Internazionale Comunista – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 14 Apr 2020 17:29:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Camilla Ravera, storia di una combattente https://www.micciacorta.it/2020/04/camilla-ravera-storia-di-una-combattente/ https://www.micciacorta.it/2020/04/camilla-ravera-storia-di-una-combattente/#respond Tue, 14 Apr 2020 17:29:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26073 Anniversario. Arrestata nel 1930, ha il primato di quarantena durato 4795 giorni di prigione

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Divenne dopo Gramsci la segretaria del Pci, con il fardello organizzativo dei collegamenti con i responsabili regionali, la pubblicazione de l’Unità, le infinite riunioni La chiusura in casa da «quarantino» ha fatto saltare decine di appuntamenti per il 75° della Liberazione, suscitando però una nuova curiosità: raccontare la storia di uomini e donne vittime del virus fascista di allora e sottoposte alla durissima segregazione, durata in alcuni casi più di dieci anni. Il primo nome che mi viene in mente è quello della maestrina di Acqui, Camilla Ravera, arrestata il 10 luglio 1930, ad Arona, e detenuta in tante galere, ininterrottamente sino all’agosto 1943. Un primato di quarantena durato 4795 giorni, condiviso in luoghi e tempi diversi con illustri compagni, colpiti dallo stesso virus, quali Pertini, Terracini, Spinelli, Rosselli, Amendola, Gramsci, Silone, Grieco, Spano, Togliatti, Felicita Ferrero, Teresa Noce ecc…. L’omaggio doveroso coincide con il 32° anniversario della morte, avvenuta il 14 aprile 1988 all’età di 99 anni. Mussolini, duce del fascismo, ordinò il suo primo arresto nel novembre 1922. Non sopportava che una donna potesse essere una dirigente eccelsa del mondo antifascista. Quasi sempre nascosta, la clandestina Camilla sfuggì a Mussolini per quasi 8 anni, assumendo nomi di battaglia, quali Silvia e Micheli, nomi che facevano impazzire l’Ovra incapace di pensare che il temuto partito comunista, potesse essere diretto da una donna. Fu Antonio Gramsci ad intuire le capacità di Camilla, giovane socialista torinese. La chiamò nel 1920 nella redazione del settimanale Ordine Nuovo affidandole l’incarico di esperta del movimento internazionale. Lo stesso Gramsci, nel luglio 1921, le affidò nell’Ordine Nuovo, diventato quotidiano, il ruolo di responsabile della «Tribuna delle donne». Diventa comunista a Livorno il 21/01/1921, fu eletta negli organismi dirigenti. Venne prescelta a far parte della delegazione italiana inviata a Mosca nel novembre 1922 alla conferenza dell’Internazionale comunista dove ebbe l’incontro più importante, sotto il profilo umano e politico, della sua vita, con Bordiga ebbe un colloquio con Vladimir Lenin, a pochi giorni di distanza dal golpe fascista della marcia su Roma. Cominciarono allora 8 anni di lavoro clandestino, accanto a Gramsci, Togliatti e Terracini. Un ruolo spesso oscuro ma decisivo: le elezioni del 1924, il delitto Matteotti, il congresso di Lione con la vittoria gramsciana su Bordiga e infine la repressione fascista del novembre 1926 che decise il rapporto stretto di Camilla Ravera con Genova. Il comitato centrale eletto a Lione venne convocato clandestinamente a Genova, in Valpolcevera. Solo pochi compagni sfuggirono alle retate fasciste. Anche Gramsci fu arrestato. Camilla ebbe il peso sulle sue spalle di salvare il partito. Individuò il quartiere di Sturla come centro nascosto dei comunisti. La villetta alla confluenza tra Via Caprera e Via Sturla divenne direzione del Pc d’ I. La casetta dell’ortolano, nella zona allora agricola dell’attuale liceo King fu destinata a ufficio stampa. Un appartamento scelto da Camilla in Salita Vallechiara ospitò l’ufficio militare. Oggi può apparire un miracolo: la compagna Micheli divenne dopo Gramsci e prima di Togliatti, la segretaria del Pci, con il fardello organizzativo dei collegamenti con i responsabili regionali, indicati con un numero al posto dei nomi. Camilla riuscì a mantenere la pubblicazione de l’Unità, a convocare infinite riunioni di partito a Sturla nella casetta denominata “Albergo dei poveri” per l’ospitalità ai quadri di partito. Le relazioni accurate di Micheli per Ercoli (Togliatti) fanno parte della storia della vitalità antifascista, rappresentata da questa piccola, minuta donna, ricercata dalla polizia e capace, ogni giorno, di prendersi l’ora di aria sulla bellissima spiaggia di Sturla. La storia di quell’Italia è stata scritta da Paolo Spriano, sulla base degli scritti di Camilla Ravera. Dopo l’arresto del 10/07/1930 subì il processo concluso con la condanna a 15 anni e 6 mesi. Il pellegrinaggio tra carceri e confino fu infinito: Trani, Perugia, Montalbano Ionico, S. Giorgio Lucano, Ponza, Ventotene. Tutto provò Camilla: la ferocia fascista, l’amarezza provocata in lei dagli stalinisti del Pci che non le perdonavano di essersi nel 1939 schierata contro il patto Stalin-Hitler. Venne addirittura espulsa dal Pci e riammessa solo nel 1945. Una profonda amarezza mitigata dall’incontro a Ponza e a Ventotene con Sandro Pertini e Umberto Terracini. * Fonte: Giordano Bruschi, il manifesto

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Lo stato maggiore della rivoluzione. 2 marzo 1919 nasce l’Internazionale comunista https://www.micciacorta.it/2019/03/lo-stato-maggiore-della-rivoluzione-2-marzo-1919-nasce-linternazionale-comunista/ https://www.micciacorta.it/2019/03/lo-stato-maggiore-della-rivoluzione-2-marzo-1919-nasce-linternazionale-comunista/#respond Sat, 02 Mar 2019 09:22:03 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25261 Intervista. Le considerazioni di Aldo Agosti intorno all'anniversario della fondazione dell'Internazionale Comunista

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MOSCA. Il 2 marzo 1919 a Mosca venne fondata l’Internazionale comunista. Il suo obiettivo dichiarato era dirigere la rivoluzione internazionale. Ma quale ruolo giocava all’interno il partito russo? E quale ruolo giocherà negli anni successivi? Dopo la vittoria dell’ottobre ’17, i bolscevichi erano convinti che la sopravvivenza del potere sovietico dipendesse dal successo della rivoluzione nei paesi capitalistici europei, che ritenevano fosse imminente. Ma quasi subito la necessità di creare uno “stato maggiore della rivoluzione” capace di dirigere su scala internazionale 1’assalto del proletariato al potere si venne a saldare con l’urgenza di difendere la rivoluzione dagli attacchi interni ed esterni. Fin dalla fondazione l’IC, proprio perché concepita come “partito mondiale della rivoluzione”, si era data una struttura centralizzata, ispirata al modello bolscevico: il peso decisivo che questo vi assunse derivava, oltre che dal suo prestigio, dal fatto che tutto il peso finanziario e gran parte del peso organizzativo dell’apparato del Comintern ricadevano sulle sue spalle. Quando, sul finire del 1923, il ciclo rivoluzionario apertosi con l’Ottobre apparve concluso con quella che si giudicava la provvisoria stabilizzazione del capitalismo, lo stesso rapporto tra lo Stato e il partito sovietico da un lato e l’Internazionale dall’altro risultò profondamente modificato. Via via che si constatavano da un lato i successi del regime sovietico e dall’altro il ritardo della rivoluzione in Occidente, compito essenziale dell’Ic diventava la difesa e il rafforzamento del primo Stato proletario, e l’URSS e il suo partito comunista acquistavano un’importanza crescente nei determinarne gli orientamenti. Di questo potere i comunisti russi non tardarono a servirsi come strumento nelle lotte interne del loro partito. Già nella fase che precedette e seguì il V congresso (giugno-luglio 1924) la lotta condotta da Stalin e Zinov’ev contro Trockij si trasferì all’interno delle sezioni dell’Ic, finendo per distorcere l’autonomia della loro dialettica interna. A perpetuare la supremazia indiscussa del partito russo nell’Ic e a plasmare le varie sezioni nazionali secondo l’orientamento della maggioranza di questo contribuì poi in modo determinante la campagna di “bolscevizzazione” dei partiti comunisti lanciata nel corso del 1924. Tra la tattica del fronte unico dell’internazionale e quella dei fronti popolari ci fu l’intermezzo della politica del socialfascismo. Che conseguenze ebbe?

Quando si aprì il VI Congresso dell’IC (luglio-settembre 1928), la fortuna di Bucharin, che ne era diventato il leader, volgeva al tramonto, e alla sua interpretazione, che non trascurava l’accrescimento delle forze produttive nei paesi capitalistici e la funzione assunta dallo Stato come regolatore dell’economia, Stalin contrappose la previsione di un aggravamento irrefrenabile delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, che avrebbe condotto il sistema al crollo in un futuro prossimo. Due fattori fecero sì che questa seconda tesi s’affermasse nella maggioranza dei partiti comunisti, favorendo o imponendo l’ascesa di gruppi dirigenti “di sinistra”. Il primo fu il bilancio nel complesso poco brillante della politica di fronte unico: basti ricordare il fallimento dello sciopero generale in Inghilterra nel maggio del 1926 e la disastrosa conclusione della collaborazione con il Guomindang in Cina. Il secondo fu la svolta della politica interna dell’URSS, con l’abbandono della NEP e l’avvio della collettivizzazione forzata. Maturò in questo clima, nell’Internazionale, l’orientamento che fu definito “classe contro classe”: nella fase nuova dello scontro la socialdemocrazia, in quanto si opponeva alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, non poteva più essere considerata un’ala del movimento operaio, ma diventava una forza controrivoluzionaria al servizio del nemico di classe. A partire dal X Plenum (luglio-agosto 1929) l’Ic cominciò a definire la socialdemocrazia come “socialfascismo” e a equiparare le forme democratiche e le forme dittatoriali del dominio borghese.

La crisi economica mondiale del 1929 parve confermare le previsioni catastrofiche di Stalin e portare acqua al mulino del radicalismo di sinistra. D’altra parte cambiava la composizione sociale dei partiti comunisti, in cui confluivano sempre più disoccupati, insofferenti nei confronti degli strati sociali relativamente protetti che costituivano una parte della base sociale dei partiti socialdemocratici: fu questo l’humus in cui poté attecchire e mettere radici profonde la parola d’ordine del “socialfascismo”. In realtà, la depressione economica agì in generale negativamente sulla disponibilità alla lotta delle masse operaie, determinando in esse uno stato di rassegnazione e spingendo i ceti medi nelle braccia della reazione. Per di più la tensione di lotta che l’attivismo comunista riusciva talvolta a suscitare veniva irrigidito in una linea politica dimostrativa e senza sbocchi pratici, che aveva come unico contenuto reale quello un’azione di disturbo nelle retrovie del nemico diretta a prevenire ogni possibile attacco all’URSS.

Stalin sciolse l’internazionale nel 1943. Fu solo una concessione agli Alleati in vista del dopoguerra oppure Stalin pensava già a una nuova strutturazione dell’internazionalismo comunista poi cristallizzatasi nella formazione del Kominform?

Con la primavera del 1943, dopo la vittoria sovietica a Stalingrado, si aprì una fase nuova nella guerra. I problemi dell’assetto mondiale all’indomani dell’ormai probabile vittoria sul nazifascismo venivano sempre più in primo piano. È in questa situazione che va inquadrato lo scioglimento dell’Internazionale comunista, deciso dal Presidium l’8 giugno, dopo un’affrettata consultazione con la maggioranza dei partiti membri. Si faceva preminente per Stalin l’interesse di rassicurare l’opinione pubblica dei paesi amici che l’URSS rinunciava ad “esportare” la rivoluzione: e questo non solo per migliorare i rapporti con gli Alleati nella guerra in corso, ma anche per facilitare la continuazione della collaborazione soprattutto nella prospettiva di una partecipazione americana alla ricostruzione dell’economia dell’URSS. È quindi indubbio che il Comintern fu anche sacrificato alla politica estera sovietica. Ma alla base della decisione di scioglierlo vi erano pure motivazioni che scaturivano da una situazione reale nei rapporti fra Mosca e le sezioni come l’emergere in modo sempre più chiaro proprio dall’evoluzione della guerra delle esperienze dei partiti comunisti jugoslavo e cinese, avviati a dirigere autonomamente la rivoluzione nel proprio paese .

Stalin era convinto, e a ragione, di poter contare su un legame con i partiti comunisti che non avesse bisogno di esprimersi in forme istituzionalizzate. In effetti con lo scioglimento del Comintern i partiti comunisti non recisero il loro legame con Mosca: anzi questo per certi aspetti divenne più stretto e diretto che in passato. Tuttavia il loro rapporto con “la casa madre” si fece più complesso, diversificandosi in ragione della divisone del mondo in due aree d’influenza. Maggiore spazio acquistavano così obiettivamente le varianti nazionali della strategia comunista, che inizialmente l’URSS non scoraggiò, anche se cercò di armonizzarle in un disegno corrispondente ai suoi interessi di potenza.

A 100 da quell’evento l’organizzazione su scala internazionale della sinistra è definitivamente tramontata o nel futuro potremmo vedere rinascere forme di organizzazione sovranazionale? Dopo il 1989, la fine della guerra fredda e la disintegrazione dell’Urss e dei regimi di “socialismo reale” in Europa hanno inferto un colpo mortale alle forme sempre più ritualizzate e vuote di un movimento internazionale comunista già da tempo in crisi, senza peraltro comportare una vera ripresa di vitalità di quello socialdemocratico, anch’esso in estinzione. I nuovi processi di globalizzazione frantumano identità e classi, dividono generi e generazioni, aprono nuove contraddizioni sociali basate su appartenenze etniche e religiose. Gli ultimi vent’anni del XX secolo hanno visto una serie di battaglie di resistenza, spesso perdute, delle società nazionali contro l’emergere di un’economia globale: soprattutto con l’inizio degli anni 2000 si è visto qualche segnale dell’emergere di una società civile globale che inizia a ricostruire identità, organizzazione, alleanze oltre e attraverso i confini nazionali per affrontare i cambiamenti dell’economia a livello planetario. Si è potuto scorgervi a volte nuove forme embrionali di internazionalismo. Ha mosso i primi incerti passi un movimento che propone un progetto alternativo di “globalizzazione dal basso” che intende uscire dagli angusti orizzonti nazionali, ma rovesciandone i valori – profitto e potere – delle imprese multinazionali, della finanza, dei governi e rimpiazzandoli con le idee della democrazia e dell’uguaglianza, di uno sviluppo umano compatibile con la natura, del diritto al lavoro per tutti, della giustizia economica e sociale a scala del pianeta. Ma questo movimento rimane per ora più che altro un’idea astratta, lontana dal poter risuscitare un internazionalismo quale lo si è conosciuto nell’ultimo scorcio del XIX secolo e come, in una prospettiva radicalmente nuova e rivoluzionaria presto destinata a rivelarsi illusoria, lo intendeva la Terza Internazionale. * Fonte: Yurii Colombo, IL MANIFESTO

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La follia mite del figlio di Togliatti https://www.micciacorta.it/2016/05/la-follia-mite-del-figlio-togliatti/ https://www.micciacorta.it/2016/05/la-follia-mite-del-figlio-togliatti/#respond Mon, 09 May 2016 07:59:15 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21805 In un libro di Massimo Cirri la vita chiusa e dimenticata di Aldino Togliatti

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Togliatti

CHE fosse strano lo si capiva dal nome, Aldino. O anche Aldolino. Mai nessuno che lo chiamasse senza diminutivi, come se la sua estraneità dolorosa al mondo richiedesse una protezione fin dall’appellativo. Forse anche per bilanciare la monumentalità d’un cognome che sin dal principio ha evocato la storia grande, le magnifiche sorti e progressive, il Novecento dei totalitarismi e delle guerre, sì proprio l’epoca a cui Aldo Togliatti non è riuscito a sopravvivere. A sopravvivere da sano di mente, come recitano i referti psichiatrici. Il figlio matto del Migliore. Che idea bislacca quella di dedicargli un libro di trecentocinquanta pagine, peraltro sulla base di pochi indizi, qualche lettera, un paio di fotografie, un lungo mormorio imbarazzato. Ma è un po’ stravagante anche l’autore, Massimo Cirri, psicologo attivo presso i servizi pubblici di cura mentale più noto al pubblico come autore e voce di Caterpillar. Ed è strano un racconto costruito su labili tracce e moltissime ipotesi di investigazione psichica, supportate dalle testimonianze di chi c’era: i compagni di scuola a Ivanovo, gli amici torinesi, i colleghi di lavoro, i diari dei dirigenti del Pci, i cugini Montagnana. E forse anche per questo Un’altra parte del mondo piacerà ai lettori che con la storia hanno un rapporto confidenziale, intimo, la prendono sottobraccio, magari la strapazzano pure ma senza mai perdere di vista l’umanità dei personaggi. Perché questa vicenda narrata da Cirri è piena di sensibilità e di delicatezza. Animata da volontà di riscatto per gli sconfitti che non lasciano memoria. E alla fine viene voglia di abbracciare Aldo, perso nel suo trentennale silenzio di Villa Igea, l’ospedale psichiatrico di Modena dove viene rinchiuso nell’ultima parte della vita: elegante nella camicia a righe, un borbottio sommesso tra sé e sé, nessun altro ammesso in quel monologo sottovoce. E viene voglia di abbracciare anche i suoi genitori, non solo la madre Rita Montagnana che lo protesse fino alla fine – abbandonata dal marito e anche dal partito ma senza mai una nota di rancore – ma viene da solidarizzare perfino con l’algido Palmiro, che solitamente non ispira una grande simpatia. Perché se è vero che alla fine è proprio lui la causa involontaria di questa storia triste, resta la tragedia d’un figlio incapace di trovare un posto nel mondo. Non è facile accettarlo per nessuno. Figuriamoci quando ci si chiama il Migliore. C’è un prima e un dopo, in questa vicenda del figlio mattoide del leader del più grande partito comunista d’Occidente. L’Aldino dei primi 18 anni è un ragazzo sveglio, colto, poliglotta, abituato a muoversi tra l’Italia, Parigi e Mosca ai tempi del ferro e del fuoco. Così ce lo racconta Cirri attraverso i suoi compagni di Ivanovo, la scuola a trecento chilometri da Mosca dove finivano i figli illustri della rivoluzione mondiale. L’Aldino era un ragazzo come gli altri. Sembra un po’ più studioso e mostra un’attitudine da combattente: non fu lui a guidare uno sciopero della fame contro gli educatori sovietici? E Gino Longo, figlio di Luigi e di Teresa Noce, lo ricorda nel febbraio del 1941 a Mosca, all’Hotel Lux, sedicenne operoso e solidale, pronto ad accogliere lui e suo fratello arrivati stremati da Parigi. Allora quando comincia la retromarcia dalla vita? Bisogna aspettare la precipitosa fuga da Mosca all’arrivo dei nazisti, nell’ottobre di quello stesso anno. Scappa Aldino, insieme alla madre Rita, mentre Togliatti si rifugia a Ufa, capitale della Baschiria, dove hanno trasferito l’Internazionale Comunista. È qui che comincia a rompersi qualcosa, forse è la paura, forse il bisogno del padre assente. Quando due anni più tardi apre la porta ad Anita, una sua amica ai tempi di Ivanovo, non è più lui. «Molto timido», annota lei sul suo diario. «Ha il terrore degli altri», sintetizza il padre con la consueta brutale lucidità. Il dopoguerra significa quiete ritrovata per tutti ma non per Aldino, che vive il trasferimento dall’Urss in Italia come intollerabile violenza. Perché non è un ritorno – come per i suoi genitori – ma un inizio. Del suo paese non sa nulla, l’avevano portato via quando aveva solo otto anni. Sembra di vederlo, in piedi nel vagone del treno, mentre nell’estate del 1946 si sfoga con Luciano Barca. Un fiume in piena, un’alluvione di parole, rientrando a Roma dalla montagna. Il Migliore aveva chiesto al giovane dirigente Barca di far compagnia ad Aldino durante il campeggio a Cervinia organizzato dal partito. Per Barca una iattura: quindici giorni di tentativi falliti di avviare una minima conversazione. Fino al viaggio del rientro, quando cade il muro del silenzio ed esplode il flusso del dolore. Il dolore dello sradicamento da Mosca, dalle sue amicizie rare ma profonde. Il caos del Politecnico di Torino dove Aldo faticosamente tenta di proseguire gli studi in Ingegneria. Tutto sembra bruciargli dentro. Ha ventuno anni, Aldino, e la sensibilità d’un bambino senza pelle. E come i bambini infelici vuole scappare. Vuole fuggire in America, un’altra parte del mondo che forse significa anche una vita nuova, diversa, senza ferite. Senza quegli eroi ingombranti che sono i genitori. Chissà cosa ha in mente quando a 33 anni lo trovano a notte fonda sul molo di Civitavecchia: in stato confusionale, scruta la Bice Costa, diretta a Hampton Roads, Virginia. E ci proverà anche dopo la morte della madre, ormai cinquantenne e sempre più perso, questa volta dalla banchina di Le Havre. Fughe improbabili, come improbabile era diventata la sua vita. Con il padre era stato un allontanamento lento, senza traumi, dettato dalle cose: Palmiro si era costruito un’altra famiglia, una nuova compagna e una figlia adottiva. Aldino sempre più stretto nell’abbraccio materno tra continue cure psichiatriche in Italia, in Ungheria, in Bulgaria, a Mosca: non lascia scampo la diagnosi, schizofrenia. Si ritrovano, padre e figlio, nei momenti estremi, quando anche Palmiro diventa debole e indifeso: costretto in ospedale dalle pallottole di Pallante nel 1948 o più tardi da un incidente in automobile. È nelle fotografie di quei giorni che Aldo assume un’espressione serena, quasi compiaciuta: è lui che aiuta il padre ad alzarsi, a fare i primi passi. Si sente apprezzato, forse perfino utile. Ma dura poco perché Togliatti non è tipo da indulgere nella propria fragilità. Quando muore, nel 1964, il fossato scavato tra genitore e figlio è profondissimo. Davanti alla bara di Togliatti Aldo sembra impietrito, distante. È l’ultima volta che lo vediamo in pubblico. Il Vegliardo, così l’avrebbe chiamato nell’ultimo tratto di vita, quando il signor Pini gli portava a Villa Igea la Settimana Enigmistica e le sigarette Stop senza filtro. Sì, un modo ironico, anche un po’ sprezzante, un modo che a Palmiro non sarebbe piaciuto. In realtà l’aveva sempre aspettato, il padre, ma non s’erano mai veramente incontrati . E alla fine d’un racconto che non inventa nulla – «pareva irrispettoso, ha avuto una vita già troppo complicata », scrive Cirri – Aldo s’accomiata con le parole d’un soldato morto nella seconda guerra. Parole rivolte proprio a un padre. «Mi manchi tanto, ti prego, vieni a farmi visita. Vorrei tanto vederti pure per un’ora. Babbo, ti prego, vieni qui». Lui l’aveva scritto in altro modo in un biglietto per Togliatti spedito da Ivanovo: «Viens plus vite si tu peux», vieni prima se puoi. Sempre mite, sempre rispettoso, come la sua follia gentile.   ***** IL LIBRO Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri, Feltrinelli pagg. 352, euro 18

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