imperialismo – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 15 Mar 2018 16:26:50 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 In Vietnam l’Agente Orange continua a uccidere https://www.micciacorta.it/2018/03/24262/ https://www.micciacorta.it/2018/03/24262/#respond Thu, 15 Mar 2018 16:26:50 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24262 Reportage. Il veleno silenzioso dell’Agente arancio continua a uccidere nel Paese dove negli anni ’70 sono state sganciate tre volte le bombe della Seconda guerra mondiale

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HO CHI MINH. Il grande Chinook CH4 all’ingresso dell’edificio sembra ancora perfettamente funzionante. Il gigantesco elicottero da trasporto, che ebbe il suo battesimo proprio in Vietnam, è uno dei tanti reperti di quel conflitto che accolgono il visitatore del War Remnant Museum, il museo della guerra di Saigon: è uno dei molti residuati bellici disposti nel giardino su cui si affaccia il più terribile percorso della memoria che si possa compiere nell’ex capitale del Vietnam del Sud. Il palazzo ha una serie di sale dedicate ai conflitti che hanno attraversato il Paese, dalla guerra coi francesi fino a quella con gli americani. Ci sono scene di battaglie, stragi, incendi di villaggi e di cadaveri e un ampio spazi dove sono esposte le fotografie che, da Robert Capa (che morì proprio in Vietnam saltando su una mina) a Larry Burrows, illustrarono il dramma vietnamita e fecero da denotare a una coscienza che andava crescendo e che nel museo prende la forma di volantini, giornali, manifesti e striscioni che stavano in testa ai cortei di protesta, da Washington a Bucarest, da Parigi a Roma. «Il Vietnam è la nostra coscienza» recita proprio uno di questi, regalato da qualche gruppo pro-vietnam italiano negli anni Settanta. COME IN TUTTE LE MEMORIE, c’è anche un problema di eredità. La guerra condotta dagli Stati Uniti, per durata seconda solo a quella afgana ancora in corso, finì nel 1975 con la presa di Saigon immortalata nelle immagini della fuga dal tetto dell’ambasciata americana o del crollo del cancello che difendeva la residenza di Van Thieu, il dittatore del Sud che era appena scappato a Taiwan: c’è un vietcong seduto sul carro armato che abbatte il cancello e corre poi lungo la scalinata del palazzo, oggi dedicato alla Riunificazione e a pochi passi dal museo della guerra, e pianta la bandiera con la stella gialla sull’edificio diventato il simbolo della vittoria dei comunisti. Dal 1975 a oggi però l’eredità lasciata dal conflitto ha continuato a lavorare, uccidendo più di 100 mila persone e ferendone migliaia. Sono le vittime di una guerra postuma, saltati sulle mine o ammazzati dalle migliaia di bombe rimaste inesplose. Durante la guerra del Vietnam (che qui chiamano «Guerra americana») furono sganciate 14 milioni di tonnellate di bombe, tre volte quelle utilizzate dagli alleati nel secondo conflitto mondiale. Tra il 10 e il 30% di questi ordigni è rimasto dormiente. Scoppiando anni dopo. A FARE I CONTI CON L’INQUINAMENTO AMBIENTALE non c’è dunque solo la sopravvivenza dei grandi corsi d’acqua – come il Fiume Rosso o il Mekong, il cui delta immenso ospita il 20% dei contadini vietnamiti. Non c’è solo l’inquinamento da metalli industriali, l’invasione di plastica e polistirolo o la perdita di limo fertile dovuta alle dighe a monte del delta. Così come non c’è solo il problema dello sminamento. Il Paese deve ancora finire di fare i conti con gli effetti a lungo termine di un’altra più subdola eredità che ha continuato a colpire silenziosa e invisibile: la diossina e dunque tumori, malformazioni, malattie della pelle e degli organi interni. Alcune sale del museo sono dedicate a questa violazione patente di ogni regola della guerra che era stata impiegata per fare terra bruciata nei territori dove era attiva la guerriglia. Il napalm, utilizzato per costruire bombe incendiarie che davano fuoco a intere aree di foresta non era sufficiente. Gli scienziati della guerra pensarono allora a un’arma ancora più micidiale: un defoliante che avrebbe messo a nudo intere zone verdi in modo da levare il riparo naturale ai vietcong. IL COSIDDETTO AGENTE ARANCIO – dal colore dei barili che contenevano il veleno – fu utilizzato su gran parte del Vietnam del Sud per oltre 10 anni. Tra il 1961 e il 1971, 80 milioni di litri di «Arancio» furono sganciati per ripulire quasi 80 mila kmq (circa un quarto del Vietnam, che è grande quanto l’Italia) al di sotto del 17mo parallelo. Quattro milioni di vietnamiti furono esposti al veleno che spogliava le piante, contaminava fiumi e terra ed entrava nella catena alimentare; almeno un milione quelle che ne riportarono forme di disabilità che ancora perdurano. Con la pace, e la nuova stagione di amicizia e investimenti tra Usa e Vietnam, gli americani hanno in parte iniziato a pagare. Si è però dovuto aspettare sino al 2012 per decontaminare il solo suolo dell’aeroporto di Da Nang, da cui partivano i bombardieri della morte. Adesso resta l’aeroporto di Bien Hoa, considerato il maggior sito al mondo contaminato da diossina, con 500 mila metri cubi di terra avvelenata. Grazie all’impegno dell’Amministrazione Obama, a gennaio è stato firmato un accordo per sanare l’intera area con fondi americani. Nello stesso tempo, il programma di sminamento nel Paese sta correndo grossi rischi proprio perché l’amministrazione Trump – ricorda il South China Morning Post – vuole tagliare le promesse del suo predecessore: nel budget 2018 i tagli previsti negli aiuti al Vietnam sono nell’ordine del 26% con una riduzione dei fondi per circa un terzo, da 10,5 a 7 milioni di dollari. SE L’AGENTE ARANCIO VENNE UTILIZZATO soprattutto nel Sud, le bombe furono invece sganciate anche al Nord e persino su Hanoi, la capitale della Repubblica popolare guidata da Ho Chi Minh. Si stima che oggi il 15% del Paese sia ancora a rischio per i residui inesplosi: una percentuale che arriva all’84% nella provincia di Quang Tri dove passa il 17mo parallelo. Per andarci bisogna puntare su Danang e risalire oltre Hue, l’antica capitale della dinastia Nguyen che aveva dato i natali a Bao Dai, l’ultimo imperatore vietnamita, un fantoccio prescelto dai francesi e che aveva il compito di far la foglia di fico dei colonialisti. Arrivò a governare fino a pochi mesi dopo la Conferenza di Ginevra del 1955 che sanciva la vittoria sui francesi (sconfitti a Dien Bien Phu l’anno prima) e decideva la spartizione del Vietnam lungo il 17mo parallelo. Il Nord ai comunisti e il Sud all’imperatore o meglio al nuovo governo repubblicano di Ngo Dinh Diem che, qualche mese dopo Ginevra, deporrà Bao Dai. DA DONG HA, UNA FERMATA DI TRENO dopo Hue risalendo verso Hanoi, si imbocca la Statale 1 e si arriva al luogo simbolo della Guerra fredda: la “zona demilitarizzata” attorno al fiume Ben Hai che corre dal confine laotiano al mare. Spezzava una terra di nessuno larga circa 8 chilometri. Oggi è una zona tranquilla circondata da piantagioni e bisogna entrare nel piccolo museo sorto accanto a un grande monumento celebrativo per ricordarsi cos’era. Il ponte che divideva e ora unisce Sud e Nord è in buono stato come le sue assicelle di legno, il casotto della dogana nordvietnamita, gli edifici dove stavano gli osservatori internazionali e una torretta di guardia nella parte Sud, non lontano dalla quale è stato eretto un enorme cono di pietra con una bizzarra forma di missile che si erge in mezzo a foglie di palma stilizzate. La zona meridionale è stata teatro di battaglie violentissime soprattutto durante il conflitto con gli Stati Uniti. I nomi sono noti: Khe Sanh, Con Thien, Hamburger Hill. Ancora oggi la provincia di Quang Tri – e la contigua Quang Binh – restano luoghi pericolosi per farci una passeggiata e le zone del Vietnam dove è più alta la presenza di ordigni inesplosi. Mines Advisory Group, una Ong che opera a Quang Tri dal 1999 (Nobel per la pace nel 1997) qualche anno fa ne aveva disinnescate circa 5 milioni. Al museo di Saigon c’è un quadretto con diverse medaglie che il sergente William Broiwn ha preferito donare al Vietnam. C’è scritto: «Sbagliavo. Vi chiedo perdono». Per migliaia di persone quella guerra non è ancora finita. FONTE: Emanuele Giordana, IL MANIFESTO

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La sfida di Castro https://www.micciacorta.it/2016/02/la-sfida-di-castro/ https://www.micciacorta.it/2016/02/la-sfida-di-castro/#respond Fri, 19 Feb 2016 08:33:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21375 Americhe. Barack Obama andrà a Cuba entro marzo e non dopo la fine del suo mandato. E ora è tempo che finisca l’embargo americano

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cuba

Barack Obama andrà a Cuba entro marzo e non dopo la fine del suo mandato, come si era vociferato nei mesi scorsi. Il ristabilimento dei rapporti tra Stati uniti e Cuba subisce una ulteriore accelerazione. Del resto notizie che vanno in questa direzione si susseguono quasi ogni giorno. Nell’ultima settimana i due paesi hanno ristabilito voli aerei regolari, il ministro cubano del commercio Rodrigo Malmierca è stato ricevuto in pompa magna dalla Camera di commercio di Washington, un gruppo di industriali americani ha deciso di viaggiare a L’Avana per chiedere la fine dell’embargo. E l’elenco potrebbe continuare dopo che Cuba è diventata anche capitale del dialogo religioso con lo storico incontro tra papa Francesco e il patriarca ortodosso Kirill. Gli amici di Cuba e quanti hanno sempre osteggiato l’embargo contro l’isola gioiscono. Il blocco economico si sta allentando via via e presto il Congresso americano potrebbe decretarne la fine definitiva. Sarà interessante ascoltare cosa dirà a questo proposito Obama a L’Avana, così come si attende un suo pronunciamento sul destino della base militare di Guantanamo che i cubani chiedono venga loro restituita come vorrebbe un antico trattato non rispettato da Washington. E da parte cubana si attende il via libera per l’incontro tra Obama e alcuni gruppi dell’opposizione interna. In diplomazia è difficile indicare vincitori e sconfitti. Il bon ton preferisce evitare l’uso di queste categorie nei rapporti tra gli Stati. In sede di valutazione politica è evidente il fallimento delle strategie americane contro l’isola: dai tentativi di invasione (Playa Giròn) agli attentati, dall’embargo decretato nel 1962 ai tentativi di renderlo più stringente dopo il crollo del Muro di Berlino. Cuba ha resistito a tutte le intemperie. Fidel Castro e ora suo fratello Raùl hanno il merito di non aver mai tentennato sui principi e di aver retto la barra della coerenza politica. Il che ha permesso di aprire con pragmatismo la nuova stagione degli attuali rapporti L’Avana-Washington. Una grande soddisfazione per Fidel ormai quasi novantenne. Quello che accade sotto i cieli di Cuba cambia in parte anche il giudizio storico sulla rivoluzione dei barbudos. C’era il rischio della chiusura dell’isola in una sorta di bunker con rischi di implosione interna. Si è imposta invece una politica che lascia aperta la strada della competizione tra valori e contenuti di modelli economici e sociali differenti, tra un capitalismo neoliberista e un socialismo rinnovato più fondato sulla mediazione Stato-mercato che sulla modellistica di sovietica memoria. Davide ce la farà a non soccombere ancora una volta a Golia? Alcuni amici di Cuba — i gruppi più militanti — temono però che l’isola, come accadde all’Unione sovietica di Michail Gorbaciov, possa venire fagocitata dalla sua stessa nuova politica. Il pericolo c’è, indubbiamente. Ma il gruppo dirigente della rivoluzione consegna una sfida avvincente alle nuove generazioni: rinnovare il lascito dell’indipendenza nazionale e delle conquiste sociali in tema di assistenza, medicina, istruzione, cultura o diventare una appendice degli Stati uniti. È il dilemma che si ripresenta di fronte al futuro di Cuba. Qual era l’alternativa? Chi avrà maggiore filo tesserà. Bisogna aver fiducia nell’intelligenza e nella sapienza dei cubani che decideranno del loro avvenire. La rivoluzione dal canto suo è certo chiamata a una nuova prova, non meno ardua del glorioso passato di oltre cinque decenni. I tanti amici di Cuba sono chiamati perciò a intensificare il loro impegno di solidarietà, non ad allentarlo. Caduto il volto più truce dell’imperialismo, occorre vigilare su quello meno grossolano e più sottile. Da qui la necessità che Cuba accentui i suoi rapporti con l’Europa e il resto del mondo, reinserendosi nella comunità internazionale come un paese tra gli altri alla stregua di Cina e Vietnam. E occorre continuare a chiedere la fine di tutte le clausole dell’embargo che restano tuttora in vigore. Il viaggio di Obama a L’Avana segna un nuovo approdo nella relazione tra Stati uniti e Cuba. Fidel e la rivoluzione sono ancora lì. Un presidente a stelle e strisce di origine africana ha avuto il coraggio di mutare politica. Una decina di suoi predecessori, da Dwight Esenhower in poi, non sono riusciti a sconfiggere la prima rivoluzione socialista dell’America latina.

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