Giuliano Boraso – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 12 Sep 2018 08:28:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Un mucchio selvaggio di semplificazioni https://www.micciacorta.it/2006/05/un-mucchio-selvaggio-di-semplificazioni/ https://www.micciacorta.it/2006/05/un-mucchio-selvaggio-di-semplificazioni/#respond Thu, 11 May 2006 08:16:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24827 Una assai critica recensione del libro "Mucchio selvaggio – Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Linea" di Giuliano Boraso, nato nel 1975 e curatore del sito www.brigaterosse.org

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Questi ultimi mesi hanno visto una fiorente produzione editoriale attorno ai temi degli anni Settanta e, particolarmente, della lotta armata. Oltre al nuovo libro di Adriana Faranda (Il volo della farfalla, Rizzoli), un racconto ambientato in carcere, nel giro di poche settimane sono comparsi sui banchi delle librerie il libro di Prospero Gallinari (Un contadino nella metropoli, Bompiani), quello di Paolo Pergolizzi (L’appartamento – Br: dal Pci alla lotta armata, Aliberti editore), quello su Guido Rossa, scritto dalla figlia Sabina con il giornalista Giovanni Fasanella (Guido Rossa, mio padre, BUR), quello di Marco Clementi (La pazzia di Aldo Moro, Rizzoli). Al solito, l’attenzione e l’indagine è tutta rivolta al fenomeno delle Brigate rosse. Due sole le eccezioni. Una è il romanzo di Luca Rastello, nato nel 1961 (Piove all’insù, Bollati-Boringhieri), che rivolge lo sguardo al Settantasette torinese e a quei pezzi di movimento che hanno dato vita alle squadre armate e partecipato a Prima linea. Marco Revelli lo ha definito «il più bel libro sugli anni Settanta» (“Carta etc.”, maggio 2006). E indubbiamente, quello di Rastello, è un bel racconto, una sorta di diario intimo e politico di quella parte di generazione che era bambina nel ’68 e adolescente nel ’77. Ma la cui forza e bellezza (con una poesia e uno smarrimento di sottofondo che ricordano, forse troppo, Porci con le ali) rischia di essere tirata un po’ troppo per la giacchetta per essere fatta propria (indebitamente, dal punto di vista generazionale) da amici e recensori di quell’intellighenzia di sinistra sempre ansiosa di classificare e distinguere la “meglio” dalla “peggio” gioventù, per poterla surretiziamente separare nel ricordo e nel racconto, così come lo è stata nei destini. In verità e in evidenza, pur se intrecciati, vi sono stati molti ’68, molti ’77 e anche molte, e diverse, lotte armate. E quindi occorrerebbe accettare il fatto che gli stessi movimenti vengano raccontati da prospettive diverse, e magari anche dall’interno invece che dal balcone, ovvero essendosi sporcate per davvero le mani, oltre che le fedine penali. L’altra eccezione editoriale è Mucchio selvaggio – Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima Linea, Castelvecchi editore, di Giuliano Boraso, nato nel 1975 e curatore del sito www.brigaterosse.org. Ed è su questo testo che vogliamo soffermarci. Ci siamo accinti alla sua lettura animati da un pregiudizio positivo, dovuto alla consueta qualità dei libri editi da Castelvecchi, e da una speranza: quella che finalmente si cominciasse, da parte di autori non coinvolti, a indagare con correttezza e serietà il fenomeno della lotta armata “non socialista”, e dunque in particolare la vicenda di Prima Linea, che negli anni Settanta rappresentò la principale organizzazione combattente diversa dalle BR e anzi a esse alternativa. Diciamo subito che sono andati entrambi delusi. Ma proviamo ad argomentare.   La pubblicistica carente e le fonti di Boraso Complessivamente, sono ben pochi i testi sinora usciti su PL. In particolare: Il tempo del furore. Il fallimento della lotta armata raccontato dai protagonisti, di Luigi Guicciardi (Rusconi editore, 1988). Il testo, in realtà, è costituito semplicemente dalla pubblicazione degli atti del processo milanese contro PL, celebrato appunto da Guicciardi, all’epoca presidente della Corte d’assise di appello; un testo, dunque, reso assai limitato dalla natura giudiziaria degli interventi e dagli stretti confini in cui erano confinate le deposizioni degli imputati (l’attinenza ai reati contestati) e talvolta reso impreciso o lacunoso dalle trascrizioni approssimative dal parlato. Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, dello storico Nicola Tranfaglia e di Diego Novelli, a lungo sindaco di Torino (Garzanti editore, 1988). Questo volume non è specificatamente dedicato a PL, ma anch’esso deriva dalle trascrizioni degli interventi svolti da 18 ex militanti di BR e PL nel corso di un seminario tenuto all’interno del carcere torinese da Tranfaglia e Novelli L’Italia nichilista: il caso di Marco Donat Cattin, la rivolta, il potere (Mondadori, 1982) di Corrado Stajano. Dedicato quasi per intero alla vicenda Donat-Cattin e ai riflessi istituzionali, con l’incolpazione di Francesco Cossiga, il libro è scritto in un tempo in cui di PL si sa solo quel poco derivante dalle delazioni del “pentito” Roberto Sandalo. Assieme a quelle di militanti BR e di movimento, un paio di interviste a ex piellini sono contenute in Storie di lotta armata, a cura di Raimondo Catanzaro e Luigi Manconi (Il Mulino, 1995). Infine, qualche brano di testimonianze di ex militanti di PL è contenuto anche ne La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, il documento televisivo e successivamente libro (Mondadori, 1989) che rimane forse il più completo e interessante su questi argomenti, nonostante (o forse grazie al fatto) che sia stato realizzato relativamente a ridosso degli avvenimenti. Di certo è quello che ricostruisce maggiormente contesti storici e scenari, su cui troppi altri sorvolano o volutamente omettono. Scarsi invece i riferimenti a Miccia corta – Una storia di Prima Linea (DeriveApprodi, 2005), al momento l’unico libro scritto da un ex militante di PL su quella esperienza (ma forse la sua lettura è intervenuta in una fase già assai avanzata della stesura di Mucchio selvaggio). Questi testi costituiscono la principale fonte del libro di Boraso, pur se non sempre ne vengono riconosciuti i debiti. Le altre e principali fonti vengono onestamente dichiarate dall’autore: «questa storia la racconteremo soprattutto attraverso le cronache dei giornali dell’epoca». Purtroppo, si vede benissimo. Del libro di Boraso, infatti, innanzitutto colpisce la terminologia, che sembra appunto acriticamente presa di peso dalle peggiori cronache dei peggiori quotidiani dell’epoca. Per cui le persone colpite non sono mai semplicemente uccise, bensì «trucidate», i militanti sono sempre «killer», magari dalla «mano tremante», la violenza è «pseudopolitica», il giustizialismo «sommario», le «tecniche di esecuzione» sono «di stampo nazista, molto simili a quelle adottate nei campi di concentramento». Per non dire del «partito armato» o della «P38 Smith & wesson», che notoriamente non esiste ma era uno dei luoghi comuni delle cronache dell’epoca. Fraseologia “giudicante” e “combattente”, da giornalismo embedded, che se allora poteva avere una qualche spiegazione, stante un conflitto drammatico ed esteso in corso, che non di rado rivolgeva le armi anche contro giornalisti, letta oggi appare semplicemente irritante e stonata, decisamente fuori tempo. Infine, l’autore dichiara quali fonti anche testimonianze di ex militanti: «Documenti, libri, giornali sarebbero però insufficienti senza l’apporto della fonte orale, della testimonianza dei protagonisti di quella fase storica. C’è stato chi, tra gli ex militanti di Prima Linea ci ha raccontato le motivazioni delle sue scelte, descrivendo il clima in cui collocarle, le riflessioni fatte a sconfitta compiuta, i dibattiti e le posizioni assunte in carcere». Una premessa assai condivisibile. Peccato che di tali racconti di ex militanti non si trovi traccia nelle oltre 270 pagine del volume. Né riconoscibili da nomi e cognomi (com’è stato sempre stile e peculiarità dei militanti di PL negli anni del carcere), né da qualsiasi altra caratterizzazione. Non vi è alcuna dichiarazione, racconto, testimonianza dall’interno, virgolettata o meno, sia pure difesa dall’anonimato (il che, in ogni caso, risulterebbe assai discutibile e inficiante), diversa da quelle riprese dai libri sopra citati e da qualche articolo di giornale. Dunque, nulla di nuovo viene portato come contributo di conoscenza.   Una discutibile chiave di lettura La vera – e unica – novità rispetto a quanto sinora è stato detto e scritto su PL e dintorni che caratterizza Mucchio selvaggio è la chiave di lettura proposta: l’esistenza di una PL prima maniera, legata e interna al movimento, e di una PL successiva: «la storia di Prima Linea in questo inizio ’80 è, in tutto per tutto, una semplice storia criminale che di politico ha ormai ben poco». Ed è forse qui che, viene da pensare, l’autore potrebbe aver ricevuto qualche anonima, e dunque vile, “consulenza” da un ex militante. Ma anche questa teoria non è particolarmente originale: vi si sono cimentati a decine, con maggiore o minore serietà, gli autori di pubblicazioni sulle BR sulla scia aperta da uno dei fondatori della stessa organizzazione, vale a dire da Alberto Franceschini. Negli stereotipi tradizionali – anch’essi spesso di matrice giornalistica –, infatti, oltre alla contrapposizione militarista/movimentista quanto alla linea politica, a quella ideologo/capo militare, quanto a funzioni e ruoli nell’organizzazione, ci siamo dovuti abituare anche a quella brigatismo della prima ora, estremista ma “pulito” e anche un po’ romantico (i Curcio e i Franceschini, appunto)/brigatismo della seconda generazione (i Moretti, i Senzani), cinico, con le mani sporche di sangue, feroce ed equivoco. Ora questo schema Boraso tenta di estenderlo a PL. Non avendosi, a differenza delle BR, elementi fattuali per suggerire infiltrazioni o connubi di varia natura, si punta tutto sulla particolare ferocia con affermazioni insistite di questo tenore: «Quello che prende corpo dentro Prima Linea è un terribile vortice di pulsioni di morte, una ferocia che sembra ormai priva di scopi politici». Non a caso, segnalando il libro sulle pagine de “la Repubblica”, proprio su questo insiste la giornalista Silvana Mazzocchi, che chiude il suo pezzo definendo PL il «gruppo più feroce della galassia armata degli anni Settanta» (“la Repubblica”, 15 aprile 2006). In base a quali ragionamenti ed elementi fattuali non è dato di sapere. Ma, del resto, ben più autorevolmente di Boraso, o della stessa Mazzocchi, in queste apodittiche considerazioni si cimenta volentieri uno scrittore di rango come Giorgio Bocca. Come abbiamo già ricordato, in un’intervista al “Corriere della Sera” (21 aprile 2006) – in occasione dell’anniversario dell’uccisione del consigliere comunale del Movimento Sociale Italiano (MSI) Enrico Pedenovi, colpito a Milano nell’aprile 1976 da militanti della cosiddetta pre-Prima Linea –, l’anziano giornalista propone una lettura di questo tenore: «[Pedenovi] È stato vittima di pazzi criminali. Dopo i delitti sciavano al Sestriere». Naturalmente, il giornalista intervistatore evita di chiedere dettagli che supportino siffatta affermazione, così come intervistato e intervistatore si guardano bene dal ricordare che due giorni prima dell’uccisione di Pedenovi era stato invece ammazzato per strada un giovane di sinistra, Gaetano Amoroso – rimosso dalle cronache, dalle ricorrenze e dalle lapidi; fu accoltellato a morte da parte di un gruppo di neofascisti, proveniente da una sede del MSI. Ricordarlo non giustifica ovviamente alcunché ma magari serve a ragguagliare i lettori sul clima dell’epoca. Pur nel contesto di una intenzione demonizzante, in quell’intervista Bocca dice una cosa vera: «Dei terroristi si sapevano alcune cose. Che dalle Brigate Rosse arrivava comunque un flusso di informazione», insistendo poi nelle affermazioni affermazioni: «Mentre quelli di Prima Linea erano pazzi. Imprevedibili, stranissimi. Tra un omicidio e l’altro andavano a sciare al Sestriere. Con loro non c’era nessun rapporto». Eppure, proprio da questa considerazione di Bocca (ma di tanti altri, specie a sinistra) si rivela la chiave del ragionamento: quelli delle BR erano riconoscibili come appartenenti alla cultura della Terza Internazionle, del comunismo reale e sovietico, nascevano (pur se a lungo non si è potuto dire e ancora si fa fatica a riconoscerlo) dalle stesse fila del PCI e del sindacato tradizionale, insomma alla propria stessa cultura. PL nasceva da un movimento extraparlamentare, dai nuovi fermenti sociali, dal precariato sociale e intellettuale, dagli studenti dell’incombente ’77: dunque da stigmatizzare come alieni, come pazzi criminali. Boraso sceglie, forse non rendendosene appieno conto (giacché sul ’77 svolge invece una esposizione meno appiattita e banale), di portare il suo piccolo contributo a questo schema. PL, in effetti, a differenza di altri, non coltivava l’arte equivoca di combattere di giorno e di frequentare giornalisti o salotti la sera; a differenza delle BR non rientrava nell’album di famiglia del comunismo ortodosso, del lenin-stalin-maozedong pensiero. Come il movimento di quella seconda metà degli anni Settanta era una “cosa strana”, accusata di volta in volta di “diciannovismo” o di “dilettantismo rivoluzionario”. Semplicemente e invece, l’uno e l’altra, PL e movimento, soggetti distinti e intrecciati, dialoganti e culturalmente comunicanti, erano la manifestazione di un’eterna eresia che ha percorso sottotraccia il Novecento: quella che vede la rivoluzione non come presa del potere, come conflitto e sostituzione tra ceti dirigenti e partiti, ma come costruzione del contropotere dal basso, che cerca la sua legittimazione nella concretezza del sociale, non nell’eredità delle mummie del Cremlino. Non comprendendolo, diventa più semplice evocare ferocia e pazzia. Eppure, Boraso, sia pur di sfuggita, in un punto dà una chiave interpretativa meno superficiale, laddove accenna al fatto che «tutte le guerre offrono il peggio con l’approssimarsi della loro fine». Non è dunque la follia o la ferocia di qualche militante a determinare l’avvitamento e la deriva, la nascita di una nuova e sanguinaria PL (delle 10 uccisioni premeditate operate da PL, peraltro, 5 sono avvenute tra il 1976 e il 1979) o di nuove e più truculente BR: è la verticalizzazione dello scontro, imposta dal sequestro e omicidio di Aldo Moro; è il contemporaneo e conseguente ritrarsi dei movimenti; è – anche, e non certo in misura secondaria – la scelta (o la reazione, se si preferisce) dello Stato di contrastare il fenomeno armato e sovversivo a suon di leggi d’emergenza, di carceri speciali e in qualche frangente di tortura o di azioni sbrigative come quella di via Fracchia a Genova, dove vennero uccisi quattro brigatisti e che molti giudicarono un’esecuzione. Ad esempio, per Giorgio Bocca fu «lo Stato che diceva: “Ora in guerra ci siamo anche noi”. Un messaggio chiarissimo: “Adesso possiamo condurre la lotta senza prigionieri”». Lo scrittore – in passato decisamente più lucido nelle sue analisi sul fenomeno armato di quanto non appaia ora – riferisce che, dopo via Fracchia, intervistò il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «Gli chiesi: “ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito?”. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di là delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale» (“Corriere mercantile”, 13 febbraio 2004). Giuliano Zincone, all’epoca direttore del quotidiano genovese “Il lavoro”, poi editorialista del “Corriere della sera”, ricorda: «Titolammo: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non dovesse rispondere sullo stesso piano dei terroristi. Una posizione che suscitò critiche pesanti all’interno di una certa sinistra, tra i nostri lettori. Non mancarono le polemiche» (“Corriere mercantile”, 13 febbraio 2004). Ma, come spesso (e come, per la verità, anche noi eravamo usi a fare in quei tempi) prima ci si affeziona a una teoria, poi si cerca di tenerla in piedi in qualche modo. Così Boraso cerca le pezze d’appoggio alla sua originale chiave di lettura. Anche forzando i fatti, anche aderendo acriticamente alle versioni dei magistrati attorno ad alcuni episodi, certo odiosi, come l’omicidio di William Vaccher, un caposaldo nella proposta interpretativa dell’autore. Vaccher era un giovane militante della rete di PL, ucciso dopo aver fornito ai magistrati (la cui versione – Vaccher non aveva collaborato – può essere letta come interessata, giacché a Vaccher non fu fornita la protezione che in casi di quel genere era invece consueta) informazioni sui compagni con cui era in contatto e, in particolare, sui responsabili dell’omicidio del giudice Alessandrini. Vaccher ne indica uno con il nome di Alberto, segnalando il quartiere dove abita. I magistrati dicono di non aver potuto risalire alla vera identità di “Alberto”. Sarà. Fatto sta che in quei giorni, dopo le rivelazioni di Vaccher e la sua scarcerazione, i servizi segreti si premurano di “soffiare” la notizia al quotidiano “L’Occhio” (diretto da Maurizio Costanzo, poi accusato di essere stato iscritto alla P2, così come i vertici dei carabinieri dell’intera divisione Pastrengo di Milano e non solo, i capi dei servizi stessi, qualche alto magistrato, industriali, giornalisti e non pochi politici), che la “spara in prima pagina”: «Individuato il killer di Alessandrini», con dettagli sulla zona di Milano in cui risiede e sul cane pastore tedesco con cui si accompagna e con l’effetto, certamente voluto, di mettere sull’avviso “Alberto”, vale a dire Marco Donat-Cattin, consentendogli così di sapere di essere stato individuato e di cambiare prudentemente casa e zona. Queste cose Boraso avrebbe potuto saperle, appunto leggendo Miccia corta. Cose contestabili, certo, ma pur sempre basate su qualche robusto dato di fatto. E che andrebbero eventualmente analizzate e contrastate nel merito, non ignorate, se si vuole attribuire serietà di documentazione al proprio lavoro. Ciò naturalmente, non muta la sostanza: ovvero che l’omicidio di Vaccher, visto a posteriori, è stato ingiusto, ignobile, se vogliamo anche feroce. Visto nell’attualità, risultava invece coerente con una logica di guerra, dentro la quale ci trovavamo avvitati e dalla quale risultava accecata e messa in mora la nostra umanità. In ogni caso, episodio del tutto diverso dalla mattanza cui le BR e le “brigate di campo” avevano dato il via dentro le carceri speciali nei confronti di militanti che, spesso sotto tortura, avevano fatto rivelazioni alla polizia, per poi ritrattarle al termine dei pestaggi (in particolare, l’uccisione di Giorgio Soldati a Cuneo e quella di Ennio di Rocco a Trani) o addirittura nei confronti di militanti sospettati di fragilità o di deviazione dalla linea (particolarmente indegna la vicenda contro il militante delle BR Paolo Sivieri, perseguitato dalle accuse di cedimento e dalle minacce dei suoi compagni, sino alla perdita della ragione e, una volta uscito, al suicidio). O di essere portatori di una proposta di fine della lotta armata: motivo per il quale chi scrive fu ripetutamente oggetto di aggressioni e tentativi di omicidio da parte di brigatisti nelle carceri speciali. La cultura del terrore e del sospetto portata avanti dalle BR nelle carceri speciali aveva un segno diverso dal solo “impazzimento” e imbarbarimento dovuto alla sconfitta incipiente. Perché era interna a una tattica di alleanza con i poteri mafiosi, in particolare con la nuova camorra di Raffaele Cutolo. Boraso, nel suo argomentare, mette assieme l’omicidio Vaccher con queste vicende carcerarie. Ma anche questa appare una forzatura. Se il primo appartiene alla degenerazione fratricida, le seconde rimandano al cannibalismo e – tanto per cambiare – alle logiche di potere. Ciò detto, rimane il fatto della tragicità di ogni uccisione, che è identica a ogni altra in quanto irreparabile. Scrivere di questa tragicità non dovrebbe comunque far venire meno un modo documentato di raccontare, con aderenza ai fatti e, possibilmente, senza accenti di questo genere: «Un commando di Prima Linea composto da tre persone uccide William in via Magliocco, a Milano, trucidandolo con 10 colpi di pistola più quello mortale alla testa. Tanto per essere sicuri che l’“infame” non possa fare più danni. […] Un “assassinio preventivo”, quello di William Vaccher. Una condanna a morte emessa non tanto per quello che la vittima aveva detto ai giudici quanto per ciò che avrebbe ancora potuto dire. Ma soprattutto Vaccher viene assassinato perché il messaggio dei leader possa arrivare forte e chiaro a tutti coloro intenzionati a imitarne la condotta». Se quello della ferocia è tema ricorrente, non è tuttavia l’unico leit motiv del libro. Gli altri, intrecciati e conseguenti, sono quelli della follia e della non politicità, vale a dire di una lettura delle organizzazioni armate, e di PL in special modo, quali fenomeni di pura criminalità. «Dopo gli assassini di Guido Rossa e Emilio Alessandrini […] comincia ad allargarsi la falla che farà della lotta armata, nei mesi a venire, un fenomeno ormai completamente estraneo a una società in via di rapidissima trasformazione. A questo processo […] contribuirà soprattutto, e in maniera decisiva, il volto sempre più sanguinario impresso alla lotta armata dai suoi protagonisti, capace di assumere in certi episodi dei primissimi anni Ottanta le sembianze di una vera e propria patologia criminale». C’è stato, inavvertito, in questi anni un salto di qualità nell’interpretazione del complessivo fenomeno armato dell’Italia degli anni Settanta. Se all’epoca dei fatti, ma ancora lungo tutti gli anni Ottanta e parte dei Novanta, lo sforzo corale di esponenti politici e istituzionali, magistratura e intellettuali, il più delle volte vicini ai due partiti storici della Repubblica, vale a dire la DC e il PCI, era stato quello di negare la radice politica e sociale del fenomeno, ora si vuole accreditare decisamente una lettura della lotta armata come fenomeno psicopatologico. Una logica che ricorda da vicino l’Unione sovietica e l’abitudine di dichiarare pazzi i dissidenti e avversari politici, onde poterli internare nei manicomi e misconoscere l’identità. A ben guardare, è l’evoluzione forse naturale di quel “sedicenti rossi”, che qualificava all’epoca le cronache dell’Unità. Fascisti mascherati o pazzi criminali. L’importante è negare identità e origini, scavare un profondo fossato tra sé e gli alieni, i figli di NN. Che questa volgare griglia di lettura potesse appartenere al PCI dell’epoca ha qualche motivazione comprensibile. Nemmeno una riesce di trovarne scoprendola ora in un giovane autore. Che non esita a individuare connessioni “caratteriali” e culturali tra PL e NAR: «Non sono pochi [chi, ad esempio?, ndr] nemmeno quelli che in Prima Linea hanno visto qualcosa di assai vicino all’ideologia [sottolineatura nostra, ndr], al modo d’essere e alle pratiche combattenti del più irrazionale e spontaneista tra i gruppi dell’estremismo neofascista italiano: I Nuclei Armati Rivoluzionari dell’ex bambino prodigio Giusva Fioravanti, della sua compagna di vita Francesca Mambro e del fido amico Franco Anselmi. In entrambi i gruppi è la carica emotiva che domina l’azione militare, a scapito dell’elaborazione teorica. Se in Prima Linea l’elaborazione teorica è scarsa, nei NAR è del tutto assente». Probabilmente Boraso, che cura il sito sulle Brigate Rosse, è abituato a riconoscere dignità teorica solo alle logorroiche Risoluzioni strategiche delle BR, in quanto dense di citazioni di Stalin e Lenin. Del resto, quella dello spontaneismo è la categoria tradizionalmente usata dalle BR nel criticare PL; in seguito, passeranno direttamente a quella del tradimento. Ma ciò fa il paio con il “doppio binario” con cui vengono valutate, chissà perché, più feroci le azioni di PL. Per confortare quest’immagine di accozzaglia folle e priva di progetto e cultura politica, da ultimo, Boraso arriva a sostenere: «Prima Linea conoscerà di qui a pochi mesi uno dei fenomeni più radicali ed estesi di collaborazionismo, capace di distruggere in poche settimane l’intera organizzazione. […] Anche il pentimento generalizzato, totale è parte integrante del DNA del “mucchio selvaggio”. Non fa molta differenza che si tratti di fare la rivoluzione o rinnegarla e tradirla». Anche qui Boraso echeggia uno dei luoghi comuni della campagna denigratoria che le BR portarono avanti nelle carceri contro PL. Un luogo comune, ma totalmente falso e non innocente: mirava, e mira, infatti, a nascondere e mistificare il fatto che il percorso politico e collettivo di dissociazione portato avanti da PL divenne invece, all’opposto, un freno al pentitismo, agendo sul piano politico e culturale, anziché su quello poliziesco. Ne ebbero perfetta coscienza i magistrati patiti dell’emergenza e del sostanzialismo giuridico, che nel 1984 tentarono di ostacolare in ogni modo il percorso della dissociazione, anche attraverso un documento di indicazioni e richieste inviato segretamente ai vertici politici e istituzionali. Un’operazione che il quotidiano “il manifesto” del 26 maggio 1984 rivelò e denunciò con questo titolo: «La Loggia dei trentasei». Sottotitolo: «Il documento dei magistrati antiterrorismo tifosi di leggi speciali, pentiti e supercarceri». Sommario: «Il documento che qui pubblichiamo è straordinario. È, forse, il sintomo più clamoroso del cancro che fiorisce sul corpo della Prima Repubblica. È la prova che la P2 laureata esiste perché in tutte le istituzioni c’è una metastasi di P2 senza nome. Il caso è clamoroso. 36 magistrati che si arrogano il diritto di riunirsi periodicamente e inviare alle massime autorità dello Stato i loro “suggerimenti” sull’uso della giustizia. Tutto questo è già eversivo di per sé: stamani i carabinieri dovrebbero bussare alla porta di questi 36 supercittadini e il magistrato escluso dalla lobby dovrebbe chiedere conto e ragione di questa associazione». Fallito quel tentativo, grazie al direttore generale delle carceri dell’epoca, Nicolò Amato, sostenuto dal Guardasigilli Mino Martinazzoli, alcuni di quei magistrati continuarono comunque a lungo nei loro ostracismi e rivalse, in una oggettiva ma perfetta coincidenza con gli attacchi della leadership brigatista nei confronti di PL e del movimento della dissociazione. Fatto sta che di quei 78 “grandi collaboratori” su un totale di 389 pentiti (secondo le cifre proposte dal libro) quelli di PL si contano sulle dita di una mano. La supponenza del libro è certo superiore alla sua precisione. In effetti, sono parecchie le imprecisioni, le incongruenze, gli errori, anche se quasi tutti veniali. Ad esempio: Errori: Giannino Zibecchi è stato ucciso dalla jeep dei carabinieri nel 1975, non nel 1973. Tonino Micciché non era direttore di Lotta continua. Paolo Zambianchi proviene dal movimento emiliano e bolognese e non dalla Val di Susa. Renato Bandelli si chiama in realtà Bandoli. Il sottoscritto è stato arrestato nell’aprile 1976, non nel maggio 1977: può sembrare svista da poco, se non fosse che “il Golpe dei sergenti” e la rottura dell’area di Senza Tregua cui viene fatta risalire la nascita di PL e poi la prima azione firmata PL sono della fine 1976; avervi o meno avuto parte non è esattamente la stessa cosa. E sempre il sottoscritto è stato riarrestato nel gennaio 1983 non alla fine del 1982. Incongruenze: A pag. 86, si riferisce dell’omicidio Pedenovi, avvenuto il 29 aprile 1976 a opera di «quelli che fonderanno Prima Linea»; ma a pagina 95 «il primo omicidio politico di PL» diventa quello del brigadiere Giuseppe Ciotta, avvenuto a Torino il 12 marzo 1977, «anche se rivendicato con sigla diversa», e lo stesso si ribadisce a pagina 113, precisando che, secondo le sentenze di condanna, l’esecutore materiale di Ciotta è lo stesso di Pedenovi. Ma c’è anche qualche omissione: non si cita Giuliano Ferrara tra i promotori del questionario anonimo antiterrorismo promosso dal PCI torinese. E potremmo andare avanti. Nondimeno, il libro contiene alcune parti di ricostruzione più interessanti, pur se anche qui con più spunti discutibili. In particolare, l’ultimo e più breve capitolo dove l’autore parla nel percorso di dissociazione, di costituzione delle aree omogenee nelle carceri e di battaglia per la “soluzione politica” collettivamente promosso dai militanti di PL, dopo aver sciolto l’organizzazione. Si tratta di una pagina ancor meno indagata della complessiva e rimossa storia della lotta armata non brigatista, che tuttavia il libro si limita ad accennare. Altra parte meritoria del capitolo terminale è quella che ricostruisce le denunce e polemiche sulle torture subite da militanti arrestati a opera delle forze dell’ordine, altra pagina del tutto assente dal ragionamento pubblico retrospettivo su quegli anni. Sarebbe tuttavia insufficiente per consigliare di comprare e leggere Mucchio selvaggio, scontando tutto quanto detto sopra. Il vero motivo per farlo è che non già l’analisi su PL, che abbiamo detto essere approssimativa, falsante e densa di stereotipi, ma quella del movimento del Settantasette, indubbiamente di maggiore interesse e correttezza. Di questi tempi, non è poco. Accontentiamoci.

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