Carlos Tavares, l’ad di Stellantis, è stato forse convocato in Italia per dare qualche notizia? No, naturalmente. Quanto a comunicarlo agli operai ancora occupati nemmeno a pensarci: sono merce, come sappiamo, non umani, e non è necessario che conoscano cosa succede. Non siamo forse una democrazia? Sì, per grazia di dio, ma le sue regole non operano entro i recinti della proprietà privata. Il corteo, accompagnato da una musica che alterna «Morti di Reggio Emilia» alle ultime di Sanremo – «Un ragazzo incontra una ragazza» molto ripetuta (e infatti non è niente male) – raggiunge l’ultima tappa dove l’ultimo discorso debbo farlo io, che qui, davanti a questa porta, ho passato tanti giorni della mia vita di 50 anni fa. Quando questo piazzale era una grande agorà permanente, il luogo di un confronto di massa, soprattutto i tanti studenti sessantottini, per i quali Torino era diventata la Mecca, la città simbolo di un’inedita grande offensiva che aveva come obiettivo non solo l’appoggio a una lotta, ma il cambiamento del mondo. Venivano, venivamo anche noi non più studenti ma alle prese con l’avvio dell’avventura del manifesto, che in questo luogo simbolico del nuovo scontro di classe aveva deciso di mettere le proprie radici. Venivamo per aiutare gli operai a prendere parola, per costruire un’alleanza contro chi pensava che la modernità fosse tutto e non capiva che, nell’orizzonte del capitalismo, sarebbe diventata solo il peggio. Tutti in realtà venivamo innanzitutto per imparare. Sono emozionata. Vorrei trasmettere quello che sento a chi oggi mi sta difronte. Il mio non è amarcord, come è stato tutte le volte che in questi anni sono venuta qui in solitudine, l’ultima, ricordo, con Daniele Segre, l’amico regista appena scomparso che su quel che qui succedeva ha fatto i più bei film: lo spiazzo sempre deserto, solo qualche ex operaio desolato che porta qui il cane a passeggio. Oggi è diverso: ci sono le bandiere rosse, i ragazzi, i nuovi delegati. Mi viene voglia di raccontare come accadde che gli operai della Fiat si inventarono e riuscirono a fare i Consigli di fabbrica, coinvolgendo un sindacato all’inizio diffidente. Ricordo bene il primo: fu sulla scala davanti a una nota ballera non lontana dalla porta n. 2, in poco tempo furono tanti e con loro l’esercizio e l’orientamento dell’azione direttamente nelle loro mani, il sindacato aiuto prezioso ma non più solo arbitro del che fare. Un fare che diventa via via gestione diretta, non solo delega a trattare: il salto della scocca, per rallentare i tempi della catena di montaggio; gli aumenti uguali per tutti, non fantasia egualitaria ma mezzo per togliere il potere di ricatto ai capireparto. E poi la scoperta del fuori delle mura dove si consuma la vita degli operai e perciò i consigli di zona, Medicina Democratica, le 150 ore. Furono anticipazioni di quanto oggi sarebbe urgente ritentare. Proprio le 150 ore, lo studio, almeno un pezzetto, alternato al lavoro: se oggi non riprendiamo quel percorso cosa accadrà delle competenze acquisite a tutti i livelli, anche quello delle lauree, destinate a diventare obsolete in pochi anni per via del ritmo del progresso tecnologico, che oggi impone di ripensare subito alla necessità di un’istruzione che continui anche quando già si lavora, lungo l’arco di tutta la vita, se non si vuole che in futuro tutto il potere sia a disposizione di una minoranza di superspecializzati e una massa destinata a diventare i loro servitori. «4 ore di studio, 4 ore di lavoro» fu la proposta del manifesto all’epoca. Perché abbiamo lasciato perdere? E i consigli di zona, perché non andare a rivedere quell’esperienza per tanti versi simile al «sindacato di Strada» oggi lanciato da Landini e che però stenta a realizzarsi? Non è per tornare al passato, lo dico perché ho l’impressione che quella esperienza sia stata rimossa non perché invecchiata ma perché guardava troppo lontano. Se oggi vogliamo che la transizione verso un modello sostenibile non sia solo bugia occorre tornare a guardare lontano, perché solo pensando a un cambiamento radicale potremmo usare le nuove tecnologie e le indicazioni che ci vengono dalla minaccia ecologica in occasioni che ci impongono una grande trasformazione che è però anche quella ormai indispensabile per farci vivere più felici e meno oppressi. Anziché com’è ora, angosciati per i guai che, lasciate a sé stesse, le innovazioni possono produrre. Dalla mia visita a porta 2 di Mirafiori, grazie alla marcia Clima-Lavoro, sono tornata ottimista. Ce la possiamo fare. La nostra controparte non è vero che sta vincendo, diventa più cattiva perché il suo modello di sistema non funziona più. Diventa più violenta perché non trova più i margini per una qualche mediazione. Oggi mi sembra che si sia inferta qualche ferita al vero nemico del nostro tempo attuale, la famosa Tina («there is no alternative») cioè «Non c’è alternativa». Nemico più pericoloso della povera Meloni, fiera di appartenere alla schiera cui piace esser definiti «conservatori». Ma cosa diavolo vuole conservare? Carlos Tavares? * Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto