letteratura – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 28 Jul 2016 09:54:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Le forme e i luoghi della sovversione non sospetta https://www.micciacorta.it/2016/07/22316/ https://www.micciacorta.it/2016/07/22316/#respond Thu, 28 Jul 2016 09:54:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22316 L’editoriale del numero del magazine Global Rights dedicato alle nuove letterature. Sempre dalla parola occorre principiare, o ricominciare. E oggi, e sempre, quella che ha maggiore forza intrinseca è quella poetica

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street art

«Non si può piegare la sovversione. La si sconfigge obbligandola a cambiar bersaglio», scriveva Edmond Jabès ne Il libro della sovversione non sospetta. Nel nostro tempo, le parole della politica non sanno più spiegare quel che succede, non riescono a capire né tantomeno a guarire. La sovversione politica è divenuta spazio dell’innominabile, nel senso che non ha più oggetto e progetto, non riuscendo a immaginare, dunque a nominare, un altrove e un altrimenti. La voce dei popoli e dei movimenti è resa flebile e balbettante, soffocata dalla perfezione tecnica e tecnologica raggiunta dal dominio, dalle mille forme della repressione, dal pervasivo comando che ha rovesciato di segno e di senso alfabeti e direzioni della rivolta e, prima ancora, dell’indignazione. Indignez vous, esortava pochi anni fa Stephane Hessel, in un già dimenticato pamphlet, dove veniva ricordato che «creare è resistere. Resistere è creare». Re-sistere presuppone non solo lo stare, ma l’avere memoria del passato e il possedere un progetto, un’intenzionalità soggettiva sul futuro. Ovvero, l’essere radicati nello spazio e nel tempo. La resistenza e la trasformazione appartengono cioè al mondo del reale, non del virtuale. Il mondo sarà forse salvato dai ragazzini, come voleva Elsa Morante. O magari lo sarà grazie ai vecchi, a quelli che nel Novecento hanno provato a portare il cielo sulla terra, a liberare (spesso, però, non a liberarsi, sottovalutando l’essenziale ordine dei fattori; da qui, anche, una radice della loro sconfitta). Oppure, più probabilmente, il cambiamento – radicale, come necessita - diventerà possibile solo a partire da una capacità di ascolto, dialogo, scambio e alleanza tra gli uni e gli altri. Tra l’esperienza e l’energia, tra la tenacia e la curiosità, tra la lentezza e l’impeto, tra la memoria e il divenire. Ma sempre dalla parola occorre principiare, o ricominciare. E oggi, e sempre, quella che ha maggiore forza intrinseca è quella poetica. È l’espressione artistica, nelle sue poliedriche e infinite forme, che possiede la cifra, il codice, in grado di unire vecchio e nuovo, ragione e sentimenti, consapevolezza e prospettiva. Di rompere la camicia di forza di una comunicazione sociale governata da algoritmi nascosti e proprietari, della perdita dell’immaginario. Una parola, insomma, capace di raccontare storie e di stimolare desideri. Solo immaginando e desiderando un altro mondo, altri sistemi sociali e di relazione, infatti, il cambiamento diventa concretezza. Solo recuperando vocabolari dimenticati e sottratti, ricostruendo proprie sintassi e nuove grammatiche la sovversione diventa percorribile. Solo costruendo pazientemente i luoghi in cui quei vocabolari, quelle sintassi e quelle grammatiche possano scambiarsi e riconoscersi, le parole potranno ritrovare forza destruens e costruens, provare a indicare e a praticare strade e sentieri di trasformazione. Queste pagine, queste interviste, questo magazine, il progetto di Global Rights, vogliono essere un contributo a tutto ciò. Modesto e fragile, certo, ma convinto, con Jabès, che la sovversione è il movimento stesso della scrittura. SCARICA IL NUMERO INTEGRALE DEL MAGAZINE GLOBAL RIGHTS GR-Entrevistas#2-Ital

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Cigni meccanici e baracconate caucasiche regia di Brecht https://www.micciacorta.it/2016/06/22058/ https://www.micciacorta.it/2016/06/22058/#respond Mon, 20 Jun 2016 10:02:29 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22058 Riflessioni sul “Cerchio di Gesso” e “Tamburi e Trombe” mentre Berlino diventava Atene sulla Sprea

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Madre Coraggio, si sa, è analoga a Filumena Marturano: motto di tutt’e due è che «i figli so’ figli». Ma la differenza tra Eduardo e Brecht è la medesima che passa tra la Volkswagen e la Weltanschauung. La prima, per l’autore delle Note a Mahagonny, «continua a mantenere con stolta ostinazione l’atteggiamento di chi interpreta la vita di massa. Ma non essendo più capace d’altro, questa viene smerciata quale mezzo di godimento »… Mentre in Madre Coraggio quel caratteraccio sgangherato in scena dal principio alla fine è sì uno dei Luoghi ideali della poesia del nostro secolo, ma dopo un po’ non se ne può più di vederlo, rigidamente fermo o asceticamente in moto, nel Cerchio di Gesso del Caucaso e in Tamburi e Trombe lo spettacolo è molto più vario. Sono due splendide produzioni, ricche di ritmo e di fantasia e di panache, di ammirevoli trovate registiche, articolate in una rapida successione di scene quasi cinematografica. Molto tedesche- pesanti, ma di un gusto quasi incantevole: varie come la vita, piene di personaggi (mai meno di trenta), e nessuno prevale. Quello che in certe scene poteva sembrare un protagonista, poi sparisce per delle mezz’ore intere; la storia va avanti senza di lui. Anzi, le storie: ogni personaggio ha la propria; e in quattro ore di rappresentazione s’intrecciano e s’allontanano, shakespearianamente. Questo Cerchio di Gesso è rifatto su una leggenda cinese: una rivolta abbatte un governatore di strani luoghi orientali, e la testa mozza viene portata su e giù, davanti a un portale massiccio. Sua moglie è la Weigel, con un trucco impressionante: maschera d’oro, vesti di raso giallo, unghie finte lunghe una spanna, ghigno sinistro congelato sul lineamento. Scappa carica di strascichi, e dimentica indietro il bambino. Una servante au grand coeur, Gruscha (la Hurwicz), ne ha compassione e lo prende con sé; gli fa dei musini buffi. Il bambino presumibilmente è contento, quantunque raggiunga il massimo dell’Alienazione: infatti è un bambolotto di pezza. Gruscha torna a casa sua, sulle montagne; e questo lungo viaggio è pieno d’incontri, avventure, tempeste di neve che per poco non la disintegrano in una proiezione di puntolini luminosi, come una passante della Grande Jatte. Il bambino suscita malumori e complicazioni nella famiglia, che decide di maritare Gruscha a un moribondo. Ecco la scena più spiritosa: un numero enorme d’invitati si affolla in due stanzette piccolissime e prive di prospettiva, come omini di Bruegel in un’alcova di Giotto, divorando immense focacce gialle, mentre un monaco ubriaco confonde matrimonio e funerale e celebra tutt’e due insieme. Alla fine l’agonizzante salta su dal letto e fa il bagno in scena dentro una botte: fingeva di morire per evitare il servizio militare, ma ora la guerra finisce e il vero fidanzato di Gruscha torna a casa. Anche la mamma del bambino si rifà viva, e lo rivuole. A questo punto comincia tutt’un’altra storia, quella del giudice che deve decidere a chi spetta il bambino: è una vicenda di guerre, traditori, mendicanti, travestimenti, tesori scomparsi, ragazze che la danno via, intorno allo straordinario Ernst Busch, un Bertoldo che «ne ha fatte più di Carlo in Francia». Cioè questo giudice Adzàk in una girandola di proverbi- grullerie da Piovano Arlotto. Dopo una serie di giudizi salomonici, assegna il bambino a Gruscha e confisca il patrimonio della governatrice: pare un rovescio di A passage to India. E prima di tutto c’era stato un prologo, dove i rappresentanti di due villaggi caucasici si disputano nel 1945 sull’uso di una certa valle. Per mettere d’accordo i contendenti un vecchio saggio racconta appunto la favola del Cerchio di Gesso, e per tutta la durata un complesso vocale la commenta stando in barcaccia. È chiaro che di tutta la storia al pubblico interessa ben poco: ma si seguono i singoli episodi con vivo piacere per la bellezza e la ricchezza delle invenzioni visive. Apprezzando questi particolari, curati sempre con una fantasiosità freschissima, paradossalmente viene persa di vista la grossa costruzione. Le regie sono di Brecht o di altri collaboratori (Benno Besson, Erich Engel), le scenografie di Theo Otto e Karl von Appen, ma la “mano” è sempre la medesima. Dentro una cortina semicircolare (e semi-Fortuny: bianca per Madre Coraggio, nera per il Cerchio di Gesso), il carro, o una capanna, o una porta di città, un albero, una tenda, un sedile, sono messi lì di volta in volta; e stanno massicci in mezzo alla scena. Si allontanano talvolta sulla piattaforma girevole. Si staccano per un’ironica trasposizione in corsivo o in negativo fotografico le Variazioni su Temi di Hogarth che sono i fondali per Tamburi e Trombe, simili a tratti di seppia litografica. La commedia è rifatta su un testo famoso della Restaurazione inglese, The Recruiting Officer di George Farquhar, che è del 1711: ma avanzata nel tempo, dalla Guerra di Successione Spagnola fin verso la Rivoluzione Americana, come causa prossima dei trambusti dell’arruolamento, e delle complicatissime trame amorose che coinvolgono gli ufficiali avventurieri della Regina Anna (o di Giorgio III) con le damine piccanti e risentite d’una piccola città della Shropshire. Anche qui i particolari sono spesso una delizia: una libreria è palesemente, sfacciatamente dipinta sul fondale di carta; ma si avvicina un pedante, e ne estrae un libro vero. L’attore Wolf Kaiser, nelle vesti di un Captain Brazen eccezionalmente vitale, entra ogni volta urlando con un nuovo cappello che lancia impetuosamente al soffitto (e non torna mai giù). Grosse invenzioni: la vestizione delle reclute diventa una baracconata fragorosa e grottesca di camicie di forza variopinte. E trovatine squisite: i corteggiamenti sulle rive del fiume Severn vengono disturbati da anatre e cigni meccanici in moto fra le gambe delle coppie; e ricompaiono alla fine tra i piedi degli attori ringrazianti, civettando col collo e con le ali. Si tornava ancora sovente a Berlino, perché le occasioni epocali erano frequenti. I grandi concerti alla Philarmonie. I grandi spettacoli alla Schaubühne, nei tre teatri d’opera, e i monumentali eventi nei parchi. Le grandi mostre di rielaborazione: le tendenze degli anni Venti, gli esuli degli anni Trenta, i bilanci del mezzo secolo, le tappe della Modernità, un secolo di omosessualità, un rendiconto della Prussia. L’Atene sulla Sprea fra Illuminismo e Romanticismo; e in varie sterminate sezioni, una ricapitolazione totale dell’intero Novecento tedesco. Ci fu una nuova fase orgiastica molto ben riuscita, durante l’epoca Fassbinder, che sorvegliava gli andazzi nei locali di cuoio come un autorevole tricheco nero. E all’Est lentamente procedevano i restauri dei meravigliosi musei di Schinkel, e di Potsdam. Il grigio e il bruno e la tela di sacco, moralistici e austeri a Berlino Est, appena a Londra o a Roma virano immediatamente nell’estetismo chi-chi dell’arredamento giapponese e del divano svedese, passano subito dalla zona del Rimprovero in Tela di Sacco all’area del Carino da Rinascente: la stuoia, la rafia, il teak, la lampada di Noguchi e l’insalatiera da yacht disegnata dagli architetti. Insomma, il Regno del Beige. E questo era già evidente nel Galileo; dove più si stilizzavano i fondali più coincidevano col paravento alla Fornasetti; più si introduceva il Solido Mobile Usato e più se ne compiaceva la signora che ha scoperto la Cucina della Nonna, felice di riconoscere in scena la sua madia di Cortona, il suo cassone di Città di Castello.  

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Emir Kusturica: “L’anima del viaggio è nei volti e nelle storie di chi incontro” https://www.micciacorta.it/2016/05/emir-kusturica-lanima-del-viaggio-nei-volti-nelle-storie-incontro/ https://www.micciacorta.it/2016/05/emir-kusturica-lanima-del-viaggio-nei-volti-nelle-storie-incontro/#respond Sat, 07 May 2016 08:50:11 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21797 il più visionario e coerente tra i registi indipendenti: Emir Kusturica. Cuore zingaro, barba incolta e capelli arruffati, l’autore di Arizona Dream, Underground e altri film di culto

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Kusturica

NON C’È RIMEDIO MIGLIORE del viaggiare per conoscere meglio se stessi e recuperare le proprio radici. Esiste una vasta letteratura a sostegno di questa tesi, da L’alternativa nomade di Chatwin al grande viaggio della vita di Terzani, ma all’appello mancava solo lui, il più visionario e coerente tra i registi indipendenti: Emir Kusturica. Cuore zingaro, barba incolta e capelli arruffati, l’autore di Arizona Dream, Underground e altri film di culto (due Palme d’oro, un Leone d’Argento) quando si presenta con la valigia in mano è un raggio di sole, nonostante il suo aspetto apparentemente ombroso. È la condizione dell’essere in viaggio che lo fa stare bene. «Fin da giovane quella del viaggio è stata una dimensione affascinante – racconta Kusturica a Mokra Gora, Serbia centrale, dove vive – ho sempre avuto curiosità verso le altre culture. Se devo la mia educazione cinematografica a Praga, dove ho studiato con il regista Milos Forman, dall’altra parte, per me, la porta dell’Occidente era Trieste, la città dove andavo con la mia famiglia da ragazzo a mangiare il cibo italiano, amato da mio padre, e a fare qualche spesa per me». «DA ALLORA, con il cinema e la musica, ho potuto viaggiare in tutto il mondo e, nonostante la globalizzazione, ancora il viaggio mi arricchisce emotivamente ». Il miracolo della vita come «un viaggio da fare a piedi», dove chi parte spesso torna a casa e si scopre cambiato ma sempre attaccato al luogo da cui si proviene. «Per l’esperienza che ne ho fatto sicuramente il viaggio è uno stato mentale che ti costringe a rapportarti con gli elementi nuovi che ti circondano, gesti, ambienti, persone, paesaggi e ad alzare il tuo livello di percezione per cercare di carpire quelle diversità, e farle parte del tuo bagaglio culturale. In fondo anche leggere, scrivere, vedere film è un modo di aprirsi ad altre esperienze ». Alla fine, dopo aver viaggiato, si torna sempre a casa. Continua Kusturica: «La mia è a Küstendorf, dove vivo, lì mi sento davvero a casa quando sono con me la mia famiglia e le persone a me care. È un luogo in cui mi posso rifugiare per scrivere, o per realizzare i miei film, per suonare». Oltre a dirigere film e a recitare, infatti, Kusturica suona anche la chitarra, è cantante, polistrumentista e performer nel gruppo con cui porta in giro per il mondo una stramba miscela di musiche balcaniche, gipsy-rock e ska. Sempre in viaggio, a cercare storie e memorie anche semplicemente visive da coltivare poi nella propria terra. Si illumina, Kusturica, elencandone alcune. «Nella mia mente restano impressi i viaggi emozionanti che ho fatto in barca a vela con la mia famiglia nel Mediterraneo, fra gli arcipelaghi della Grecia e le coste dell’Italia, luoghi di incredibile emozione e bellezza che lasciano un segno». E poi ci sono le facce, le vite, le genti: l’anima del viaggio per Kusturica. Una grande umanità che forse si incontra sempre più raramente nelle metropoli? Risponde Kusturica: «Il rischio secondo me è che si vada verso agglomerati urbani sempre più grandi e massificati, con centri tenuti a lustro e periferie piene di emarginazione. Forse per queste ragioni ho preferito tornare alle mie montagne e ad un rapporto più stretto e diretto con la natura. I mass media ci forzano verso un pensiero unico che non ha ancora risolto le sue contraddizioni interne e che spesso crea una differenza sempre maggiore fra piccole classi sempre più ricche e una maggioranza sempre più povera. Abbiamo un solo pianeta in cui vivere e diventa difficile dire come lo stiamo difendendo, davvero». Dai suoi viaggi Kusturica ha portato a casa sua in Serbia non solo un bagaglio più pesante, dove dentro ci stanno tutte le esperienze vissute, ma anche il desiderio di migliorare il posto in cui vive, per esempio inventandosi dei villaggi che lui stesso ha fondato e costruito dal nulla. «Volevo realizzare qualcosa di concreto per le persone – spiega – creando lavoro ed opportunità, e poi ci sono molte similitudini fra cinema e architettura, in fondo sono due materie che creano e gestiscono spazi ed esprimono l’immaginario e la creatività dell’uomo. L’anima delle città è formata anche dai suoi abitanti che devono unirsi e trovare la voce per esprimere il loro senso di comunità. Non è un momento facile per trovare nuovi modelli cui riferirsi, ma ci sono argomenti che devono trovare spazio, come l’ambiente, il rispetto per la cultura, la convivenza e l’arricchimento nelle diversità». Si diceva dei due villaggi che Kusturica ha prima immaginato nella sua testa e poi trasformato in realtà. «Andricgrad è una cittadella dell’arte che si affaccia sul fiume Drina, ed è un omaggio allo scrittore Premio Nobel Ivo Andric che nel suo romanzo Il Ponte sulla Drina ha descritto la drammaticità storica di queste terre di Bosnia. Dico sempre che Andric è uno dei pochi che racconta la storia così come è stata e non come vorremmo che fosse anda-ta. È una figura da cui abbiamo ancora molto da imparare e ho voluto arricchire la città con un centro studi a lui dedicato, ma anche di attività culturali con cinema, teatro, biblioteca e centro espositivo». E poi c’è Küstendorf, un villaggio di legno arroccato sui monti della Serbia e sorto dove Kusturica girò La vita è un miracolo. «Anche qui abbiamo fatto della cultura un elemento importante di aggregazione – precisa – ad esempio con il Festival di Cinema e Musica, ma c’è un’attività continuativa tutto l’anno che vuole rappresentare una risorsa e un punto di riferimento per il territorio. Offriamo cibo a chilometro zero e di qualità, un kinder garden per i bambini e opportunità di crescita con work-shop e incontri per gli studenti». Il viaggio di Kusturica continua invece adesso in Italia, a Senise in Basilicata, dove si sta preparando la “prima” dello spettacolo Magna Grecia – Il mito delle origini di cui è direttore artistico. «Quando mi è stato sottoposto il progetto dalla Solares Fondazione delle Arti – racconta il regista serbo -–mi ha subito colpito il fascino della Basilicata, non facile da raggiungere, ma terra vergine e vera. Il paesaggio è magnifico, un equilibrio fra monti e acqua, una panoramica che ci regala qualcosa di magico, con un riflesso della luce che crea immagini che ti fanno innamorare del luogo».   ******* È in libreria in questi giorni per Feltrinelli ( Collana I Narratori) il nuovo libro di Kusturica, “ Lungo la Via Lattea” ( 208 pagine, traduzione di Alice Parmeggiani): sei racconti, in parte autobiografici, che rimandano al mondo affettivo, violento e poetico, della sua adolescenza e dei suoi primi film

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Il mare unisce popoli e luoghi: la multibiografia di Testa https://www.micciacorta.it/2016/04/21698/ https://www.micciacorta.it/2016/04/21698/#respond Mon, 18 Apr 2016 09:12:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21698  L'introduzione di Erri De Luca al libro postumo di Gianmaria Testa, "Da questa parte del mare", in uscita domani per Einaudi

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sogni

Ciao socio, compare, fratello che non mi è capitato in famiglia e che ho cercato intorno, grazie di accomunarmi al libro della tua vita. Hai messo insieme pezzi del tuo tempo senza ricavarne un’autobiografia, perché non riesci a dire di te senza gli altri. Ti scansi dal centro, lasci il tuo capitolo all’ospite di turno. La tua diventa una multibiografia di persone e di luoghi, dove sei anche tu. Leggo una festa di nozze campestri a gola piena di canti, leggo Jean-Claude Izzo scrittore di Marsiglia commosso da una canzone di Roberto Murolo perché la cantava suo padre, e poi Torino metallica e meccanica con il mercato di Porta Palazzo dove inventi una nascita d’inverno ma con i fiori e il fiato che svapora. Leggo Tino salvato in mare, sbarcato al molo di nostra madre terra Lampedusa, tenuto in vita da due occhi di donna sconosciuta, insaccata nello stesso viaggio, separato da lei allo smistamento, rivista mai più. Leggo una ragazza da stazione, mezza assiderata da caricare in auto per darle, e non comprarle, il calore. E gli uomini che si affacciano al parabrezza per strofinare il vetro e quelli che chiedono con il palmo vuoto la moneta del passante, viceré della provvidenza, dissociato tra rigetto e abbraccio. Leggo il violinista albanese e il venditore di tappeti Abdel, i figli aspettati nel corridoio di una sala parto, i genitori contenti della tua divisa ferroviaria, leggo la tua folla per cercarti nel tempo precedente ai nostri incontri. Poi sono venute sui palchi le nostre ore liete e concrete, insieme a Gabriele Mirabassi, poi solo noi due. Leggo la tua vita numerosa di altri, la tua scrittura a maglia di catena che li tiene insieme. Insieme siamo andati dietro all’emigrazione cetacea venuta a spiaggiarsi da noi. È una balena bianca nutrita con il plancton delle vite disperse e trasportate, il mare in persona che le nutre e se ne nutre, il mare che per noi non potrà più somigliare a quello delle gite, da quando abbiamo visto i viaggiatori in corpo alla balena bianca. Noi che siamo il contrario di Achab. Intitoli Da questa parte del mare le tue pagine di uomo di entroterra, intriso di onde come un pescatore di coralli. E io, nato sul bordo del Tirreno, ho pescato fossili marini sulle Dolomiti. Siamo del Mediterraneo, da Marsiglia al Cairo, da Istanbul a Barcellona. Apparteniamo al vasto meridione del mondo, eravamo fatti per incontrarci in qualche piazza affollata e forse ci eravamo già sfiorati in qualche baraonda. Su tuo invito sono salito sulle tavole rialzate di un palco, chiamando con noi il nostro cavaliere preferito, il sobbalzato, lo scaraventato, il disarcionato Chisciotte. Abbiamo amato i pellegrini per vocazione e quelli per forza maggiore. Li abbiamo accolti nei canti e nelle stanze, inaugurando per tempo un principio di coro. Noi li guardiamo da questa parte del mare, sapendo di stare dalla stessa parte di tempo, di campo, di mare. Erri De Luca

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Elogio di quello che i romanzi non dicono https://www.micciacorta.it/2016/02/21414/ https://www.micciacorta.it/2016/02/21414/#respond Sat, 27 Feb 2016 15:48:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21414 Javier Cercas parte dal “Don Chisciotte” per svelare come la narrazione si fondi sul “punto cieco”: tutte le domande lasciate senza risposta

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Chisciotte

Il mio penultimo romanzo s’intitola “Le leggi della frontiera” e ruota intorno alle vicissitudini di una fittizia banda di delinquenti giovanili sorta alla fine degli anni Settanta in Spagna: la banda dello Zarco. Racconta la storia di un triangolo amoroso che si prolunga per trent’anni, un triangolo formato dallo stesso Zarco (il leader del gruppo), dal Gafitas (un adolescente di classe media che si unisce alla banda) e infine da Tere (il personaggio che forse incarna tutti i dilemmi morali del libro e ne conserva tutti i segreti). Così, di solito, io descrivo il romanzo; però Carlos Marzal, forse il maggior poeta spagnolo della mia generazione, lo ha descritto come un thriller esistenziale, che non soltanto si pone una domanda quasi poliziesca e cerca di risolverla (chi ha denunciato la banda dello Zarco?), ma che, in quella formulazione e in quel tentativo di risoluzione, implica questioni di ordine esistenziale. La descrizione di Marzal mi sembra esatta, soprattutto se subito dopo si aggiunge che, oltre a essere un thriller esistenziale, Le leggi della frontiera è un antithriller. Perché, contrariamente a quanto di solito accade nei thriller, alla fine la risposta alla domanda che il libro formula è che non c’è risposta; alla fine non sappiamo chi ha denunciato la banda dello Zarco. Al centro stesso del romanzo c’è, perciò, una domanda senza risposta, un enigma irrisolto, un punto cieco, un minuscolo luogo attraverso il quale, in teoria, il lettore non vede nulla; ma la verità, in pratica, è che il significato profondo di tutto il romanzo si trova lì, e che è proprio grazie a quel punto cieco che il romanzo vede, è proprio grazie a quel silenzio che il romanzo è eloquente (o dovrebbe esserlo), è proprio grazie a quell’oscurità che il romanzo illumina (o dovrebbe illuminare). È questo il paradosso che definisce i romanzi del punto cieco; e anche tutti o quasi tutti i miei romanzi. In qualche momento del loro sviluppo viene formulata una domanda, e il resto del romanzo consiste, in forma più o meno visibile o segreta, in un tentativo di risposta, ma alla fine la risposta è che non c’è risposta. Alla fine di “Anatomia di un istante” non sappiamo con esattezza perché il 23 febbraio 1981 Adolfo Suárez, l’architetto della transizione dalla dittatura alla democrazia in Spagna durante gli anni Settanta, rimase immobile al suo posto da primo ministro nella Camera dei Deputati, mentre le pallottole dei golpisti gli fischiavano attorno e tutti o quasi tutti gli altri parlamentari cercavano rifugio sotto i loro scranni; e non lo sappiamo malgrado in un certo senso tutto il libro non sia che un tentativo di scoprirlo. Allo stesso modo alla fine di “Soldati di Salamina” non sappiamo con esattezza perché, negli ultimi giorni della guerra civile spagnola, un soldato repubblicano salvò la vita di Rafael Sánchez Mazas mentre il poeta e ideologo fascista cercava di nascondersi in un bosco dopo essere miracolosamente sfuggito a una fucilazione collettiva; e non lo sappiamo benché nel corso di tutto il libro il giornalista che ne è protagonista non faccia altro che cercare di rispondere alla domanda. O, detto in altro modo: in nessuno di quei romanzi viene fornita una risposta chiara, tassativa e inequivocabile al loro interrogativo centrale, bensì soltanto una risposta ambigua, equivoca e contraddittoria, essenzialmente ironica; una risposta che in realtà non è una risposta e che tuttavia è l’unico tipo di risposta che possa permettersi il romanzo, perché il romanzo è il genere delle domande, non quello delle risposte: a rigore, l’obbligo di un romanzo non consiste nel rispondere alla domanda che esso stesso si pone, ma nel formularla con la maggior complessità possibile. Mi riferisco ai buoni romanzi, è chiaro. O ai buoni romanzi moderni. O ai romanzi moderni che mi piacciono di più. Prendiamo, senza spingerci troppo lontano, il primo romanzo moderno, forse il migliore, in ogni caso quello che contiene in germe tutte le possibilità future del genere e che, proprio per il suo carattere fondativo, ne determina in gran parte l’avvenire. La domanda centrale che Cervantes formula nel Don Chisciotte è trasparente: Don Chisciotte è davvero pazzo? Almeno di primo acchito, la risposta a questa domanda non è meno trasparente: Don Chisciotte è indubbiamente pazzo. Certo, si può non essere d’accordo sul tipo di follia di cui soffre il nostro cavaliere, e non sono mancati medici che hanno azzardato una diagnosi clinica della sua malattia. E allora? Don Chisciotte è pazzo o no? Non lo sappiamo; o, se si preferisce, Don Chisciotte è pazzo e non è pazzo allo stesso tempo: questa contraddizione, questa ironia, questa ambiguità essenziale, irriducibile, costituisce il punto cieco del Don Chisciotte. Ma è proprio grazie a questo punto cieco che il romanzo di Cervantes dice la cosa più importante che ha da dire. Ciò che davvero dice Cervantes, grazie al punto cieco del suo capolavoro, è che la realtà — specie la realtà umana, che è quella che davvero gli interessa — è essenzialmente ambigua, ironica e contraddittoria: che Don Chisciotte è pazzo, ma è anche sano di mente; che Don Chisciotte è un personaggio comico e grottesco, ma anche un personaggio ammirevole, un eroe tragico; che tutti gli altri personaggi del libro condividono la duplicità del protagonista e che la condivide perfino il libro stesso: dopo tutto, quest’ultimo è naturalmente un’invettiva contro i libri di cavalleria, come lo stesso Cervantes afferma nel prologo alla prima parte, ma è anche un omaggio ai libri di cavalleria, e il migliore di tutti. Qui si svela la natura essenziale del Don Chisciotte, la sua evidenza più profonda e rivoluzionaria, la sua assoluta genialità, che consiste nell’aver creato un mondo radicalmente ironico. Questo è il mondo caratteristico del romanzo: non solo quello del Don Chisciotte, ma anche quello del romanzo come genere. Questa tradizione eredita a fondo l’ironica visione del mondo dello scrittore spagnolo, l’antidogmatismo, lo scetticismo e la tolleranza che implica, e perciò risulta altrettanto essenziale o più essenziale dello sviluppo della scienza per il trionfo della modernità; questa tradizione eredita anche, almeno in alcuni casi fondamentali, lo strumento appropriato per collocare l’ironia al centro stesso del romanzo: il punto cieco. **** IL LIBRO Testo tratto da “Il punto cieco” di Javier Cercas ( Guanda, trad. di Bruno Arpaia pagg. 161, euro 17). L’autore sarà a Roma, a “ Libri Come”, il 20 marzo

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I documenti umani di Jack London https://www.micciacorta.it/2015/11/i-documenti-umani-di-jack-london/ https://www.micciacorta.it/2015/11/i-documenti-umani-di-jack-london/#respond Sun, 22 Nov 2015 09:09:30 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20898 Classici americani. Una selezione delle dodicimila immagini scattate dall'autore di "Zanna bianca", estranee sia alle fotografia etnografica che al nascente turismo di massa

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A dispetto di una fortuna critica altalenante, Jack London resta uno degli scrittori statunitensi più letti al mondo, soprattutto grazie a romanzi di avventura come Zanna Bianca, Il richiamo della foresta, o Il lupo di mare, spesso catalogati come «letteratura per ragazzi» (destino peraltro a lungo condiviso con capolavori della letteratura americana come L’ultimo dei mohicani, Moby-Dick, Le avventure di Huckleberry Finn) ma che si inseriscono a pieno titolo in quell’importante stagione letteraria che va sotto il nome di «età del naturalismo» e che (per semplificare) si distaccherebbe dal realismo che la precede per l’importanza assegnata alle forze, naturali e sociali, arbitre dei destini umani. London è certamente uno dei protagonisti del naturalismo americano, ma negli Stati Uniti ha sofferto del confronto con scrittori a lui contemporanei – Theodore Dreiser, Frank Norris, Stephen Crane – tradizionalmente considerati in possesso di mezzi artistici superiori. A partire dal 2010, però, gli estimatori di London hanno un argomento in più per apprezzarne non solo i meriti artistici, ma il ruolo di precursore in quella che oggi chiamiamo «cultura visuale». Una selezione delle ben dodicimila foto scattate da London – perlopiù con una Kodak 3A, la macchina del formato cartolina – oggi conservate presso gli archivi della California State Parks Collection e della Huntington Library venne infatti pubblicata nel 2010, a cura di Jeanne Campbell Reesman, Sara S. Hodson e Philip Adam, nel volume Jack London, Photographer (University of Georgia Press): sebbene per la prima volta si trovasse a disposizione la prova di quanto fosse importante l’arte della fotografia per London, non si trattò di una «scoperta» straordinaria; che lo scrittore fosse un fotografo, autodidatta e tuttavia assai capace, era noto, infatti, perlomeno dal 1903. La prima edizione del Popolo dell’abbisso, il reportage sulle sconvolgenti condizioni di vita dei miserrimi abitanti dell’East End londinese, comprendeva oltre cento scatti che contribuivano non poco al senso complessivo del testo; e anche La crociera dello Snark, del 1911, includeva foto scattate da London durante il viaggio che dalla California lo aveva portato sino ai Mari del Sud. Ora, un bel volume titolato Le strade dell’uomo Fotografie, diari e reportage (Contrasto, pp. 195, euro 19,90), ottimamente curato da Alessia Tagliaventi, con testi di London tradotti da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, e un’appassionata introduzione di Davide Speranza, offre una versione italiana del Jack London, Photographer, per quanto priva dei saggi critici dell’originale e delle due sezioni dedicate alla rivoluzione messicana del 1914 e al viaggio verso Capo Horn a bordo del Dirigo. Le quattro sezioni comprendono immagini dell’East End londinese, della guerra russo-giapponese del 1904 (seguita dallo scrittore come reporter per il «San Francisco Examiner»), quelle del terrificante terremoto di San Francisco del 1906 (cui London dedicò un articolo sul «Collier’s magazine»), e infine foto dalla crociera dello Snark, in maggioranza ritratti di nativi delle isole dei Mari del Sud. Ogni sezione, inoltre, propone estratti dalle opere di London, facendo così proficuamente dialogare testi e immagini. Al di là del loro non trascurabile valore documentario, le foto di London hanno diversi meriti: innanzi tutto si configurano – come ci ricorda Speranza nell’introduzione, riprendendo la definizione dello stesso London – alla stregua di intensi «documenti umani» che correggono significativamente l’idea di un London ipnotizzato dalla figura nietzscheana della «bestia bionda». Se la fotografia del tempo, fosse di «denuncia sociale» oppure al servizio delle nascenti discipline etnografiche, sembrava comunque esaltare la distanza tra l’osservatore e l’osservato, spettacolarizzando o esotizzando il povero o il selvaggio; al contrario, gli scatti di London mettono l’accento su una umanità condivisa. Che il soggetto sia una «serva dell’East End», i rifugiati coreani vittime della guerra, oppure un nativo di Guadalcanal, le foto di London non ne scalfiscono la dignità, che resta palpabile pur nella sofferenza che spesso attanaglia questi esseri umani. Persino nelle foto della devastazione di San Francisco, come nota la curatrice del volume, «London non cede alla sottile seduzione del fascino delle rovine, e si impegna piuttosto a comporre “uno stato delle cose”, esercitando su quei luoghi uno sguardo frontale e diretto». Aggiungerei un’ulteriore osservazione, particolarmente pertinente alle foto scattate da London in Manciuria e nei mari del Sud, ma forse anche a quelle dell’East End. Più o meno a quegli anni risalgono molte foto degli «ultimi» indiani d’America in costumi tradizionali: troppo spesso vi appaiono sì fieri ma distanti. Rispetto a quei volti stoici, congelati dai fotografi in un passato irrecuperabile, i coreani e i polinesiani, e persino molti east enders si distinguono per un tratto forse non sufficientemente sottolineato: sorridono, o quanto meno accennano a un sorriso (si veda la foto della serva dell’East End, o quella bellissima di una madre di Samoa col suo bambino, o le immagini degli anziani dei villaggi coreani). E sono soprattutto i loro sorrisi a stabilire un contatto con chi ha in mano la macchina fotografica, a creare un’intimità che, quali che fossero le idee di London in materia di «razze» umane (su questo argomento è assolutamente da leggere Jack London’s Racial Lives di Jeanne Campbell) rompono in modo netto tanto con la tradizione della fotografia etnografica come classificazione di «tipi» umani, quanto con il suo appiattimento a strumento del nascente turismo di massa. Splendida, sotto ogni punto di vista, è la foto che ritrae quattro nativi di Nuku Hiva con al centro un grammofono azionato da uno di loro: se London insiste nel testo sulla devastazione che il colonialismo ha portato nell’isola, qui ci dispensa un commento ironico sul rapporto tra i «primitivi» e la modernità intese come tutt’altro che incompatibili. Molte tra le foto di London sono attentamente «costruite», ma la tesi che lo scrittore sia tra i pionieri del photojournalism novecentesco è vera solo in parte. Già nelPopolo degli abbissi, come ha osservato Owen Clayton in una recensione apparsa nel 2011 su «Early Popular Visual Culture», molte foto sono «messe in scena»: non solo quella delle due ragazze ubriache che si picchiano, con le mani che invece di tirare i capelli sono poggiate sulle rispettive teste, ma certamente quella che ritrae un poliziotto che illumina la faccia di un vagabondo sdraiato a dormire, guarda caso, conto un muro dove ha sede il settimanale «Truth» (Verità). Un recensore dell’epoca ipotizzò che il vagabondo fosse London stesso, e a guardar bene la foto non mi sentirei di escluderlo. Il fatto che gli scatti siano spesso meno «realistici» e più «sperimentali» di quanto è stato sin qui riconosciuto nulla toglie alla loro importanza e al loro valore; è vero semmai il contrario. Pur contribuendo senz’altro alla nascita e al consolidamento di una fotografia realista come strumento del giornalismo moderno, London intuisce al tempo stesso l’importanza che la retorica delle immagini andrà assumendo nella cultura visuale del suo e del nostro tempo. E anche questo è un importante merito del Jack London fotografo e narratore.

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La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia https://www.micciacorta.it/2015/10/la-polizia-contro-pasolini-pasolini-contro-la-polizia/ https://www.micciacorta.it/2015/10/la-polizia-contro-pasolini-pasolini-contro-la-polizia/#respond Thu, 29 Oct 2015 11:23:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20766 “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”. L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti

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1. “Quel bastardo è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959. Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio. Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati. Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni
L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba. Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti, 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava. 2. Il giornalismo libero “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”. L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”. Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio, 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi. Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata. Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino. Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:
[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…
Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”. L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente. Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:
I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.
È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello. Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi. Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale. 3. Come mai? Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)
Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”. La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri. Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche. 4. “Non potranno mentire in eterno” Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette. La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove numero 33, anno XV, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”. Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:
Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura. La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei… Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”. Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film. Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani. 5. “Distruggere il Potere” Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia. Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte. È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”. Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”. Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”. Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata. Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp… 6. Un infame mantra Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è dettotra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”. Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i cinquant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani. Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio. Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari. 7. “Propaganda antinazionale” Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969. Sulla rivista Tempo numero 39, anno XXX, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):
Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.
Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.
Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine
Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:
Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.
In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)
L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro. Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:
Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.
Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:
L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.
Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri. Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata. Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”. Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”. Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.
8. “Le nostre vecchie conoscenze” L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche. Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-’75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali. Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”. Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada. L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda diAccattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.
Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia
Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre. È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a. Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia. Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”. Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”. 9. L’uomo che sorride Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue. Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:
Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

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Sepúlveda: “Scrivere fiabe è un altro modo di fare politica” https://www.micciacorta.it/2015/10/sepulveda-scrivere-fiabe-e-un-altro-modo-di-fare-politica/ https://www.micciacorta.it/2015/10/sepulveda-scrivere-fiabe-e-un-altro-modo-di-fare-politica/#respond Mon, 19 Oct 2015 07:13:07 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20705 Il protagonista del nuovo libro di Sepúlveda è un cane-eroe nel sud del Cile

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«La favola riflette la realtà in uno specchio strano, poco convenzionale, e offre una immagine che permette di capire meglio la realtà». Luis Sepúlveda consegna la sua visione del mondo a una nuova favola: “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà”. E non è certo una scelta casuale: è dal 1996 che il cileno “rosso” utilizza gli animali per arrivare al cuore dell’esistenza e combattere, con armi leggere ma non per questo meno efficaci, le sue battaglie di sempre. Con “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, due milioni di lettori solo in Italia, Sepúlveda aveva comunicato a tutti, anche ai bambini, il suo amore per la natura e il disprezzo per gli uomini che la insudiciano e feriscono. Nelle successive due favole che compongono la Trilogia dell’amicizia era tornato a parlarci dei legami d’affetto che il tempo non può spezzare, ma diventando via via più filosofico, fino a trasformare una lumaca in una rivoluzionaria che indaga le ragioni della lentezza e si oppone a conformismo e omologazione.
Moderno La Fontaine, questa volta Sepúlveda ci porta nel sud del Cile, e ci racconta la storia di un cane cresciuto insieme ai mapuche, la Gente della Terra da cui lui stesso discende, prima decimata e poi costretta dai latifondisti a emigrare in zone isolate e improduttive. Diventato bottino di guerra di un manipolo di uomini violenti e spregevoli, che imbracciano armi per uccidere e che manovrano “grandi bestie di metallo” per radere al suolo il bosco, separato dal suo compagno Aukamañ, il bambino indio per cui era stato come un fratello, il cane è costretto a dare la caccia a un misterioso fuggitivo. Alla fine della sua corsa, tra fiumi e felci, con il sangue che sgorga dal petto, renderà onore al suo nome, un nome importante, che significa fedeltà. Nessuna sorpresa. La natura che viene oltraggiata ha sempre fatto infuriare Sepúlveda, la negazione dei diritti umani anche. Quello che gli sta a cuore, quello che vuole dire al mondo lo affida a parole dolci e concrete. Parole adatte ai bambini, ma anche agli adulti. Parole che sono un ponte tra Esopo e l’America latina, e che non saranno mai neutrali. È lui a dirlo, a spiegare perché le fiabe, come la letteratura, sono un altro modo per fare politica.
Sepúlveda, tutti i suoi libri nascono da qualcosa che ha visto, vissuto, sentito e che l’ha emozionata, dall’incontro con gli indios jibaros nella foresta Amazzonica o da una domanda dei suoi nipotini. Questa favola da cosa nasce?
«A febbraio del 2013 ero nel sud del Cile per visitare la regione di Araucanía, la Wallmapu, il paese dei mapuche. Parlai e ascoltai molte persone, una di queste era un bambino, credo che avesse sette anni ed era molto triste perché aveva smarrito il suo cane. Un’anziana mapuche lo consolava, dicendogli che il suo cane sarebbe tornato perché era un cane fedele, un amico leale. Mi piacque come parlava al bambino e così nacque questa storia».
Quando ha scritto “Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”, sostiene che nel dare forma al libro ha pesato l’immagine di un vecchio cieco, un narratore orale conosciuto nei campi di Tinduf in Algeria. In questo caso, invece, nella prefazione parla di un prozio che al tramonto raccontava storie ai bambini mapuche. Che cosa l’affascina della tradizione orale dei cantastorie?
«La tradizione orale è antica quanto l’umanità e siamo esseri umani per quella stessa capacità di raccontarci cose, di raccontare come è stato il giorno. Non sono solo io ad essere affascinato dalla tradizione orale, dall’arte di raccontare storie. In una regione del nord dell’Argentina, El Chaco, lo scrittore Mempo Giardinelli organizza ogni anno un incontro letterario nel quale le grandi figure sono le nonne “cuenta-cuentos” (letteralmente racconta storie). Durante un fine settimana si riuniscono migliaia di persone di tutte le età, a godere della narrazione orale, delle nonne che raccontano storie e che con le loro parole raccontano l’universo ».
La favola è un genere narrativo universale, eppure riesce a riflettere la cultura e la specificità di ogni popolo. Quanto pesano le sue origini nelle favole che scrive? E invece la tradizione occidentale, legata a Fedro ed Esopo?
«Tanto le mie origini come la tradizione occidentale e orientale della favola hanno un significato quando scrivo. Io sono quello che ho letto, ascoltato, amato, apprezzato, per cui ho pianto e riso. Io sono la somma di tutto questo».
Si è spesso definito uno scrittore realista. Eppure continua a scrivere favole e tutta la sua opera è attraversata da una vena favolistica. È forse la favola un mezzo per raccontare la realtà?
«Credo che tutte le favole raccontino la realtà e il nesso tra realtà e atteggiamenti umani. La favola riflette la realtà in uno specchio strano, poco convenzionale, e fornisce un’immagine che permette una migliore comprensione della realtà».
Come nella “Trilogia dell’amicizia ” anche in “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” è narrata l’importanza dell’incontro con l’altro, con il diverso in una situazione di emergenza. Mi riferisco al cucciolo di cane, riscaldato e nutrito dal giaguaro. Che valore ha la diversità nella vita?
«La diversità è un valore straordinario che rende possibile la vita. È impossibile immaginare la vita senza che questa sia un catalogo infinito della diversità. Le faccio un esempio: nel 1519 Cortés arrivò in Messico con l’intenzione di saccheggiare e distruggere tutto ciò che era altro, che era diverso. Ma con lui c’era un uomo di nome Gonzalo Guerrero che capì l’importanza della diversità del mondo Maya, si rese conto che questa diversità doveva essere difesa e lo fece. Guerrero morì come generale Maya, sacrificò la sua vita per l’altro, per il diverso ».
Questa sua favola sembra molto segnata dall’impegno sociale e politico. Non c’è solo l’apologo dell’amicizia, dell’empatia e della lealtà, ma affiora anche il desiderio di libertà e la storia delle umiliazioni e delle violenze subite dai mapuche… «In tutti i miei racconti è presente la realtà, quello che mi piace e quello che credo debba essere cambiato: non sono neutrale perché nella mia idea di confrontarsi con la realtà, la neutralità non esiste. La neutralità è il rifugio del vigliacco e io non sono, né sono stato e né sarò mai neutrale ».
Paco Ignacio Taibo II sostiene che la letteratura è un altro modo di fare politica. Condivide questa affermazione?
«Sí, perché la letteratura è seminata di memoria. La letteratura dice quello che la storia ufficiale nega o nasconde».
Sembra considerare la semplicità della scrittura più che uno stile, un valore. In una favola conta più l’etica o l’estetica?
« Le due cose sono ugualmente importanti. Io mantengo in letteratura lo stesso carico etico che osservo nella vita, e cerco di dare alla vita la stessa intensità estetica che consegno alla letteratura».
Lei racconta una scena toccante, l’ultimo saluto: «Dieci volte vinceremo fratello, perché è così che si saluta la Gente della Terra, senza mai dirsi addio ». Cos’è per lei la morte?
«La morte è uno dei due estremi entro cui trascorre l’esistenza. Si nasce e si muore. È un ciclo che si apre e si chiude. Credo nella frase di Petrarca: un bel morir tutta una vita onora».
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IL LIBRO
Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà di Luis Sepúlveda (Guanda, pagg.98, euro 10). L’autore il 24 e 25 ottobre sarà a BookcityMilano , a Vicenza il 26, a Prato il 27

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Il poeta del disincanto https://www.micciacorta.it/2015/02/il-poeta-del-disincanto/ https://www.micciacorta.it/2015/02/il-poeta-del-disincanto/#respond Fri, 20 Feb 2015 10:29:50 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18716 Saggi. «Pasolini. L'insensata modernità», a cura di Piero Bevilacqua, per Jaca Book. Le intuizioni folgoranti dell'intellettuale sulla dissoluzione di un'epoca

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Cosa lega, tanto da azzar­darne un con­fronto, Gia­como Leo­pardi e Pier Paolo Paso­lini? Ce lo spiega Piero Bevi­lac­qua nel pic­colo libro a sua cura:Paso­lini. L’insensata moder­nità, edito nella col­lana «I pre­cur­sori della decre­scita», diretta da Serge Latou­che (Jaca Book, pp.63, 9 euro). La spie­ga­zione (ma il testo costringe a riflet­tere su molte altre que­stioni aperte di que­sto secolo) sta nelle prime pagine del libro. Dice l’autore: «Credo che accada per la seconda volta, nella sto­ria della let­te­ra­tura ita­liana, per lo meno in età con­tem­po­ra­nea, che un poeta si eriga a nega­tore radi­cale dei con­vin­ci­menti domi­nanti della pro­pria epoca. Un eroe soli­ta­rio che fac­cia il con­tro­canto distrut­tivo dei miti e delle illu­sioni che ali­men­tano l’immaginario dei pro­pri con­tem­po­ra­nei. Uno dei pochi intel­let­tuali – come è stato detto – a non mani­fe­stare la ben­ché minima fede nel pro­gresso». Non spet­te­rebbe a me, che non sono un cri­tico let­te­ra­rio, fare la recen­sione di que­sto libro se non fosse per­ché il «con­fronto» tra i due con­te­sta­tori radi­cali non ver­tesse, nel testo, sulla feroce cri­tica anti­pro­gres­si­sta che ani­mava i due poeti, tra loro pur assai diversi. Ci sono molti aspetti, descritti nel libro, che riman­dano alle que­stioni dei nostri giorni e che ancora appa­iono irrisolti. Di Leo­pardi è noto come la fonte del suo atteg­gia­mento poe­tico risa­lisse alla delu­sione pro­dotta dal disin­canto del mondo: «L’arido vero», che avanza con la scienza e la tec­nica, distrugge l’universo dei miti, dis­solve in nulla «le favole anti­che», le illu­sioni dell’infanzia, la poe­tica delle cose vis­sute con la verità dei sentimenti. Il poeta «friu­lano» (in realtà Paso­lini era nato a Bolo­gna), fonda anch’egli la sua cri­tica anti­pro­gres­si­sta sulla per­dita del sacro, della reli­gio­sità del mondo antico, della dimen­sione sim­bo­lica. Ma men­tre Leo­pardi con­si­dera gli uomini, nel con­te­sto più ampio della vita cosmica, un irri­le­vante acci­dente della natura, Paso­lini, dice Bevi­lac­qua, è «un uomo immerso nel suo tempo, è al cen­tro del ring con i suoi guan­toni», è un com­bat­tente, un comu­ni­sta. E qui si entra nel vivo delle que­stioni di oggi. Paso­lini non può con­di­vi­dere la visione deso­lata della vita umana di Leo­pardi, non ha la sua stessa solida pre­pa­ra­zione filo­so­fica per soste­nere il con­flitto e, soprat­tutto non può avere la mede­sima coe­renza teo­rica. La con­trad­di­zione di Paso­lini si fa lace­rante: «Deve volere l’avanzata sociale dei lavo­ra­tori, ma è costretto a rile­vare che quel pro­cesso si incarna in feno­meni di deca­di­mento antro­po­lo­gico del mondo da lui amato, di svuo­ta­mento di mora­lità e signi­fi­cato della vita stessa». Così, il pes­si­mi­smo di Paso­lini si fa via via più intran­si­gente fino alla dichia­ra­zione, qual­che giorno prima della sua morte, che «in realtà il mondo non migliora mai. L’idea del miglio­ra­mento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si con­so­lano le coscienze infe­lici o le coscienze ottuse». Pur aggiun­gendo, subito dopo, che «il mondo può peg­gio­rare, que­sto sì. È per que­sto che biso­gna lot­tare con­ti­nua­mente Non è vero che non si torna indie­tro. Si torna anche indie­tro. Ci sono state mille restau­ra­zioni nel mondo». È una rifles­sione amara la sua, oggi da tenere bene a mente. Siamo grati a Bevi­lac­qua di averci ricor­dato que­ste ultime rifles­sioni cui era appro­dato Paso­lini i giorni pre­ce­denti la sua morte. Quanto que­ste siano attuali, lo stesso autore ce lo descrive pren­dendo a modello quanto è avve­nuto (e tut­tora avviene) in Ita­lia – e, in varia misura, in tanti altri paesi d’Europa e del mondo – negli anni della Grande Reces­sione, tra il 2008 e il 2014 di svi­luppo neo­li­be­ri­sta: nuovo lavoro schia­vile, allun­ga­mento della gior­nata lavo­ra­tiva, sac­cheg­gio della natura, distru­zione di legami di soli­da­rietà e per­fino – ricorda l’autore – il furto del sonno che nella «società della fretta» è pas­sato pro­gres­si­va­mente dalle 10 ore alle 8 ore, fino alle sei ore e mezza. Dor­miamo di meno, ma in com­penso con­su­miamo di più. Le parole chiave con le quali la moder­nità aveva annun­ciato il pro­prio avvento — popolo, sog­getto, Stato, benes­sere, pro­gresso — si sono let­te­ral­mente dis­solte. Per Leo­pardi, essa coin­ci­deva bef­far­da­mente con «le magni­fi­che sorti e pro­gres­sive» del «secol superbo e sciocco»; per Paso­lini, il suo avvento era costato l’estinzione delle luc­ciole che per lui costi­tui­vano la «inu­tile bel­lezza» senza fini e senza scopi e pro­prio per que­sto più inti­ma­mente sacra. Non credo che quello di Bevi­lac­qua, nello scri­vere que­sto libro, sia stato un eser­ci­zio di ordine teo­rico e cul­tu­rale, tan­to­meno filo­lo­gico, quanto piut­to­sto un ritor­nare alle radici di un per­corso fatto che oggi ci appare quasi natu­rale e che, invece, avrebbe potuto pren­dere un’altra dire­zione, oltre­ché for­nirci indi­ret­ta­mente punti di rife­ri­mento di lavoro poli­tico. Dovremmo ripar­tire dalla sacra­lità dei rap­porti umani e con la natura; quellasacra­lità che, diven­tati moderni, abbiamo get­tato nel reper­to­rio delle cose inu­tili, insieme alle luc­ciole sim­bolo di una «bel­lezza improduttiva».

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