Mario Tronti – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 14 Nov 2023 09:03:02 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La memoria operaia è tuttora un’arma per le lotte https://www.micciacorta.it/2023/11/la-memoria-operaia-e-tuttora-unarma-per-le-lotte/ https://www.micciacorta.it/2023/11/la-memoria-operaia-e-tuttora-unarma-per-le-lotte/#respond Tue, 14 Nov 2023 08:45:39 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26680 Nel passato vanno cercate le ragioni «antagonistiche» che hanno subito cancellazioni e rimozioni, e che possono valere ancora oggi. E queste ragioni vanno trovate anche dove lo stesso pensiero critico marxista, operaista, comunista, è stato cieco

L'articolo La memoria operaia è tuttora un’arma per le lotte sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Nel passato vanno cercate le ragioni «antagonistiche» che hanno subito cancellazioni e rimozioni, e che possono valere ancora oggi. E queste ragioni vanno trovate anche dove lo stesso pensiero critico marxista, operaista, comunista, è stato cieco   Semo de Centurini lasciate passà, semo le tessitore… mattina e sera ticchete e tà…». Una giornata per ricordare Mario Tronti e discutere della difficile eredità del suo pensiero (su questo tema ha scritto sul numero in uscita di Critica Marxista Andrea Bianchi) si è conclusa con alcune canzoni della tradizione popolare operaia. Le voci di Sara Modigliani e Laura Zanacchi e le chitarre di Gabriele Modigliani e Massimo Lella hanno ridato vita alle battagliere e un po’ sfrontate operaie tessili di Terni, al dramma dell’operaio licenziato perché ha scioperato e non vorrebbe parlarne al figlio (O cara moglie, di Ivan Della Mea), al popolo comunista romano che dopo la vittoria sul fascismo vuole fare fino in fondo la rivoluzione «con la convinzione di una nova era / che al mondo porterà la redenzione». Si dovrà rispondere «col piombo al piombo» delle armi borghesi: «Dal sangue» nascerà una società finalmente giusta… Vecchie amiche e compagne sedute vicino a me sono ormai commosse fino alle lacrime (e un po’ anche io) e per consolarci si sorride criticamente su quelle antiche parole così appassionate sull’inevitabile scontro armato. Lo scenario – lo scorso 8 novembre – è quello fantasmagorico della «sala macchine» della Centrale Montemartini di Roma, un museo e un luogo di incontro tra reperti archeologici magnifici dell’antichità classica e le rovine tecnologiche di una civiltà industriale otto-novecentesca.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Le istituzioni culturali, territori di conquista per le destreTeatro molto adatto alla lunga discussione sul pensiero, sulle opere e sullo “stile” di Tronti (potete ascoltarlo su Radio Radicale, ne segnalo arbitrariamente gli interventi di Massimo Cacciari e di Ida Dominijanni, sulla radicale critica della democrazia reale nei suoi ultimi scritti). Ma il tema che volevo qui accennare, soprattutto, è quello svolto poco prima della musica conclusiva, a proposito del nuovo volume (DeriveApprodi) curato da Tronti e da Lorenzo Teodonio Per un atlante della memoria operaia. Qui, citata in esergo e nella breve ma densissima introduzione di Tronti, si ritrova buona parte della costellazione ideale dell’autore. Dalla famosa frase di Gustav Mahler – «La tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri» – alle idee sul rapporto tra passato, presente e futuro di Walter Benjamin e Abi Warburg. Ma altri compariranno in corso d’opera, da Pasolini al Calvino che scriveva negli anni Sessanta sull’«antitesi operaia». Nel passato vanno cercate le ragioni «antagonistiche» che hanno subito cancellazioni e rimozioni, e che possono valere ancora oggi. E queste ragioni vanno trovate anche dove lo stesso pensiero critico marxista, operaista, comunista, è stato cieco. Tanta passione per la «composizione di classe» che si opponeva strutturalmente al padronato, poca attenzione alle «persone in carne e ossa», ammette retrospettivamente l’autore di Operai e capitale. «Ci è sfuggita una composizione umana di classe operaia». Forse anche per questo «non si è riusciti a portare quella storia di lunga durata a un fine, o a una fine, all’altezza di quella straordinaria vicenda». Mi è venuto in mente un antico scritto di Lea Melandri, che invitava la sinistra a non fare dell’operaio un feticcio ideologico, ma a riconoscere i suoi desideri e la sua umanità fin nei soprammobili un po’ kitsch del suo tinello. Bisognava pensarci prima e meglio? Forse non è mai troppo tardi e questo bel volume illustrato, che è già un archivio e un progetto politico, linguistico, artistico, può essere un’arma efficace non «per uccidere o ferire, ma per convincere e mobilitare». * Fonte/autore: Alberto Leiss, il manifesto

L'articolo La memoria operaia è tuttora un’arma per le lotte sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2023/11/la-memoria-operaia-e-tuttora-unarma-per-le-lotte/feed/ 0
La storia e la teoria di Potere operaio in una stagione di lotte di classe https://www.micciacorta.it/2018/11/la-storia-e-la-teoria-di-potere-operaio-in-una-stagione-di-lotte-di-classe/ https://www.micciacorta.it/2018/11/la-storia-e-la-teoria-di-potere-operaio-in-una-stagione-di-lotte-di-classe/#respond Thu, 29 Nov 2018 08:03:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25032 C’è una storia che va da piazza Statuto a piazza Fontana: una storia di lotte che proseguirà nel decennio successivo, e che in parte confluirà in quella armata

L'articolo La storia e la teoria di Potere operaio in una stagione di lotte di classe sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
potere operaio

SCAFFALE. «Potere operaio», un primo volume di Marco Scavino per DeriveApprodi Affidato alla competenza di Marco Scavino – sia come storico, sia come militante di PotOp –, Potere operaio. La storia. La teoria (volume I, pp. 188, euro 18) è un ulteriore tassello nella costruzione di un archivio sui movimenti degli anni 60 e 70 che DeriveApprodi porta avanti da anni. Impresa editoriale della quale fa parte anche Prima linea. L’altra lotta armata di Andrea Tanturli (cfr. qui), che di Scavino condivide il metodo di lavoro. AMBEDUE I VOLUMI hanno un prolungamento nel web, con due pagine facebook dedicate attraverso le quali è possibile leggere una ricca mole di documenti che sono in corso di pubblicazione in progress: una modalità innovativa rispetto a opere precedenti, come la ripubblicazione delle riviste Rosso e Primo maggio, che rendevano disponibili le pagine dei giornali mediante un cd allegato. A questo primo volume, che arriva fino al 1971, faranno seguito un secondo volume, e nuova edizione di La nefasta utopia di Potere operaio di Franco Berardi Bifo. La composizione di quest’opera, al di là della mera ricostruzione degli eventi e della pubblicazione dei documenti, ha una sua ragion d’essere che coincide con le scelte interpretative di Scavino. Il quale, partendo dalla constatazione che PotOp fu «un gruppo fortemente minoritario, il cui ruolo all’interno del movimento e delle lotte non era certamente proporzionato alla forza numerica o d’organizzazione», spiega lo scopo principale di questo libro consistere nel «cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno, provando a considerarlo nel quadro più generale delle vicende dello scontro di classe tra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio seguente». Si tratta, insomma, di cogliere lo spessore qualitativo di PotOp, all’interno del contesto di lotte che ne resero possibile l’esistenza. CONTESTO CHE SI PRESENTA come un groviglio di storie, realtà, entrate e uscite: groviglio del quale è possibile dipanare i singoli fini, a condizione di non dimenticare mai la loro comune matassa. Se infatti Potere Operaio (inteso come giornale) nasce nel settembre 1969, è altrettanto vero che la sua genesi rimonta lungo una genealogia che parte dai Quaderni rossi per svilupparsi attraverso classe operaia e La classe (passando per Contropiano, o quantomeno per il suo primo numero). Fra rivista e rivista c’è una storia che va da piazza Statuto a piazza Fontana: una storia di lotte che proseguirà nel decennio successivo, e che in parte confluirà in quella armata. Scavino rende un quadro complesso. Rifiuta le ricostruzioni lineari – per esempio quelle di Angelo Ventura – dai Quaderni rossi fino alle Br senza soluzione di continuità, che hanno sotteso il teorema Calogero: sconfessate dalle sentenze, si sono nondimeno imposte nell’immaginario nazionale. Accanto a questo mito, ve n’è un secondo, che viene sottoposto a critica con la ricostruzione analitica: quella di PotOp e dell’operaismo sarebbe la storia di poche menti, magari geniali ma avulse dalle lotte, che avrebbero prodotto una teoria aliena dalla materialità dei fatti, e la cui composizione finisce per essere ricondotta a quei militanti che vengono oggi ricordati e stigmatizzati perché oggetto di procedimento giudiziaria. Una malevola metonimia, che finisce col generane un’altra un’intermittenza della memoria: che, se non quella di PotOp, senz’altro la storia dell’operaismo possa essere ricondotta alle sue origini, e coincidere con una sostanziale univocità attorno a quello che ne incarnerebbe la dimensione teorica, vale a dire Mario Tronti. È INVECE VERO (come Scavino scrive a proposito di Classe operaia) che «la condivisione di «un modo di pensare politico» non aveva affatto implicato un’omogeneità di orientamenti politici e di pratiche d’organizzazione», com’è attestato dagli esiti divergenti di quell’esperienza: la prosecuzione di un percorso che porterà alla nascita di PotOp per alcuni, o il ritorno alla casa del padre per altri, fra i quali lo stesso Tronti, che, un po’ come il musico suo cugino, avrebbe poi fatto fruttare la rendita pluridecennale di alcuni fortunati testi iniziali (con l’estatica ammirazione di acritici sorcini disposti a perdonare una maturità mal spesa – ma questa è un’altra storia). Fatto è che PotOp «non si limitò a «ereditare» dai Quaderni rossi e da Classe operaia un certo tipo di cultura politica, ma la usò e la rielaborò in funzione di quanto andava emergendo dalle lotte e dai movimenti di classe». I frutti di questa rielaborazione sono il tema della «composizione» della classe operaia, e il termine «operaio massa» per indicare i settori non qualificati, mobili, intercambiabili della forza-lavoro. Lo stesso rapporto fra l’operaismo e PotOp è «un rapporto complesso, fatto indubbiamente di continuità ma anche di contributi originali e innovativi, che influenzarono in maniera rilevantissima il dibattito coevo del movimento operaio», del quale Scavino intende fornire elementi per una «storia politica dell’operaismo italiano» che «in parte deve ancora essere ricostruita». È questa una delle tre questioni che l’autore mette al centro della propria opera. Per le altre due – il discorso sulla rivoluzione dopo il ’68, e il ruolo di PotOp nella genesi della lotta armata – bisognerà attendere il secondo volume. * Fonte: Girolamo De Michele, IL MANIFESTO

L'articolo La storia e la teoria di Potere operaio in una stagione di lotte di classe sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/11/la-storia-e-la-teoria-di-potere-operaio-in-una-stagione-di-lotte-di-classe/feed/ 0
Una nota a “Storia di un comunista” di Toni Negri https://www.micciacorta.it/2016/01/una-nota-a-storia-di-un-comunista-di-toni-negri/ https://www.micciacorta.it/2016/01/una-nota-a-storia-di-un-comunista-di-toni-negri/#respond Wed, 13 Jan 2016 14:00:09 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21128 Leggendo questa autobiografia di Toni Negri non sorprende il silenzio che ha accompagnato la sua uscita e la qualità delle poche recensioni apparse finora

L'articolo Una nota a “Storia di un comunista” di Toni Negri sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
Toni Negri

Storia di un comunista: leggendo questa autobiografia di Toni Negri non sorprende il silenzio che ha accompagnato la sua uscita e la qualità delle poche recensioni apparse finora. Torna il refrain del cattivo maestro al quale non si perdona l’internità alle lotte operaie degli anni Sessanta e soprattutto a quelle degli anni Settanta ad opera delle bande autonome di “giovani perduti dietro un folle velleitarismo” [Simonetta Fiori, Repubblica 05-01-2016]. Sul senso di questa internità soprassiede tranquillamente anche Gad Lerner interessato ad attribuire la paternità di quelle bande per l’appunto al cattivo maestro (la “sua” creatura movimentista, quella in cui maggiormente si riconosce dal suo Blob 05-01-2016). Se così stanno le cose, la censura ha ben altra motivazione che il mero imbarazzo che a suo tempo avrebbe provato il Pci a fronteggiare l’eresia del pensiero negriano. Quand’è che l’eresia non può essere contenuta? Evidentemente quando essa trova il suo inveramento in un’effettiva politica di liberazione. Se il ripiegamento sull’autonomia del politico ha salvato Tronti, il padre dell’operaismo, dalla demonizzazione picista, la fedeltà a quell’impianto teorico e la ricerca di una sua verifica pratica direttamente nella lotta di classe operaia hanno inchiodato Negri alla condizione di chi ha subito una messa al bando che si vuole perpetuo. E infatti nel linguaggio della gran parte di questi recensori Negri resta un bandito, anzi il bandito. Ma l’Autore avrebbe dovuto aspettarselo visto che la sua storia vuole essere quella di un comunista. È di questa eresia comunista che vorrei parlare.

Personalmente scelgo le mie letture sulla base di taluni criteri personalissimi, in particolare sul fatto che leggendo devo sentire che quelle pagine sono state scritte per me e che per questo motivo mi desiderano. Sto rovesciando ovviamente una tesi di Barthes pensata per la scrittura, ma tant’è. Partirei allora dalla Terza Parte, da quei “dieci anni di ’68” che io ho vissuto in gioia e spensieratezza militando nel movimento studentesco e in Potere operaio prima, nell’Autonomia operaia dopo. Il passato si nasconde ma è presente, dice da qualche parte Malamud e ha ragione a condizione però che si sia vissuto quel passato in possessione felicitatis. Da dove altrimenti avremmo ripescato allora l’idea di comunismo? È questa banale verità che i nostri recensori non capiranno mai. Negri ha ricostruito quel passato, di Potere operaio e dell’Autonomia, con la puntigliosità dello storico indiziario avvalendosi di una memoria formidabile ma soprattutto della documentazione scritta prodotta dalle due organizzazioni. Nelle cronache delle lotte in fabbrica e sul territorio metropolitano di quel decennio cerca la conferma ora della estraneità dell’operaio massa al regime di fabbrica, ora dell’irriducibilità dell’operaio sociale al rapporto di capitale perché il dispositivo operaista va provato nelle lotte, sempre. Così il militante e il professore, dopo il lungo tirocinio sotto la guida esperta del Comitato operaio di Marghera durante gli anni sessanta, finiscono per confondersi proprio dopo il ’68. L’autobiografia esalta questa confusione di ruoli e questo è il motivo per cui tutti quelli che mal digeriscono una siffatta indistinzione, accusano l’Autore di aver dimenticato tutto il resto perché troppo preso a raccontare il suo assalto al cielo. Potere_operaioInsomma Negri nel raccontarsi avrebbe dovuto quanto meno smorzare l’enfasi sulle lotte autonome e parlare delle fabbriche in rivolta come solo il sindacalista sa fare, svuotandole della presenza viva degli operai. L’autobiografia sarebbe quindi un ego-biografia che dimentica la Storia, ovviamente quella dei padroni e dei suoi scherani.

Stando così le cose, non dobbiamo meravigliarci se la produzione teorica del professore segue il ritmo delle lotte del militante. Già l’apprendistato cattolico nella GIAC nei primissimi anni ’50 vuole essere unritorno al cristianesimo vivente, a una pratica di verità in rotta di collisione con la gerarchia ecclesiastica collusa con i poteri forti e nemica dei poveri. L’eresia negriana nasce da qui, esattamente dall’impatto con la miseria dei contadini della Bassa veneta e dalle primissime inchieste nelle bidonville padovane: la verità si poteva testimoniare solo trasformandosi in un essere collettivo, umano, in un comune anch’esso in rivolta! Che “comune” sia nome di oggi e non di ieri torna utile a Negri per sottolineare una costante della sua eresia, vale a dire l’idea dell’essere come potenza: ieri contro una verità di fede, quella del Dio trascendente e nascosto all’uomo, oggi contro una verità di fatto che ci vuole tutti appaesati alla ragione neoliberista. Ma questa prima redazione dell’ontologia dal forte sapore dolciniano è solo la premessa a una seconda eresia diretta questa volta contro le verità proposte dall’altra chiesa presente in campo, anch’essa con pretese ecumeniche: il Pci. È il secondo Partito comunista per numero di iscritti in Europa, dopo quello sovietico. La cultura della sinistra più o meno comunista penetra in ogni ambiente: il PCI fa cultura, cinema, movimento, costruisce élite importanti che si muovono in ogni settore della società. Era difficile, se si era giovani e intelligenti, non stare col PCI. Negri non entra nel Partito. Era abbastanza weberiano, ci ricorda, per farlo. Gli preferisce un partito più leggero e sicuramente più laico, il PSI, il meno peggio fra le forze politiche presenti sulla piazza. E poi cosa centrava il Lukács di Storia e coscienza di classe con Croce e i crociani convertiti all’ultima ora? Neppure Gramsci, diventato nel frattempo il padre della nuova Chiesa, viene preso in considerazione. A entrambi Negri aveva preferito lo storicismo tedesco estraneo al culto togliattiano della continuità. Ma come sempre accade per le eresie degne di questo nome, è la “scelta” di leggere il pensiero del padre fondatore in un determinato modo a fare la differenza. Negri legge il Capitale in modo trontiano, vale a dire politicamente orientato. E infatti il confronto è agli inizi degli anni Sessanta con la conricerca e le lotte dei chimici di Marghera. Lì dentro c’è tutto Marx versione trontiana, a partire da quel laboratorio della produzione squadernato reparto per reparto, linea per linea nel mentre la forza lavoro che si fa classe rivoluzionaria con la lotta. Al Pci di questa lettura risulta inaccettabile proprio questa produzione di soggettività che minaccia di sottrargli la “direzione politica” (concetto caro a Togliatti) della classe operaia nella lunga marcia verso il socialismo e di gettare un’ombra sui fondamenti della stessa linea politica ispirata fin dalla svolta di Salerno alla difesa dello status quo. Ma il problema non è solo di linea politica; se il gruppo dirigente del partito può perseguirla con ostentazione e senza vergogna, è perché le sue élite intellettuali lavorano alacremente per legittimarla. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta a mobilitarsi in prima persona sono i filosofi del partito, in particolare quelli di scuola storicista, convinti assertori non solo della storia come progresso ma del primato in esso delle classi lavoratrici purché a sostenerle sia un adeguato livello di coscienza mentre la concreta azione rivoluzionaria volta a negare dialetticamente il carattere privato del profitto – come si esprime con eleganza Badaloni – è consegnata per intero al Partito. È il motivo per cui non solo per questi filosofi il tema della produzione della soggettività, del farsi della classe operaia, non esiste come problema, ma quando esso è sollevato per la prima volta dalla scuola operaista, la levata di scudi è immediata e la reazione virulenta.

L’ipotesi che avanzo per darmi una ragione dell’accoglienza riservata a questa importante autobiografia di Negri è che la posta in gioco reale sia proprio la figura del filosofo Negri, più esattamente la sua proposta oggi di un’ontologia materialista. Essa è annunciata nell’autobiografia: «L’essere è potenza. L’essere si rappresenta come tensione – espansività assoluta e perciò, in quanto assoluta, creativa, aperta a una potenza che si confonde nel divino»: così comincia la prima redazione dell’ontologia del giovane Toni.

Ancora durante gli anni Settanta essa resta in fieri, allusa nel gioco a rimpiattino delle due composizione ma imposta alla riflessione dalla radicalità delle lotte promosse da un soggetto ancora difficile da decifrare. Saranno il carcere e la sconfitta dei movimenti, la controrivoluzione neoliberista, l’esilio e l’incontro con la filosofia francese a permettere la sua maturazione. Di questa ontologia che arriverà a maturazione negli anni Novanta sottolineo solo un aspetto a mio parere importante anche per capire l’isteria che la Storia di un comunista ha sollevato tra i suoi detrattori. Mi riferisco al rinnovato bisogno di verità di cui si fa portatrice quandola verità è fatta sparire dalle bugie del potere. In questa pretesa di verità ciò che fa scandalo è che Negri intende cercarla ancora nelle lotte e nelle rivolte degli sfruttati.

L’autobiografia di Negri ci racconta la sua storia e quella delle lotte dell’altro movimento operaio fino agli anni Settanta ma questa storia, mi piace citare J. Roth, è del resto così singolare che solo la vita stessa avrebbe potuto inventarla.

L'articolo Una nota a “Storia di un comunista” di Toni Negri sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/01/una-nota-a-storia-di-un-comunista-di-toni-negri/feed/ 0
Un Nove­cento dai labili confini https://www.micciacorta.it/2015/07/un-nove%c2%adcento-dai-labili-confini/ https://www.micciacorta.it/2015/07/un-nove%c2%adcento-dai-labili-confini/#respond Fri, 31 Jul 2015 09:55:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20105 Il bilancio di un secolo, giocato tra il 1917 e il ’45, i «pesanti» anni ’30 e i «futili» ’60, fra tradizione e desideri ribelli, il modello Weimar e il comunismo

L'articolo Un Nove­cento dai labili confini sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Scaffale. Il bilancio di un secolo, giocato tra il 1917 e il ’45, i «pesanti» anni ’30 e i «futili» ’60, fra tradizione e desideri ribelli, il modello Weimar e il comunismo. Il libro di Mario Tronti, «Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero», uscito per Il Saggiatore, cancella però la storia non occidentale Per mol­tis­simi Mario Tronti è un pen­sa­tore inchio­dato alla sua opera gio­va­nile del 1966, Ope­rai e capi­tale, che rac­co­glieva scritti mili­tanti pro­dotti nella sua breve ma intensa espe­rienza ope­rai­sta. Que­sto luogo comune dif­fuso fa torto a un per­corso ricco di svolte, che ha cono­sciuto fasi distinte, in primo luogo attra­verso una rifles­sione tor­men­tata sulla (rela­tiva) auto­no­mia del poli­tico, dove Tronti si affer­mava come stu­dioso capace di inter­ro­gare i clas­sici e il loro lascito; negli ultimi tempi, le istanze fon­da­men­tali della sua ricerca sono state la rifles­sione sulla scon­fitta sto­rica della parte in cui aveva mili­tato, rie­vo­cata nei foschi bagliori della «poli­tica al tra­monto», e una pro­ble­ma­tica rifles­sione sulla mistica e sulla spi­ri­tua­lità reli­giosa del cristianesimo.
Non tutto è chia­ris­simo nelle impli­ca­zioni con­te­nute in quest’ultima fase. In par­ti­co­lare, ha susci­tato qual­che per­ples­sità l’infatuazione di Tronti, con­di­visa con altri espo­nenti della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano, per il mode­sto pen­siero di Joseph Ratzin­ger. In ogni caso i filoni ter­mi­nali della sua ricerca con­flui­scono nel suo ultimo libroDello spi­rito libero. Fram­menti di vita e di pen­siero (Il Sag­gia­tore 2015, pp. 316, euro 20), che attra­verso poli­tica e reli­gione tende a deli­neare un sof­ferto bilan­cio del Nove­cento, della sua gran­dezza e della sua sconfitta. Il punto di vista com­ples­sivo di Tronti sul Nove­cento appare mutato rispetto al bilan­cio che aveva tratto sul finire di quella espe­rienza. Nel 1999, nella Pre­fa­zione a Il pas­sato del Nove­cento (mani­fe­sto­li­bri) ne aveva par­lato come di un secolo senza ere­dità e senza futuro, arte­fice di «pro­gressi regres­sivi», che aveva distrutto le spe­ranze create dal grande Otto­cento, lasciando ai posteri una medio­cre deriva intrisa di nostal­gia. E nostal­gia di un Nove­cento – fin troppo cir­co­scritto, come vedremo – c’è ancora, ma oggi per Tronti il Nove­cento è «il cuore di tene­bra» che rico­no­sce come «cosa sua». Cri­ti­che alla rivo­lu­zione russa Non è que­sto un libro facile, ricco com’è di rimandi a una messe quasi ster­mi­nata di afo­ri­smi e cita­zioni, da cui l’autore ricava ammo­ni­menti pre­ziosi sui peri­coli cui è espo­sta la libertà nell’affermazione incon­tra­stata della «demo­cra­zia» (è il risvolto più utile e sti­mo­lante del libro). I fram­menti coi quali Tronti ha pun­tel­lato le sue rovine sono però in par­ti­co­lare il gio­vane Hegel e il gio­vane Lupo­rini esi­sten­zia­li­sta e pre­mar­xi­sta, e poi Wal­ter Ben­ja­min, Aby War­burg, ma anche il Toc­que­ville della Demo­cra­zia in Ame­rica e alcuni gesuiti del Seicento. Lo sforzo del let­tore deve però con­cen­trarsi soprat­tutto sui nodi «forti» dell’argomentazione, riflet­tendo in spi­rito di libertà sulle impli­ca­zioni non sem­pre chia­ris­sime e con­se­guenti del pen­siero dell’autore. Ci sono dichia­ra­zioni molto impe­gna­tive, che vanno ben oltre l’antica pro­pen­sione, da Tronti teo­riz­zata assieme ad altri, sull’uso rivo­lu­zio­na­rio del grande pen­siero con­ser­va­tore. «La mia idea è che la Rivo­lu­zione d’ottobre somi­glia più alla rivo­lu­zione con­ser­va­trice che alle rivo­lu­zioni bor­ghesi». Le asso­nanze andreb­bero ricer­cate nella cri­tica resi­stente al dila­gare del Moderno nella sua veste «demo­cra­tica», che è il vero nemico indi­vi­duato e riba­dito nell’arco di tutto il libro. La cri­tica della rivo­lu­zione bol­sce­vica inve­ste non la sua ori­gine rivo­lu­zio­na­ria ma il suo svi­luppo socia­li­sta («il socia­li­smo ha scon­fitto la rivo­lu­zione ope­raia»), la volontà di fare il «socia­li­smo subito» smen­tendo la «geniale intui­zione» del Lenin della Nep, la teo­riz­za­zione di una «via socia­li­sta al capi­ta­li­smo, anzi alla rea­liz­za­zione dello svi­luppo del capi­ta­li­smo in Rus­sia diretta, gui­data, orien­tata dalla presa di potere bol­sce­vico. Un modello, oggi niente affatto estinto».

El-Lissitzky-L’Armata-rossa-degli-operai.jpg-bd

In effetti, una gran parte delle cri­ti­che volte al prin­ci­pio demo­cra­tico sem­brano rie­cheg­giare quelle del grande pen­siero libe­rale otto­cen­te­sco, come anche della dif­fi­denza ari­sto­cra­tica nei con­fronti della «società di massa» espressa negli anni tra le due guerre da Ortega y Gas­set e molti altri. «Libe­ra­li­smo e comu­ni­smo hanno avuto lo stesso destino, di vedere le idee di fon­da­zione rove­sciarsi nel loro con­tra­rio». La ricon­ci­lia­zione tra le istanze di filoni sto­ri­ca­mente con­trap­po­sti sem­bre­rebbe pos­si­bile oggi nella comune avver­sione nei con­fronti della «demo­cra­zia reale» che stri­tola le dif­fe­renze omo­lo­gando il pianeta.Quanto all’«organismo vivente» di cui Tronti si è sen­tito «par­ti­cella insi­gni­fi­cante», il suo com­pito attuale è deli­neato in que­sti ter­mini: «Quella cosa sem­plice, dif­fi­cile da fare, che è il comu­ni­smo non ha l’esigenza etica, ma il com­pito poli­tico, den­tro la cri­tica del Moderno, di sot­trarre l’idea di libertà all’orizzonte bor­ghese, lasciando al capi­ta­li­smo la sua demo­cra­zia. Tutto que­sto libro vuole argo­men­tare que­sta tesi». La stessa que­stione dei tota­li­ta­ri­smi nove­cen­te­schi va ricon­dotta a que­sta dico­to­mia: «i tota­li­ta­ri­smi non sono un pro­dotto del Nove­cento, sono l’esito del Moderno, della sua volontà di potenza senza limiti». Un secolo euro­cen­trico Libertà vs. Demo­cra­zia, dun­que: que­sta è l’essenza del mes­sag­gio tron­tiano, che ricorre in tutta l’opera. Sono tante le obie­zioni che si potreb­bero muo­vere a que­sto schema, costan­te­mente e quasi ango­scio­sa­mente ripe­tuto (ed è pro­prio l’angoscia, l’assenza di com­pia­ci­mento, che dif­fe­ren­zia net­ta­mente le rifles­sioni di Tronti da quel «Grand Hotel dell’Abisso» su cui iro­niz­zava György Lukács nel 1954, cui pure este­rior­mente alcuni toni potreb­bero somigliare). In primo luogo note­rei che il Nove­cento di Tronti sem­bra net­ta­mente euro­cen­trico e dalla por­tata tem­po­rale limi­tata. Forse anche meno che euro­cen­trico, pro­po­nendo la cen­tra­lità di Ger­ma­nia e Rus­sia, «i due attori che hanno reci­tato da pro­ta­go­ni­sti la sto­ria del Nove­cento, di fronte a cui tutti gli altri hanno fatto da com­parse. Gli Usa sono sem­pre entrati in gioco a par­tita già ini­ziata, come attac­canti di riserva». «Secolo ame­ri­cano? Falso, sem­mai secolo della Finis Euro­pae», che vede la vit­to­ria finale della Zivi­li­sa­tion sulla Kul­tur. Oltre il colo­nia­li­smo C’è qui la sin­go­lare ripro­po­si­zione di un limite della Terza Inter­na­zio­nale, che si disin­te­ressò com­ple­ta­mente degli Usa nelle sue ana­lisi (ma con un occhio attento rivolto all’Asia, che sem­bra man­care del tutto nel map­pa­mondo tron­tiano). A gio­chi fatti, però, una con­si­de­ra­zione retro­spet­tiva del secolo non può igno­rare o porre in secondo piano gli Stati Uniti, se non altro come luogo pri­vi­le­giato di ela­bo­ra­zione e irra­dia­zione del temi­bile Moderno che tutto pervade.

nazi_poster_check_the_war_mongers

Anche il limite tem­po­rale del secolo è con­se­guente a que­sta visione. Tutto si gioca in sostanza tra il ’17 e il ’45. Suc­cede poi una sorta di «sto­ria minore», pre­messa di quella che ci è stato dato di vivere («Que­sto è il primo dato di coscienza che dovrebbe assu­mere oggi la per­sona pen­sante»). Ma in que­sto modo si sop­prime la parte migliore del Nove­cento, quella effet­ti­va­mente rivo­lu­zio­na­ria, che vide l’ingresso nella sto­ria comune di masse ster­mi­nate di donne e uomini che si libe­ra­vano dal domi­nio colo­niale dell’Occidente. E che davano vita a una idea e a una pra­tica di libe­ra­zione che di fatto ha supe­rato e tal­volta sop­pian­tato quella antica. Senza Alge­ria, Cuba, Cina, Viet­nam, Cile, Pale­stina, Suda­frica, ecc. l’idea di rivo­lu­zione nella seconda metà del Nove­cento sarebbe cir­co­scritta in ter­mini impro­ba­bili, al gri­gio buro­cra­ti­smo degli abbracci tra Brez­nev e Honecker.La scelta della tra­di­zione è altro concetto-cardine del libro, che ricorre spesso, per­ché una tra­di­zione si sce­glie, si costrui­sce, non è sem­plice acqui­si­zione di una ere­dità, «non un dato ma un moto». L’«uso stra­te­gico del pas­sato», che ela­bora «una pro­ie­zione di senso per la cri­tica del pre­sente» porta Tronti a pri­vi­le­giare, a sce­gliere, una tra­di­zione appunto molto cir­co­scritta nello spa­zio e nel tempo. «Met­te­rei i pesanti e fon­danti anni trenta con­tro i leg­geri e futili anni ses­santa. Per supe­rare i primi c’è voluta la seconda guerra mon­diale. Per dimen­ti­care i secondi è bastata una Tri­la­te­ral Com­mis­sion», sor­vo­lando in realtà su guerre di libe­ra­zione e guer­ri­glie, colpi di stato, con­qui­ste deci­sive di libertà e di giu­sti­zia, repres­sioni spie­tate e sanguinarie. Accanto a nota­zioni sulle quasi si può con­ve­nire, come la «neces­sità di evi­tare la trap­pola, ita­lia­niz­zante, ’77 con­tro ’68: liti di con­do­mi­nio», si leg­gono però sin­tesi dra­sti­che e quasi cari­ca­tu­rali di tutta la cul­tura degli anni Ses­santa: «Grosso favore che… i favo­losi anni ses­santa, liber­tari, cioè gio­va­nili e fem­mi­nili, hanno fatto al sistema gene­ra­liz­zato di oppres­sione libe­ra­mente volon­ta­ria che ne è seguito… Sin­gole indi­vi­dua­lità, fal­sa­mente ecce­zio­nali, e gruppi mino­ri­tari, fal­sa­mente rivo­lu­zio­nari, si sono eser­ci­tati, riu­scen­doci in pieno, a ren­dere ridi­colo qual­siasi intento e pro­gramma di con­te­sta­zione dell’ordine attuale». Tronti pare con­sa­pe­vole in diversi punti del libro delle «dure repli­che della sto­ria» che la teo­ria ha cono­sciuto. Scrive, ad esem­pio, che «Marx aveva pre­vi­sto una pro­le­ta­riz­za­zione cre­scente. Abbiamo avuto una bor­ghe­siz­za­zione cre­scente. Non fu un errore scien­ti­fico, fu un errore poli­tico». E ancora: «al posto di una lotta cen­trale di due classi, un con­flitto dif­fuso di inte­ressi tra più attori, spesso in com­pe­ti­zione con­cor­ren­ziale tra loro». Eppure sem­bra ripro­porre una «cri­tica della demo­cra­zia poli­tica» ela­bo­rata in chiave pura­mente filo­so­fica, e sulla base di anti­chi pre­sup­po­sti, pre­scin­dendo da quella che un tempo si sarebbe detta ana­lisi con­creta della situa­zione concreta. Dif­fi­cil­mente un indiano o un cinese (ma anche un bra­si­liano o un argen­tino) con­di­vi­de­reb­bero oggi la sen­sa­zione di vivere una «sto­ria minore», pri­vi­le­gio malin­co­nico asse­gnato esclu­si­va­mente ai cit­ta­dini dell’Occidente e in par­ti­co­lare dell’Europa che ha meti­co­lo­sa­mente orga­niz­zato il suo sui­ci­dio assistito. La scelta «rossa» Ma esi­ste poi dav­vero una «demo­cra­zia reale», uni­forme e dif­fusa, che informa di sé il pia­neta, sop­pri­mendo libertà e poten­zia­lità? Ci sarebbe da dubi­tarne, di fronte all’estrema varietà di modelli poli­tici e costi­tu­zio­nali che le demo­cra­zie nella loro sto­ria in dive­nire stanno vivendo; e lo stesso Tronti elenca per il pas­sato forme e modelli di demo­cra­zia costi­tu­zio­nale che favo­ri­rono e poten­zia­rono le libertà dei sin­goli come dei gruppi sociali, dal lumi­noso modello di Wei­mar alla stessa espe­rienza del comu­ni­smo ita­liano, che riu­scì a «gestire la sto­ria costi­tu­zio­nale den­tro il con­flitto sociale, anzi pro­durre sto­ria costi­tu­zio­nale per ripro­durre con­flitto sociale». È quanto si sta sman­tel­lando nel nostro paese nell’ultimo tren­ten­nio, e in forma più pre­ci­pi­tosa sotto i colpi del governo più rea­zio­na­rio della sto­ria repub­bli­cana. E qui forse vien da notare che lo spi­rito libero potrebbe mani­fe­starsi anche nelle aule par­la­men­tari, vin­cendo anti­che disci­pline inte­riori ed este­riori. Rischia di appa­rire solo este­tiz­zante la dichia­ra­zione, più volte ripe­tuta, per cui «solo chi è stato comu­ni­sta nel nove­cento può vivere oggi fino in fondo la con­di­zione di spi­rito libero», men­tre chi non ha attra­ver­sato quella espe­rienza, «quelli che si sen­tono sull’onda della sto­ria che avanza, sono come gat­tini che di notte, abba­gliati dai fari, si lasciano inve­stire da una mac­china spietata».

1950

Sono affer­ma­zioni che sem­brano con­fer­mare l’assunto per cui la «libertà comu­ni­sta» gode di inne­ga­bile fascino nella spe­cu­la­zione filo­so­fica, quanto di vita sten­tata sotto il prin­ci­pio di realtà. Con­tro la demo­cra­zia omo­lo­gante si erge­rebbe la libertà comu­ni­sta, ma anche la libertà cri­stiana, che si creda o meno («È meglio essere cri­stiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo», come scri­veva Igna­zio di Anti­o­chia). Sulla scorta di alcune rifles­sioni di don Giu­seppe Dos­setti (che tor­ne­rebbe uti­lis­simo in realtà anche nella difesa della demo­cra­zia costi­tu­zio­nale) si afferma che la «libertà del cri­stiano è libertà dei moderni, rispetto a quella degli anti­chi, ma è, nel Moderno, libertà radi­cale, sov­ver­siva dell’ordine costi­tuito, libertà libe­rante l’umanità fin qui oppressa».Con­clu­dendo sul tema della tra­di­zione, è molto sug­ge­stiva la cita­zione di Gustav Mahler: «la tra­di­zione è custo­dire il fuoco, non ado­rare le ceneri». La scelta della tra­di­zione in realtà non dovrebbe mai essere troppo selet­tiva, né troppo inclu­siva, andrebbe eser­ci­tata con senso della sto­ria, non può essere accu­mulo indif­fe­ren­ziato o inven­zione pura e sem­plice di tra­di­zioni incon­si­stenti (e nep­pure anti­qua­riato rivo­lu­zio­na­rio). Ma oggi, di fronte all’ammasso di rovine da cui forse anche l’angelo della sto­ria con le ali impi­gliate ritrar­rebbe lo sguardo, c’è da chie­dersi quale man­tice poten­tis­simo occor­re­rebbe per rav­vi­vare quel fuoco. Oppure se non sia cosa più sag­gia pro­porsi di accen­dere un fuoco nuovo, aggiun­gendo al legno resi­duo anche legname diverso.

L'articolo Un Nove­cento dai labili confini sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/07/un-nove%c2%adcento-dai-labili-confini/feed/ 0