Michelle Bachelet – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 30 Aug 2023 10:44:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Cile. Dittatura e impunità. Conosci Victor Jara https://www.micciacorta.it/2023/08/cile-dittatura-e-impunita-conosci-victor-jara/ https://www.micciacorta.it/2023/08/cile-dittatura-e-impunita-conosci-victor-jara/#respond Wed, 30 Aug 2023 10:44:41 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26664 Catturato, torturato, finito a rivoltellate cinque giorni dopo il golpe: così spensero il canto del Cile. Dopo mezzo secolo, condannati gli assassini. Uno si è suicidato ieri per evitare il carcere, a 86 anni

L'articolo Cile. Dittatura e impunità. Conosci Victor Jara sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Catturato, torturato, finito a rivoltellate cinque giorni dopo il golpe: così spensero il canto del Cile. Dopo mezzo secolo, condannati gli assassini. Uno si è suicidato ieri per evitare il carcere, a 86 anni   La giustizia – almeno un po’ di giustizia – è alla fine arrivata, anche se con mezzo secolo di ritardo: lunedì la Corte suprema del Cile ha condannato in via definitiva a pene tra gli 8 e i 25 anni di carcere sette militari in pensione per il sequestro e l’assassinio del musicista, poeta, regista e autore teatrale Víctor Jara e del direttore del servizio penitenziario Littré Quiroga, confermando la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nel novembre del 2021. PER RAÚL JOFRÉ González, Edwin Dimter Bianchi, Nelson Haase Mazzei, Ernesto Bethke Wulf e Juan Jara Quintana, tutti con età compresa tra i 73 e gli 86 anni e tutti con una buona carriera militare alle spalle, si apriranno ora le porte della prigione, dove di certo non vivranno abbastanza a lungo da scontare la pena di 25 anni. Tra loro non ci sarà però Hernán Chacón Soto, oggi generale di brigata ma all’epoca maggiore, che ha preferito togliersi la vita. L’ha trovato morto la polizia cilena, che era andata a prenderlo per portarlo in carcere. Aveva 86 anni. Era sua la pistola Steyr 9 mm da cui sono partiti cinque dei 44 proiettili che sono stati trovati nel corpo di Víctor Jara. Otto anni dovrà invece scontare l’avvocato e colonnello Rolando Melo Silva, colpevole di aver occultato i due sequestri e i due omicidi. All’appello manca ancora l’ex tenente Pedro Barrientos, in attesa di estradizione dagli Stati Uniti, dove si era stabilito con il ritorno della democrazia e dove è appena stato privato della cittadinanza. In un processo civile la Corte federale della Florida lo aveva già riconosciuto, nel giugno del 2016, responsabile dell’assassinio del cantautore, condannandolo a versare alla sua famiglia un risarcimento di 28 milioni di dollari. LA SENTENZA della Corte suprema è l’ultimo atto di una lunghissima vicenda giudiziaria – riflessa nelle 15mila pagine delle carte processuali – che aveva mosso i primi passi già nel 1978 ma era iniziata ufficialmente solo vent’anni più tardi, dopo l’arresto di Pinochet a Londra per crimini contro l’umanità. Ed è arrivata in un momento speciale, a pochi giorni dall’11 settembre, cinquantesimo anniversario del golpe contro Salvador Allende, e dal 16 settembre, cinquantesimo anniversario del brutale assassinio di uno degli artisti simbolo del movimento sociale e musicale noto come Nuova canzone cilena (di cui fanno parte anche Isabel e Ángel Parra, Inti-Illimani, Quilapayún).
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Ne uccide più la penna MA, BENCHÉ siano passati 50 anni, il ricordo dell’autore di «Te recuerdo Amanda» e di «Plegaria a un labrador», tra molte altre canzoni indimenticabili, non potrebbe essere più vivo. Che la sua opera musicale – centrata su temi come la fraternità, la giustizia sociale, la denuncia degli abusi del potere – sia sopravvissuta al passare del tempo, era emerso del resto nella maniera più chiara durante l’estallido social del 2019, quando le sue canzoni erano state tra le più cantate della ricca colonna sonora della rivolta popolare. Mentre a mantenere vivo il suo ricordo in Italia ci aveva già pensato Daniele Sepe con il suo album «Conosci Victor Jara?», pubblicato nel 2000 proprio da il manifesto allo scopo di far conoscere ai contemporanei la storia, la poesia e la musica dell’artista cileno. Un artista che non si considerava neppure tale: «Sono un lavoratore della musica, non un artista. Il popolo e il tempo diranno se lo sono. In questo momento sono un lavoratore che si pone con una coscienza ben definita come parte della classe lavoratrice che lotta per costruire una vita migliore». Lo aveva dichiarato a Lima il 29 giugno del 1973. Non aveva quarant’anni. Gli restavano meno di due mesi di vita. MILITANTE del Partito comunista e grande sostenitore del governo di Unidad Popular del presidente Allende, Jara era stato catturato il 12 settembre, il giorno successivo al golpe, all’Universidad Técnica del Estado, dove insegnava, e da lì condotto nell’Estadio Chile, inaugurato nel 1969 e trasformato dopo il golpe in un centro di detenzione e tortura: «Siamo in cinquemila, qui, in questa piccola parte della città», avrebbe scritto nella sua ultima poesia: «Canto, che cattivo sapore hai / Quando devo cantare la paura. / Paura come quella che vivo, / Come quella che muoio, paura». IN QUELLO STADIO, che poi sarebbe stato ribattezzato nel 2003 Estadio Víctor Jara, il cantautore era stato selvaggiamente torturato dai militari, che avevano infierito in particolare sul suo viso e sulle sue mani, secondo quanto avrebbe riferito il giudice Miguel Vázquez durante il processo di prima istanza nel luglio del 2018. Che gli siano state tagliate le mani, però, è solo una leggenda, nata da un articolo dello scrittore Miguel Cabezas pubblicato il 2 gennaio del 1974 sul giornale argentino La Opinión e ripetutamente smentita dalla moglie Joan Jara, come ricostruisce lo storico Mario Amorós nella sua celebre biografia dedicata al cantautore, «La vida es eterna».
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
In America Latina a essere in crisi è la democrazia Tra una tortura e l’altra, senza cibo e acqua, con alcune costole rotte e il viso sfigurato, Jara era riuscito anche a inviare un messaggio alla moglie e alle figlie attraverso un compagno che era stato liberato: «Di’ loro che sto bene. Non parlare di quello che mi stanno facendo. Non voglio che lo sappiano». Il 15 settembre, mentre i prigionieri stavano per essere trasferiti all’Estadio Nacional – lo stesso in cui il 21 novembre il Cile si sarebbe qualificato per i mondiali di calcio giocando da solo senza avversari (a causa del boicottaggio dell’Unione Sovietica) – lo portarono di nuovo nei sotterranei, sparandogli contro 44 proiettili. IL SUO CORPO venne ritrovato in un terreno abbandonato vicino al cimitero di Santiago il 16 settembre, insieme ad altri prigionieri politici tra cui Littré Quiroga, e condotto al Servizio medico legale, dove un giovane funzionario, che aveva riconosciuto il cantautore, e temeva potesse essere sepolto in una fossa comune, aveva avvertito la moglie. Grazie a lui, Joan Jara aveva potuto seppellirlo in una nicchia del cimitero generale di Santiago. Nel dicembre del 2009, dopo 36 anni, i suoi resti sarebbero stati esumati per ordine della giustizia cilena e sepolti in una cerimonia ufficiale alla presenza dell’allora presidente Michelle Bachelet. E di 12mila persone. * Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto    
ph by Rec79, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

L'articolo Cile. Dittatura e impunità. Conosci Victor Jara sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2023/08/cile-dittatura-e-impunita-conosci-victor-jara/feed/ 0
Dopo la strage a Bogotà i reclusi protestano via Whatsapp: «Abbiamo diritto a una vita degna» https://www.micciacorta.it/2020/04/dopo-la-strage-a-bogota-i-reclusi-protestano-via-whatsapp-abbiamo-diritto-a-una-vita-degna/ https://www.micciacorta.it/2020/04/dopo-la-strage-a-bogota-i-reclusi-protestano-via-whatsapp-abbiamo-diritto-a-una-vita-degna/#respond Sat, 11 Apr 2020 07:53:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26064 Le richieste dei detenuti dopo la strage del 21 marzo. Nelle 132 prigioni del paese 120mila prigionieri in spazi pensati per 80mila. E quelli politici iniziano a sparire

L'articolo Dopo la strage a Bogotà i reclusi protestano via Whatsapp: «Abbiamo diritto a una vita degna» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Lo scorso 21 marzo, una delle pagine più sanguinose della storia carceraria del paese: la rivolta dei carcerati colombiani, che chiedono più sicurezza contro il virus pandemico e il ripristino delle visite dei parenti, viene sedata con inaudita violenza. Ventitré i detenuti uccisi, 80 i feriti e la prigione La Modelo di Bogotà diventata teatro di guerriglia e morte. Mercoledì scorso, con una giornata di protesta pacifica organizzata via Whatsapp, i detenuti di tutti gli istituti penitenziari colombiani hanno provato a far arrivare al governo richieste precise, denunciando la situazione di forte precarietà: «Abbiamo diritto alla vita, alla salute, alla dignità – hanno detto attraverso un video – e lo Stato ne è responsabile. Abbiamo bisogno di acqua potabile, cibo sano, disinfettanti, sapone, mascherine. Parenti e avvocati non possono più venire a trovarci, mentre le guardie entrano ed escono senza alcun controllo sanitario. No alle pallottole, no alla pandemia». Il detenuto legge il documento davanti a una platea di un centinaio di prigionieri seduti per terra in uno dei cortili interni del carcere bogotano. Alle loro spalle si intravvedono lenzuola colorate e indumenti stesi dalle finestre, pezzi di vita quotidiana di una delle prigioni più violente del paese, afflitta da un endemico problema di sovraffollamento che stringe oltre 5mila carcerati negli spazi pensati per 2.600. La rivolta nelle carceri colombiane non è legata solo alla pandemia in corso – che in Colombia ha fatto registrare fino a oggi circa 2.200 contagiati, di cui un migliaio solo a Bogotà, e 79 decessi – ma si intreccia con problematiche pregresse. In una nota dell’Alta Commissaria per i diritti umani Onu, Michelle Bachelet, emessa dopo quella che viene definita «la strage del 21 marzo», si denuncia come nelle 132 carceri in Colombia il sovraffollamento sia quantificato oltre il 50%: «Sono 120mila persone costrette in carceri pensate per 80mila e che necessitano misure di sicurezza contro la diffusione del Covid-19». Il governo di Ivan Duque – criticato duramente sia da parte di organismi per i diritti umani, che da deputati dell’opposizione – ha annunciato un decreto che preveda a breve la liberazione di 10mila carcerate e carcerati tra anziani, malati o che abbiano già scontato i due terzi della pena. E mentre il Movimento carcerario denuncia le ripercussioni da parte delle guardie verso i detenuti – «Ci privano dell’acqua e della libertà», dicono – a preoccupare è la serie di trasferimenti di prigionieri politici verso il carcere di massima sicurezza di Ibaguè. L’organizzazione per i diritti umani Corporación Solidaridad Jurídica è allarmata: «Denunciamo il trattamento repressivo e militare verso i prigionieri politici – ci spiega il suo presidente John Leon – La notte del 24 marzo sono stati prelevati dal Patio 4 de La Modelo [la sezione del carcere dove attendono di essere giudicati gli ex guerriglieri. Nel Patio 5 sono detenuti invece ex paramilitari, ndr], quattro ex guerriglieri senza che potessero prendere i propri oggetti personali, né comunicare con gli avvocati. Sono stati portati nel carcere di massima sicurezza di Ibaguè, le motivazioni sembrano essere di natura disciplinare. Uno di loro, Josè Parra Bernal, era malato e protetto dalla Commissione Internazionale per i diritti umani, ci giunge voce che sia già deceduto». La situazione è complicata dal conflitto giurisdizionale con la Jep (Giurisdizione speciale per la Pace, l’organismo preposto alla valutazione dei casi nell’ambito del processo di pace in corso in Colombia dal 2016), che di fatto blocca le amnistie – che potrebbero essere previste dal decreto governativo – per gli ex guerriglieri. «Denunciamo la possibile sparizione forzata di queste persone», conclude Leon. Anche Michelle Bachelet ha scritto una preoccupata nota in proposito: «Ora più che mai crediamo che il governo colombiano debba prendere in considerazione di liberare prigionieri politici in carcere senza sufficienti motivazioni». Apprensione anche per le tre giovani studentesse da tre anni incarcerate per l’attentato del 2017 al Centro commerciale andino di Bogotà, simbolo di quello che viene definito da movimenti universitari e organizzazioni sociali, un «montaggio giudiziale». Anche di Lizeth Rodríguez, Lina Jiménez ed Alejandra Mendez non si sa più nulla. * Fonte: Francesca Caprini,  il manifesto

L'articolo Dopo la strage a Bogotà i reclusi protestano via Whatsapp: «Abbiamo diritto a una vita degna» sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2020/04/dopo-la-strage-a-bogota-i-reclusi-protestano-via-whatsapp-abbiamo-diritto-a-una-vita-degna/feed/ 0