Lucio Magri – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 20 May 2020 13:56:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Statuto dei lavoratori. Quando eravamo extraparlamentari https://www.micciacorta.it/2020/05/statuto-dei-lavoratori-quando-eravamo-extraparlamentari/ https://www.micciacorta.it/2020/05/statuto-dei-lavoratori-quando-eravamo-extraparlamentari/#respond Wed, 20 May 2020 13:56:14 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26132 Statuto dei lavoratori. Il timore era di smarrire la centralità che le lotte avevano assunto nel controllo sull’organizzazione della produzione

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Non era per caso che nel ’68-69 ci definissimo «sinistra extraparlamentare»: lo eravamo proprio, sia pure alcuni non molto a lungo – il Manifesto-Pdup – altri al di là del buonsenso. È un fatto che anche noi quando in Parlamento venne approvato lo Statuto dei lavoratori, il 20 maggio 1970, quasi ignorammo l’evento; e del resto, come si sa, anche il Pci, sia pure per ragioni diverse dalle nostre, prese le distanze dalla nuova legge; e si astenne. Nel cinquantesimo anniversario di quello che ora consideriamo, e a ragione , un evento storico, qualcuno ha messo in rete un articolo che Quaderni Piacentini, una delle riviste più serie dell’epoca, aveva allora dedicato all’argomento, condannando senza mezzi termini la nuova legge come una truffa ai danni dei lavoratori. In capo all’articolo l’anonima mano ha scritto: «Oggi stringiamo i denti per difendere ciò che ne è rimasto». Oggi è in effetti difficile capire come l’intera nuova sinistra abbia potuto esprimere un simile giudizio negativo sullo Statuto dei lavoratori. Fu un errore – su questo non credo ci sia più nessuno che abbia dubbi – non considerare quella legge una importante conquista. Che peraltro accoglieva una richiesta avanzata da Giuseppe Di Vittorio già al congresso della Cgil del 1952. E che introduceva la Costituzione nel recinto della fabbrica, fino ad allora spazio extraterritoriale chiuso all’interferenza di un imperio che non fosse quello dettato dal padrone. Per capire come sia potuto accadere bisogna riandare a quel tempo e al dibattito che l’accompagnò. Quel giudizio così drasticamente negativo, e il disinteresse con cui la legge fu accolta, aveva alla base un’ipotesi non del tutto destituita di fondamento, che animò infatti, allora, una vasta riflessione, che affrontava, ben oltre lo Statuto dei lavoratori, il tema generale del ruolo delle riforme. Noi tutti, e con noi una parte dello stesso sindacato, consideravamo i rapporti di forza conquistati dagli operai nelle fabbriche ben più favorevoli di quelli esistenti a livello politico e temevamo che la linea del Pci, che puntava sulle riforme, fosse un modo per ridurre la radicalità dello scontro, spostando il confitto sull’infido e incontrollabile terreno della mediazione parlamentare. Il timore, insomma, era di smarrire la centralità che con le lotte era stata data al controllo sulla organizzazione della produzione, sul cuore del sistema. Tanto è vero che quando ci si accorse che non si poteva migliorare la condizione operaia senza prendere in considerazione quanto la determinava anche fuori dallo stabilimento – l’abitazione, la scuola, la salute – le lotte in merito vennero affidate dal movimento non ai lavori parlamentari ma ai Consigli di Zona, la trasposizione sul territorio dei propri autonomi organismi di potere, i Consigli di fabbrica, forse la più importante conquista strappata nell’autunno caldo del ’69. Potere Operaio, e parte di Lotta Continua, spinsero il rifiuto del terreno istituzionale fino a teorizzare la possibilità di mettere in ginocchio attraverso la lotta di fabbrica il potere capitalista. E ritennero che le riforme avrebbero addirittura rafforzato il capitalismo, in quanto avrebbero razionalizzato il sistema. Noi, come qualche altro gruppo, ci muovemmo in modo diverso, cercando di consolidare il potere costruito in fabbrica e di garantirne l’autonomia, sì da poterlo proiettare sul terreno politico. Fu questa la linea che assunse anche la parte migliore del sindacato, a partire dalla unitaria Federazione dei lavoratori metalmeccanici (Flm); e questo garantì la lunga durata del ’68 italiano, che non aveva, né poteva avere, un obiettivo rivoluzionario, un sovvertimento che avrebbe presupposto ben altro processo storico. L’ipotesi rivoluzionaria fu, con la sua consueta causticità, ridicolizzata dal leader sindacale della Fim-Cisl Pierre Carniti in un’intervista al Manifesto: «Non esiste in astratto una distinzione fra riforme necessarie e riforme che aiutano il sistema – disse -. Il padrone non si siede al tavolo per concordare la sua estinzione. L’esito si misura dunque dal potere che l’operaio conquista, dal mutamento dei rapporti di forza». Rileggendo il Manifesto rivista – il quotidiano uscì il 28 aprile del 1971, un anno e mezzo dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori – si trova puntualmente, tuttavia, e sin dall’inizio – anche quando persiste la diffidenza per lo spostamento dell’epicentro della lotta operaia sul viscido terreno parlamentare – il richiamo alla necessità, a un certo punto, di trovare uno sbocco politico, e cioè un momento di mediazione che consolidasse il potere conquistato in fabbrica che avrebbe altrimenti rischiato di non tenere. Quello sbocco non lo trovammo, per tante ragioni che ci sono a tutti note. È un fatto che è proprio attorno allo Statuto dei lavoratori che si sono andati in questi decenni misurando i rapporti di forza nel nostro paese. Contro questa legge sono stati scagliati un referendum dopo l’altro nella speranza di debellarlo; e poi, più pesantemente, i decreti di Berlusconi, di Monti, di Renzi, con il suo jobs act. Ci si sono messi pure i radicali che, denunciando di «abuso» quella che chiamarono «Trimurti» (le tre confederazioni sindacali) cercarono con un referendum di rendere quasi impossibile il loro autofinanziamento. Ma lo Statuto è anche diventato la legge più tenacemente da decenni difesa dai lavoratori e che ha visto prodursi in suo favore la manifestazione di protesta, forse la più grande della storia sindacale italiana: quando all’appello dell’allora segretario della Cgil Sergio Cofferati risposero tre milioni di lavoratori. La linea di quasi tutta la nuova sinistra mutò con gli anni, tanto è vero che nel 1976 ,con la lista comune denominata Democrazia Proletaria, si presentarono alle elezioni politiche oltre al Pdup, anche Lotta Continua, Avanguardia operaia, il Movimento socialista dei lavoratori. Nonostante tutti i suoi limiti quella esperienza aiutò a capire quanto la forza accumulata dalla classe operaia con le lotte innescate con l’autunno caldo del 1969 poteva pesare, e abbia in effetti pesato, per strappare riforme essenziali: il sistema sanitario nazionale, le pensioni, i diritti civili.E quanto importante sia stato riuscire ad arrivare alle mediazioni che le hanno rese possibili. Già sul numero del giugno ’69 del Manifesto rivista, del resto, Lucio Magri aveva sottolineato l’ urgenza di trovare uno sbocco politico a una radicalizzazione delle lotte che altrimenti non avrebbe potuto stabilizzarsi. È quello che da allora abbiamo cercato di fare. Adesso tutto è più difficile, ma sarebbe già molto che di quella straordinaria esperienza degli anni ’70, pur carica di errori ma anche di scoperte, conservassimo la capacità di tener al centro la questione del lavoro. Ormai diversissimo da quello di allora, ma pur sempre lavoro. * Fonte: Luciana Castellina, il manifesto

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Le radici bergamasche della storia de “il manifesto” https://www.micciacorta.it/2019/10/le-radici-bergamasche-della-storia-de-il-manifesto/ https://www.micciacorta.it/2019/10/le-radici-bergamasche-della-storia-de-il-manifesto/#respond Fri, 04 Oct 2019 08:30:01 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25684 il manifesto 1969-2019. Un convegno a Bergamo sulla nascita del gruppo che ha dato vita alla rivista prima e al giornale poi, indagando i legami con gli operai e la stagione dei consigli

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Domenica scorsa centocinquanta persone hanno riempito la sotterranea sala concerti del pub Elav Circus di Bergamo per ascoltare riflessioni e testimonianze dei protagonisti del gruppo del manifesto a cinquant’anni dalla sua nascita. L’evento, organizzato e promosso dall’associazione “Bergamoracconta” e dalla Biblioteca Di Vittorio (centro di documentazione sindacale della Cgil di Bergamo), aveva l’intento di portare alla luce lo stretto rapporto tra la nascita del gruppo politico e la città di Bergamo. Tanto più che esattamente 49 anni fa, 30 settembre 1970, metà federazione del Pci bergamasco uscì dal partito per aggregarsi al manifesto. Ha aperto la discussione Aldo Garzia, ex manifesto giornale, ricordando la centralità culturale della figura di Lucio Magri e il suo tentativo di allargare la prospettiva comunista alle altre forme di critica sociale e politica che animavano i movimenti sociali dell’epoca. Bergamo era in quegli anni un laboratorio politico: papa Giovanni XIII era bergamasco, il dialogo tra comunisti e cattolici nacque a Bergamo dove Togliatti tenne nel 1963 un importante discorso sul tema introdotto da Eliseo Milani (tra i fondatori del Manifesto gruppo e rivista), le lotte operaie erano radicali. Lidia Campagnano, anche lei ex manifesto giornale, ha invece posto l’attenzione sulla capacità delle donne del manifesto di porre in questione i rapporti di potere tra i generi all’interno dell’organizzazione. Ha raccontato la dirompenza dell’istanza femminista, nonché la sua sconfitta e conseguente dispersione negli anni successivi. Massimo Serafini, manifestino fin dall’inizio, ha raccontato le esperienze del Collettivo operai-studenti di Bologna che lo portarono ad aderire al gruppo politico. A seguire hanno preso parola esponenti del gruppo bergamasco (Luciano Ongaro, Evaristo Agnelli, Bruno Ravasio, Vittorio Armanni), che hanno svelato la specificità della vicenda del manifesto a Bergamo, vale a dire la forte connotazione operaia e il forte radicamento nell’industria, in una stagione che ha segnato, oltre agli aumenti salariali, un inedito avanzamento del controllo operaio all’interno delle fabbriche bergamasche nei primi anni Settanta. «Noi operai volevamo il potere, volevamo decidere come produrre – ha raccontato Evaristo Agnelli – e riuscivamo a ottenerlo. Lo strumento dei consigli di fabbrica fece la differenza». Fu proprio il legame con l’esperienza consiliare a favorire l’ingresso del manifesto delle fabbriche, con un grado di penetrazione in molti casi superiore a quello del Pci. Tutti i relatori hanno ricordato come le basi per l’incontro del manifesto con il mondo operaio furono gettate negli anni precedenti la nascita del gruppo, grazie anche al lavoro di alcune importanti figure della storia comunista bergamasca, in particolare Eliseo Milani, sul quale si è concentrato l’intervento di Ravasio. Luciana Castellina ha raccolto e sintetizzato la discussione, riportando il tutto alla attuale disarticolazione della sinistra e alla sua sconnessione con la sua base di classe, che si intreccia con altri processi di ristrutturazione – geografica, organizzativa e proprietaria – dei processi produttivi, da un lato, e con l’indebolimento della democrazia parlamentare e rappresentativa dall’altro. Il problema di trovare nuove forme di ricomposizione, per quanto urgente, chiede una riflessione sul medio periodo, che vada oltre l’inseguimento delle dinamiche del consenso elettorale. È apparso chiaro, nell’intervento di Castellina, che il problema non è aver perso le elezioni, ma aver perso la società. La drammaticità della situazione attuale, unitamente alla concretezza delle esperienze operaie raccontate, ha impedito ogni deriva nostalgica. Nulla a che vedere con le commemorazioni cerimoniali che lungo il 2018 hanno celebrato l’anniversario del Sessantotto. Il Sessantanove operaio, per la sua connessione con le contraddizioni passate e presenti del modo di produzione capitalistico, non lascia spazio ad alcun reducismo o compiacimento. Nessun lieto fine né pacificazione al termine, se non nella bella voce di Giusi Pesenti, cantante country-jazz bergamasca, che, in chiusura, ha offerto ai presenti una rilettura originale di alcune canzoni implicitamente operaie del secolo breve americano. * Fonte: Michele Dal Lago, il manifesto

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Il manifesto ha 50 anni. Un gruppo omogeneo d’ispirazione comunista https://www.micciacorta.it/2019/06/il-manifesto-ha-50-anni-un-gruppo-omogeneo-dispirazione-comunista/ https://www.micciacorta.it/2019/06/il-manifesto-ha-50-anni-un-gruppo-omogeneo-dispirazione-comunista/#respond Fri, 21 Jun 2019 17:08:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25511 Il bacino di interesse era offerto dal Pci ormai maturo per una discussione libera, alimentata anche dall’infrangersi della compattezza internazionale dei partiti comunisti Il manifesto fu pensato come rivista mensile nell’estate del 1968. Il primo numero usci nel giugno del 1969 e aveva 75 pagine, era diretto da Lucio Magri e Rossana Rossanda assieme a Luigi Pintor, […]

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Il bacino di interesse era offerto dal Pci ormai maturo per una discussione libera, alimentata anche dall’infrangersi della compattezza internazionale dei partiti comunisti Il manifesto fu pensato come rivista mensile nell’estate del 1968. Il primo numero usci nel giugno del 1969 e aveva 75 pagine, era diretto da Lucio Magri e Rossana Rossanda assieme a Luigi Pintor, Luciana Castellina, Aldo Natoli, Ninetta Zandegiacomi, Valentino Parlato, Massimo Caprara, Filippo Maone; vi collaborarono fra gli altri, oltre a compagni “di base”, Marcello Cini, Vittorio Foa, Pino Ferraris, Lisa Foa, Enzo Collotti, Pierre Carniti, Camillo Daneo, Massimo Salvadori e alcune firme internazionali come J.P. Sartre, K.S.Karol, Jorge Semprun e Fernando Claudin, Paul Sweezy, Noam Chomsky, Michal Kalecki, Ralph Milliband, Daniel Singer, Regis Dabray, Charles Bettelheim, Eldridge Cleaver, Jan Myrdal, André Gorz, Andras Hegedues, Karel Bartosek). Ne uscirono dieci numeri, più o meno dello stesso spessore; l’impaginazione era stata ideata da Giuseppe Trevisani, mentre Luca Trevisani e Michele Melillo lavorarono a coordinare la redazione. L’ultimo numero usci nel dicembre del 1970 e annunciava la sua trasformazione in quotidiano. La pubblicazione della rivista fu sempre autofinanziata, l’accordo con l’editore prevedeva la vendita diretta da parte della redazione di un modesto numero di copie (nessun editore aveva voluto assumerne l’integralità della spesa). Per l’editore Dedalo di Bari l’impresa fu però tutta in positivo potendo costruire su inimmaginabili profitti la sua futura casa editrice, il primo numero infatti fu ristampato diverse volte raggiungendo circa le 80.000 copie di vendita. Le spese tuttavia erano ridotte al minimo: gli articoli non erano retribuiti e il lavoro tecnico è stato sempre coordinato da una sola persona, Ornella Barra; il servizio spedizioni e abbonamenti era assicurato dagli stessi compagni redattori che chiamavamo i mostri della notte. Gli scarsi stipendi che venivano dati erano, e rimasero fino alla fine, uguali per tutti. La stampa del Pci (poi Ds e poi ancora Pd) raggiunse a stento la metà del successo de il manifesto. Il bacino di interesse era fornito dal Pci ed era evidentemente maturo per una discussione libera, alimentata anche dall’infrangersi della compattezza internazionale dei partiti comunisti, il che spiega la difficoltà per il Pci di far fronte alla necessità di separarsi da un’impresa che lo metteva cosi direttamente in causa e che non era facile da liquidare come «anticomunista». Il primo numero si aprì con un editoriale dal titolo «Un lavoro collettivo» e terminò con un altro editoriale dello stesso titolo «Ancora un lavoro collettivo». L’oggetto dei numeri fu soprattutto le lotte operaie e i problemi del movimento comunista internazionale che aveva al centro la contesa fra il Pcus e il Partito comunista cinese, oltre evidentemente i problemi che l’iniziativa del nostro gruppo apriva all’interno del Partito comunista italiano e che sarebbero culminati nel novembre 1969 con la radiazione del gruppo. La stampa italiana ne seguì con attenzione le vicende, soprattutto da parte di alcuni leader del giornalismo di inchiesta (Paolo Murialdi); molto acerba fu invece la stampa del Pci. La scelta della rivista a favore della rivoluzione culturale cinese allontanò dal manifesto la parte socialdemocratica; e così anche l’ispirazione nettamente comunista di sinistra della nostra organizzazione del lavoro interno (uguaglianza degli stipendi e regime assembleare per tutte le decisioni politiche). Allo stesso modo, il manifesto non incontrò il favore degli 81 Partiti comunisti allora esistenti, neppure di quello cubano; rimasero soltanto molto vivi alcuni rapporti personali con singoli personaggi dei partiti francese, tedesco (Spd) e spagnolo. Il tentativo di un rapporto con il Partito comunista cinese non ebbe seguito. La gestione fattane da Enrico Berlinguer dimostrò in ogni modo la differenza fra i comunisti italiani e quelli degli altri paesi. Ne venne anche, come già accennato, la difficoltà per il Pci di procedere alle misure disciplinari del nostro gruppo fondatore: in alcune città essa arrivò a interferire con il Congresso del partito, in particolare a Firenze, Bergamo e Napoli. E in ogni modo la differenza di stile tra il Pci e gli altri partiti comunisti giovò nel breve termine al partito di Enrico Berlinguer. L’elaborazione della rivista affrontò soprattutto i temi della lotta in fabbrica, dovuta anche alla scadenza dei rinnovi contrattuali e ai tentativi di innovazione radicali sul terreno dei contenuti dovuti alla stagione dei «consigli di fabbrica» che ebbero un appoggio più del sindacato che del partito e che rappresentavano una delle conseguenze teoriche più importanti seguite al ’68 italiano. La rivista seguì anche le lotte sulla scuola e quelle sulla casa, oltre alle questioni che dettero più fastidio al Partito comunista dell’Unione sovietica: il problema della primavera cecoslovacca, del grande risveglio sindacale polacco (specie fra i cantieri del Nord, Danzica e Stettino), del quale nulla sembra essere rimasto oggi, e dell’elaborazione cinese prima di Mao Tze Tung e poi della rivoluzione culturale. Ovviamente la rivista il manifesto fu il punto di riferimento per i gruppi dissidenti dell’Est che mantenevano una ispirazione di sinistra e che sarebbero poi convenuti nel Convegno sulle società post rivoluzionarie (Università di Venezia, 1977). Difficile dire se l’elaborazione del manifesto abbia avuto un’influenza sul Partito comunista: è evidente che la crisi successiva del comunismo sarebbe stata probabilmente limitata se il partito avesse accettato di assumerne l’ispirazione. Ma non fu così; il gruppo fu accusato di attività frazionistica, anche se aveva fatto molta attenzione a non offrire questo pretesto ai dirigenti. Enrico Berlinguer avrebbe probabilmente preferito evitare dei provvedimenti disciplinari che però il resto del partito gli impose fin dall’uscita del primo numero; in particolare la pubblicazione del secondo numero (indicato come numero 4) avvenne dopo l’estate e dopo il primo Comitato centrale di condanna ancora interlocutoria (relatori Alessandro Natta e Paolo Bufalini). Da allora in poi i rapporti col Partito precipitarono; fu convocata la quinta commissione del Comitato centrale e decisa la linea repressiva, manifestata poi con la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda sancita dal voto del comitato centrale del 27 novembre 1969. Gli altri membri della redazione de manifesto furono radiati nelle settimane successive. In conclusione, il tentativo del manifesto espresso inizialmente dalla rivista ha rappresentato la principale sperimentazione di un gruppo omogeneo all’interno del movimento comunista internazionale oltre a un tentativo veramente innovatore nella storia delle riviste politiche. * Fonte: Rossana Rossanda, IL MANIFESTO

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Il manifesto compie 50 anni https://www.micciacorta.it/2019/06/il-manifesto-compie-50-anni/ https://www.micciacorta.it/2019/06/il-manifesto-compie-50-anni/#respond Fri, 21 Jun 2019 17:00:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25508 Il manifesto ha 50 anni, cominciò a uscire nel giugno 1969. Nel maggio del ’68 con Rossana e Magri andammo a Parigi. Del progetto si cominciò a parlare allora. All’epoca, giravamo l’Italia in lungo e in largo. Poi, dopo l’uscita del primo numero, iniziarono le iniziative pubbliche L’idea covava da molto tempo, fin dagli esiti […]

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Il manifesto ha 50 anni, cominciò a uscire nel giugno 1969. Nel maggio del ’68 con Rossana e Magri andammo a Parigi. Del progetto si cominciò a parlare allora. All'epoca, giravamo l’Italia in lungo e in largo. Poi, dopo l’uscita del primo numero, iniziarono le iniziative pubbliche L’idea covava da molto tempo, fin dagli esiti dell’XI congresso del Pci, che si era svolto nell’ultima settimana del gennaio 1966. Quello in cui fu reso esplicito, con l’intervento di Pietro Ingrao, un punto di vista notevolmente critico della linea politica e della piattaforma programmatica ormai prevalse dopo la morte di Togliatti. Covava, ma senza forma precisa, nei pensieri di pochi compagni che avevano preso parte a quella battaglia, e ne erano usciti sconfitti e poi emarginati. Mi riferisco principalmente a Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Poi, dopo un paio di anni, una volta entrati in quella straordinaria stagione mondiale che fu il ’68, quel lavorìo delle menti cambiò ritmo, fino a sbocciare nella determinazione di fondare una rivista. La prima volta che ne sentii parlare fu nel maggio del ’68, quando con Rossana e Lucio Magri andammo insieme a Parigi, e lì ci fermammo una ventina di giorni per osservare da vicino la novità di quel singolare sommovimento. L’ho ricordato recentemente, e con più dettagli. nella prefazione alla ristampa – edita da manifestolibri – delle Considerazioni sui fatti di maggio, il saggio che Lucio Magri scrisse all’epoca, appena tornammo in Italia. Già prima del Natale dello stesso anno il gruppetto dei promotori – arricchitosi nel frattempo del valore e dell’autorevolezza del compagno Aldo Natoli – si mise d’impegno a lavorare al progetto, in tutte le sue articolazioni. Ma il passaggio dalla semplice ipotesi alla concretezza avvenne alla metà del febbraio ’69, considerati assai deludenti i risultati del XII congresso di Bologna, relativamente ai punti che si chiedeva di mettere in discussione. In partenza si convenne tutti che la direzione era da affidare a Rossana e a Lucio. Si passò quindi alla ricerca di un editore. Il primo tentativo lo facemmo con Einaudi, che però ci rispose negativamente. Ci rivolgemmo allora a Diego De Donato, l’editore barese che aveva pubblicato da poco sia il già citato libro di Lucio, sia un altro di Rossana, intitolato L’anno degli studenti. Inoltre ci era amico, tanto da averci prestato, a loro due e a me, la Giulia Alfa Romeo con la quale avevamo fatto il viaggio in Francia sopra ricordato. Purtroppo anche De Donato ci disse di no, che non aveva la struttura editoriale, trattandosi non di libri ma di un periodico. Sospettammo che entrambi, più o meno sollecitati dal Pci con cui erano in buoni rapporti, vollero evitare di fargli uno sgarbo. Dovevamo dunque cercare altrove, ma non certo in campi lontani dalla sinistra. Mi venne in aiuto un carissimo amico di Bari, Antonio Mallardi, che a quel tempo era il rappresentante di Einaudi per le librerie di quasi mezza Italia, dall’Abruzzo a tutto il Meridione. Informato dei rifiuti, Antonio mi consigliò di rivolgermi, anche a nome suo, a Raimondo Coga, un editore-stampatore anch’egli barese (ah, quanti rivoli dell’école barisienne!), che già pubblicava numerosi periodici politico-culturali, tra cui la Monthly Review. Dopo una breve consultazione con il sodalizio, feci tutto alla velocità del fulmine: viaggio a Bari, incontro con Coga, rapida intesa sulle nostre finalità e sulla conseguente totale autonomia circa contenuti e testi. Facile anche la contrattazione economica. La tiratura sarebbe stata sufficiente a distribuire il mensile non soltanto in libreria, ma anche in edicola, con copertura territoriale quasi completa. I costi di produzione tecnica andavano interamente a carico della Dedalo. Direzione e redazione avrebbero provveduto ai loro. Ma l’editore si impegnò a stampare 5000 copie in più da destinare gratuitamente alle nostra organizzazione per la vendita militante e le campagne abbonamenti. Firmato l’accordo, rompemmo gli indugi e partimmo nel mese di giugno 1969. Esattamente cinquant’anni fa. Con tali ricavi e qualche sottoscrizione di amici simpatizzanti e meno squattrinati di noi (i primi che mi vengono i mente: Paolo Volponi, Ulisse Guzzi, Cesare Musatti, Gian Maria Volonté, Yves Montand e Simone Signoret, ecc., ecc.), riuscivamo a coprire bene i costi redazionali. Alla fine dell’anno, dopo la radiazione dal Pci di novembre, si aggiunsero anche gli utilissimi e soprattutto costanti contributi dei compagni parlamentari, di importo pari a quanto prima davano al partito. Massima oculatezza sulle spese. Di norma si riducevano all’affitto (basso, per fortuna) della sede di piazza del Grillo; ai viaggi e soggiorni a Bari per i due di noi che ci andavano a terminare il lavoro in tipografia e dare il «si stampi» per ogni numero; e alle varie riunioni in giro per l’Italia, per rispondere all’enorme interesse che avevamo suscitato, raccogliere fondi e altre attività promozionali. Quanto agli stipendi, fin dall’inizio legati a quelli degli operai di quinto livello, si limitavano ai tre che ci lavoravamo a tempo pieno: Lucio Magri, io e Ornella Barra, la bravissima segretaria di redazione, che proveniva dalla esperienza simile vissuta a Botteghe Oscure, nella redazione di Critica marxista, diretta allora da Romano Ledda. Si sarà capito che in quel periodo, in particolare nella prima fase, tutti noi del gruppo iniziale giravamo per l’Italia in lungo e in largo senza fermarci un attimo. Le richieste di incontri e riunioni con piccoli gruppi erano molte e poi, subito dopo l’uscita del primo numero (un successo enorme rispetto alle attese, con vendita tra le 45 e le 50 mila copie!) cominciarono anche le iniziative pubbliche. Per tutta la sinistra, in primo luogo comunista, ma pure ben oltre, furono mesi e mesi di straordinario esercizio democratico, di confronti sulle grandi questioni come su quelle di breve termine, di discussioni appassionate su se stessi, piccole monadi, e sul gigantesco mondo. Mesi vissuti da una parte in allarme, per il timore del pericolo grave che si riteneva stesse correndo l’unità del partito, il bene supremo; e invece dall’altra, la nostra, con la convinzione (esagerata?) di star provando a dare un contributo utile ad arrestare e invertire il processo di corrompimento, in cui correvano il rischio di inabissarsi pratiche e potenza ideale del socialismo (oggi, dopo 50 anni, possiamo ben dire: solo il rischio?). Sarebbe interessante ricostruire da storici quella stagione. Interessante ma anche molto difficile, perché temo che non esistano più luoghi che conservino i relativi materiali, sufficientemente eloquenti. Per dare almeno un’idea di quel frenetico correre da una regione all’altra, accennerò in conclusione a un infinitesimo numero di riunioni a cui partecipai. Peraltro lo spazio e la minore nettezza dei ricordi non mi consentono di dire degli altri compagni impegnati nel lancio della rivista. In qualche città ci recammo in due. Per esempio: a Padova, dove andai con Lucio, e insieme a lui ci incontrammo con una decina di compagni, perlopiù docenti universitari e da tempo dissidenti, ma metà già fuori dal partito e metà ancora dentro; e a Perugia, dove Luigi Pintor parlò a una affollatissima assemblea alla Sala dei Notari nel Palazzo dei Priori, con un dibattito protrattosi per ore. In quella occasione avemmo il primo contatto con alcuni compagni di Bologna, che vennero col proposito di dimostrarci che non erano equivoci personaggi, come in precedenti colloqui telefonici loro capirono che noi temevamo, per ragioni (sbagliate, ovviamente) che qui sarebbe troppo lungo spiegare. Erano Stefano Bonilli, Paolo Passarini e Massimo Serafini, che in seguito fondarono e condussero a lungo il Centro di iniziativa del manifesto a Bologna e dopo qualche anno si trasferirono tutt’e tre a Roma, i primi due per lavorare al giornale e il terzo all’organizzazione politica. A Venezia la riunione ebbe luogo alla Giudecca, in casa di Luigi Nono e di sua moglie Nuria Schönberg, e già questa accoglienza fu per me un onore, oltre che un piacere. Tra i diversi compagni della Federazione locale, che comprendeva una consistente minoranza vicina alle posizioni di Ingrao, c’erano Nico Luciani e Cesco Chinello, un ex operaio di forte intuito politico e altrettanta capacità di leggere nei processi sociali. E c’era anche Massimo Cacciari, venticinquenne, che allora dirigeva con Asor Rosa la rivista Contropiano, intelligentemente operaista. Non sono certo che in quel periodo fosse iscritto al Pci, ma ricordo bene che in quell’occasione fu molto polemico nei miei confronti, non essendo per nulla convinto della battaglia condotta fino a quel punto da chi stava per promuovere il manifesto. A Milano ci andai per incontrare solo una persona, ma di gran peso. Ci vedemmo all’Università cattolica, dove mi pare che tenesse un corso. Era Lidia Menapace, che negli anni successivi fu una colonna portante prima del movimento politico legato al manifesto e poi del Pdup. Le intenzioni che le esposi devono esserle apparse parecchio interessanti dal suo punto di vista di cattolica del dissenso, se il rapporto con noi si intensificò con una certa rapidità. A Torino il primo appuntamento lo ebbi con Sergio Garavini, che conoscevo già da tempo. Sergio era a quel tempo segretario della Cgil e membro del Comitato centrale del Pci, perciò preferì non esporsi pubblicamente in favore del nascente manifesto (ma alla riunione finale che decise la radiazione dei suoi esponenti – alla quale non poté essere presente – inviò una lettera per notificare il suo voto contrario). Mi mise comunque in contatto con un nutrito gruppo di sindacalisti della provincia di Novara, in particolare a Borgomanero, che sapeva molto sensibili ai temi che noi intendevamo introdurre e sostenere nel dibattito politico. E infatti la loro disponibilità ad aiutarci si tradusse presto nella raccolta di molti abbonamenti in tutta la provincia, comprensiva anche del Verbanese. A Pisa mi incontrai con due studenti della Scuola Normale, che mi erano stati indicati come i meno «ortodossi» della Fgci locale. Il cognome di uno dei due mi sorprese, perché del padre Giuseppe, deputato del Pci, che avevo conosciuto quando lavoravo con Rossana Rossanda a Botteghe Oscure, e che mi era sinceramente simpatico, non avevo mai notato segni di simpatia per le posizioni ingraiane e per chi le aveva condivise. Mi aumentò pertanto la curiosità di conoscere Massimo D’Alema, benché non fosse il primo caso al mondo di divergenza di opinioni tra padre e figlio. Ignoravo invece nome e cognome dell’altro studente, che con l’andare del tempo diventò, ed è rimasto, un notissimo personaggio politico. Ma prima ancora di questi sviluppi, già dai mesi immediatamente successivi alla nostra chiacchierata , si era distinto per coraggiosa autonomia. In quanto delegato della Fgci poteva partecipare, con diritto anche di voto, alle riunioni del Comitato centrale del partito dei «grandi», pur non facendone parte. Ebbene, giunti al dunque nella giornata decisiva del novembre ‘69, Fabio Mussi si associò a Garavini, Lombardo Radice e Luporini e dette anche lui voto contrario alla radiazione di Natoli, Pintor, Rossanda e Magri. La conversazione in piazza dei Cavalieri durò poco. Non ci fu bisogno di illustrare le nostre intenzioni. D’Alema e Mussi sapevano già tutto, mostrando di seguire con interesse gli eventi. Ma senza dare evidenza a particolare condivisione. Promisero tuttavia di darsi da fare per raccogliere sottoscrizioni in forma di abbonamenti. Che infatti arrivarono, contribuendo a far vivere il mensile fino a tutto il 1970. Quando decidemmo di trasformarlo in quotidiano. Trascorso ormai mezzo secolo, un ricordo di quelle vicende appare – come vedete, cari lettori – su un giornale che si chiama il manifesto. Purtroppo non esistono più né il partito, né il suo glorioso quotidiano, l’Unità, che allora lo dichiararono incompatibile. Col risultato che ora stiamo tutti peggio. * Fonte: Filippo Maone, IL MANIFESTO

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Bergamo-Rojava. La storia comune di Giovanni Francesco Asperti “Hîwa Bosco” https://www.micciacorta.it/2019/01/bergamo-rojava-la-storia-comune-di-giovanni-francesco-asperti-hiwa-bosco/ https://www.micciacorta.it/2019/01/bergamo-rojava-la-storia-comune-di-giovanni-francesco-asperti-hiwa-bosco/#respond Thu, 10 Jan 2019 10:01:22 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25127 In memoria di Giovanni Francesco Asperti, geologo di «buona famiglia», legato alla storia del gruppo del Manifesto, morto a 52 anni in Siria dove combatteva l’Isis a fianco del popolo curdo

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Bergamo è da sempre considerata terra bianca, di tradizioni conservatrici, influenzata da una forte presenza clericale. Ma, a suo modo, è una città, per certi versi, anomala. Come per reazione a questa chiusura ha infatti prodotto, nella storia, fenomeni di segno opposto. Malgrado nei secoli della dominazione veneziana Bergamo fosse la terra più fedele alle tradizioni della Serenissima, la prima repubblica napoleonica, prima della Repubblica Cisalpina, fu proprio la Repubblica Bergamasca. Come è noto fu poi la terra bergamasca a fornire il maggior numero di partecipanti alla spedizione dei Mille di Garibaldi, tanto che alla città fu conferito il titolo di «Città dei Mille». Anche in seguito la terra bergamasca dimostrerà la propria capacità di reagire al prevalente clima tradizionalista. Con la seconda metà degli anni Sessanta sorgono importanti fenomeni politici e sociali nell’ambito del mondo studentesco e operaio. Poi, con la radiazione del gruppo del Manifesto dal Partito comunista italiano, dalla sonnacchiosa federazione di Bergamo se ne andrà buona parte del gruppo dirigente, con il segretario provinciale e unico deputato, Eliseo Milani. La reazione alla cappa perbenista ha peraltro prodotto anche fenomeni negativi: basti dire che a Bergamo, nel periodo dei cosiddetti «anni di piombo», si riscontrarono forti presenze di organizzazioni terroristiche e, in particolare, di Prima linea. In questo contesto attutito, può accadere che un giovane, come si dice, «di buona famiglia», con un buon lavoro, una moglie e due figli adolescenti, possa decidere di partire per la Siria a combattere il cosiddetto Stato islamico a fianco del popolo curdo. Una scelta dalla parte giusta, certo, ma forse un po’ estrema, difficile da spiegare, anche se oggi in molti vi si cimentano. Giovanni Francesco Asperti era figlio di Piero Asperti, storico compagno del Manifesto e poi del Pdup, e della sorella di Giuseppe Chiarante, più volte parlamentare comunista. Iniziato alla politica nella Democrazia cristiana bergamasca (era stato anche presidente dell’Azione cattolica), Piero Asperti, con Lucio Magri, Giuseppe Chiarante, Carlo Leidi, costituì presto un gruppo di opposizione interno al partito, che poi abbandonò per aderire al partito comunista. L’occasione fu data da un forte conflitto sindacale in corso presso la Dalmine, nell’ambito del quale, con Eliseo Milani, venne convocata la prima conferenza operaia comunista, centrata sull’analisi delle innovazioni intervenute nell’organizzazione del lavoro. Cosa che indusse molti operai della fabbrica ad aderire al Pci. Con la radiazione del Manifesto da parte del Pci, Magri, Leidi e Asperti rappresenteranno un nucleo portante del nuovo movimento. Piero Asperti faceva il medico presso il Centro provinciale antitubercolare. Ma anche in quel campo la politica era la sua ispirazione. Anzitutto la scelta della medicina pubblica. Era quello che si può definire, nella tradizione gramsciana, l’intellettuale «organico alla classe operaia». Era convinto non solo della insufficienza, ma anche della funzione «classista» di un sapere scientifico separato dalle condizioni materiali di vita degli uomini e delle donne. Da qui, il suo forte protagonismo nel campo della medicina del lavoro, la sua direzione della Commissione Salute del Pdup, il suo lavoro come medico dell’Inca (il patronato della Cgil) e al dispensario di Ponte San Pietro, lo straordinario impegno nella inchiesta sulle morti per tumore alla vescica fra i lavoratori della Sbic di Seriate. Lo ricordo nel Pdup come uno dei dirigenti più autorevoli, per quanto un po’, per così dire, «ruvido». Non parlava spesso, ma non faceva mai, come altri, interventi prolissi o inconcludenti. Insomma, quando parlava lo si ascoltava. In silenzio. Quando mi sono iscritto al Pdup, giovane procuratore legale, non sapevo come mi avrebbero accolto, figlio di un ex sindaco democristiano. Qualche diffidenza in fondo me la potevo aspettare. Invece non ci fu da parte di nessuno. E Piero, che faceva parte del gruppo degli «anziani», con Carlo Leidi, Giuseppe Taino, Alberto Paganoni, mi accolse subito con simpatia. Mi fece sentire «a casa». Ho poi sempre ricordato questo suo atteggiamento amichevole nei miei confronti. Anche in anni successivi, dopo la confluenza del Pdup nel Pci, abbiamo avuto occasione di rivederci. Quando, con altri compagni di avventura, fondammo un giornaletto chiamato «Settegiorni a Bergamo e altrove» e girammo tra le conoscenze sensibili per chiedere sostegno finanziario, Piero fu subito convinto dell’impresa e contribuì generosamente. Nel 2014, a dieci anni dalla morte, il comune di Ponteranica, dove ha sempre vissuto, gli ha dedicato una piazza. Non si può dire fosse un carattere mite; anzi, era piuttosto un tipo sanguigno. Tuttavia credo che difficilmente si potesse aspettare un figlio che sceglie di sacrificare la vita per la libertà di un altro popolo, in un’altra parte del mondo. * Fonte: Carlo Simoncini, IL MANIFESTO *****

Giovanni Francesco Asperti, una scelta dalla parte giusta

Italia/Siria. Un ricordo di Hîwa Bosco dal gruppo del manifesto e dall'ex gruppo dirigente del Pdup di BergamoCarlo Simoncini ha raccontato di Piero Asperti, un ricordo in cui noi tutti che lo abbiamo conosciuto bene ci riconosciamo, perché Piero è stato davvero un pezzo della nostra storia, quella particolarissima del Manifesto e del Partito di Unità proletaria per il comunismo (Pdup) di Bergamo che, non a caso, abbiamo sempre un po’ considerato la capitale della nostra avventura politica. Quando alla tv abbiamo sentito quel cognome attribuito a un italiano, Francesco, andato a combattere in Siria col nome di «Hiwa Bosco» a fianco dei curdi del Rojava contro lo Stato islamico, abbiamo sussultato: parente di Piero, il nostro straordinario compagno medico; nipote di Beppe Chiarante, amico-fratello di Lucio Magri; fratello di Stefano, docente alla facoltà di lettere alla Sapienza che tutt’ora chi di noi sta a Roma incontra a casa di Sara, la vedova di Bebbe? Sì, non solo parente, ma figlio, il più piccolo di quattro. Francesco aveva solo 52 anni, parecchio più giovani anche dei più giovani fra noi, e nessuno lo conosceva. Non abbiamo dunque alcun elemento per capire la sua scelta. Sappiamo però che, per quanto discutibile è stata una scelta dalla parte giusta, per combattere a fianco dei curdi, contro l’Isis ma anche contro tutti i dittatori che quel popolo cercano di sterminare e che però non sono mai riusciti a piegare, una popolazione cui Francia e Gran Bretagna, alla caduta dell’Impero ottomano, negarono il diritto di diventare una nazione, perché nel loro territorio c’era molto petrolio ma anche molta popolazione evoluta che ne avrebbe rivendicato il controllo; e che per questo motivo fu divisa fra quattro stati satelliti. A Francesco Asperti vogliamo prestare onore, ed essere vicini a tutti i suoi familiari L’ex gruppo dirigente del Pdup di Bergamo: Gabrio Vitali, Arialdo Ciribelli, Bruno Ravasio, Angelo Bendotti, Gian Gabriele Vertova, Sandro Pedercini, Sergio Cisani,Agostino Agostinelli, Mario Mangili, Gilberto Montanelli, Maria Teresa Cortinovis,Giorgio Zenoni, Carlo Simoncini, Vittorio Armani E da Roma, Tommaso Di Francesco, Luciana Castellina, Rossana Rossanda

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Sessantotto. Un nuovo soggetto politico scende in strada a Parigi https://www.micciacorta.it/2018/05/sessantotto-un-nuovo-soggetto-politico-scende-in-strada-a-parigi/ https://www.micciacorta.it/2018/05/sessantotto-un-nuovo-soggetto-politico-scende-in-strada-a-parigi/#respond Wed, 30 May 2018 07:29:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24565 «Considerazioni sui fatti di maggio» di Lucio Magri e «L’anno degli studenti» di Rossana Rossanda. La manifestolibri ripubblica i due testi cinquant'anni dopo la loro prima apparizione

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È a Parigi, in pieno ’68, che ha cominciato a prendere forma l’idea di dar vita a una rivista come luogo in cui raccogliere la riflessione della sinistra critica interna ed esterna al Pci. Un anno dopo, nel giugno 1969, quella rivista mensile sarebbe uscita in edicola con la testata il manifesto, esplicito riferimento al «Manifesto dei comunisti» di Marx ed Engels del 1848, andando incontro alla radiazione dal partito dei suoi promotori. Ma era da qualche tempo che nel Pci si era sviluppato un confronto inedito sui temi del neocapitalismo italiano e di un conseguente rinnovamento strategico che trovò nell’XI Congresso del 1966 il momento di più aspro confronto (furono le assisi in cui Pietro Ingrao pose il tema del superamento del centralismo democratico come metodo di vita interna e di un nuovo modello di sviluppo). È QUESTA LA PRIMA riflessione che viene in mente rileggendo i due libri meritoriamente rieditati dalla manifestolibri cinquant’anni dopo della prima edizione della De Donato: Lucio Magri, Considerazioni sui fatti di maggio (pp. 176, euro 16); Rossana Rossanda, L’anno degli studenti (pp, 96, euro 12). Magri, allora giovane funzionario di Botteghe oscure, e Rossanda – in quel periodo deputata del Pci dopo aver diretto la Sezione culturale del partito – andarono insieme a Parigi nel 1968 per capire quello di nuovo che animava il maggio. La lettura non ha perso di attualità. Si tratta infatti di due testi che, con uno stile a metà tra saggio e puntigliosa cronaca giornalistica, ricostruiscono gli eventi di quell’anno indimenticabile in Francia e in Italia con chiavi interpretative e di approfondimento. Scrive Magri, di cui si scorge l’influenza della Scuola di Francoforte di Marcuse e Adorno a rapporto con il marxismo più classico: «La forma di dogmatismo più diffuso è quella che usa una grande apertura metodologica e squillanti riconoscimenti delle novità della situazione solo per conservare l’essenziale delle proprie idee». PER LUI, I FATTI a cui ha assistito impongono invece nuovi approcci e scelte non di routine. Rossanda – che analizza il ’68 italiano nelle università di Trento, Pisa, Torino, Venezia – socializza una convinzione: «Gli studenti non sono un soggetto a parte, con i quali solidarizzare, o da respingere, o semplicemente da comprendere; sono un aspetto del capitalismo maturo che esplode e domanda sbocco». Nella sua originale analisi del movimento italiano riecheggiano le lezioni non ortodosse di Louis Althusser e Jean-Paul Sartre. Sta qui una prima convergenza politica e d’analisi tra Magri e Rossanda che avevano raggiunto una proficua e intensa collaborazione intellettuale destinata a durare per molti anni con reciproco arricchimento (i due libri s’intrecciano per questioni e domande). Per loro, il movimento degli studenti prodotto della scolarizzazione di massa è un soggetto politico nuovo che esprime una propria critica alla società capitalistica: bisogna indagarne dunque cultura e potenzialità, oltre alle forme di autorganizzazione (i due libri avviano tale ricerca in modo parallelo e intrecciato, perciò vanno letti in continuità). È LA NUOVA stratificazione delle società mature inoltre che produce inespresse soggettività sociali, come dimostreranno l’intero ciclo sessantottino e gli anni successivi. Si presenta perciò anchilosata – secondo Magri e Rossanda – la lettura tradizionale della politica delle alleanze che viene dalla tradizione del Pci: operai e contadini più vaghe classi medie o indistinto ceto medio. Riprendendo la lezione di Antonio Gramsci, in Occidente il processo rivoluzionario di trasformazione sociale si conferma per Magri e Rossanda, proprio alla luce del ’68, complesso, di lunga durata, con la continua conquista di «case matte» che fanno crescere livelli di politicizzazione di massa. A COLPIRE Magri e Rossanda è anche la diffidenza e la chiusura con cui il Partito comunista francese guarda agli avvenimenti del maggio, atteggiamento meno ostile seppure molto prudente avrà il Pci (da non dimenticare l’incontro nella sede di via delle Botteghe oscure tra il segretario Luigi Longo e alcuni esponenti del movimento tra cui Oreste Scalzone). I due autori traggono infine un’altra conclusione dalla loro ricerca: sembra non reggere più la tesi secondo cui il ruolo del Pci debba favorire lo sviluppo di un capitalismo italiano che resta arretrato senza criticarne indirizzi. Modi di produzione e valori. Su questo si era già avviata una discussione nel convegno del 1962 su «Le tendenze del capitalismo italiano» dell’Istituto Gramsci, dove Giorgio Amendola, Bruno Trentin e Lucio Magri avevano animato un dibattito non convergente negli approcci e nelle conclusioni. IL TESTO DI MAGRI è prefato da un saggio di Filippo Maone, che aveva accompagnato lui e Rossanda nel viaggio parigino. Ci vengono dunque consegnati da Maone particolari umani e politici che hanno fatto da contorno a quella missione politica di cinquant’anni fa, oltre a ulteriori spunti di riflessione politica. Quanto alla tesi che l’idea del mensile il manifesto nacque in Francia nel ’68, scrive a proposito Maone: «Quelle due settimane e mezza trascorse a Parigi accelerarono la scelta, già da qualche mese in maturazione, nella mente di Lucio e Rossana, di dare vita a una rivista». Al progetto si unirono Aldo Natoli, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Massimo Caprara, lo stesso Maone e molti altri. Il testo di Rossanda è prefato invece da Luciana Castellina che mette in evidenza l’intuizione del fenomeno sessantottino da parte del futuro gruppo del manifesto: «Era una crisi della modernità capitalistica, non dell’arretratezza». FONTE: Aldo Garzia, IL MANIFESTO

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Anni ’70. Amore e politica a Bergamo https://www.micciacorta.it/2016/11/22695/ https://www.micciacorta.it/2016/11/22695/#respond Wed, 23 Nov 2016 13:56:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22695 Anticipazioni. Pubblichiamo la prefazione al libro di Carlo Simoncini «Sai dove trovarmi», in uscita per Sestante edizioni

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Quando cominci a leggere Sai dove trovarmi potresti pensare che si tratti dell’ennesimo «amarcord», una nostalgia di reduci. E invece non è affatto così: perché in questo romanzo nessuno degli amici che si ritrovano nella casa di campagna di Alessandro e Stefania ha l’aria di esserlo; e poi, infatti, scopri che, sia pure in forme non esplicitamente politiche, tutti hanno continuato ad occuparsi della società in cui vivono (che è poi proprio l’essenza della politica); e capisci che la storia raccontata nel libro non è affatto l’agiografico ritorno, romantico e un po’ melanconico, alle spensieratezze della gioventù in cui così spesso cade chi comincia ad invecchiare. No, questo libro è la cronaca – una bella cronaca – di un amore, dentro un contesto che ha la precisione di un saggio storico: su un momento particolare della storia del nostro paese, gli anni ’70 ; su un’esperienza molto particolare come è stato il Manifesto-Pdup; su una città particolarissima, Bergamo, provincia bianchissima dove, tuttavia, si può dire abbia avuto sue radici importantissime un singolare movimento politico, piccolo ma culturalmente prestigioso, nato, curiosamente, dall’incontro di un gruppo di giovani ex Dc e di un gruppo di comunisti, prevalentemente operai. L’uno e l’altro particolarmente intelligenti. È OVVIO CHE IL RACCONTO di Carlo Simoncini è in modo speciale appassionante per chi ricorda la sede del Pdup di Bergamo a via Quarenghi, per avere vissuto in prima persona i dibattiti che la animavano e le lotte che vi si organizzavano. E però il libro – proprio per l’accuratezza dell’analisi storica che fa da sfondo alla vicenda sentimentale di Lorenzo e Greta – riveste un grande interesse generale come squarcio su un tempo difficile ma bellissimo, quegli anni ’70 in cui tanta parte di una generazione venne coinvolta nell’affascinante tentativo di cambiare il mondo. E perché dà finalmente conto di cosa sia realmente stato quel movimento nato nel ’68 (e che in Italia durò più di un decennio), solitamente ridotto dalla vulgata corrente a nulla più che un moto antiautoritario, «sesso droga e rock and roll». SCORRENDO LE PAGINE di questo libro torna alla memoria di cosa siano state realmente fatte le giornate dei «sessantottini», un po’ di tutti, ma certo in particolare degli «pduppini», che sono stati parte di una vicenda un po’ particolare, perché il Manifesto nacque dall’incontro di due generazioni diverse e la contaminazione fu utile ad ambedue. (Mi hanno molto divertita gli accenni ai nostri ricorrenti litigi con Lotta Continua, alla disgraziata vita delle nostre coalizioni con gli altri gruppi della «nuova sinistra»). Colpisce, intanto, l’attenzione alle lotte operaie, per gli studenti la vera e propria scoperta della fabbrica, di quel lavoro duro e sfruttato che i figli del ceto medio avevano sempre ignorato. E di qui la maturazione di un’idea di libertà meno meschina di quella (ahimé) oggi nuovamente corrente: che non poteva essere individuale, ma – come ci aveva spiegato Marx e anche il contemporaneo Marcuse – qualcosa che nasce o muore per tutti, a seconda di quali sono i rapporti sociali di produzione. E poi – ecco un altro tratto di quell’epoca – la scoperta che le riunioni potevano farsi anche in parrocchia «perché i preti non sono più tutti come quelli di una volta». LA QUESTIONE POLITICA che emerge con più nitidezza e ricchezza di dettagli è la vicenda dell’aborto, anche perché la protagonista della storia d’amore è un medico che opera nei reparti ospedalieri di ginecologia. Viene così riportata alla luce non solo la storia del referendum, assai più conosciuta, ma quella dell’impegno oscuro e difficilissimo che ci fu per far rispettare la legge, la famosa 194, che non ci era del tutto piaciuta per i sotterfugi che consentiva ai medici obiettori di coscienza (o sedicenti tali) e per i limiti all’autonomia delle donne che continuava ad imporre. E che però le compagne, e i compagni, si impegnarono fino in fondo a far attuare perché rappresentava comunque una conquista. Questa dei comitati di vigilanza per l’applicazione della legge è una storia poco nota e che qui viene finalmente ricordata. E le interruzioni del testo narrativo lasciate alla penna di Greta che la racconta in prima persona, aprono uno squarcio prezioso su quel periodo. Così come aiutano a ricordare le diffidenze, quando non anche il vero contrasto, che si determinò nelle organizzazioni di sinistra all’irrompere in quegli anni del «nuovo femminismo». Un terremoto in particolare nel Manifesto-Pdup che per primo – e inizialmente irriso dalle altre formazioni di sinistra – ne riconobbe la valenza e cui aprì le porte delle proprie sedi e le pagine dei propri giornali. Il primo articolo femminista – Il maschio come valore – fu pubblicato addirittura nel numero 4 della rivista, nel 1969. Ma poi la spinta al separatismo si fece coì forte che coinvolse anche una gran parte delle nostre compagne. RICORDO LA LETTERA pubblicata sul quotidiano nel 1976 a firma del collettivo femminista di Bologna (molte firme ma non di tutte le compagne) in cui si diceva: «Non restituiamo la tessera perché questo implicherebbe una valutazione negativa del Pdup che invece è un buon partito, però non la rinnoviamo perché la sua pratica non è conciliabile con la nostra pratica». Rossana Rossanda commentò allora a latere sulla stessa pagina del giornale dicendo che capiva il valore di quella proposta estrema e, tuttavia, aggiungeva: «Penso che abbiate torto». E poi ci sono gli episodi in cui compare Eliseo Milani – un comizio in un posto ostile, una cena fra amici, una discussione. Riportano tutti con vivezza alla memoria questo grande bergamasco, militante arrivato dalla concreta vita operaia al comunismo (prima al Pci, poi, per via del suo coraggio politico, al Manifesto-Pdup ), di cui Lucio Magri quando morì ebbe a scrivere con ragione che egli rappresentava: «un pezzo di storia comunista italiana più di tanti verbali di direzione sempre volutamente elusivi». SEGUI SUL MANIFESTO

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La nostra tribù, mai una corrente https://www.micciacorta.it/2015/09/la-nostra-tribu-mai-una-corrente/ https://www.micciacorta.it/2015/09/la-nostra-tribu-mai-una-corrente/#respond Tue, 29 Sep 2015 06:46:39 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20504 La storia di Pietro. L’ascolto degli altri e l’idea della politica come partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo impegno

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Quando chi viene a man­care ha più di cent’anni all’evento si è pre­pa­rati, e dun­que il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, per­ché pro­prio la loro lunga vita ci ha finito per abi­tuare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eter­nità. Pie­tro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tan­tis­simi di noi che è dif­fi­cile per­sino pen­sare alla sua morte senza pen­sare alla pro­pria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altret­tanto vecchi). Così, quando dome­nica mi ha rag­giunto la tele­fo­nata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ram­blas a Bar­cel­lona dove, essendo di pas­sag­gio per la Spa­gna, mi ero fer­mata per aspet­tare i risul­tati elet­to­rali della Cata­lo­gna, il suo tri­stis­simo annun­cio è stato quasi una fuci­lata. Per­ché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse aspor­tato un pezzo del mio stesso corpo. Così, io credo, è stato per tutta la lar­ghis­sima tribù chia­mata «gli ingra­iani», qual­cosa che non è stata mai una cor­rente nel senso stretto della parola per­ché la nostra intro­iet­tata orto­dos­sia non ci avrebbe nep­pure con­sen­tito di imma­gi­nare tale la nostra rete. E però siamo stati forse di più: un modo di inten­dere la poli­tica, e dun­que la vita, al di là della spe­ci­fi­cità delle ana­lisi e dei pro­grammi che soste­ne­vamo. Sic­ché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingra­iani sono in qual­che modo distin­gui­bili, seb­bene le loro scelte indi­vi­duali siano andate col tempo diver­gendo, den­tro e fuori del Mani­fe­sto; e poi den­tro e fuori le suc­ces­sive labili rein­car­na­zioni del Pci. Oggi poi — den­tro una sini­stra che fatica a rico­no­scere i pro­pri stessi con­no­tati e nes­suno si sente a casa pro­pria dove sta per­ché vor­rebbe la sua stessa casa diversa da come è –que­sto tratto sto­rico dell’ingraismo direi che pesa in cia­scuno anche di più. Vor­rei che non si per­desse, per­ché al di là delle scelte diverse cui ha con­dotto cia­scuno di noi, è un patri­mo­nio pre­zioso e utile anche oggi. Di quale sia stato il nucleo forte del pen­siero di Pie­tro Ingrao, ho già par­lato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il mani­fe­sto ha dedi­cato ai suoi cent’anni, ripro­po­sto on line pro­prio ieri. Vor­rei che quelle sue ana­lisi e linee pro­gram­ma­ti­che che pur­troppo il Pci non fece pro­prie, non venisse anne­gato, come è acca­duto per Enrico Ber­lin­guer, nella reto­rica ridut­tiva e stra­vol­gente dell’ “era tanto buono, bravo one­sto, ci dà corag­gio e passione”. Oggi, comun­que, di Pie­tro vor­rei affi­dare alla memo­ria soprat­tutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della poli­tica come, innan­zi­tutto, par­te­ci­pa­zione e per­ciò sog­get­ti­vità delle masse. Quando incon­trava qual­cuno, o anche nelle riu­nioni e per­sino nel dia­logo con un com­pa­gno ai mar­gini di un comi­zio, era sem­pre lui che per primo chie­deva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giu­di­chi quel fatto?”; “cosa pro­por­re­sti?”. Non era un vezzo, voleva pro­prio saperlo e poi stava a sen­tire. Per­ché il suo modo di essere diri­gente stava nel cer­care di inter­pre­tare il sen­tire dei com­pa­gni. Anche di por­tare le loro idee a un più alto livello di ana­lisi e pro­po­sta, cer­ta­mente, ma sem­pre a par­tire da loro, per arri­vare, assieme a loro, e non da solo, a una con­clu­sione, a una scelta. Per que­sto quel che per lui con­tava, quello che a suo parere qua­li­fi­cava la demo­cra­zia e la qua­lità di un par­tito, era la par­te­ci­pa­zione, la capa­cità di sti­mo­lare il pro­ta­go­ni­smo, la sog­get­ti­vità delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teo­ria né prassi significativa. Non voglio espli­ci­tare para­goni con l’oggi, sarebbe impietoso. Ros­sana, rispon­dendo ad un’intervista di La Repub­blica, ieri ha detto di Pie­tro, anche della sua reti­cenza nell’assumere posi­zioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingra­iani doc”, ope­rammo la rot­tura della pub­bli­ca­zione della rivi­sta Il mani­fe­sto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiu­tava lo scio­gli­mento del par­tito pro­po­sto dalla mag­gio­ranza occhet­tiana, pur rico­no­scen­dosi nella rela­zione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da com­piere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifon­da­zione, e chi — come Pie­tro — decise invece che sarebbe comun­que restato nell’organizzazione, il Pds, che, già mala­tic­cio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rima­sta scol­pita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pie­tro si fosse unito alla costru­zione di un nuovo sog­getto poli­tico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifon­da­zione comu­ni­sta più ricca e dav­vero rifon­da­tiva, per via del suo per­so­nale apporto ma anche di quella larga area di qua­dri ingra­iani che costi­tuiva ancora un pezzo vivo del Pci e sareb­bero stati pre­ziosi alla nuova impresa; e invece resta­rono invi­schiati e di mala­vo­glia nel lento depe­rire degli orga­ni­smi che segui­rono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd. Pie­tro però capì subito che stare in quel con­te­sto non era più “stare nel gorgo”, per­ché il gorgo, seb­bene assai inde­bo­lito, scor­reva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impe­gnò nei movi­menti che gene­ra­zioni più gio­vani ave­vano avviato. E da que­sti fu ascoltato. La sto­ria come sap­piamo non si fa con i se. Ma riflet­tere su quel pas­sag­gio sto­rico, per ragio­nare sugli errori com­piuti, da chi e per­ché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cer­cando di costruire un nuovo sog­getto politico. Per farlo nascere bene mi sem­bra comun­que essen­ziale por­tarsi die­tro l’insegnamento fon­da­men­tale di Pie­tro, che non è infi­ciato dal non avere, qual­che volta, ten­tato abba­stanza : che non c’è par­tito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diven­tare una forza in grado di sol­le­ci­tare la sog­get­ti­vità popo­lare, per­ché que­sta è più pre­ziosa di ogni ortodossia. Ma vor­rei che di Pie­tro ci por­tas­simo die­tro anche l’ottimismo della volontà. Era lui che amava citare la famosa para­bola di Bre­cht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comu­ni­smo ita­liano). Come ricor­de­rete, il sarto insi­steva che l’uomo avrebbe potuto volare, fin­ché, stufo, il vescovo prin­cipe di Ulm gli disse “prova” e que­sti si gettò dal cam­pa­nile con le fra­gili ali che si era costruito. E natu­ral­mente si sfra­cellò. Bre­cht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Per­ché alla fine l’uomo ha volato. E’ la para­bola del comu­ni­smo: fino ad ora chi ha pro­vato a rea­liz­zarlo su terra si è sfra­cel­lato, ma alla fine, come è acca­duto con l’aviazione, ci riusciremo. E’ que­sto l’impegno che nel momento della scom­parsa del nostro pre­zioso com­pa­gno Pie­tro Ingrao vor­rei pren­des­simo: di provarci.

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Lucio Magri, corpo a corpo con la democrazia https://www.micciacorta.it/2015/03/lucio-magri-corpo-a-corpo-con-la-democrazia/ https://www.micciacorta.it/2015/03/lucio-magri-corpo-a-corpo-con-la-democrazia/#respond Thu, 12 Mar 2015 13:56:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18892 Convegno alla Camera dei Deputati. Pubblicati gli interventi parlamentari di Lucio Magri

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Nella pre­fa­zione a que­sti due volumi Ste­fano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei pro­ta­go­ni­sti di que­sta sta­gione par­la­men­tare di fine secolo. Una «bella sta­gione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilet­tura di que­sti testi suscita nostal­gia: per­ché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni inter­vento alla Camera rap­pre­sen­tava un impe­gno, una rifles­sione, un eser­ci­zio di alto livello. Per que­sto, del resto, que­gli inter­venti pos­sono essere pub­bli­cati dopo tanti anni. Pro­ta­go­ni­sta, dun­que ma assai ano­malo, per­ché all’inizio, nella legi­sla­tura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei depu­tati su 630 e segre­ta­rio di un par­tito, il Pdup, che in quella coa­li­zione elet­to­rale – deno­mi­nata Demo­cra­zia Pro­le­ta­ria – di depu­tati ne aveva solo tre. E però era in rap­pre­sen­tanza della sola oppo­si­zione, come si diceva allora, quando ancora si face­vano distin­zioni, “dell’arco demo­cra­tico”. Nel suo primo discorso par­la­men­tare Lucio si era infatti tro­vato nella para­dos­sale con­di­zione di dover negare la fidu­cia a un governo soste­nuto da una mag­gio­ranza quasi totale: il governo delle lar­ghe intese dell’on. Andreotti. Anche que­sto det­ta­glio credo stia ad indi­care (ed è bene ricor­darlo in un momento in cui pro­prio di legge elet­to­rale si sta discu­tendo) quanto impor­tante sia il plu­ra­li­smo par­la­men­tare, una rap­pre­sen­tanza che esprima dav­vero tutte le anime del paese. Che non bloccò affatto l’istituzione, ma con­sentì anzi ine­diti e sti­mo­lanti intrecci, penso innan­zi­tutto al dia­logo che si svi­luppò fra il nostro attuale pre­si­dente della Repub­blica — che dav­vero rin­gra­zio per la sua pre­senza — e Magri, in occa­sione della assai con­flit­tuale ride­fi­ni­zione, nel 1993, della legge elettorale. È una buona cosa rileg­gere gli atti par­la­men­tari ed è una buona cosa che la Biblio­teca della Camera sia impe­gnata a ren­derlo pos­si­bile con le sue pub­bli­ca­zioni: per­ché si tratta della testi­mo­nianza più auten­tica e diretta di un periodo sto­rico, e debbo dire che anche io, che pure ho vis­suto da par­la­men­tare que­gli anni ’76-’99, rileg­gendo que­sti volumi sono stata aiu­tata ad appro­fon­dire la rifles­sione su quella sta­gione. Che ha peral­tro rap­pre­sen­tato un pas­sag­gio epo­cale per il nostro paese, non a caso defi­nito “pas­sag­gio dalla prima alla seconda Repub­blica”. Tut­ta­via, più che ritor­nare a quella sta­gione vor­rei cogliere quanto di tut­tora estre­ma­mente attuale ho tro­vato in que­sti discorsi di Lucio Magri. E sof­fer­marmi soprat­tutto sul tema della crisi della demo­cra­zia, che a me sem­bra essere oggi il tema più pre­oc­cu­pante. Lucio ne avverte la dram­ma­ti­cità già allora e denun­cia i rischi — con quello che Rodotà ha defi­nito «impie­toso rea­li­smo» — della deriva dell’antipolitica oggi diven­tata così macroscopica. Non un lamento impo­tente, ma la cri­tica con­creta all’autoreferenzialismo cre­scente dei par­titi, alla loro inca­pa­cità di inten­dere quanto andava emer­gendo nella società attra­verso i movi­menti e indi­cando dun­que la neces­sità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una inde­ter­mi­nata società civile sacra­liz­zata e però fran­tu­mata e fatal­mente subal­terna alla cul­tura domi­nante, bensì un impe­gno a costruire quella che egli defi­niva «demo­cra­zia organizzata». Non solo par­titi chiusi in se stessi più rap­pre­sen­tanza dele­gata, ma anche una rete di orga­ni­smi capaci di andar oltre la mera pro­te­sta e impe­gnati a impa­rare a gestire diret­ta­mente fun­zioni essen­ziali della società, così da ridurre via via la distanza fra gover­nanti e gover­nati (che poi è la base più salda della demo­cra­zia). E così col­mare il solco che dram­ma­ti­ca­mente separa il cit­ta­dino dalle isti­tu­zioni. Non a caso il Pdup fu un punto di rife­ri­mento per la cre­scita di que­ste reti che ebbero, — negli anni 70 — una par­ti­co­lare fio­ri­tura. Penso ai Con­si­gli di fab­brica, a quelli di Zona, a movi­menti come Medi­cina Demo­cra­tica o Psi­chia­tria, o nati attorno alle grandi que­stioni dell’assetto urbano e sociale. Io non me la sento di accu­sare le nostre gio­vani gene­ra­zioni per il loro disin­te­resse alla poli­tica, per la pole­mica con­tro la “casta” che fatal­mente sfo­cia nel disin­te­resse anche per la stessa demo­cra­zia, o di que­sta assume una visione asso­lu­ta­mente ridut­tiva: un insieme di diritti e di garan­zie indi­vi­duali, non lo spa­zio su cui si salda ed opera una col­let­ti­vità. Il ter­reno della poli­tica si è ormai a tal punto ridotto, come una pelle di zigrino, sì da diven­tare un eser­ci­zio pas­sivo in cui ci si limita ad inter­ro­gare il cit­ta­dino per­ché dica «mi piace o non mi piace» a quanto pro­po­sto da un ver­tice, come si trat­tasse di face­book. E infatti di solito si dice «I like it, I don’t». Se la demo­cra­zia è solo que­sta spo­ra­dica con­sul­ta­zione, e non invece uno spa­zio deli­be­ra­tivo che ti rende par­te­cipe e sog­getto della costru­zione di una società ogni volta inno­va­tiva, per­ché mai un gio­vane dovrebbe appassionarsi? Il declino dei grandi par­titi poli­tici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denun­ciava i sin­tomi è diven­tato un oceano. Non li rico­strui­remo tali quali erano (e anche loro, del resto, ave­vano non pochi difetti). Ma è impor­tante tor­nare a riflet­tere sul senso della poli­tica, — che non è ricerca di con­senso, ma costru­zione di senso — così come con que­sti discorsi, pur pro­nun­ciati in Par­la­mento e non a scuola, Magri ci spin­geva a fare, per recu­pe­rare la poli­tica, che poi è ricerca della pro­pria iden­tità nel rap­porto con gli altri umani e non arroc­ca­mento sul pro­prio io nell’illusione di potersi sal­vare da soli. Se non doves­simo riu­scire a far capire quanto la len­tezza della con­di­vi­sione, — che è pro­pria della demo­cra­zia – sia più pre­ziosa della fretta, solo appa­ren­te­mente più effi­ciente, del deci­sio­ni­smo, non ce la faremo nem­meno a far rivi­vere una vera Sini­stra. Per que­sto sono dav­vero con­tenta — e con me tutti i com­pa­gni del Pdup — della sol­le­ci­ta­zione che da que­sti testi ci viene per riflet­tere sull’oggi. E per aiu­tarci a discu­terne con i più gio­vani. La luci­dità anti­ci­pa­trice di Magri su que­sto come su altri temi — che è cer­ta­mente stata una delle sue più signi­fi­ca­tive carat­te­ri­sti­che — ha avuto una par­ti­co­lare inci­si­vità per­ché lui non era un pro­feta, un intel­let­tuale separato. In occa­sione della sua scom­parsa, Perry Ander­son, uno dei fon­da­tori della auto­re­vole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel pano­rama della sini­stra euro­pea. È stato l’unico intel­let­tuale rivo­lu­zio­na­rio in grado di pen­sare in sin­to­nia con i movi­menti di massa, svi­lup­pa­tisi durante il corso della sua vita. La sua rifles­sione teo­rica si è radi­cata real­mente nell’azione, o nella man­canza d’azione, degli sfrut­tati e degli oppressi». La ricerca, alla fine quasi osses­siva, del nesso fra teo­ria e mili­tanza ha finito per esser­gli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivi­sta” de il mani­fe­sto che era rinata nel 1999 sotto la sua dire­zione. Era una bella rivi­sta. Ma Lucio non si ras­se­gnava al fatto che man­cas­sero i refe­renti sociali, non voleva essere solo un intel­let­tuale che scri­veva senza la veri­fica dell’azione poli­tica. E poi­ché non vedeva nell’immediato le con­di­zioni per­ché inter­lo­cu­tori con­si­stenti si pre­sen­tas­sero e che il dibat­tito poli­tico in atto si sbri­cio­lava in qui­squi­lie, decise di ces­sare le pubblicazioni. Furono moti­va­zioni ana­lo­ghe che lo con­dus­sero alla sua tra­gica deci­sione finale. «Non dico che la sini­stra non rina­scerà — ripe­teva — ma ci vor­ranno molti anni e io sarò comun­que già morto. Così come è il dibat­tito non mi inte­ressa». Ma non era tut­ta­via pes­si­mi­sta nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tra­dotto in Inghil­terra, Ger­ma­nia, Spa­gna, Bra­sile, Argen­tina — titolo tratto da un apo­logo di Ber­tolt Bre­cht. Al sarto, che pre­ten­deva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm fini­sce per dire: «Vai sul cam­pa­nile e but­tati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e natu­ral­mente si sfracella. E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, per­ché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comu­ni­smo si è schian­tato, ma alla fine volerà. Noi con­ti­nuiamo a provarci.

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