Giuseppe Pinelli – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 10 May 2023 08:19:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 9 maggio: revisionismo storico e conti che non tornano https://www.micciacorta.it/2023/05/9-maggio-revisionismo-storico-e-conti-che-non-tornano/ https://www.micciacorta.it/2023/05/9-maggio-revisionismo-storico-e-conti-che-non-tornano/#respond Wed, 10 May 2023 08:19:54 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26631 Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato

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Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato   Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato. IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza. UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope. IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato). IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca. UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore. IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale. QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana. Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese. * Fonte/autore: Davide Conti, il manifesto

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Gli arresti di Parigi. Rieducare, retribuire risarcire, le tre facce della giustizia https://www.micciacorta.it/2021/05/gli-arresti-di-parigi-rieducare-retribuire-risarcire-le-tre-facce-della-giustizia/ https://www.micciacorta.it/2021/05/gli-arresti-di-parigi-rieducare-retribuire-risarcire-le-tre-facce-della-giustizia/#respond Fri, 07 May 2021 16:24:27 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26403 L’arresto di alcuni italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto)

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L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto). E’ stato così aggiunto un miserabile tassello alla versione che da decenni connota gli eventi di cinque decenni fa come “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. Una guerra – ancorché “non ortodossa”, come era stata definita dai suoi promotori – che lo Stato italiano ha condotto contro movimenti di massa, colpendo nel mucchio con sequele di stragi, mentre le formazioni armate, nate ai margini di quei movimenti, decidevano di “contrattaccare” con agguati contro uomini simbolo. Crimini da entrambe le parti: superfluo, ormai, fare comparazioni. Ma nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi dello Stato, politici e istituzionali; e tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase, come sarebbe stato possibile e opportuno. Oggi Draghi e Cartabia non fanno che intascare la loro quota della rendita politica che quella non-decisione ha generato. E la “pena retributiva” sostituisce, per molti parenti delle vittime di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro con un processo di “riconciliazione”. Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pinelli, vittime del terrorismo di Stato; e senza escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio è morto in circostanze meno drammatiche. Ma avendo seguito giorno per giorno gli 8 (anzi 10) “gradi di giudizio” del processo per l’omicidio del commissario, ritengo impensabile che se ne potesse ricavare il minimo indizio di colpevolezza degli imputati, Marino compreso; come aveva giustamente concluso la sentenza assolutoria del secondo processo di appello. Mentre capisco benissimo come possano essersi convinti del contrario tutti coloro che ne sono stati informati solo dai media (solo il manifesto, allora come oggi, ha trattato con spirito critico quella vicenda). La maggior parte dei giudici togati si è dimostrata determinata a priori a quella condanna, accettando che il processo, più che alla ricerca dei veri colpevoli, fosse indirizzato alla punizione della campagna con cui Lotta Continua aveva costretto a portarla in tribunale il commissario, che poi se ne sarebbe ritirato con una ricusazione. D’altronde nessuno tra magistrati, giornalisti o familiari aveva sollevato obiezioni anche quando, per dimostrarne la natura criminosa, era stato sostenuto che a uccidere Rostagno, per farlo tacere, era stata una rediviva Lotta Continua. Sofri e Bompressi sono stati condannati in base a ricostruzioni false di Marino, contraddette dai fatti e da tutti i testimoni. Per Pietrostefani, invece, nessuna ricostruzione di eventi specifici per accusarlo di aver ordinato l’omicidio: una condanna a 22 anni solo perché membro di un “comitato esecutivo” che avrebbe deciso l’omicidio: un anno prima. Ma Marino aveva indicato anche altri membri di quel comitato: Rostagno, Boato, Morini, Brogi e altri; l’accusa li ha subito dimenticati, consapevole, dopo l’iniziale entusiasmo, della debolezza, basata solo su un “pentito” dalle molteplici versioni. Così è successo ad altre sue accuse assurde contro Paolo Liguori, Luigi Bobbio o Luigi Noia. Avevo aggiunto allora, con una raccomandata alla Procura di Milano, che di quel comitato avevo fatto parte anche io, che ero stato, con Sofri e Pietrostefani, al vertice di quella organizzazione per 7 anni. Nessuna reazione. Per questo ritengo quel processo una delle più grandi patacche della storia giudiziaria italiana. Processi basati solo su pentiti, sia veri che falsi, ben giustificano i dubbi di Mitterrand sul modo in cui era gestita la giustizia in Italia. Oggi comunque si sa che nella Questura della defenestrazione di Pinelli erano presenti ben 13 funzionari dell’Ufficio Affari Riservati mandati da Roma per costruire, con tutta evidenza, la montatura contro Valpreda. Una presenza che la Procura di Milano aveva evitato di scoprire e di cui il commissario Calabresi non ha mai fatto parola. Ma è sensato pensare che nel corso del processo che lo vedeva imputato e non più querelante, Calabresi avrebbe potuto parlarne. Non ne ha avuto il tempo: la sua uccisione lo ha trasformato in un irreprensibile servitore dello Stato, esonerandolo post mortem da ogni responsabilità con la grottesca sentenza sul “malore attivo dell’anarchico Pinelli”. * Fonte: Guido Viale, il manifesto

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Mezzo secolo dopo, commemorazioni divise per l’anarchico Pinelli https://www.micciacorta.it/2019/12/mezzo-secolo-dopo-commemorazioni-divise-per-lanarchico-pinelli/ https://www.micciacorta.it/2019/12/mezzo-secolo-dopo-commemorazioni-divise-per-lanarchico-pinelli/#respond Tue, 03 Dec 2019 09:45:13 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25817 La famiglia convoca una «catena musicale», il Ponte della Ghisolfa va da solo: «Non ci sono le condizioni politiche minime per una adesione»

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MILANO. Quello di Giuseppe Pinelli è un corpo sospeso da mezzo secolo. In piazza Fontana, dove il 12 dicembre del 1969 una bomba alla banca dell’Agricoltura causò 17 vittime ancora senza giustizia e fece capire a tutti che l’aria nazionale era più torbida di quello che si potesse pensare, ci sono due targhe a ricordarlo. Una firmata dagli «studenti e democratici milanesi» in cui si parla di lui come «ucciso innocente» nei locali della questura, e un’altra messa lì dal Comune, in cui la formula diventa «morto innocente». Indagini, inchieste, processi, informazione e controinformazione: l’anarchico Pinelli, ferroviere, sindacalista, esperantista, militante del Ponte della Ghisolfa, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre volò giù da una finestra della questura del commissario Luigi Calabresi. La verità ufficiale parla di «malore attivo» e conseguente caduta, ma le ombre che circondano i poliziotti che lo stavano tenendo in stato di fermo da quasi tre giorni sono lunghissime, e i dubbi spesso sembrano certezze. Cinquant’anni dopo, la memoria è ancora in bilico e sulle commemorazioni (plurale necessario) di quei fatti c’è divisione nell’universo anarchico italiano. Il 14 dicembre la famiglia Pinelli ha convocato «una catena musicale» che porterà da piazza Fontana alla questura nel nome di Pino, delle vittime della strage e delle «false e depistanti accuse agli anarchici che portarono anni di carcerazione all’innocente Pietro Valpreda». Le firme in calce sono quelle della moglie del ferroviere Licia, delle figlie Silvia e Claudia e della sorella Liliana, venuta a mancare lo scorso ottobre. La lista delle adesioni è chilometrica; centinaia di nomi (tra cui quello di Adriano Sofri, per esempio) e di realtà diverse: Acli, Arci e Anpi di varie città, centri sociali, collettivi studenteschi, associazioni, la rivista A di Paolo Finzi, sezioni del sindacato libertario Usi e della Federazione Anarchica Italiana. «Abbiamo deciso di fare le cose in maniera più aperta e plurale possibile – dice Silvia Pinelli al manifesto -, d’altra parte anche cinquant’anni fa per Pino si mosse la società civile, i compagni certo, ma anche un fronte che andava dai cattolici all’alta borghesia. È quello che vogliamo far accadere anche adesso con la catena musicale». Qualcuno però non ci sarà, ovvero il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, la casa politica di Giuseppe Pinelli, il luogo dove ha speso una parte consistente della sua militanza. Il comunicato di dissociazione dalla catena musicale è durissimo. «Non ci sono le condizioni politiche minime per una adesione», dicono. Spiega Mauro Decortes, storico militante del Ponte: «Nei testi diffusi dalla catena musicale manca sempre il contesto di quegli anni, inizialmente non era nemmeno citato Valpreda… Noi siamo sempre stati aperti, abbiamo invitato a partecipare tanta gente, non solo del mondo anarchico. Il problema non è però l’apertura verso l’esterno, ma il fatto che ci devono essere dei valori e dei caratteri chiari. Non ci piace che tutto debba ridursi a una sorta di messa obbligatoria, certe lotte sono ancora vive e questo va ribadito sempre. Pinelli, d’altra parte, non era solo un padre di famiglia, ma anche un compagno, un militante molto attento che immaginava e lottava per una società diversa. Non possiamo fare di lui una figurina istituzionale. Diceva Valpreda che credere nella verità non vuol dire credere nella giustizia». Il Ponte andrà in corteo il 12 dicembre, e poi il 15 al Leoncavallo si terrà una serata intitolata «Pinelli assassinato, Valpreda innocente. La strage è di stato» (a ricordare che i due compagni «non sono morti per la democrazia ma per l’anarchia», come da striscione più volte esibito in varie manifestazioni e iniziative), con la partecipazione tra gli altri di Ascanio Celestini e Saverio Ferrari. E qui invece a mancare saranno la compagna e le figlie di Pinelli. «Siamo state attaccate senza motivo e sempre sul personale – commenta ancora Silvia -. Fa male perché in tanti anni non ci è successo con la polizia, i fascisti o la mafia e invece adesso certe parole arrivano da parte di persone che pensavamo essere nostre amiche». Dal Ponte la risposta è agrodolce. Sostiene Decortes: «È una questione che ci addolora, sono state dette e scritte tante falsità anche su di noi, e comunque voglio sottolineare che con Licia non ci sono mai stati problemi, anzi ci sentiamo spesso ancora adesso. C’è molta psicologia in questa storia, molte questioni di ego, come se una parte della sinistra volesse comparire e basta, un po’ per piccoli interessi e un po’ forse per senso di colpa. La nostra, ad ogni modo, è una critica politica e non personale». Intorno, mentre Milano si appresta a ricordare Pinelli in ordine sparso, tutto è ancora fermo: la bomba, la strage, i fascisti ora condannati, ora assolti e ora condannati di nuovo, le complicità di stato, il volo di Pino, l’omicidio Calabresi, la strategia della tensione. Il mistero non è più indagato, resta la memoria sospesa di un paese che da sempre confonde la pace con la rimozione. * Fonte: Mario Di Vito, il manifesto

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Giuseppe Pinelli, mezzo secolo dopo https://www.micciacorta.it/2019/07/giuseppe-pinelli-mezzo-secolo-dopo/ https://www.micciacorta.it/2019/07/giuseppe-pinelli-mezzo-secolo-dopo/#respond Sat, 13 Jul 2019 09:47:30 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25549 Scaffale. «Pinelli l'innocente che cadde giù» di Paolo Brogi

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Mezzo secolo ci separa, ormai, dalla madre di tutte le stragi e dalle ingiustizie che ha portato con sé. Il 12 dicembre del 1969 una bomba esplode nella Banca nazionale dell’agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano: muoiono 17 persone, 88 sono i feriti. È LA PRIMA grande strage di una stagione che intorbidirà, di sangue e non solo, almeno un quindicennio di storia nazionale. Cinquant’anni dopo, ci ritorna Paolo Brogi, con il suo Pinelli, l’innocente che cadde giù (Castelvecchi, pp. 152, euro 17,50). Lo guardo è obliquo, ma l’osservazione è generale. Brogi sceglie un punto di vista e una vicenda specifica per tornare a raccontare la storia infinita di quella che fu icasticamente definita la «strage di Stato»: la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della Questura di Milano, la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969, quando era in stato di fermo perché «gravemente indiziato» di essere partecipe dell’attentato. MA DALLA MORTE di Pinelli, lo sguardo subito si allarga alle cause della impunità della strage. Nella minuziosa ricostruzione delle carte e delle testimonianze sulla morte dell’anarchico milanese, si affacciano fin da subito azioni e attori dei depistaggi che hanno lasciato la strage orfana di responsabilità penali e politiche. All’indomani della strage («la sera stessa», dice beffardamente qualcuno di loro), la Questura di Milano era occupata dagli agenti dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno. EPPURE, nelle indagini sulla morte di Pinelli, la loro presenza non è neanche registrata. Si muovono come ombre in quelle stesse stanze in cui decine di fermati vengono trattenuti e interrogati. Fantasmi che torneranno alla luce solo negli ultimi svolgimenti delle indagini su Piazza Fontana e dintorni, ma mai messi in relazione a quelle ore in cui «l’innocente cadde giù». Eppure, gli uomini degli Affari riservati non furono estranei alla pista anarchica, al grande depistaggio che vide vittime prima Pinelli e poi Pietro Valpreda, a lungo il nemico perfetto cui attribuire le responsabilità di una strage che invece era stata voluta, eseguita e coperta a destra, da gruppi neofascisti e apparati deviati. Anzi, ne furono gli attori più solerti e consapevoli. Ma in quelle ore, era come se non ci fossero. IL LAVORO di Brogi si avvale, in particolare, della desecretazione di documenti riservati fino alla direttiva Renzi del 2014. Tra le altre cose, dalla seconda inchiesta sulla morte di Pinelli – quella svolta da Gerardo D’Ambrosio e che si concluderà con la fantasiosa tesi del «malore attivo», che avrebbe fatto cadere Pinelli dall’altra parte della finestra, nella stanza in cui si trovava al termine della lettura del verbale dell’interrogatorio – emerge un graffio su un dito di una mano del brigadiere Panessa, il più prossimo a Pinelli nel momento del «malore attivo», di cui egli stesso si era dimenticato per due anni e della cui rilevanza, comunque, nessuno gli ha mai chiesto conto. BUCHI, incongruenze, incoerenze che hanno segnato i due iter giudiziari, quello per la responsabilità della strage e quello per la morte di Pinelli. IL RACCONTO di Brogi si avvale, infine, delle testimonianze delle figlie di Pinelli, Claudia e Silvia, che all’epoca avevano 8 e 9 anni e che si porteranno dietro per tutta la vita, non solo l’improvvisa e inspiegata perdita del padre, ma anche l’essere state sue figlie, motivo di curiosità e di solidarietà nelle scuole e nella Milano degli Settanta, responsabilità di una memoria da quando la madre Licia ne ha passato loro il testimone. «In questi anni – scrive Claudia al padre – ci sei sempre stato e hai permesso incontri, sguardi, condivisioni … Molta strada è ancora da percorrere… ma resisteremo a queste ondate di xenofobia e razzismo… e continueremo a credere che un mondo nuovo… è possibile». * Fonte: Stefano Anastasia, IL MANIFESTO

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Madrid antifranchista e sessantottina ricorda il suo Pinelli https://www.micciacorta.it/2019/01/madrid-antifranchista-e-sessantottina-ricorda-il-suo-pinelli/ https://www.micciacorta.it/2019/01/madrid-antifranchista-e-sessantottina-ricorda-il-suo-pinelli/#respond Sun, 20 Jan 2019 08:40:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25177 Spagna. Una targa da oggi commemora lo studente Enrique Ruano nel luogo in cui venne ucciso (altro che suicidio) 50 anni fa. Un’iniziativa figlia della legge sulla memoria storica voluta da Zapatero e invisa alla destra

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MADRID. Morire dopo un volo dalla finestra mentre si è sotto custodia della polizia. Non capitò solo all’anarchico Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto nella Questura milanese dopo la strage di Piazza Fontana, ma anche a Enrique Ruano, studente di giurisprudenza dell’Università di Madrid, militante antifranchista. Proprio nello stesso anno, il 1969. Paesi diversi, democrazia da una parte e dittatura dall’altra, ma pratiche simili, e un identico esito giudiziario: nessun colpevole. IL GIOVANE SPAGNOLO FU UCCISO esattamente cinquant’anni fa, e oggi il comune di Madrid scoprirà una targa in sua memoria nel luogo esatto in cui avvene l’omicidio, al numero civico 68 della centrale calle Príncipe de Vergara. Non una sede delle forze di sicurezza, ma un normale palazzo in cui il ventunenne Ruano fu condotto dalla polizia politica, la famigerata Brigada Politico-Social, nel corso della perquisizione di un appartamento ritenuto un «covo». Si trovava agli arresti già dal 17 gennaio, colpevole di avere affisso per le strade della capitale materiale di propaganda del Frente de liberacion popular, organizzazione clandestina di orientamento marxista non dogmatico, federalista e autogestionaria, con radici nella sinistra cristiana. Ovviamente la versione ufficiale fu quella di suicidio. Per renderla più verosimile le autorità manipolarono i diari di Ruano, dandoli in pasto alla stampa per diffondere la falsa notizia che il ragazzo nutrisse da tempo il proposito di togliersi la vita. A manovrare la campagna di disinformazione il ministro Manuel Fraga, la cui vita politica è continuata ben oltre la scomparsa di Franco nel 1975: il Partido popular è una sua creatura. Le menzogne di Stato non servirono, però, a convincere l’opposizione democratica: la protesta nei campus universitari di tutto il Paese crebbe al punto da indurre il governo a decretare, il 24 gennaio, lo stato d’eccezione per tre mesi. IL REGIME era in un momento delicato, le manifestazioni di dissenso crescevano anche nella Chiesa, sino ad allora uno dei pilastri fondamentali della dittatura, e si preparava la designazione di Juan Carlos di Borbone quale successore del «generalissimo» a capo dello stato. Per quanto dall’estero sembrasse scricchiolante, l’edificio del potere costruito dopo la guerra civile era ancora saldamente in piedi. E continuava ad uccidere. Ruano apparteneva allo stesso milieu «sessantottino» di molti protagonisti dell’ultima fase della lotta per la libertà che, successivamente, rivestiranno ruoli importanti nella Spagna democratica. LA SINDACA DI MADRID Manuela Carmena è una di loro. Ad accomunarli anche la scelta universitaria: dalle facoltà di giurisprudenza di quegli anni venne fuori una leva di giovani avvocati giuslavoristi impegnati ad allargare gli spazi di affermazione dei diritti dentro e contro il regime. Carmena, affiliata al Pce clandestino, fondò con alcuni di quelli che erano stati i più stretti compagni di Ruano uno studio legale nella centralissima calle de Atocha che divenne punto di riferimento per i lavoratori della capitale, ma anche oggetto della violenza dei fascisti: in piena transizione democratica, il 23 gennaio del 1977, un commando vi fece irruzione e uccise cinque persone. Sopravvisse per miracolo Dolores González Ruiz, che nella mattanza perse il marito Javier Sauquillo, come lei socio dello studio. Un destino particolarmente drammatico, quasi incredibile, quello dell’avvocata González Ruiz, Lola per i suoi compagni: ai tempi dell’università era la fidanzata di Ruano. LA TARGA COMMEMORATIVA che sarà visibile da oggi è figlia di una nuova sensibilità verso il passato antifranchista le cui origini più remote sono nella legge sulla memoria storica voluta dodici anni fa da José Luis Zapatero, e quelle più recenti nell’impegno del governo di Pedro Sánchez e, soprattutto, di Podemos e Izquierda unida. Una svolta rispetto al precedente «oblio istituzionalizzato» che non è mai andata giù alla destra spagnola, a quella istituzionale e «moderata» del Pp e, tanto meno, a quella più radicale che ora si riconosce nel nuovo partito Vox. Un importante atto di politica della memoria, quello di oggi, che però non cancella le responsabilità che i poteri pubblici hanno avuto anche in epoca democratica nel garantire l’impunità degli assassini. I TRE POLIZIOTTI che avevano in custodia Ruano al momento della sua morte furono processati nel 1996 – caso più unico che raro, vista la legge di amnistia vigente – dal tribunale di Madrid, che però li assolse, pur esprimendo nella sentenza «tristezza per la morte di una persona che lottava per i diritti fondamentali oggi riconosciuti dalla Costituzione». I giudici si limitarono a riconoscere «un funzionamento anormale dell’amministrazione dello stato» che poteva dare diritto a un risarcimento. Una decisione confermata definitivamente, l’anno dopo, dal Tribunal Supremo. * Fonte: Jacopo Rosatelli, IL MANIFESTO

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Strage del 12 dicembre a Milano, 48 anni di domande https://www.micciacorta.it/2017/12/23939/ https://www.micciacorta.it/2017/12/23939/#respond Sun, 10 Dec 2017 15:11:16 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23939 Che cosa accadde veramente a Milano il 12 dicembre del 1969?

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A distanza di tanti anni ancora senza risposta alcuni interrogativi: quante furono le bombe pronte ad esplodere? Perché fin dalla mattina si era sparsa la notizia della strage? Martedì 12 sono 48 anni dalla strage di Piazza Fontana. Quell’attentato del 12 dicembre del 1969, che provocò 17 morti e 87 feriti, continua a trascinare con sé, a tanti anni di distanza, domande e interrogativi. Che cosa accadde veramente quel giorno a Milano? QUATTRO E NON DUE LE BOMBE? La mattina del 13 dicembre sulla prima pagina del quotidiano della Democrazia cristiana, Il Popolo, comparve la clamorosa notizia del ritrovamento verso la mezzanotte del giorno prima, «in via Monti», di un «altro ordigno», poi «disinnescato e reso inoffensivo» dagli artificieri. Notizia rimasta senza alcun seguito. «l’Unità», a sua volta, il 18 dicembre, a pochissimi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura, pubblicò in edizione nazionale il resoconto di una conferenza stampa tenuta dagli anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa, con la denuncia del ritrovamento di altre due bombe inesplose, taciute dalla polizia, nella sera stessa del 12 dicembre, una in una caserma militare e l’altra in un grande magazzino. La questura smentì immediatamente. Su questa vicenda il quotidiano comunista ritornò mesi dopo, il 26 febbraio, scrivendo di «due ordigni» rinvenuti «presso il negozio di abbigliamento della Fimar in corso Vittorio Emanuele» e la «caserma di via La Marmora» (nei pressi di via Monti), denunciando il giorno successivo con un altro pezzo in prima pagina come ai vigili urbani, autori del rinvenimento, e «ai loro dirigenti», fosse stato «imposto il silenzio». QUALI PROPORZIONI avrebbe dovuto assumere la strage di Milano? Di chi furono le eventuali responsabilità nell’occultamento degli ordigni ritrovati? Domande che meriterebbero una risposta, pur a distanza di tanti anni. Domande non inutili per sapere chi decise di manipolare la verità. Si spiegherebbe finalmente in questo modo anche il motivo dell’acquisto da parte di Franco Freda, riconosciuto come uno dei corresponsabili della strage, di quattro borse a Padova, solo una delle quali fu rinvenuta intatta con dentro la bomba inesplosa alla Banca commerciale di piazza della Scala. UNA STRAGE ATTESA DA ORE Anche un’altra concatenazione di fatti, antecedente la strage, non è mai stata sufficientemente indagata. Nel memoriale di Aldo Moro redatto nei cinquantacinque giorni della sua prigionia ad opera delle Brigate rosse, tra il 16 marzo ed il 9 maggio 1978, rinvenuto nell’ottobre del 1990 in via Monte Nevoso a Milano, leggiamo testualmente: «Ma i fatti di Piazza Fontana furono certo di gran lunga più importanti. Io ne fui informato, attonito, a Parigi dove ero insieme con i miei collaboratori in occasione di una seduta importante dell’assemblea del Consiglio d’Europa che per ragioni di turno dovevo presiedere. Proprio sul finire della seduta mattutina ci venne tra le mani il terribile comunicato d’agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualcosa di inaudita gravità stesse maturando nel nostro paese. Le telefonate, intrecciatesi fra Parigi e Roma, nelle ore successive non potettero darci nessun chiarimento Io cercai di sapere qualche cosa, rivolgendomi subito al Presidente Picella, allora segretario Generale della Presidenza della Repubblica, uomo molto posato, centro di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali propri. I suoi erano i canali dello Stato. Alla mia domanda sulla qualifica politica dei fatti, la risposta fu che si trattava di gente appartenente al mondo anarchico». UN RICORDO SINGOLARE. Come è noto, la strage di Piazza Fontana avvenne solo alcune ore più tardi, alle 16.37. L’Ansa diramò la notizia alle 17.05 e solo nel dispaccio delle 18.30 parlò di una bomba. Si potrà certamente pensare ad un cattivo ricordo anche per le difficili condizioni di prigionia in cui versava Moro. Ma Moro non fu il solo a ricordare male. Anche Alberto Cecchi, già parlamentare del Pci, nella sua Storia della P2 incorse in un identico infortunio: «In Italia l’inizio del secondo tripudio (quello delle armi e del terrorismo) è contrassegnato da una data e da un’ora: il 12 dicembre 1969, intorno alle 11 del mattino. È la strage di Piazza Fontana». Forse a monte di tutto c’è una spiegazione molto semplice: già 5 o 6 ore prima in ambienti politici e militari si era diffusa la notizia dell’imminenza di un fatto di eccezionale gravità. L’allarme era già diffuso. Da qui l’anticipazione in alcuni protagonisti politici dell’epoca del ricordo della strage. Andrebbe, sotto questo profilo, ancora una volta ricordato l’interrogatorio reso il 7 settembre 2000 dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, più volte ministro e figura tra le più prestigiose della Dc. Interrogatorio rilasciato nell’ambito delle nuove indagini sulla strage di Piazza Fontana. Uno dei documenti in assoluto più illuminanti proprio sulle ore antecedenti i fatti. «La sera del 12 dicembre 1969», disse, «il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del SID Doveva partire per Milano recando l’ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID, il Ten. Col. Del Gaudio». Una ricostruzione ribadita dalla stessa figlia del Dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. «Posso dirvi», ribadì riferendosi al padre, «che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita». IN QUESTA ULTIMA DEPOSIZIONE la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto sufficientemente. «Mio padre», sostenne, «era un ‘rautiano di ferro’ e ho sempre avuto l’impressione che abbia appreso l’episodio del 12 dicembre non dai servizi ma dalle sue conoscenze di destra». La verità, anche in questa versione, continua a dirci dell’intreccio fra neofascisti ed apparati statali. FONTE: Saverio Ferrari, IL MANIFESTO

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Pinelli. La finestra è ancora aperta https://www.micciacorta.it/2017/01/22863/ https://www.micciacorta.it/2017/01/22863/#respond Fri, 13 Jan 2017 17:10:40 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22863 Quando l’anarchico precipitò, la Questura era zeppa di agenti in incognito

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La notte di Pinelli non è finita. Quella stanza resta ancora un mistero. Chi furono veramente gli uomini che, innocenti, colpevoli, complici, passarono ore e giorni là dentro e videro quel che accadde? Dopo infiniti processi, istruttorie, sentenze di primo grado, d’Appello, di Cassazione, assoluzioni, condanne, ricusazioni, prescrizioni, archiviazioni, nulla è certo. Quasi mezzo secolo dopo si sa soltanto che un uomo, il 12 dicembre 1969, entrò vivo dal portone della Questura di Milano e uscì morto. Tutto il resto ha doppie e triple facce e resta problematico, ambiguo, nebbioso. La passione di moltitudini che si batterono allora in nome della verità su questo caso-simbolo della dignità di un Paese è stata frustrata. Chissà se Licia Pinelli crede ancora a quel che disse a un giornalista quando Pino morì: «Se in Italia esiste veramente una democrazia, e tutto è successo in democrazia, noi la verità la sapremo». È appena uscito un libro che può aiutare a trovare quella verità mancata, a riaprire l’inchiesta, l’istruttoria, il processo. Un contributo importante. Si intitola semplicemente Pinelli. La finestra è ancora aperta (Colibrì edizioni): l’hanno scritto Enrico Maltini, docente universitario di Agraria, morto lo scorso anno, e Gabriele Fuga, avvocato penalista. Non è un libro di parte, anche se gli autori appartennero alla cerchia anarchica. Non è un libro fazioso, è minuziosamente documentato e le sue pagine hanno un tono più accorato che polemico. Prevale la voglia di capire, il dubbio resta costante, l’attenzione ai particolari fa da guida, il buon Dio, si sa, si nasconde nei dettagli, come scrisse Flaubert. Qual è il cuore del libro, quasi un verbale? L’8 ottobre 1996 un ufficiale e due agenti di polizia giudiziaria rinvennero in un magazzino di via della Circonvallazione Appia 132 a Roma un’enorme quantità di documenti dell’ufficio Affari riservati del ministero degli Interni, i servizi segreti dell’epoca, 400 faldoni soltanto sulla strage di piazza Fontana, disponibili di recente dopo la digitalizzazione della Casa della Memoria di Brescia. Si tratta di 150 mila fascicoli di atti istruttori e processuali: non sono i famosi «scheletri negli armadi», ma se non fossero stati trovati in tempo rischiavano di andare al macero, cancellando per sempre preziose notizie di prima mano. Dopo la scoperta, le Procure di Milano, di Venezia, di Roma hanno riaperto le indagini non arrivate all’osso, ma proficue anche perché sono stati interrogati protagonisti di quel tragico caso che non erano mai stati sentiti. Alcuni hanno seguitato a tacere, omissivi, bugiardi, spauriti, uno spettacolo di Dario Fo. Ma altri, pensionati, ormai lontani dagli ordini dei superiori e non più timorosi per i rischi della carriera, hanno rivelato fatti non conosciuti, anche rilevanti. Gli autori di questo libro, lavorando come certosini sulle vecchie e sulle nuove carte, sono riusciti a dare al caso Pinelli un quadro più ricco, non certo definitivo ma capace di render chiari certi buchi neri. Subito dopo la strage di piazza Fontana furono 14 i funzionari anche di livello alto che piombarono a Milano con il nome di Valpreda assassino scelto a freddo su indicazione soprattutto di un informatore. Tra loro nomi di rilievo come Silvano Russomanno, un passato nella Repubblica di Salò, 373° Battaglione Flak, internato dopo la guerra a Coltano, il campo di concentramento dei repubblichini — la continuità dello Stato — e con lui Elio Catenacci, il direttore apparente degli Affari riservati. Il vero regista, capo effettivo dei servizi, fu Federico Umberto D’Amato, morto nel 1996, che finì la carriera come gourmet dell’«Espresso». In trent’anni, un altro mistero, non venne mai interrogato dai magistrati. Si sa adesso che oltre ad essere legato al vertice del controspionaggio della Cia in Italia, James Angleton, aveva strettissimi rapporti con Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale e degli eversori fascisti, notizia sempre negata («Non l’ho mai visto») e ora documentata dal suo vice Guglielmo Carlucci. Erano quei 14 venuti da Roma a decidere il da farsi, a dettare la linea, a scrivere i rapporti che i questurini di Milano poi firmavano. Questi uomini in incognito si aggiravano in via Fatebenefratelli, sconosciuti a chi allora passò da quelle stanze. I romani non avevano una gran stima dei milanesi, complici ubbidienti. Solo il capo dell’ufficio politico della Questura, Antonino Allegra, legato a Russomanno, conosceva forse qualche verità in più dei colleghi o sottoposti. Fu lui ad accompagnare a Roma in aereo il tassista Rolandi e a condurlo al Viminale dal capo della polizia Angelo Vicari, bene attento a non parlarne, come avrebbe dovuto, ai magistrati. Fu lui, giorni dopo, a dire a Vicari che «al momento del fatto, Pinelli era appoggiato di spalle alla finestra», un particolare, scrivono gli autori del libro, che «fa piazza pulita dei tuffi e balzi felini ripetuti dai sottufficiali presenti, dal tenente dei carabinieri Lo Grano e dagli stessi Allegra e Calabresi». (Scatti felini, tuffi, balzi repentini e fulminei). Probabilmente Pinelli fu picchiato, colpito, spinto violentemente verso la finestra e cadde. Come mai, a esclusione del tenente dei carabinieri, nessuno degli uomini della stanza ebbe un barlume di pietà e scese in cortile a vedere quell’uomo? Probabilmente perché nello studio del commissario Allegra si doveva frettolosamente decidere quel che si sarebbe dovuto fare e dire ai giornalisti. («Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. (...) Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa», come disse il questore Guida). Chi c’era nella stanza del quarto piano della Questura di Milano quei giorni, quella notte? È impensabile che l’interrogatorio di Pinelli, di grande rilievo per tutta l’inchiesta sulla strage, fosse affidato al commissario Luigi Calabresi, l’ultimo nella catena gerarchica. Dov’erano Russomanno, Catenacci e anche altri con gradi alti nei servizi, Alberto D’Agostino, Ermanno Alduzzi, Guglielmo Carlucci? Chi irruppe nella stanza e fece il saltafosso, tipico delle polizie, in questo caso l’urlo «Valpreda ha parlato»? Calabresi quella notte, davanti a cinque giornalisti, avallò le menzogne del questore Guida, non ebbe un moto di dissenso né di amarezza, ma questo non esclude che possa essere stato usato dai suoi superiori, tutti, come capro espiatorio e che i veri responsabili siano altri. Nel maggio 2009 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato di Pinelli, figura innocente, «vittima due volte. Prima di pesantissimi, infondati sospetti, poi di un’improvvisa assurda fine». Ma non basta ancora. Manca una sentenza. Il Pinelli di Fuga e Maltini può aiutare. È un romanzone purtroppo vero, zeppo di spie, doppiogiochisti, diavoli, angeli, traditori della patria, vittime, poliziotti dell’illegalità, figuranti di uno Stato che non ha avuto il coraggio di processare se stesso. SEGUI SUL CORRIERE DELLA SERA

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47 anni dopo. Piazza Fontana, la madre delle stragi https://www.micciacorta.it/2016/12/47-anni-piazza-fontana-la-madre-delle-stragi/ https://www.micciacorta.it/2016/12/47-anni-piazza-fontana-la-madre-delle-stragi/#respond Mon, 12 Dec 2016 08:37:45 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22779 12 Dicembre 1969, ore 16:37, una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 17 persone e ferendone altre 88. Tre giorni dopo la diciottesima vittima: l’anarchico Giuseppe Pinelli vola da una finestra della questura di Milano, dove veniva trattenuto illegalmente. Dopo 35 anni di processi  nel 2005 la Corte di Cassazione […]

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12 Dicembre 1969, ore 16:37, una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano uccidendo 17 persone e ferendone altre 88. Tre giorni dopo la diciottesima vittima: l'anarchico Giuseppe Pinelli vola da una finestra della questura di Milano, dove veniva trattenuto illegalmente. Dopo 35 anni di processi  nel 2005 la Corte di Cassazione concluderà che la strage di piazza Fontana fu realizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova, nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari» per questo stesso reato.

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Squarci di verità sulla morte di Pinelli https://www.micciacorta.it/2015/12/squarci-di-verita-sulla-morte-di-pinelli/ https://www.micciacorta.it/2015/12/squarci-di-verita-sulla-morte-di-pinelli/#respond Wed, 16 Dec 2015 09:30:18 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21006 Volo senza appigli. Una nuova ipotesi riemerge dalle carte dimenticate dell'inchiesta su Argo 16. L'anarchico, aggredito durante l'interrogatorio con la falsa confessione di Valpreda, avrebbe subito una pressione anche fisica

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Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ferroviere di 41 anni, storico dirigente del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, era stato fermato dal commissario Luigi Calabresi la sera del 12 dicembre, qualche ora dopo la strage di piazza Fontana, e trattenuto illegalmente. Come più volte è stato raccontato, dapprima si sostenne, da parte dei dirigenti della questura, che Pinelli era implicato nella strage di piazza Fontana, poi che, sentendosi perduto, si sarebbe suicidato. La conclusione giudiziaria fu scandalosa. La pietra tombale fu posta nell’ottobre 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza di proscioglimento, unica nella giurisprudenza italiana, per cui non si trattò né di omicidio né di suicidio. Giuseppe Pinelli, in spregio alle più elementari leggi della fisica e della medicina legale, causa un «malore attivo» fu preda, secondo questa ricostruzione, di un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio», che innescando «movimenti scoordinati» lo proiettò letteralmente fuori dalla finestra.

Una vergognosa invenzione

Un fenomeno senza precedenti, mai più verificatosi in nessun altro luogo e in nessun altro Paese. Ma solo quella notte, a quell’ora, in quell’ufficio della questura di Milano, vittima un ferroviere anarchico. Una ricostruzione palesemente inventata al solo scopo di non portare a processo i poliziotti e i carabinieri responsabili, tra loro il commissario Luigi Calabresi, come testimoniò Pasquale Valitutti, un altro anarchico, che lo vide entrare e non uscire da quell’ufficio prima del «volo» di Pinelli. Un atto di vergognosa sottomissione della giustizia. Da allora sono state formulate diverse ipotesi sulla fine dell’anarchico. Alcune decisamente fantasiose. Una, in particolare, tra le ultime, ha lasciato tutti esterrefatti. A esternarla non uno qualsiasi, ma addirittura un ex commissario di Polizia, Giordano Fainelli, presente quella notte in questura. In un’intervista rilasciata all’agenzia giornalistica «Il Velino», nel luglio 2006, raccontò che «Pinelli era stato lasciato completamente solo» e che «intorno a mezzanotte» gli «venne incontro il collega Mainardi concitatissimo» che gli disse «è scappato Pinelli, non si trova più». Ma la fuga si era conclusa tragicamente: l’anarchico, attaccatosi, per scappare, alla ringhiera di una porta-finestra (secondo Fainelli del terzo piano, mentre Pinelli precipitò dal quarto) era scivolato schiantandosi nel cortile sottostante. Il motivo di questo maldestro tentativo il fatto che non potesse «più negare il suo coinvolgimento» nei precedenti attentati in agosto. Incredibile che a raccontare una frottola di questa portata sia stato un funzionario di polizia, che non solo ha fatto finta di non sapere che per quegli attentati di agosto furono poi condannati con prove inoppugnabili i fascisti di Ordine nuovo, ma che in tutti questi anni ben si è guardato di riferire il suo racconto a un magistrato. Uno squarcio di verità, passato sotto silenzio, c’è stato consegnato, invece, da un’altra inchiesta, questa sì incredibilmente dimenticata. Ci riferiamo a un interrogatorio accluso agli atti dal giudice veneziano Carlo Mastelloni nel corso della sua indagine riguardante l’aereo militare C-47 Dakota, in sigla Argo 16, a disposizione dei servizi segreti italiani, caduto il 23 novembre 1973 a Marghera, in cui persero la vita quattro membri dell’equipaggio. Si ipotizzò il sabotaggio da parte del Mossad israeliano come atto di ritorsione per la politica filo araba italiana. Lo stesso velivolo, alcune settimane prima, era stato, infatti, utilizzato per riportare in Medio Oriente cinque palestinesi fermati a Ostia mentre preparavano un attentato contro un aereo della compagnia di bandiera El Al. Ebbene, in una lunga deposizione dell’ex maresciallo Giuseppe Mango, dal 1965 presso la direzione centrale del Ministero dell’interno, rilasciata il 19 aprile 1997 e riguardante il funzionamento dell’Ufficio affari riservati, si parlò anche della morte di Giuseppe Pinelli. Antonino Allegra, il dirigente dell’Ufficio politico della questura di Milano «fu convocato a Roma da D’Amato», il direttore della Divisione affari riservati, «ed entrambi si recarono da Vicari», l’allora capo della Polizia, così disse Giuseppe Mango.

Una ricostruzione chiarificatrice

«Allegra sosteneva che Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù». Una ricostruzione nuova, mai avanzata in precedenza, in palese contrasto con le deposizione di tutti coloro che si trovavano in quell’ufficio, accompagnata da un ulteriore elemento chiarificatore. «Dal D’Amato medesimo seppi che al Pinelli era stata contestata una falsa confessione di Valpreda, notizia improvvisamente portata da qualcuno, credo dal capitano dei carabinieri il quale aveva fatto irruzione nella stanza piena di personale della questura». Evidente la concatenazione dei due eventi. Pinelli di spalle alla finestra era stato violentemente aggredito da chi, attraverso una dichiarazione inventata ad arte, gli contestava la colpevolezza degli anarchici. Una pressione anche fisica. Da qui la caduta nel vuoto. Ma anche la spiegazione dell’assenza sulle sue mani e sulle sue braccia di abrasioni. In quella posizione era caduto all’indietro, a corpo morto. Non aveva neanche potuto tentare di aggrapparsi alle sporgenze del muro. Aveva picchiato sul cornicione sottostante ed era poi finito nel cortile. Forse le cose andarono proprio così.

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Un 12 dicembre particolare https://www.micciacorta.it/2015/12/un-12-dicembre-particolare/ https://www.micciacorta.it/2015/12/un-12-dicembre-particolare/#respond Fri, 11 Dec 2015 09:24:34 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20976 Il 12 dicembre è un giorno particolare per Milano. Ancora oggi, 46 anni dopo lo scoppio della bomba in Piazza Fontana, non ce l’hanno fatta a normalizzare e addomesticare la memoria

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Il 12 dicembre è un giorno particolare per Milano. Ancora oggi, 46 anni dopo lo scoppio della bomba in Piazza Fontana, non ce l’hanno fatta a normalizzare e addomesticare la memoria, tant’è che lo stesso neoprefetto, l’ex questore Marangoni, ha voluto caratterizzare il suo arrivo in città dichiarando che sarà necessario «ripensare al rapporto con la famiglia Pinelli». Già, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, falsamente accusato e morto dopo un volo di quattro piani da una finestra della Questura. Ma il 12 dicembre non è soltanto ferita aperta e giustizia negata, è anche il simbolo di un potere istituzionale che non aveva esitato a ricorrere alla manovalanza fascista e alle bombe pur di fermare il cambiamento e salvaguardare lo status quo sociale e politico. L’avevano chiamata strategia della tensione e l’idea era diffondere paura e suscitare domanda d’ordine. Un’idea non particolarmente originale, ma di notevole successo tra i guardiani degli interessi dominanti, visto che è tuttora molto in voga in giro per il mondo. E se avete qualche dubbio, allora guardate cosa succede in Turchia, il paese Nato del coccolato alleato Erdogan, dove viene applicata quasi alla lettera, oppure fermatevi un attimo a ragionare sulle fortune elettorali che raccolgono le campagne xenofobe e l’istigazione alla paura. Anche per questo la memoria di piazza Fontana non può e non deve essere ridotta a mera commemorazione, ma anzi, soprattutto in questi tempi di Daesh, guerre, razzismo e stati di emergenza, deve diventare occasione per prendere parola, manifestarsi e schierarsi sul presente e sul futuro. Domani a Milano non ci sarà, quindi, soltanto la commemorazione istituzionale, ma anche un corteo cittadino che intende unire la memoria della strage di Stato a quello che accade oggi. «Ricordare le stragi di ieri, fermare le guerre di oggi» si intitola infatti l’appello firmato da numerose realtà dell’antifascismo e antirazzismo milanese. E non è un caso se tra le prime firme, dopo quelle della famiglia Pinelli, Licia, Claudia e Silvia, e di Pia Valpreda, troviamo l’adesione della Comunità curda, perché oltre al ponte di dolore e rabbia che unisce piazza Fontana, Suruç e Ankara, c’è anche la condivisione di valori e aspirazioni. E poi, diciamoci la verità, nei nostri mondi, quelli dei movimenti, dell’attivismo sociale e politico e delle varie disastrate sinistre, siamo rimasti parecchio smarriti dopo Parigi e abbiamo un disperato e urgente bisogno di ritrovare una voce, un punto di vista, un’opzione visibile e credibile. Non solo per noi stessi, beninteso, ma perché quando in mezzo a un presente in subbuglio, fatto di crisi europea sempre più acuta, di vecchie e nuove guerre permanenti, di stati emergenziali e di frontiere blindate, viene a mancare un punto di vista alternativo, allora diventa maledettamente concreto il rischio di finire schiacciati nella morsa dei fascismi in salsa islamica, come Daesh, e di quelli in salsa nostrana, da Le Pen a Trump e a Salvini. E non è un bel vedere che in mancanza di questo punto di vista ci sia chi si accontenta di arruolarsi nella tifoseria del Putin di turno, se non peggio. Non sarà certamente un 12 dicembre a risolvere i nostri problemi, ma da qualche parte bisogna pure iniziare e forse il giorno più adatto per farlo è proprio questo, poiché la memoria e la consapevolezza delle infamie di ieri aiutano a non perdere la lucidità nel presente. Si parte alle ore 15.30 da P.ta Venezia, si passa anche dal consolato turco e si finisce in piazza Fontana, insieme ai familiari delle vittime della strage.

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