. […] Sono contrario al "reducismo professionale", sul modello di Sergio Segio, Adriana Faranda e Susanna Ronconi. […] Nel percorso di alcuni ex brigatisti c’è questa insana voglia di una massima esposizione. Io ho avuto moltissimi inviti a partecipare a trasmissioni tv, a rilasciare interviste e quant'altro. Insomma, riapparire e quindi esistere». Così anche Rita Algranati, condannata per il sequestro Moro, a lungo latitante e ora in carcere perché arrestata nel 2004 in Egitto. Intervistata da Giovanni Bianconi sul “Corriere della Sera” del 14 ottobre 2008 dichiara: «Il fastidio per il protagonismo di molti ex brigatisti, sinceramente, io lo condivido». Insomma, l’editto funziona. Assieme agli eventuali «protagonismi» di qualcuno, si inibisce qualsiasi lettura del passato difforme da quella ufficiale e istituzionale. Chiarisce il Capo dello Stato: «Non dovrebbero dimenticare le loro responsabilità morali tutti quanti abbiano contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, o abbiano offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali». E, del resto, questo suo discorso, significativamente, è stato allegato agli atti della Commissione del ministero dei Beni culturali che ha convocato le associazioni delle vittime del terrorismo, delle stragi e della mafia (sic!) in un’istruttoria tesa a «porre robusti paletti», vale a dire censurare, il film su Prima linea tratto dal libro “Miccia corta”. Illuminanti, e sconvolgenti in un paese normale, i verbali dell’istruttoria voluta dal ministro Sandro Bondi (cfr. http://www.cinema.beniculturali.it/news/2009/Dossier_la_prima_linea/3all_3.pdf). Dunque: silenzio, nessuna indulgenza, nessuna motivazione o attenuante. E soprattutto nessun dubbio sulle verità ufficiali, le uniche che possono esprimersi e trovare spazio.   4) Quarta tappa In questi anni, qualcuno aveva flebilmente annotato che parevano esserci «vittime di serie A e vittime di serie B». Così Lydia Franceschi: «Mi sono chiesta e mi chiedo, soprattutto oggi dopo il 9 maggio, ma il dolore appartiene solo a certe categorie di parenti? Nell'Etica di questo Stato di Diritto noi parenti delle vittime delle forze dell'ordine abbiamo il diritto al riconoscimento del nostro dolore oppure siamo i reietti di questo paese? […] Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, i morti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Battipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giuseppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi, Pierfrancesco Lorusso...Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con la vita l'ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale […] Questi sono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo di ogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. ESSI RAPPRESENTANO LA NON-MEMORIA DI QUESTA NAZIONE». Così Adriano Sofri: «Franco Serantini, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fu massacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?» (Il Foglio, 26 maggio 2007) E così pochissimi altri. Ora, con la decisione di invitare Licia Pinelli alla cerimonia del 9 maggio, pare simbolicamente iniziare a colmarsi quella evidente lacuna. E può darsi che questa sia la genuina, e nobile, intenzione di Giorgio Napolitano. Eppure, per quanto sin qui detto, questo gesto di attenzione diventa obiettivamente una tappa conclusiva di una lettura di quegli anni che, gettando ogni responsabilità sul terrorismo (vale a dire sulle organizzazioni armate di sinistra), contemporaneamente e così facendo assolve (autoassolve) ogni responsabilità istituzionale nella strategia della tensione, che ebbe lo stragismo come suo principale strumento. Insomma, quegli strateghi e quegli esecutori (pezzi di servizi segreti, Ufficio Affari riservati del Viminale, pezzi di potere politico e di istituzioni): hanno compiuto il delitto perfetto. Non solo si sono garantiti l’impunità, ma hanno fatto in modo che dei loro delitti venisse incolpato qualcun altro, a furor di popolo e di disprezzo pubblico. Beninteso: i terroristi (vale a dire i militanti delle organizzazioni armate di sinistra), non sono stati innocenti. Tutt’altro. Le diciassette vittime di piazza Fontana (e delle tante altre stragi, l’unico capitolo impunito dei cosiddetti anni di piombo) sono vittime sì del terrorismo, ma di un terrorismo di Stato (dallo Stato coperto e utilizzato). E così la diciottesima: Pino Pinelli. Ora, fingendo di onorarlo, ne uccidono anche l’identità e la memoria.   Note Nota 1. 3-5 maggio 1965, convegno sulla guerra rivoluzionaria: L’istituto di studi strategici Alberto Pollio organizza un convegno a Roma, presso l’Hotel Parco dei Principi, finanziato dallo Stato Maggiore dell’esercito. Il tema è quella della “guerra rivoluzionaria”. Presenti magistrati e alte cariche militari, uomini dei servizi segreti ed esponenti dell’ex Repubblica Sociale Italiana, molti neofascisti. Tra i relatori, Guido Giannettini, Pino Rauti, Giorgio Pisanò, Giano Accame, Pio Filippani Banconi. Presenti anche i neofascisti Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino. Alcuni degli interventi teorizzano anche per l’Italia l’utilizzo delle tattiche della “guerra non ortodossa”, tanto che da più parti questo convegno viene individuato come l’atto di nascita della strategia della tensione. Nota 2. luglio 1964, Piano Solo: Progetto di svolta autoritaria nel governo politico del Paese perseguito dal comandante dei carabinieri, il generale Giovanni De Lorenzo – a lungo alla direzione del SIFAR, il servizio segreto dell’esercito –, sostenuto dal presidente della Repubblica Antonio Segni, in opposizione all’ipotesi di un governo di centro-sinistra con contenuti sociali avanzati. Il piano era stato messo a punto da De Lorenzo e illustrato a un gruppo di ufficiali già nei primi mesi del 1964. Avrebbe dovuto contare su tre divisioni dei carabinieri per complessivi 30.000 uomini (“Piano Solo”, perché da eseguirsi a opera dei soli carabinieri) che avrebbero assunto il governo dell’ordine pubblico, occupato le prefetture, la RAI, le sedi istituzionali e dei partiti, arrestato e deportato in appositi campi in Sardegna gli oppositori e gli esponenti della sinistra. Le liste di persone di sinistra da “enucleare” derivavano da una massiccia schedatura di 157.000 persone e 40.000 movimenti, organizzazioni, associazioni e gruppi vari, realizzata negli anni precedenti. A capo del nuovo esecutivo sarebbe dovuto andare Cesare Merzagora, presidente del Senato, sostenuto dal mondo industriale e finanziario del Nord d’Italia. Il progetto di colpo di Stato - o di soluzione “gollista” alla crisi in atto, da attuarsi con misure straordinarie di ordine pubblico - rientra a seguito della rinuncia del PSI di Pietro Nenni - che nell’occasione parla di «tintinnare di sciabole» - nel perseguire un programma particolarmente riformatore. Così, dopo le dimissioni del precedente governo rese il 26 giugno, il 26 luglio si costituisce il nuovo esecutivo guidato sempre da Aldo Moro con l’appoggio di DC, PSI, PSDI, PRI. Successivamente, De Lorenzo viene promosso Capo di Stato maggiore dell’esercito. Il Piano Solo diventerà di pubblico dominio solo nel maggio 1967, quando il settimanale “L’espresso” uscì con un articolo così titolato: «Finalmente la verità sul SIFAR. 14 luglio 1964. Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato». Un mese prima il governo, non senza contrasti interni, aveva destituito De Lorenzo da Capo di Stato maggiore. Non per i progetti golpisti ma per lo scandalo del SIFAR, le schedature illegali da parte del controspionaggio militare a danno non solo delle opposizioni ma dell’intero Parlamento. Schedature che risalivano anche al periodo del governo Tambroni, nel 1959-60, e che venivano utilizzate per scopi di lotta politica e di ricatto. Il 7 agosto, mentre è a colloquio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, Antonio Segni è vittima di una trombosi. Nota 3. 1963, Direttiva Westmoreland: Viene emanata dal generale USA William Westmoreland una direttiva che, nel solco della “dottrina Truman” del marzo 1947, dispone la necessità di fermare a ogni costo l’avanzata dei comunisti, anche in Italia, attraverso azioni di terrorismo e infiltrazione ai fini della stabilizzazione politica. Da questa logica nasce poi la strategia della tensione. Sempre a firma del generale Westmoreland, all’epoca Capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense, nel periodo dell’amministrazione Nixon è il Field Manual, del marzo 1970. Si trattava di un documento top secret intitolato “Operazioni di stabilità e Servizi segreti”, contenente la direttiva precisa di “destabilizzare ai fini di stabilizzare” e l’indicazione di come ricorrere a “operazioni speciali” per impedire l’accesso al governo del Partito comunista. Copia del Field Manual verrà poi ritrovata nel luglio del 1981 nel doppiofondo di una valigia in possesso di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio Gelli.

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