guerra di Liberazione – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 08 Oct 2023 08:23:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La Resistenza tradita e la scomoda eredità della Liberazione https://www.micciacorta.it/2023/10/la-resistenza-tradita-e-la-scomoda-eredita-della-liberazione/ https://www.micciacorta.it/2023/10/la-resistenza-tradita-e-la-scomoda-eredita-della-liberazione/#respond Sat, 07 Oct 2023 08:30:41 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26671  «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana

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 «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana   Sforziamoci di tralasciare, almeno per un attimo, l’altrimenti diffusa retorica della «storia dimenticata», quella che celebra il passato come una sorta di buco nero dove, agli eventi concreti, si sarebbe sostituita una mera narrazione in funzione degli interessi dei «poteri forti». Ciò che chiamiamo con il nome di storia, infatti, non è solo il riscontro del fatto che il discorso corrente (nella comunicazione dominante da parte dei media così come nell’opinione pubblica) possa essere fortemente viziato da categorie, immagini e pensieri di parte. Il fare storia, infatti, implica semmai indagare soprattutto su come sussista, in base alle palesi egemonie politiche e culturali del momento (e non in ragione di un oscuro disegno), l’accento su una molteplicità di aspetti piuttosto che su altri. TUTTA LA COMPLESSA vicenda della ricezione e dell’eredità della guerra di Liberazione, dallo stesso aprile 1945 in poi, va quindi letta anche sotto questa lente. Evitando pertanto banalizzazioni nonché semplificazioni di maniera. Esattamente, invece, ciò cui anelano qualunquisti e conformisti di ogni risma e genere. La complessità della guerra partigiana si perde infatti dentro i meandri di una falsa «contro-storia», con un drastico capovolgimento delle parti. Si tratta di quell’approccio, per intenderci, che azzera tutto, nel nome di una fittizia «unità nazionale» (oggi chiamata «pacificazione») dalla cui assenza, invece, i «nemici dell’Italia» avrebbero saputo trarre giovamento. Per poi auto-incensarsi del tutto immeritatamente. Una pubblicistica di ampia diffusione, ha trovato in questi ultimi tre decenni un significativo riscontro di lettori. Dalla pagine più sofisticate dedicate alla «morte della patria» da parte di Galli della Loggia alla fluviale letteratura, a tratti inferocita, di Pansa. Dopo di che, poste tali premesse critiche, si entra a pieno titolo nel merito del libro di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica italiana, 1945-2022 (Einaudi, pp. 232, euro 28). Diverse questioni sono infatti sollevate dal suo testo, al netto delle cronache che vi sono ricostruite, sulla base dell’interpolazione di molteplici fonti (rapporti delle forze dell’ordine, documentazioni processuali, articoli della stampa quotidiana e periodica, soprattutto di estrazione locale), che ci restituiscono il quadro di un’epoca. Tra di esse, e come tali di particolare rilievo, sono quelle vicende che non rimandano al solo uso discrezionale, in chiave deliberatamente restauratrice, della magistratura – e quindi della somministrazione della stessa giustizia – ma ad una più generale opera di normalizzazione conservatrice: cancellare quindi, laddove possibile, l’eredità ancora recentissima della lotta di Liberazione. Trasformandola pertanto in una irrisolta commistione tra occasionalità e criminalità, tra ribellione e sedizione, disobbedienza e opportunismo. UNA TALE PULSIONE, che di fatto attraversa un po’ tutta l’Italia, a partire da quella settentrionale, risponde a molteplici logiche, fino ad un certo punto ascrivibili al solo calcolo politico. Poiché ciò che essa testimonia è, semmai, un più generale percorso dove ciò che è stato – ovvero una commistione irrisolta tra segmenti del liberalismo ante-fascista e regime mussoliniano – emerge in tutti i suoi aspetti più radicati, destinati poi a non essere risolti con il nuovo ordine costituzionale. Si dà quindi come il parametro sul quale misurare l’accettabilità, o meno, della svolta prodotta dalla lotta di Liberazione. Nella misura in cui il partigianato ha reintrodotto, nella sfera dello Stato unitario, qualcosa che lo stesso Risorgimento si era incaricato, soprattutto dal 1859 in poi, di estromettere progressivamente, cioè la partecipazione in armi della collettività ai grandi moti di trasformazione in corso. Nell’Europa postbellica, all’epoca, era ancora presente la eco di tre eventi indice: le tumultuose sollevazioni borghesi del 1848; l’esperienza collettiva, ancorché sanguinosamente repressa, della Comune parigina nel 1871; le insorgenze popolari, generate dalla Prima guerra mondiale e poi variamente sedate. Con efferata brutalità. I fascismi continentali, a fronte della decadenza degli ordinamenti liberali, avevano tratto da ciò parte della loro legittimità, presentandosi come i soggetti che avrebbero ripristinato una qualche pratica di «ordine» e di «gerarchia». Nel momento in cui, dal 1945, tutto questo declinò tra i giganteschi flutti di uno scontro armato epocale, il conflitto tra legalità (quella istituita dai vincitori) e legittimità (derivante dai movimenti che nel frattempo si erano verificati dal basso, a partire dalla stessa lotta partigiana), rimase comunque a lungo irrisolto. Se da una parte valevano le leggi e le disposizioni degli Alleati, e con esse il bisogno di confrontarsi con una nuova minaccia, quella bipolare, dall’altro, esauriti i primi e veloci momenti di euforia per la fine della guerra, andava invece crescendo un senso di insoddisfazione. NON DI MENO, come già ha avuto modo di sottolineare una storiografia consolidata, che trova in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, (Editori Riuniti, 1999) un primo punto di sintesi, alla violenza inerziale che si trascinò ancora nel tempo, corrispondeva la restaurazione di un potere che non intendeva in alcun modo confrontarsi con quella idea di cittadinanza attiva, civile, e al medesimo tempo ribelle, della quale il partigianato era espressione. Gli eventi succedutisi, soprattutto sul piano giudiziario, con il ricorso alla magistratura, come ordinamento repressivo, spesso debitore dell’impronta fascista sia sul piano culturale che legislativo, si inquadrano in questa logica. Già Guido Neppi Modona con il suo pioneristico lavoro su Giustizia penale e guerra di liberazione (Franco Angeli, 1984) aveva avviato, ben quarant’anni fa, una ricognizione in tale senso. All’epoca ancora motivata dal riuscire a tradurre una lunga e tortuosa stagione di sforzi di democratizzazione degli apparati dello Stato (quella intercorsa nei due decenni precedenti) all’interno di una più generale riconsiderazione del significato della lotta partigiana, e del suo trattamento giudiziario, a quarant’anni dalla sua conclusione. Così come, due decenni dopo, il volume collettaneo a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Giudicare e punire. Processi per crimini di guerra tra diritto e politica (L’ancora del Mediterraneo, 2005), spostava il fuoco verso una serie di questioni, a bipolarismo internazionale oramai da tempo conclusosi, che richiamavano il nesso tra violenze belliche, soglie di accettazioni e di rigetto, rapporto tra giustizia e classi dirigenti, percezioni e rielaborazioni dei lutti come esperienze di trapasso collettivo da vecchie a nuove società. I LIBRI QUI CITATI sono solo alcuni dei possibili antecedenti al volume di Ponzani, che raccoglie in sé vent’anni di ricerche e riflessioni sulla criminalizzazione dell’eredità della guerra partigiana nella storia repubblicana. Come tale, è anche una risposta alle narrazioni dominanti in un certo senso comune, al pari di una parte della pubblicistica ad ampia diffusione, che associano la lotta di Liberazione ad un esercizio stragista, annullano le differenze tra carnefici e vittime, per poi ribaltarne i ruoli, rileggono – in chiave chiaramente filofascista – gli eventi dall’8 settembre 1943 in poi per ricavarne una netta rivalutazione morale, prima ancora che politica, degli sconfitti. Ponzani accompagna il lettore attraverso i diversi livelli di criminalizzazione istituzionale, laddove questi si verificarono, di cristallizzazione retorica del ricordo, di parificazione delle violenze e di annichilimento del significato dell’azione partigiana come atto di radicale disobbedienza, fondato su uno spontaneo principio di eticità. Fa quindi effetto il riscontrare analiticamente come certi canoni ideologici che sono transitati dal fascismo alla Repubblica, si ripropongano con potenza di inerzia nel discorso di senso comune. Uno tra tutti, le anacronistiche e surreali polemiche su via Rasella. Solo per uno tra i tanti, possibili richiami. * Fonte/autore: Claudio Vercelli, il manifesto

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I quattro nomi del gappista Mario Fiorentini https://www.micciacorta.it/2020/04/i-quattro-nomi-del-gappista-mario-fiorentini/ https://www.micciacorta.it/2020/04/i-quattro-nomi-del-gappista-mario-fiorentini/#respond Sat, 11 Apr 2020 08:21:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26067 La testimonianza. L'ultimo gappista di via Rasella, Mario Fiorentini, dopo la Resistenza è stato matematico, accademico e divulgatore

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La sua abitazione è la stessa dei genitori cent’anni fa, vicino al luogo della più clamorosa azione partigiana nella guerra di Liberazione, l’attentato di via Rasella. L’attacco urbano antinazista fu organizzato da questo signore sorridente, un volto profondo, vissuto, gioviale: Mario Fiorentini, nato il 7 novembre 1918. Aveva 25 anni quando a Roma la formazione Gramsci dei Gruppi di Azione Patriottica – tra i più coraggiosi nella Resistenza – composta da una dozzina di comunisti (fra i quali Carla Capponi, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei) fece saltare in aria 33 occupanti tedeschi e alimentò la speranza nella vittoria. Era il 23 marzo 1944, Mario ne parla come un dovere amoroso di libertà, la condizione per una vita normale: fra i più ardimentosi «era una gara a chi doveva stare in prima linea, anche se rischiavamo le rappresaglie conseguenti, in questo caso le Fosse Ardeatine». Certo, «ci vuole anche fortuna e tanta prudenza: ho sfidato molte volte la morte». Lo dice in serenità, come si vede spesso in donne e uomini di moralità altissima quando parlano delle loro scelte durissime nel muovere guerra alla guerra per rivedere tutti la luce: come Giovanni Pesce all’ultima intervista che diede, alla gioia di vivere che induce alla lotta contro i nemici del bene e del giusto. Blasetti, Pirandello, Visconti Mario Fiorentini -padre ebreo e madre cattolica- è una personalità dalle pulsioni molteplici che ne hanno puntellato il percorso esistenziale: era un ragazzo amante d’arte, «poi le leggi razziali del 1938 mi han fatto fare un salto di qualità politico e mi sono impegnato concretamente per abbattere il regime». Sfugge al servizio militare grazie a «malattia e febbri tifoidee di oltre 40° che si prolungano per mesi quando vengo chiamato alle armi, intanto il mio 19° reggimento fanteria veniva spedito in Africa… Vengo congedato, col compagno di scuola Carlo Lizzani partecipo a numerose iniziative culturali e conosco il regista Alessandro Blasetti». Matura esperienze teatrali con celebrità quali Vittorio Gassman, Lea Padovani, Carlo Mazzarella, Ave Ninchi, Adolfo Celi, Luigi Squarzina, e mette in scena L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Quindi collabora prima con Giustizia e Libertà, poi col Partito Comunista facendosi organizzatore e dirigente gappista; intanto conosce Lucia Ottobrini che sarà la sua compagna nella lotta e nella vita. Dopo il 25 luglio crea con Antonello Trombadori il gruppo partigiano Arditi del Popolo ed il 9 settembre 1943 è fra i combattenti nella battaglia di Porta San Paolo. A ottobre prende il comando del Gap di Roma Centro, a lui fanno riferimento artisti del calibro di Visconti, Guttuso, Mafai, Vedova: il 16 sfugge al rastrellamento contro gli ebrei scappando sui tetti e abbandonando alcune bombe sotto il letto; dopo un attentato fallito contro il ministro degli Interni di Salò, il 31 il gappista – con Lucia in compiti di copertura – liquida tre militi della Rsi. Il 17 dicembre – con Lucia, Carla e Rosario – uccide un ufficiale nazista; il giorno dopo lo stesso quartetto elimina con un attacco dinamitardo otto militari in uscita dal cinema Barberini, mentre il 26 Mario in bicicletta lancia un pacco esplosivo all’ingresso di Regina Coeli per far sentire ai detenuti politici (fra essi Sandro Pertini) vicinanza ideale: giustizia sette soldati e sfugge miracolosamente ai proiettili dei mitra avversari… Avventure rocambolesche di chi rivendica a sé d’essere una persona normale, sensibile alla paura come tutti. In quei mesi di Storia accelerata, Mario dal suo rifugio segreto di via del Tritone studia il tragitto di truppe nemiche e teorizza l’assalto al cielo di via Rasella, approvato dal capo militare supremo Giorgio Amendola: l’azione viene perfezionata anticipando il 10 marzo un attacco al corteo fascista di via Tomacelli dopo essersi nascosti fra le bancarelle del mercato adiacente. La decorata sono io Lucia e Mario operano assieme, le affinità elettive e l’attrazione reciproca cementano la sintonia. Lucia Ottobrini nasce nel 1924 e per 15 anni vive in Alsazia, dove il padre andò per lavoro essendosi rifiutato di tesserarsi al partito fascista, e dove la bambina impara francese e tedesco. Giovanissima, viene quindi assunta al Ministero del Tesoro: a fine ’42 conosce Mario, con lui frequenta i pittori di via Margutta e le compagnie teatrali, entra nella rete clandestina a fianco di Laura Lombardo Radice, procura cibo e documenti ai militanti segreti, nasconde in casa armi, s’infiltra nelle file nemiche coi nomi di battaglia di Maria Fiori e Leda Lamberti, entra nei Gap e partecipa alle azioni armate. Talvolta viene fermata, ma il suo ottimo tedesco la sottrae al peggio… Dopo il colpo grosso di via Rasella, Mario e Lucia devono stare più in guardia che mai: operano per un po’ al Quadraro e al Quarticciolo a contatto con la formazione radicale Bandiera Rossa, poi per sicurezza devono lasciare Roma e vanno a dirigere i Gap a Tivoli e dintorni; da lì Lucia tiene i collegamenti con la Capitale, spesso coprendo la distanza a piedi, poi assume il grado di Capitano e dirige altre operazioni cruciali nella storia della Resistenza. Come ogni combattente clandestino, Mario si muove con documenti falsi via via sostituiti, al pari dei suoi nomi di battaglia che sono almeno quattro: Giovanni, Fringuello, Gandhi, Dino. Dopo aver combattuto nel Lazio e liberato Roma, Fiorentini viene arruolato nei servizi segreti dell’OSS (Office of Strategic Services), inviato a Brindisi per addestramento al lancio in volo e paracadutato al Nord dove prosegue la Resistenza in Emilia e Liguria. Lo arrestano quattro volte, quattro volte evade… Esce dal conflitto col grado di Comandante Maggiore, accumulando tre Medaglie d’argento al valor militare, tre Croci al merito di guerra, una Onorificenza d’oro Usa: è il partigiano più decorato d’Italia. Appesa al chiodo la divisa, Mario Fiorentini può finalmente dedicarsi alla sua grande passione matematica, «alla sua bellezza», in particolare all’algebra commutativa e alla geometria algebrica. Nel 1971, a 53 anni, diventa professore ordinario di Geometria superiore all’Università di Ferrara. In seguito non cesserà di diffondere nelle scuole l’amore per lo studio, collaborando anche con giovani artisti, scrivendo libri di «matemagica» col docente «giocologo» ed enigmista Ennio Peres per rendere amabile la materia da lui amata. L’ultimo gappista vive con la figlia e un nipote. Lucia se n’è andata nel 2015. Mario lo dice con sorriso mesto, ma anche con un sorriso: «Quando il ministro Taviani le consegnò la Medaglia d’argento al valore, pensò di avere di fronte “la vedova del decorato” ma Lucia lo corresse: “la decorata sono io”». * Fonte: Damiano Tavoliere, il manifesto

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