Jugoslavia – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 10 Feb 2023 08:12:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La memoria corta degli italiani e la «Giornata del ricordo» https://www.micciacorta.it/2023/02/la-memoria-corta-degli-italiani-e-la-giornata-del-ricordo/ https://www.micciacorta.it/2023/02/la-memoria-corta-degli-italiani-e-la-giornata-del-ricordo/#respond Fri, 10 Feb 2023 08:12:11 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26596 Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti

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Si tace dell’occupazione della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, e su rappresaglie e repressioni simili ai crimini nazisti   Non era difficile prevedere che collocare la Giornata del ricordo, per onorare le vittime delle foibe, a dieci-quindici giorni dal Giorno della memoria in ricordo della Shoah, avrebbe significato dare ai fascisti e ai postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti e omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili, che hanno come unico denominatore comune l’appartenere tutte all’esplosione, sino allora inedita, di violenze e sopraffazioni che hanno fatto del secondo conflitto mondiale un vero e proprio mattatoio della storia. Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini. A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali. Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione. Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese. Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega? Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda. I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo. * Questo testo del grande storico italiano che ci ha lasciato da meno di un anno – legato profondamente alla storia del Manifesto e nostro prezioso collaboratore per decenni – è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco). Fonte/autore: Enzo Collotti, il manifesto  
    ph by Roberta F., CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

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Campo di concentramento di Rab: mai dimenticare i crimini fascisti https://www.micciacorta.it/2022/09/campo-di-concentramento-di-rab-mai-dimenticare-i-crimini-fascisti/ https://www.micciacorta.it/2022/09/campo-di-concentramento-di-rab-mai-dimenticare-i-crimini-fascisti/#respond Sun, 11 Sep 2022 06:34:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26563 Ieri al Memoriale delle vittime del fascismo dell’isola di Rab (Arbe), in Croazia, si è svolta la commemorazione del 79esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento

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Nel 79esimo anniversario della liberazione dai nazifascisti la commemorazione italiana, slovena e crota Ieri al Memoriale delle vittime del fascismo dell’isola di Rab (Arbe), in Croazia, si è svolta la commemorazione del 79esimo anniversario della liberazione del campo di concentramento. Alla presenza del ministro della Difesa sloveno Marjan Šarec e del presidente dell’associazione partigiana croata Franjo Habulin, il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo ha ricordato «le vittime del campo di Rab, giustamente definito da tanti campo di sterminio, dove morirono di stenti e fame 1.500 persone. Nel mio paese ancora oggi i crimini del fascismo in ex Jugoslavia sono sconosciuti ai più: una vera rimozione. La mia presenza rappresenta perciò un doveroso gesto di riparazione. A maggior ragione oggi quando in Italia si minimizzano le responsabilità dei fascisti, si mettono sullo stesso piano aggrediti e aggressori». Nei giorni scorsi una delegazione di storici guidati da Eric Gobetti ha visitato il campo. * Fonte/autore: il manifesto   ph by Derbrauni, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Foibe, Giorno del Ricordo. L’ANPI: «Una memoria non di parte» https://www.micciacorta.it/2022/02/foibe-giorno-del-ricordo-lanpi-una-memoria-non-di-parte/ https://www.micciacorta.it/2022/02/foibe-giorno-del-ricordo-lanpi-una-memoria-non-di-parte/#respond Sun, 06 Feb 2022 08:18:09 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26534 Presenti partigiani sloveni con storici di Lubjana e italiani come Eric Gobetti e Fulvio Salimbeni

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GORIZIA. Un convegno per rivendicare l’antifascismo, la ricerca storica, l’esigenza di non approfittare di una giornata che dovrebbe essere dedicata alla storia drammatica del confine orientale e che da subito, invece, è stata occasione per rinfocolare divisioni, propagandare il nazionalismo più odioso ammiccando a nostalgie irredentistiche e addirittura riabilitando il fascismo storico. La Giornata del Ricordo celebrata in Italia come memoria di una sola parte che si autoassolve nonostante sia stata origine e protagonista di quelle tragedie. «L’Italia è un Paese che ancora non è capace di confrontarsi seriamente con il proprio passato» ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi e promotore di una grossa iniziativa ieri a Gorizia assieme al suo omologo sloveno Marijan Krizman, presidente della ZZB-NOB. «La storia insieme» il bel titolo del convegno tenutosi al Kinemax davanti a cento persone, basato sulla relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena che per anni aveva visto lavorare assieme personalità autorevoli italiane e slovene per raggiungere una sintesi condivisa su quale fosse stato il rapporto storico fra i due popoli e quali drammi erano maturati nel trasformarsi di questa zona di confine da punto di incontro tra culture diverse – tedesche, slave, italiane – a punto di scontro sanguinoso con l’avanzare dei nazionalismi. Al Convegno hanno partecipato anche alcuni dei membri di quella Commissione: Nevenka Troha, Gorazd Bajc, Fulvio Salimbeni, concordi nel sottolineare la fatica e la puntigliosità della loro ricerca e del loro confrontarsi, sicuri di avere ottenuto un risultato importante, di avere stilato un documento inconfutabile che pensavano diventasse una pietra miliare per la conoscenza della Storia ma anche per l’amicizia tra i popoli. Un documento che, invece, è rimasto nascosto ai più mentre cresceva una narrazione distorta che esagerava, quando non inventava, soltanto episodi legati alle foibe e all’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia, decontestualizzando e strumentalizzando una storia complessa che andrebbe invece vista e compresa senza ignorare “l’altra parte”. «Non una storia delle guerre» ha ricordato il Prof. Salimbeni «ma una storia delle culture e delle civiltà che hanno fatto l’Europa». Il lavoro della Commissione era stato voluto dai Ministri degli Esteri di entrambi i Paesi, la nostra Camera dei deputati aveva chiesto unanimemente la pubblicazione della relazione finale ma tutto è rimasto sottotraccia, quasi non si trattasse di un atto ufficiale condiviso da due Stati. «La politica che l’aveva voluta» ha detto Eric Gobetti, molto applaudito «l’ha subito dimenticata. Poi l’istituzione del Giorno del Ricordo, una legge che non pensava alla pacificazione, che di ignora, che incentra tutto su un proprio ruolo di vittima. Chi ha votato quella legge evidentemente aveva come obiettivo solo una pacificazione interna: quella tra ex fascisti ed ex comunisti». Resta che nei libri di testo scolastici, oggi, c’è mezza pagina per le stragi naziste in Italia, mezza per le foibe e l’esodo e nessuno studente sa che l’Italia ha invaso la Jugoslavia nel 1941. Forte, sentito, lungo, l’intervento finale di Gianfranco Pagliarulo che, nel ribadire la ferma determinazione dell’Anpi a continuare sulla strada dell’incontro e di una memoria integrata, ha annunciato una prossima iniziativa con le associazioni di ex partigiani croati, sull’isola di Rab dove, in un campo di concentramento per sloveni, croati e serbi, i fascisti italiani occupanti fecero morire di stenti centinaia di donne e bambini slavi, una «razza inferiore» per nazisti e fascisti.   * Fonte/autore: Marinella Salvi, il manifesto

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Novecento. Italiani brava gente? I crimini impuniti del fascismo in Jugoslavia https://www.micciacorta.it/2021/04/novecento-italiani-brava-gente-i-crimini-impuniti-del-fascismo-in-jugoslavia/ https://www.micciacorta.it/2021/04/novecento-italiani-brava-gente-i-crimini-impuniti-del-fascismo-in-jugoslavia/#respond Tue, 06 Apr 2021 10:15:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26373 Il 6 aprile 1941 l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Un appello di storici chiede giustizia per le atrocità che furono compiute allora. La «continuità dello Stato» del dopoguerra: nessuno pagò per stragi e violenze. Mussolini annunciò già nel ’20: politica del bastone contro la razza slava, inferiore e barbara

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Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro. Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». IN LINEA con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista. Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia. L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia. Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze». Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss. Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta. OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.
Devastazioni prodotte dall’esercito italiano. Un’immagine proveniente dal Museo nazionale di storia contemporanea della Slovenia
                            L’APPELLO Alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano. QUEST’ANNO ricorre l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi. La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia. CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici. Il testo completo dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it

Da oggi la mostra «A ferro e fuoco» Sarà presentata questo pomeriggio alle 17 la mostra virtuale «A ferro e fuoco» che racconta l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943 grazie a 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Cok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci. Il progetto è stato curato dallo storico Raoul Pupo. Realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Fvg e dal Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Trieste, la mostra è visitabile su www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it. Oggi la presentazione su https://zoom.us/j/93156396203 e www.youtube.com/user/IRSMLFVG * Fonte: Davide Conti, il manifesto

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La Comune operaia di Albona https://www.micciacorta.it/2021/03/la-comune-operaia-di-albona/ https://www.micciacorta.it/2021/03/la-comune-operaia-di-albona/#respond Thu, 04 Mar 2021 08:39:37 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26361 Il 4 marzo del 1921, cento anni fa , i minatori di ogni nazionalità dell’Arsia, in Istria, occupano le miniere per autogestirle. Ovunque viene issata la bandiera rossa. Durerà poco, fino all’8 aprile

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Nella zona di Labin/Albona, in Istria, le miniere di carbon fossile sono state famose nei secoli; sfruttate forse già dalla Serenissima, diventate italiane dopo la lunga appartenenza austriaca. È il bacino dell’Arsia, torrente ricco d’acqua che scende dal Monte Maggiore e arriva all’Adriatico con un estuario paludoso: siamo lassù, nella punta di nord-est dell’Istria. La fascia mineraria corre lungo il mare, arrampicata a mezza costa e i pozzi sono stati aperti a decine vicino alle frazioni o a piccoli nuclei abitati: Càrpano, Podlabin, Vines… Gli operai di quel grande bacino minerario non sono nuovi alle lotte: nel 1867 hanno fondato la «Società di Mutuo Soccorso» perché le agitazioni si susseguono, le condizioni di lavoro sono dure e i salari bassi. I minatori aderiscono esplicitamente al socialismo internazionalista: sono operai croati, tedeschi, slovacchi, italiani, arrivano ogni giorno a migliaia da tutta l’Istria. LA PRIMA GUERRA mondiale è una sorta di incubo: il regime in miniera si fa durissimo, le punizioni «esemplari», la riottosità antimilitarista viene castigata con invii mirati sul fronte rumeno. Ma con l’arrivo dell’Italia le condizioni non migliorano: l’Italia ha bisogno di carbone e i turni diventano di undici ore, il salario da fame, il ritmo di estrazione frenetico, le misure di sicurezza inesistenti. È bastato il cambio di calendario, tra l’austriaco e l’italiano, per dimezzare le festività riconosciute. Già alla fine del 1918 si torna a scioperare, si apre una sezione del Partito Socialista, sui bollini sindacali si stampa la falce e martello. Gli operai appartenenti alla distrutta Austria-Ungheria se ne vanno e vengono ampiamente rimpiazzati da «regnicoli» friulani, veneti, siciliani ma il clima non cambia, le idee della rivoluzione bolscevica hanno ormai raggiunto tutte le latitudini, la spinta del biennio rosso italiano si ripercuote con forza nelle zone slave occupate. Nel marzo del 1921 lo sciopero è compatto, deciso: alle condizioni già dure di lavoro si sommano le angherie contro gli slavi in nome della «necessaria» italianizzazione e i fascisti scorrazzano indisturbati al seguito dei carabinieri. Il 4 marzo 1921 i minatori dell’Arsia occupano le miniere. Verso le ore 8 del mattino del 7 marzo, pattuglie di guardie rosse ispezionano il territorio del bacino minerario, invitando gli abitanti dei villaggi e le autorità scolastiche ad esporre sugli edifici le bandiere rosse. NEL GIRO DI POCHE ore le bandiere spuntano su tutte le case, i ragazzi le issano perfino sui rami degli alberi e una grande bandiera con la falce e il martello viene portata a Vines e piantata all’ingresso principale della miniera. Da quel giorno si comincia a parlare della «Repubblica di Albona». Il Comitato rivoluzionario e le guardie rosse dominano la situazione, gli operai dicono «la miniera è nostra» e allora la miniera deve funzionare «dobbiamo produrre per conto nostro». L’OCCUPAZIONE delle miniere e l’instaurazione della gestione diretta da parte dei lavoratori ha il carattere di una Comune proletaria, si passa presto all’autogestione amministrativa, il bacino minerario dell’Arsia con i suoi villaggi e i piccoli paesi, è un territorio governato dalla collettività. È l’unico caso di una Comune operaia, consistente territorialmente che si costituisce ed opera in quella che era l’Italia del 1921. Dura poco, le bandiere rosse sventolano ovunque fino all’8 aprile, poi sono strappate via con la forza delle armi. Oggi, le zone interne dell’Istria sono ancora abbastanza intatte, hanno subìto meno il turismo di massa, la cementificazione, la distruzione di foreste secolari di pini marittimi e poi di lecci e di corbezzoli. E non sono state così devastate dalla guerra inter-etnica dell’ex Jugoslavia negli anni Novanta, quando in Croazia le sedi operaie, come la storica e fondativa Camera del lavoro di Vukovar importante per tutta la storia del movimento operaio jugoslavo, venivano fatte saltare – con le lapidi partigiane – con la dinamite dalle milizie neo-ustascia. Labin/Albona, arroccata lassù sulla collina con le sue mura medioevali e la Torre Rotonda, è un intrico di viuzze, la piazza, la chiesa trecentesca, la loggia del ‘600: da lassù si vede il mare e le isole di fronte, intorno l’Istria interna verde di querce e di castagni, e poi gli orti e le vigne e gli oliveti a vista d’occhio. LA TERRAZZA di un’osteria tutta di pietra, la fresca malvasia locale e un vecchio libro, magari scaricato gratuitamente da internet. In questo caso è La Repubblica di Albona” di Giacomo Scotti e Luciano Giuricin, libro fondamentale, e unico, per conoscere la storia della prima comune autogestita antifascista d’Italia. Una breve gloriosa esperienza nel contesto della storia istriana, in quegli anni cruciali del passaggio all’Italia dopo la prima guerra mondiale, la storia dei socialisti, dei comunisti e delle lotte operaie. Una fonte incredibile di fatti assai ben documentati con una ricca bibliografia e anche tanto materiale fotografico che si legge come un romanzo. Cento anni fa esatti, in una terra certo più povera, con i pozzi di estrazione e l’aria di un grigio denso, la fuliggine, le ciminiere annerite. Eppure è un viaggio nel tempo che profuma, come adesso mentre scende il sole, il mare e il cielo impallidiscono e si sente il profumo della salvia, del rosmarino, della lavanda. * Fonte: Marinella Salvi, il manifesto

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Dietro, e prima, della tragedia delle foibe i crimini del fascismo di frontiera https://www.micciacorta.it/2021/02/dietro-e-prima-della-tragedia-delle-foibe-i-crimini-del-fascismo-di-frontiera/ https://www.micciacorta.it/2021/02/dietro-e-prima-della-tragedia-delle-foibe-i-crimini-del-fascismo-di-frontiera/#respond Wed, 10 Feb 2021 09:44:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26316 Novecento. Il «Giorno del Ricordo» coincide quest’anno con l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia. L’occupazione dell’Asse costò la vita a un milione e mezzo di persone. Alla fine del conflitto nessun italiano, pur iscritto nella lista dei criminali di guerra, fu mai processato

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Italijanski palikuci (italiani brucia case) gridavano i civili quando nel 1941 le truppe del regio esercito e i «battaglioni M» invasero la Jugoslavia per concludere l’occupazione dei Balcani avviata con le aggressioni di Albania e Grecia nel 1939-40. Lungi dall’essere «italiani brava gente», come la narrazione autoassolutoria del dopoguerra avrebbe affermato come dogma intangibile dell’elusione della «colpa», i militari del re e di Mussolini venivano così apostrofati per l’uso sistematico dei lanciafiamme contro le case dei civili sfollati, fucilati o deportati nei campi di internamento in applicazione delle misure di controguerriglia antipartigiana che l’Italia avrebbe conosciuto con l’occupazione nazista. L’OTTANTESIMO anniversario dell’aggressione alla Jugoslavia dovrebbe rappresentare, nelle celebrazioni del «Giorno del ricordo», occasione di elaborazione storica del nostro passato consegnando una interpretazione integrale alla legge istitutiva di questa giornata che invita a dare conto «della più complessa vicenda del confine orientale» ovvero a ciò che è accaduto prima delle foibe e dopo la fine della guerra. Al crepuscolo dello Stato liberale e nel pieno «biennio rosso» 1919-20, lo squadrismo emerse in quelle terre come elemento di sintesi di istanze antislave (sul piano nazionalista) e anticomuniste (sul piano politico-sociale) dando rappresentanza a settori della società italiana che andavano dalla piccola-media borghesia alla proprietà terriera fino ai militari. A Trieste e in Istria si sperimentò quel fascismo di frontiera che nel 1920-22 intensificò l’azione violenta in tutta la regione. In quelle terre nacque il moto reazionario che avrebbe investito il Paese ed instaurato la dittatura «In altre plaghe d’Italia – scrive Mussolini nel 1920 – i fasci di combattimento sono appena una promessa, nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della situazione politica». Così mentre nel 1919-20 i tribunali a Trieste e Pola, non ancora fascistizzati, emettevano 50 condanne per complessivi 120 anni di carcere contro ferrovieri e metalmeccanici in sciopero accusati di «anti-italianità, filo-slavismo, cospirazione contro lo Stato e istigazione alla guerra civile», lo squadrismo fascista il 13 luglio 1920 assaltò la sede della Narodni Dom (Casa del popolo) a Trieste incendiando l’intero palazzo (l’Hotel Balkan che cento anni dopo sarà restituito alla Slovenia dal Presidente della Repubblica Mattarella) ed anticipando la condotta del regio esercito nel 1941. Mussolini chiarì il suo programma a Pola il 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». L’occupazione nazifascista della Jugoslavia costò la vita a circa 1 milione e mezzo di persone travolte dalle misure draconiane della «Circolare 3C» (che istruiva i soldati italiani alla repressione di civili e partigiani) firmata dal generale Mario Roatta; dalla «Cintura di Lubiana» (un perimetro di filo spinato e posti di blocco attorno alla città poi sottoposta a razzie e deportazioni); dalle direttive di Mussolini ai suoi generali «al terrore dei partigiani – disse a Gorizia nel 1942 – si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto». DALL’IMPIANTO IDEOLOGICO della «guerra totale» fascista discese la condotta dei comandi militari del regio esercito che fece mostra di sé nella città di Podhum il 12 luglio 1942 (91 uomini fucilati sul posto e 800 deportati) o nei villaggi di Zamet e Danilovgrad, rastrellati e rasi al suolo nell’agosto 1942 o con il «governatorato» del generale Alessandro Pirzio Biroli in Montenegro. Pratiche belliche che facevano seguito alla snazionalizzazione teorizzata da Mussolini: «quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». Alla fine del conflitto nessun italiano iscritto nella lista dei criminali di guerra stilata dalle Nazioni Unite (750 per la Jugoslavia) fu mai processato. La Guerra Fredda e le necessità anglo-americane di riorganizzare l’esercito italiano e inserirlo nell’Alleanza atlantica permisero impunità e continuità dello Stato, determinando quella «mancata Norimberga» che segnerà la più vistosa delle aporie della nostra storia. Molti criminali di guerra assumeranno ruoli apicali negli apparati della Repubblica. Diverranno questori, prefetti e uomini dei servizi segreti e saranno implicati in vicende tragiche e decisive della storia nazionale dalla strage di Portella delle Ginestre a quella di Piazza Fontana fino al golpe Borghese. IL «SILENZIO» sulle foibe (in realtà nel 1945 vennero istruiti alcuni processi ed emesse condanne) non fu il risultato di una trama omissiva delle sinistre italiane. Ad evitare la riapertura di quella pagina furono i governi De Gasperi nella consapevolezza che sollevare la questione avrebbe comportato per l’Italia l’obbligo di rispondere sia per i crimini perpetrati in Jugoslavia, Albania, Grecia, Libia, Etiopia, Urss e Francia sia per i risarcimenti economici fissati proprio il 10 febbraio 1947 con la firma del Trattato di Pace di Parigi. La «più complessa vicenda del confine orientale» racconta questo lato della storia nazionale e deve spingere il Paese a fare i conti con il proprio passato contro un «populismo storico» che si diffonde pervicacemente nella società minandone i valori costituzionali ed antifascisti: «Una generazione – scriveva Gramsci – può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo storico da cui è stato preceduto». Bibliografia ragionata Sulle foibe: Joze Pirjevec, «Foibe. Una storia d’Italia» (Einaudi), Raoul Pupo-Roberto Spazzali, «Foibe» (Mondadori), Giacomo Scotti, «Dossier Foibe» (Manni), Giampaolo Valdevit, «Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-1945» (Marsilio). Sull’occupazione italiana della Jugoslavia e dei Balcani: Davide Conti, «L’occupazione italiana dei Balcani 1941-1943. Crimini di guerra e mito della brava gente» (Odradek), Eric Gobetti, «Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943 (Laterza), Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa 1940-1943» (Bollati Boringhieri). Sui mancati processi ai criminali di guerra italiani e sul mito degli «italiani brava gente»: Michele Battini, «Peccati di memoria: la mancata Norimberga italiana» (Laterza), Davide Conti, «Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana» (Einaudi), Angelo Del Boca, «Italiani brava gente?» (Neri Pozza), Filippo Focardi, «Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale» (Laterza), Filippo Focardi, «Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe» (Viella). * Fonte: Davide Conti, il manifesto

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Il Narodni Dom tornerà alla comunità slovena di Trieste, ma la memoria resta divisa https://www.micciacorta.it/2020/07/il-narodni-dom-tornera-alla-comunita-slovena-di-trieste-ma-la-memoria-resta-divisa/ https://www.micciacorta.it/2020/07/il-narodni-dom-tornera-alla-comunita-slovena-di-trieste-ma-la-memoria-resta-divisa/#respond Sun, 12 Jul 2020 08:06:03 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26182 La restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom - la Casa degli Slavi data alle fiamme il 13 luglio 1920 dai fascio di combattimento triestini - resta sottotraccia in una giornata di cerimonie frettolose e propagandistiche

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TRIESTE. Cerimonia blindata. Due corone da deporre, nessun discorso, la firma di un protocollo, ammesse solo Rai Quirinale e una TV slovena. Lunedì il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor saranno a Trieste per una giornata che poteva essere di festa e invece si svolge con il coprifuoco. Dopo cento anni esatti, e in forza di una legge di dieci anni fa, il Narodni Dom tornerà alla comunità slovena di Trieste. La Casa degli Slavi (sloveni, croati, cechi) era stata data alle fiamme il 13 luglio 1920, assaltata da un centinaio di facinorosi guidati da Francesco Giunta, segretario del fascio di combattimento triestino. Quella stessa sera altre decine di appartamenti, studi, banche, scuole, negozi, osterie, fuono assaliti dalle squadracce: pestaggi, fiamme, distruzione. Per gli sloveni di Trieste è rimasta nella memoria come la loro “notte dei cristalli” anche se incendi e pestaggi erano cominciati già nell’estate del 1919. L’immenso rogo del Narodni Dom è rimasto il simbolo drammatico della ferocia nazionalista che si scagliò con inusitata violenza contro le presenze “straniere” in città. Trieste “redenta” non poteva e non voleva ammettere di essere abitata da diverse etnie e di avere accettato per due secoli il mescolarsi di tante lingue, religioni, culture; il nascente fascismo di frontiera fomentava le piazze. Mattarella e Pahor verranno a siglare una dichiarazione di intenti per la restituzione dell’edificio alla comunità slovena locale, nulla di più, ma comunque un passo concreto che gli sloveni di Trieste aspettavano da anni ed erano pronti ad accogliere con gioia. Ma la festa non ci sarà. Accordi ricattatori e veti incrociati tra forze politiche delle due Repubbliche, hanno saputo trasformare la giornata nell’ennesima occasione perduta di vera riconciliazione. Per prima cosa si andrà a Basovizza per rendere omaggio ai martiri delle foibe. Ogni visita alla foiba ripropone alla comunità slovena della Venezia Giulia – e non solo – la narrazione di fantomatiche stragi volute e perpetrate dagli jugoslavi contro gli italiani; spiace che Mattarella continui su quella traccia dopo che, non più tardi del 10 febbraio scorso (“giorno del ricordo”) aveva parlato di “eccidi efferati di massa” giungendo a criticare certi “negazionismi militanti”. Le autorità italiane non hanno mai voluto indagare dentro il pozzo di miniera di Basovizza, impropriamente chiamato foiba, per verificare e identificare eventuali resti umani. Nell’estate del 1945 lo fecero gli alleati anglo-americani ed estrassero cadaveri di soldati tedeschi, carogne di cavalli ed il corpo di un aguzzino della Banda Collotti. In seguito il Comune di Trieste e gli stessi eserciti alleati ne fecero una discarica, parzialmente svuotata da una ditta di recupero di metalli. Non si è mai voluto documentare quello che c’è davvero nella foiba ma si sono imbastiti comizi a tutto vantaggio della destra revanscista: una stesa di cemento a tappare, tanta retorica nazionalista e una giornata ogni anno per continuare a tacere degli orrori commessi dagli italiani nei paesi occupati e rinfocolare l’immagine dello slavo comunista infoibatore. Il Presidente Borut Pahor, primo Presidente di un paese ex jugoslavo a rendere omaggio alla foiba di Basovizza, è certamente tirato per la giacca dall’attuale governo sloveno di estrema destra che promuove l’identificazione tra antifascismo e terrorismo.
Luglio 1929, resti del Narodni Dom
In Slovenia il clima è teso: da mesi, l’opposizione al governo di destra è costantemente in piazza. Ogni venerdì a Lubiana e in altre città, gruppi numerosi di giovani si riuniscono, o sfilano in bicicletta, con parole d’ordine antifasciste. Anche venerdì scorso la piazza antistante il Parlamento sloveno era gremita ma i cartelli e gli slogan stavolta contestavano il Presidente e la sua visita alla foiba: “Pahor, la visita alla foiba di Basovizza significa inchinarsi al fascismo”. Da Trieste, in queste settimane, in molti, intellettuali e associazioni slovene, sono andati da Borut Pahor per dirgli che il suo omaggio alla foiba è uno schiaffo alla minoranza slovena in Italia ma anche a tutta la lotta di liberazione, oltreché un piegarsi alle falsificazioni storiche. Molte le lettere inviate ai giornali, un misto di rabbia e di amarezza. Qualcuno più timidamente; d’altra parte, dietro i buoni rapporti italo-sloveni e la tutela delle minoranze, da entrambe le parti, ci sono anche finanziamenti e posti di lavoro. Polemiche e proteste. Non poteva restare, dunque, la sola visita alla foiba e così ci sarà un’altra corona di fiori ma “dall’altra parte”: a Basovizza, un chilometro in linea d’aria dalla foiba, c’è un monumento dedicato a quattro ragazzi, tre sloveni triestini e un croato, fucilati nel 1930 su  sentenza del Tribunale speciale fascista nella sua prima trasferta a Trieste. Fucilati di nascosto, i loro corpi rintracciati solo nel 1945. Di questi antifascisti si parlò in tutta Europa perché erano le prime vittime della violenza fascista ma in Italia non si conoscono nonostante il loro legame, per esempio, con il gruppo di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli. La loro condanna per “terrorismo” non è mai stata annullata: sarebbe un bel gesto se Mattarella cogliesse l’occasione per conoscere la loro storia e cancellare quel marchio infamante ma pare proprio una speranza vana. Il Presidente della Regione, il leghista Fedriga, ha dichiarato che la sua presenza al monumento dei quattro fucilati sarà un puro atto di “educazione istituzionale”, il Sindaco ha parlato di una scelta “per far contenti gli sloveni e così poi mettiamo una pietra tombale su tutte le beghe del ‘900”. Casa Pound, intanto, ha ricominciato ad affiggere manifesti antislavi e anticomunisti, l’estrema destra ha manifestato in piazza contestando la restituzione del Narodni Dom, vandalizzati molti monumenti che, in ogni più piccola frazione del Carso, ricordano i partigiani del luogo uccisi dai fascisti. Ancora un’ultima tappa: consegna di onorificenze allo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, 107 anni, testimone dell’incendio del Narodni Dom che poi aderì alla resistenza slovena, fu arrestato dalla Gestapo ed inviato in un lager nazista, i suoi libri tradotti e conosciuti nel mondo. Dalla sua casa in un paese del Carso a picco sul mare, saputo del riconoscimento dei due Presidenti ha dichiarato: “Dedico le decorazioni a tutti i morti, a tutti quelli di cui ho scritto, a partire dai quattro eroi di Basovizza e da Lojze Bratuž (ucciso dai fascisti nel 1937, non olio di ricino ma olio di macchina e benzolo, colpevole di avere diretto il coro in sloveno durante la messa di Natale, ndr)”. La restituzione ai legittimi proprietari del Narodni Dom, dunque, resta molto sottotraccia in una giornata di cerimonie frettolose e sostanzialmente propagandistiche che suonano molto ”fascisti e antifascisti pari sono”. Amaro il commento di Stojan Spetič, già senatore del PCI: “non va mai dimenticato che non siamo all’anno zero della nostra storia. I nostri popoli sono stati uniti dal sangue dei partigiani italiani, sloveni e croati versato nella comune lotta per la libertà. Lottarono insieme i partigiani del IX Korpus con i garibaldini friulani, l’Intendenza Montes, la “Fratellanza” sopra Fiume, il battaglione “Tito” di sloveni fuggiti dal carcere di Spoleto unitisi alla Resistenza italiana in Umbria… E tanti singoli. Per citarne uno solo: Anton Ukmar (Miro), sloveno di Prosecco, dirigente nazionale del PCI, animatore della resistenza antifascista in Abissinia, poi combattente in Spagna, maquì in Francia, comandante garibaldino nell’Oltrepò pavese ed infine liberatore di Genova. Sono queste le fondamenta dell’amicizia e della conciliazione, cemento di pace tra i popoli vicini” * Fonte: Marinella Salvi, il manifesto

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Intervista al sindaco: «Rijeka-Fiume è il porto delle diversità» https://www.micciacorta.it/2020/02/intervista-al-sindaco-rijeka-fiume-e-il-porto-delle-diversita/ https://www.micciacorta.it/2020/02/intervista-al-sindaco-rijeka-fiume-e-il-porto-delle-diversita/#respond Sun, 16 Feb 2020 09:08:45 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25974 «La stella a 5 punte - che ricorda anche tutti gli antifascisti, compresi quelli italiani - è un’installazione della rassegna "L’era del Potere"»

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Intervista a Vojko Obersnel. «Il nostro obiettivo è superare i confini», racconta il sindaco della città, Capitale europea della Cultura 2020. RIJEKA. Meno di cento chilometri dividono Trieste da Rijeka-Fiume; due golfi bagnati dallo stesso mare per due storie che sono corse parallele per secoli e che continuano a incrociarsi. A volte qualche iniziativa o una parola sbagliata le fa scontrare. Già in occasione della cerimonia per una statua dedicata a D’Annunzio a Trieste – proprio nel giorno del centenario della marcia su Fiume – c’era stata una scaramuccia tra i Sindaci delle due città e, adesso, ecco arrivata una nuova polemica. Lunedì scorso al Sacrario della foiba di Basovizza, nel suo veemente intervento in diretta tv sull’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, il Sindaco di Trieste (a maggioranza fascio-leghista) ha detto tra l’altro: «Se volgo lo sguardo oltre confine verso la bellissima città di Rijeka, un tempo Fiume, oggi capitale della cultura, non trovo nulla di culturalmente interessante, ma vedo solo un’esplicita e ulteriore offesa alle vittime del comunista Tito nel fatto che una grigia stella a cinque punte sorga nuovamente sul grattacielo che fu simbolo delle violenze contro l’umanità da parte del totalitarismo comunista. Quella stella, nella nostra memoria, ha solo il colore del sangue dei bambini, giovani, donne, uomini e anziani italiani trucidati o costretti a scappare dai comunisti titini». Inevitabile chiedere al Sindaco di Fiume, il socialdemocratico Vojko Obersnel un commento. Perché quella stella signor sindaco, peraltro installazione temporanea solo per il 2020? Rijeka ha ottenuto il titolo di Capitale europea della Cultura 2020 anche grazie a quella parte del programma dedicata a L’era del Potere. È la lunga e incredibilmente turbolenta storia di Rijeka: in meno di cent’anni ha cambiato sette nazionalità e tutte hanno lasciato tracce sul tessuto della città e nella memoria dei suoi cittadini. Vuole dire che i tanti interventi urbanistici hanno anche voluto riproporre simboli significativi per la storia della città? Come l’aquila ricollocata sulla Torre civica? L’aquila a due teste è presente nello stemma di Fiume, ratificato da Leopoldo I d’Asburgo e dominava dalla Torre la città già a metà ‘700; era stata rifatta nei primi anni del ‘900, vandalizzata dai legionari dannunziani e alla fine distrutta nel 1949. Tra gli interventi di riqualificazione urbana compiuti nella marcia di avvicinamento a Rijeka 2020 c’è anche l’averla rimessa al suo posto. Ricostruirla com’era è stato un lavoro lungo e difficile ma sono sicuro che ne è valsa la pena.

E quindi anche la stella titina? Non è necessariamente un bel ricordo per i cittadini di Rijeka ma il programma costruito intorno all’era del potere non è nato per cambiare, giudicare o esaltare la storia. È una occasione per fermarsi e vedere, anche così, i fatti storici che si sono succeduti. La stella a cinque punte è una installazione artistica che porta tante connotazioni: un simbolo della lotta contro il fascismo, un ricordo di tutti gli antifascisti, compresi quelli italiani, che hanno combattuto per la libertà dell’umanità ed è anche un ricordo dei quasi 3.000 combattenti antifascisti che sono morti nella battaglia per liberare Rijeka dai fascisti e dalla loro terrificante ideologia che, giustamente e per sempre, è stata condannata da tutto il mondo liberale. Sono stati anni feroci… Non vogliamo nascondere; quello che vogliamo è condannare tutti i crimini, indipendentemente da chi o quale regime li ha commessi. Vogliamo ricordare che il crimine genera crimine. A Podhum, il villaggio accanto a Rijeka, i fascisti hanno ucciso centinaia di abitanti, i sopravvissuti sono stati deportati, il villaggio bruciato. Lo stesso è successo anche a Lipa, un altro villaggio qua vicino, dove uccisero più di 300 persone tra le quali un bambino di appena 6 mesi. Migliaia di persone sono state uccise nei campi di concentramento a Buccari, Arbe e ancora nella Risiera di San Sabba a Trieste. Questi e molti altri crimini hanno generato le vendette alla fine della guerra che ancora hanno portato morte a persone innocenti. C’è voluto tempo ma sono arrivati anche anni di rinnovata convivenza: i confini non sembrano ormai sempre più evanescenti? È stato possibile cambiare i confini fisici, qualche volta con l’uso della forza, qualche volta con i trattati. Trieste e Rijeka lo sanno molto bene. Sono i confini che costruiamo dentro di noi che sono difficili da cambiare. Uno degli obiettivi di Rijeka 2020 è proprio quello di superare questi confini e di farlo attraverso la cultura. Non a caso il titolo che abbiamo scelto per questo anno speciale è Il porto delle diversità: vogliamo affermare che proprio nella diversità c’è ricchezza. Anche la programmazione degli eventi, allora, ruota intorno a questa amalgama di diversità? Certo. 300 programmi turistici e più di 600 eventi pensati per persone cosmopolite. Se il mio collega sindaco di Trieste leggesse l’intero programma o almeno se ne informasse meglio, gli sarebbe chiaro che qui non c’è nessuna ideologia e men che meno quella comunista. È quasi sera e l’appuntamento di gala è con la Venice Baroque Orchestra nel bel teatro di fine ‘800 “Ivan de Zajc”: musiche di Vivaldi, Corelli e Geminiani, al violino Giuliano Carmignola con il suo Guarneri. Un imperdibile omaggio all’Italia, senza dubbio. * Fonte: Marinella Salvi, il manifesto   ph by Roberta F. [CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

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Foiba rossa, propaganda nera. Un fumetto revisionista nelle scuole del Piemonte https://www.micciacorta.it/2020/02/foiba-rossa-propaganda-nera-un-fumetto-revisionista-nelle-scuole-del-piemonte/ https://www.micciacorta.it/2020/02/foiba-rossa-propaganda-nera-un-fumetto-revisionista-nelle-scuole-del-piemonte/#respond Sat, 15 Feb 2020 08:56:18 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25971 L’iniziativa dell’Assessorato piemontese si inserisce nei nuovi legami che il partito di Giorgia Meloni sta riannodando con l’estrema destra

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Foiba rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana. Questo è il titolo del fumetto che l’Assessorato piemontese all’Istruzione guidato da Elena Chiorino, esponente di FdI, ha intenzione di distribuire in 540 Istituti superiori della Regione (6000 euro la spesa prevista) come «iniziativa culturale per costruire una memoria condivisa». A contestare, per primo, questa operazione è stato Marco Grimaldi, capogruppo di Liberi Uguali Verdi, sostenendo che «questo testo ha due ordini di problemi uno formale e uno di aderenza storica dei fatti raccontati: il fumetto è pubblicato da Ferrogallico, casa editrice vicinissima all’estrema destra. Gli autori inoltre sono Beniamino Delvecchio ed Emanuele Merlino, figlio di Mario Merlino, nome notissimo del neofascismo italiano». «Il secondo problema – afferma il consigliere – è la scarsissima aderenza storica, dal passato mitico puramente italico dell’Istria, con la presenza slava, pur millenaria, completamente rimossa, o la riproduzione di una falsa ordinanza di pulizia etnica anti-italiana firmata dall’imperatore austriaco Francesco Giuseppe e a un falso ordine di Tito che avrebbe ordinato di cacciare gli italiani dall’Istria». Queste sono alcune delle motivazioni di merito che stanno destando indignazione per l’iniziativa «revisionista» contestata anche dai ragazzi del «Treno della Memoria» che, per questo, hanno annunciato di voler distribuire, gratuitamente, davanti alle scuole superiori «La Rosa Bianca» fumetto che ha come protagonisti degli studenti dell’Università di Monaco che tra il ‘42 e il ‘43, tentarono di opporsi in maniera non violenta al regime nazista e che, per questo, vennero decapitati. L’iniziativa dell’Assessorato piemontese si inserisce nei nuovi legami che il partito di Giorgia Meloni sta riannodando con l’estrema destra. L’assessora Chiorino è una fedelissima del deputato di FdI Andrea Delmastro, uno degli anelli di congiunzione a livello nazionale tra la destra «istituzionale» post missina e il neofascismo extraparlamentare, in previsione della strutturazione di un’area «identitaria» in quel partito. La ricostruzione di questo legame la si già potuta vedere, giovedì, all’Università di Torino dove il Fuan (universitari di destra) hanno contestato un convegno sulle foibe provocando la reazione dei collettivi universitari di sinistra e l’intervento della polizia. * Fonte: Roberto Pietrobon, il manifesto

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Mattarella, le foibe, le amnesie e le falsificazioni della Storia https://www.micciacorta.it/2020/02/mattarella-le-foibe-le-amnesie-e-le-falsificazioni-della-storia/ https://www.micciacorta.it/2020/02/mattarella-le-foibe-le-amnesie-e-le-falsificazioni-della-storia/#respond Wed, 12 Feb 2020 09:20:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25967 Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe

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Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe. Avevo otto anni quando i partigiani di Tito, il 1 maggio del 1945, proprio sotto casa mia fermarono la loro avanzata per non esporsi al tiro della guarnigione tedesca, asseragliata nel Castello di San Giusto. Erano scesi dall’altipiano del Carso in due colonne, una si era diretta all’edificio del Tribunale dove i tedeschi avevano installato il Comando e l’altra al Castello di San Giusto, dove il vescovo Santin svolgeva il ruolo di mediatore tirando le trattative per le lunghe in modo da dare il tempo ai neozelandesi, avanguardia dell’esercito alleato, di arrivare ed evitare in tal modo che la resa venisse consegnata nelle sole mani dell’esercito di liberazione yugoslavo. Così la guarnigione tedesca si arrese il 2 maggio, presenti anche gli anglo-americani, giunti a marce forzate dalla litoranea. Ma sul Carso, a vista d’occhio dalla città, si combatteva ancora. La cosiddetta “battaglia di Opicina” è costata molti morti, in gran maggioranza tedeschi, e si sarebbe conclusa solo il 3 maggio. Secondo certe ricostruzioni (Leone Veronese, 1945. La battaglia di Opicina, Luglio Editore, 2015) i primi a essere gettati nelle cavità carsiche furono soldati dell’esercito tedesco, fucilati dopo la resa. La versione secondo cui gli infoibati sarebbero stati in maggioranza cittadini inermi che avevano il solo torto di essere italiani è falsa. La grande maggioranza di quelli che poi furono gettati nelle foibe erano membri dell’apparato repressivo nazifascista, in mezzo ci saranno state anche persone che non avevano commesso particolari crudeltà ma c’erano anche quelli che avevano torturato o scortato i treni che portavano ebrei e combattenti antifascisti nei campi di sterminio. Così come non regge la versione che vorrebbe la città di Trieste sottoposta a una dittatura sanguinaria durante i 40 giorni dell’occupazione yugoslava. Se non altro per la presenza delle truppe anglo-americane. Peggiori delle false ricostruzioni sono le amnesie. Infatti si dimentica (o si ignora) che l’apparato repressivo nazifascista a Trieste non era di ordinaria amministrazione, aveva un suo carattere di eccezionalità perché ne facevano parte personaggi che hanno avuto un ruolo centrale nella politica di sterminio di Hitler. Christian Wirth era uno di questi. Si legga il curriculum terrificante di questo individuo su Wikipedia: responsabile del programma di eutanasia, prelevava le vittime dalle prigioni, dagli ospedali psichiatrici, tra gli zingari. Comandante del lager di Belzec, riorganizzatore di quello di Treblinka, di Sobibor, fu il primo a usare il monossido di carbonio per gasare i deportati. Arriva a Trieste nel 1943. Un anno dopo i partigiani lo individuano e lo uccidono (non è vero, come scrive Wikipedia, che fu ucciso in combattimento presso Fiume, il suo certificato di morte è apparso in rete non più tardi del 2017, dice: von Banditen erschossen, morto in un agguato organizzato dai partigiani mentre passava su una macchina scoperta, nei pressi di Erpelle (Hrpelje) a pochi chilometri da Trieste). Ma ce n’erano altri di personaggi dalla pasta criminale analoga a Wirth, che si erano fatti i galloni nei peggiori Lager del Reich e venivano a Trieste dove gente importante li accoglieva a braccia aperte e dove trovavano anche il modo di non perdere certe abitudini, visto che a portata di mano avevano la Risiera di San Sabba, un forno crematorio che la mia città ha avuto la vergogna di ospitare. Proprio a Opicina la salma di Wirth ricevette gli onori militari. Trieste e zone circostanti, assurte a provincia del Reich, erano diventate un ricettacolo di criminali di guerra, l’angolo di un continente dove la risacca della storia aveva deposto i suoi rifiuti più immondi. I partigiani di Tito hanno liberato l’umanità da alcuni di questi individui, hanno spento quel forno crematorio. Dovremmo essere loro grati per questo, pensando quale tributo di sangue è stato da essi versato per compiere quella missione. Ora però vengono ricordati come un’orda di barbari assetati di sangue, non di sangue nemico, no, di sangue di povera gente inerme che non aveva alzato un dito contro di loro. Ciò che accadde in quelle tragiche giornate di aprile/maggio 1945 impedì alla memoria storica di mettersi subito al lavoro. Quello che sarebbe stato l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia si costituì senza i comunisti. Enzo Collotti diede un contributo fondamentale all’impostazione della ricerca e l’Istituto divenne uno dei luoghi dove cominciai a capire in che razza d’inferno ero cresciuto. Il primo periodo d’attività fu dedicato a “mettere in sicurezza”, come si dice in termine aziendale, la storia dei movimenti di liberazione nella regione, storia tormentata e perciò fonte di drammatiche divisioni (un esempio per tutti l’eccidio di Porzus, ripreso anche nell’ampia pubblicazione, Atlante storico della lotta di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Una resistenza di confine 1943-1945, 2005). Tra tutti gli Istituti della Resistenza italiani quello di Trieste fu l’unico dove la presenza comunista o fu assente o svolse un ruolo decisamente secondario. Del resto il comunismo è finito ormai da 30 anni e i suoi seguaci di allora sono in genere i più accaniti nell’infierire sul suo cadavere, ma a leggere certe vaneggianti uscite di quotidiani come “Il Giornale” o “Libero Quotidiano” nel Giorno della Memoria  sembra che orde di “trinariciuti” riescano ancora a dettare legge in Italia. Negli Anni ’90 la dissoluzione dell’ex Yugoslavia ha investito in pieno il senso d’identità nazionale di croati, sloveni, serbi, macedoni; i nazionalismi hanno fatto a pezzi l’esperienza socialista, la guerra di liberazione non è stata più l’epopea fondativa dello Stato federale, l’immagine di Tito è stata strappata dal piedestallo e se si voleva trovare gente che gettava fango sulla sua figura e sul suo ruolo la si trovava soprattutto tra i suoi compatrioti. L’orrore di quella guerra degli anni Novanta, che così bene Paolo Rumiz ha decodificato nei suoi meccanismi oscuri, ha cancellato ogni traccia di orgoglio per l’eroica ribellione alla dittatura nazifascista. Le falsità, le deformazioni, le mistificazioni che oggi dilagano avrebbero potuto diventare communis opinio in quel contesto, invece gli storici triestini legati all’Istituto colsero l’occasione dell’apertura di certi archivi per intensificare la ricerca della verità. Perché questo va detto con forza: le ispezioni nelle cavità carsiche, le esumazioni, le ricerche per dare un nome ai morti, il recupero e l’attento esame dei registri, di qualunque documento in grado di fare luce sulle circostanze, sulle vittime e sui carnefici, tutto questo lavoro ingrato e difficile fu opera di storici che si riconoscevano pienamente nei valori della Resistenza posti alla base della nostra Costituzione, come Roberto Spazzali, Raoul Pupo e molti altri. Sono loro che hanno dimostrato rispetto per gli infoibati, che hanno contestualizzato quegli avvenimenti, mentre alla canea revanscista e neofascista il destino di quei morti non interessava per nulla, era solo pretesto, strumento, per aggredire gli avversari politici di turno e oggi per fare pura e semplice apologia del fascismo. Come mai nel Giorno della Memoria un Presidente della Repubblica invece di rivolgersi ai primi per impostare un discorso con un minimo di rigore storico si rivolge ai secondi?   Si legga anche la seguente documentazione (da Angelo Del Boca, Italiani brava gente)
Fonte: Sergio Bologna, Volerelaluna

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