nazismo – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 01 Apr 2023 07:18:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Governo Meloni. Ignoranza e revisionismo di Stato, la minaccia alla verità storica https://www.micciacorta.it/2023/04/governo-meloni-ignoranza-e-revisionismo-di-stato-la-minaccia-alla-verita-storica/ https://www.micciacorta.it/2023/04/governo-meloni-ignoranza-e-revisionismo-di-stato-la-minaccia-alla-verita-storica/#respond Sat, 01 Apr 2023 07:18:27 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26613 Una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio) ha trasformato una banda armata in una banda musicale

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Una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio) ha trasformato una banda armata in una banda musicale   Ha raccontato Franz Bertagnoli, uno dei componenti del battaglione di polizia Bozen aggregato alle SS, colpito dai fascisti a Roma a via Rasella: «Pretendevano che noi sfilassimo per le strade sempre cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori, a urlare in continuazione un cadenzato chicchirichì». Cantavano anche sfilando in via Rasella, armati fino ai denti, tanto che – come racconta un altro di loro, Konrad Sigmund – «avevamo tutti cinque o sei bombe a mano attaccate alla cintola , e ne esplosero parecchie, colpite dalle schegge, altre per il calore dell’incendio che si sviluppò». Se fossero stati meno armati ne sarebbero morti di meno. Ma ci vuole poco a trasformare una banda armata in una banda musicale, come ha fatto adesso una delle massime autorità della Repubblica (non la prima, nata dalla Resistenza, ma la seconda o la terza, per la quale la Resistenza è un intralcio). Ai bambini del quartiere, quei soldati che marciavano cantando (riluttanti) piacevano assai, e gli andavano appresso. Nella loro memoria infantile questa immagine si trasforma in quella di una banda di innocui musicisti («l’armi che ciavevano quelli erano la tromba e il tamburo», mi ha raccontato uno di loro, figlio di un ucciso alle Ardeatine), e da lì si diffonde nel senso comune antipartigiano e anti-antifascista, intrecciandosi con tutta la mitologia su via Rasella e le Ardeatine – i poliziotti-SS nazisti «erano vecchi», i partigiani «dovevano presentarsi», «li hanno uccisi solo perché erano italiani», «c’era la regola dei dieci italiani per un tedesco», «la rappresaglia è autorizzata dal diritto internazionale» e così via. Basta informarsi per sapere che queste cose non sono vere. Per fare un esempio: ci sentiamo ripetere in tutte le salse che «la rappresaglia era autorizzata del diritto internazionale». Però, (a parte il fatto che si trattasse di regole già allora anacronistiche), proprio perché era autorizzata la rappresaglia era anche regolata: per essere legittima doveva rispettare certe modalità, proporzioni, selezione delle vittime. Nel 1949, Il tribunale militare italiano del processo Kappler dichiarò che nessua di queste norme era stata rispettata e pertanto non si doveva parlare di rappresaglia ma di «omicidio continuato». Aggiungiamo: la rappresaglia non era automatica, e che non esisteva nessuna «regola dei dieci italiani per un tedesco»: a Civitella in Val di Chiama ne ammazzarono 156 per 3, a Boves in Piemonte 19 per uno; e anche a Roma l’ordine di Hitler era di 50 a 1. Ma si continua impunemente a parlare di rappresaglia e dieci-a-uno, inquinando il senso comune e legittimando arbitrariamente il crimine nazifascista. Ora, finché queste storie circolano come folklore, sono un problema ma ci si può lavorare, come su tutte le credenze popolari. Quando diventano verità di Stato proclamate dal presidente del Consiglio e dal presidente del Senato (e propalate su stampa e TV da “fior” di giornalisti che evidentemente non sanno fare il loro mestiere), queste favole diventano una minaccia non solo alla verità storica ma al processo democratico stesso: come si fa a discutere civilmente con chi è impermeabile ai fatti perché ha un bisogno disperato di credere a queste cose (o di raccontarle pure sapendo che non sono vere) perché se no dovrebbe interrogarsi sulle fondamenta stesse della sua identità politica? Ma poi, quando un’altra voce autorevole esprime solidarietà a «donne e uomini» uccisi alle Ardeatine senza sapere che gli uccisi dentro quelle cave erano tutti uomini (una donna fu uccisa quasi accidentalmente, ma fuori), allora la domanda è un’altra: che classe dirigente abbiamo? Perché se dall’alto dei loro scranni mediatici e istituzionali politici e “fior” di giornalisti parlano su queste cose a vanvera senza sapere di che parlano e senza nessuno che li aiuti a informarsi (ma non hanno fior di ben retribuite staff?), che speranza abbiamo che non agiscano con la stessa incompetenza, disonestà e disinformazione quando parlano di Pnrr o altre cose che ci riguardano tutti i giorni? In altre parole: in che mani siamo?! * Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto   ph by Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-10 / Koch / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

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Strage delle Fosse Ardeatine, il revisionismo di Giorgia Meloni https://www.micciacorta.it/2023/03/strage-delle-fosse-ardeatine-il-revisionismo-di-giorgia-meloni/ https://www.micciacorta.it/2023/03/strage-delle-fosse-ardeatine-il-revisionismo-di-giorgia-meloni/#respond Sat, 25 Mar 2023 08:33:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26610 Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944, ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo

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Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944, ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo. Blumstein non è un caso isolato. Gli stranieri uccisi alle Fosse Ardeatine sono una dozzina. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni (così vuole essere chiamata) vanta giustamente la sua origine alla Garbatella, quartiere popolare di Roma. La Garbatella è direttamente contigua alle Fosse Ardeatine. Chi è cresciuto lì non può non aver sentito parlare di che cosa è successo. Le sue sorprendenti parole non sono frutto di ignoranza ma di inconfessata e tracotante vergogna. Non fu ucciso perché era italiano neanche il generale Simone Simoni, cacciato da Mussolini perché si era permesso di dubitare dell’inevitabile vittoria delle armate nazifasciste. Non fu ucciso perché era italiano Celestino Frasca, colpevole soltanto di essersi trovato vicino via Rasella dopo l’azione partigiana. Non fu ucciso perché era italiano Bruno Bucci, colpevole di avere nascosto sotto il letto una copia di un giornale antifascista. Non è stato ucciso perché era italiano Pilo Albertelli, professore di filosofia, colpevole di avere combattuto anche con le armi contro i tedeschi occupanti e i loro servitori fascisti. Come scrisse a suo tempo Vittorio Foa, sono stati uccisi per quello che erano, per dove si trovavano, per quello che avevano fatto: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano; si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano; si uccidevano uomini che non c’entravano per niente solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine». In tribunale, Herbert Kappler, che aveva diretto il massacro, spiegò che secondo lui includere gli ebrei era stata una buona idea perché «se non avessi messo gli ebrei avrei dovuto aggiungere altre persone la cui colpevolezza era meno chiara»: in altre parole, gli ebrei erano colpevoli per definizione; gli altri (italiani o meno) no. Infatti il comunicato tedesco affisso dopo la strage spiegava perché li avevano uccisi: non perché erano italiani ma perché ai loro occhi erano tutti «comunisti badogliani». Quando l’italiano Guido Buffarini Guidi, ministro degli interni di quella che si era chiamata Repubblica sociale italiana, consegna ai nazisti la lista di una cinquantina di italiani da uccidere, non lo fa perché erano italiani. Lo fa precisamente perché, agli occhi del suo regime, erano tutto il contrario: nemici della patria, letteralmente «anti-italiani». Perché gli italiani non erano, non sono mai stati, una cosa sola. In un certo senso, questo tema degli «italiani vittime della barbarie tedesca», che risuona nei commenti odierni alla malaugurata uscita di Giorgia Meloni, rinvia a una narrazione della Resistenza, a lungo anche da parte antifascista, che ha cancellato le divisioni fra gli italiani (tanto che quando Claudio Pavone ricominciò a parlare di guerra civile molti furono come minimo disorientati). Raccontare la Resistenza come sollevamento unitario di tutto il popolo italiano contro l’invasione nazista, o l’invasione nazista come crimine contro gli italiani in quanto tali significa assumere il popolo, o adesso «la nazione», come un tutto unitario, indistinto. La guerra civile significa invece che «il popolo», «il paese», «la nazione» sono entità conflittuali e divise – e continuano ad esserlo. Quella di Giorgia Meloni è una reazione istintiva che maschera una sorta di afasia, ma che anche evoca l’ invereconda e ipocrita par condicio dell’anti-antifascismo contemporaneo, e ribadisce quel senso di vittimismo che accompagna tante narrazioni del nazionalismo italiano che si adopera a resuscitare (non a caso applica pedissequamente alle Fosse Ardeatine il mantra di destra sulle foibe – che come sappiamo non funziona davvero neanche per quel crimine lì). Ma le sue parole sono comunque preziose: ci aiutano a capire che le Fosse Ardeatine sono ancora una memoria insopportabile e vergognosa per gli eredi dei carnefici. Per generazioni, hanno sparso menzogne cercando di infangare i partigiani e giustificare i nazisti; adesso Meloni prova maldestramente a disinnescarla in nome dello ius sanguinis della nazione. Il giornale clandestino trovato sotto il letto dagli assassini di Bruno Bucci si chiamava “Italia Libera”. Perché è vero, di Italia si trattava; ma l’aggettivo non è meno importante del nome – di che Italia parliamo? È vero, i partigiani e gli antifascisti erano italiani; i partigiani si definivano «patrioti» ben prima che di questa parola si impadronissero i fratelli d’Italia. Ma l’Italia che volevano, la patria a cui appartenevano, era un’altra. * Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto   ph by Formkurve92 (Diskussion) 23:54, 21. Jul. 2017 (CEST), CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

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La memoria dei vagoni piombati https://www.micciacorta.it/2022/01/la-memoria-dei-vagoni-piombati/ https://www.micciacorta.it/2022/01/la-memoria-dei-vagoni-piombati/#respond Sun, 23 Jan 2022 08:31:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26528 Occupata dai nazisti nel settembre 1943, iniziò a Milano una «lunga notte»: la caccia ad ebrei e ad oppositori politici con l’aiuto dei fascisti, il Binario 21 per Auschwitz e i «centri» di morte e tortura, l’hotel Regina, San Vittore e Villa Triste

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Dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano, dal dicembre 1943, cominciarono a partire i treni carichi di ebrei e di oppositori politici verso Auschwitz-Birkenau e altri campi di sterminio (Mauthausen, Ravensbrück, Flossenbürg, Fossoli e Bolzano). I vagoni piombati, con il loro carico umano, venivano agganciati due piani sotto, nei sotterranei dove correva una rete di binari adibita allo smistamento del servizio postale. I convogli, nascosti alla vista dei normali viaggiatori, si formavano nei cunicoli bui, spingendo a calci e bastonate i deportati sui vagoni, poi spostati in superficie tramite elevatori. Furono oltre 1500 le persone caricate a forza dai fascisti repubblichini al servizio dei nazisti. Gran parte di loro non tornò più. IN ORIGINE il Binario 21, prima dell’inversione numerica, era il binario 1, appositamente riservato all’accoglienza dei Savoia a Milano. Fu anche allestita un’ampia ed elegante sala “Regia”, decorata durante il ventennio con una svastica ancora oggi visibile tra i mosaici. Dal 27 gennaio 2013 l’originario Binario 21 è parte del Memoriale della Shoah. La lunga notte di Milano iniziò .con l’ingresso, il 10 settembre 1943, dei primi granatieri della divisione corazzata delle Waffen-SS Leibstandarte Adolf Hitler. UN CORPO D’ÉLITE che solo pochi mesi prima, a Geigova, nella ritirata di Russia, si era macchiato dello sterminio di quattro mila prigionieri russi per rappresaglia, e nel volgere di pochi giorni, dopo aver varcato il confine italiano, compiuto il massacro di Boves in provincia di Cuneo, 25 le vittime inermi. Tra il 15 e il 23 settembre truciderà per odio razziale, oltre che per rapinare i loro beni, 54 ebrei sfollati sul lago Maggiore, tra Stresa, Baveno, Meina e Arona. La strage del Verbano fu il primo eccidio di ebrei compiuto in Italia. GIÀ A PARTIRE dal 13 settembre a Milano entrò in funzione la struttura delle SS, guidata dal capitano Theodore Saeweche, direttamente dipendente dal colonnello Rauff, capo del comando interregionale della «Polizia e servizio di sicurezza», la cosiddetta Sipo-Sd, che comprendeva Piemonte, Liguria e Lombardia. Walter Rauff era stato l’inventore dei “camion della morte” in Polonia e Russia che anticiparono le camere a gas, 90.000 le vittime. La sede del comando interregionale e milanese fu installata in pieno centro, a pochi passi da piazza Duomo, all’Hotel Regina. Oggi l’albergo non esiste più. Al suo posto gli uffici di alcune società finanziarie. Il carcere di San Vittore passò sotto la gestione delle SS. Il penitenziario si riempì rapidamente. Due dei suoi sei bracci, il IV, il V, furono destinati ai detenuti politici, il VI agli ebrei. A dirigerlo inizialmente il maresciallo Helmuth Klemm, poi il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto «la belva», sempre con il frustino e un’inseparabile cane lupo. Tra il settembre 1943 e il 12 aprile 1945 su un totale di 18.828 arrestati, 4.982 furono deportati in Germania. A ricordare orrori e sofferenze una targa murata sull’ingresso di via Filangieri 2 posta il 25 aprile 1965 dall’allora sindaco Pietro Bucalossi. Ma non erano solo le SS ad arrestare. Almeno nella metà dei casi, come risultò dagli stessi registri, furono le organizzazioni fasciste e le molte polizie politiche a consegnare i prigionieri ai tedeschi, tra loro la Legione Muti, la X Mas, le Brigate nere e la banda Kock. VIA ROVELLO E VIA TIVOLI. Almeno otto furono i corpi investigativi che operarono indipendentemente l’uno dall’altro con proprie carceri. In via Rovello 2, attuale sede del Piccolo Teatro, la Legione Muti istituì la propria caserma comando. A dirigerla Francesco Colombo, un pregiudicato per reati comuni nominato vicequestore dal ministro degli Interni. In via Tivoli si trovava invece la caserma “Salinas”. A comandarla il capitano Pasquale Cardella, lo stesso che guidò il plotone d’esecuzione in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, per fucilare 15 patrioti. Al posto dell’edificio in via Tivoli si trova ora solo un giardino, davanti al teatro dedicato a Giorgio Strehler. TUTTA MILANO ERA disseminata di comandi e caserme. Il «Servizio sicurezza» delle SS si trovava in corso Littorio 10. Divenne poi corso Matteotti. L’ufficio stampa e propaganda della X Mas, era alloggiato all’albergo Nord, accanto al comando della Wermacht, in piazza Fiume, ribattezzata dopo la Liberazione piazza della Repubblica. MA È LONTANO dal centro che bisognava andare per rintracciare il covo della banda Koch, a “Villa Triste”, così soprannominata per le torture che vi si infliggevano, in via Paolo Uccello, dalle parti di San Siro. Una villa storica. Nel giugno del 1944 vi si installò Pietro Koch, proveniente da Roma, dove aveva gestito un «Reparto speciale della polizia repubblicana», ma soprattutto aveva fornito un elenco di nomi ai nazisti per la strage alle Fosse Ardeatine. Nei sotterranei furono allestite cinque celle. In qualche periodo vi furono stipate fino a un centinaio di persone. Le urla dei seviziati si sentivano fin dalla strada. Alla fine, il 24 settembre 1944, quasi solo per ragioni di lotta intestina fra le diverse bande fasciste, “Villa Triste” fu chiusa. La famiglia Fossati, proprietaria dell’immobile, decise di non abitarla più e lasciarla in eredità ad un istituto missionario, che a sua volta lo donò a una congregazione di suore. * Fonte/autore: Saverio Ferrari, il manifesto   ph by Camelia.boban, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Resistenza. Sinti e i Rom nella brigata dei «leoni» di Breda Solini https://www.micciacorta.it/2021/04/resistenza-sinti-e-i-rom-nella-brigata-dei-leoni-di-breda-solini/ https://www.micciacorta.it/2021/04/resistenza-sinti-e-i-rom-nella-brigata-dei-leoni-di-breda-solini/#respond Fri, 23 Apr 2021 08:50:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26395 Resistenza . La storia dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l'Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti

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Perseguitati tra i perseguitati, dimenticati tra i dimenticati. Le popolazioni romanì (rom, sinti, manush, kalé) hanno due nomi per indicare quello che è accaduto loro negli anni ’40 del Novecento: «Porrajmos» e «Samudaripen», ovvero «grande divoramento» e «tutti uccisi». Era l’11 settembre del 1940 quando tutte le prefetture del Regno d’Italia ricevettero una circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini: «Rastrellamento di tutti gli zingari», era l’ordine da eseguire ovunque e nel minor tempo possibile. «Comportamenti antinazionali» e «implicazioni in gravi reati» erano le accuse. Solo qualche mese dopo, nell’aprile del 1941, il ministero dell’Interno diede qualche indicazione sul loro internamento e campi di prigionia furono costruiti ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna, dalle isole Tremiti alla Toscana e all’Emilia Romagna. Era l’ultimo atto della politica fascista sulle comunità rom e sinte: prima, tra il 1922 e il 1938, l’ordine era quello di respingere alle frontiere i nomadi stranieri. Poi, tra il 1938 e il 1940, si cominciò con la pulizia etnica nelle regioni di confine e i trasferimenti coatti in Sardegna. Sulla rivista «La difesa della razza» fioccavano articoli sulla «pericolosità sociale degli zingari». Con la circolare di Bocchini del 1940, la guerra alla «piaga zingara» arrivò ai rastrellamenti e alla reclusione. A liberazione avvenuta, i sopravvissuti scopriranno di aver perso tutti i propri averi. Nessuno si preoccuperà mai di renderglieli o di rimborsarli in qualche modo. Dopo l’8 settembre del 1943, ad ogni modo, alcuni riuscirono a scappare dai campi dove erano reclusi e si unirono alla Resistenza. È la storia, ad esempio, dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo «Gnugo» De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani. La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui avevano disarmato una pattuglia del Reich. «Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro «Strada, Patria Sinta» (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico. Questo lo sapeva anche un fascista di Breda Solini che durante la Liberazione si era barricato in casa con un arsenale di armi, minacciando di fare fuoco a chiunque si avvicinasse o di uccidersi a sua volta facendo saltare tutta la casa: “io mi arrendo solo ai Leoni di Breda Solini”. Così andarono i miei, ai quali si arrese, ma venne poi preso in consegna lo stesso da altri partigiani, che lo rinchiusero in una cantina e lo picchiarono». Fatti come questi non è facile sentirli raccontare: la memoria del Porrajmos e della resistenza dei romanì è sempre stata un filo sottile, quasi invisibile. In teoria nel 2015 il parlamento europeo ha stabilito che il 2 agosto è la Giornata dedicata alle vittime del genocidio rom, ma in pratica la ricorrenza viene celebrata a singhiozzo dai vari paesi. In Italia la commemorazione è il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Così è pure in quasi tutti gli altri paesi europei, tranne la Repubblica Ceca (che ha quattro date: il 7 marzo, il 13 maggio, il 2 e il 21 agosto) e la Lettonia (che ne ha tre: il 27 gennaio, l’8 aprile e l’8 maggio). Nel 2018, l’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) diretto da Luigi Manconi ha organizzato ad Agnone, in Molise, la prima commemorazione italiana della rivolta dello Zigeunerlager di Auschwitz, cominciata il 16 maggio del 1944, quando quasi quattromila tra rom, sinti e caminanti si ribellarono ai soldati tedeschi arrivati per sterminarli. La loro resistenza durò fino ad agosto, quando le SS riuscirono a prevalere e massacrarono tutti quelli che avevano osato ribellarsi. In totale, si stima, il «grande divoramento» ha lasciato una voragine da 500.000 morti in tutta l’Europa. L’inno rom «Gelem, Gelem» ricorda come sono andate le cose: «Ho percorso lunghe strade, ho incontrato rom felici. Una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi». * Fonte: Mario Di Vito, il manifesto

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Il Virus della memoria. Labo Giorgio, senza fissa dimora  https://www.micciacorta.it/2020/03/il-virus-della-memoria-labo-giorgio-senza-fissa-dimora/ https://www.micciacorta.it/2020/03/il-virus-della-memoria-labo-giorgio-senza-fissa-dimora/#respond Wed, 18 Mar 2020 16:00:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26028 Ci dicono che muoiono soprattutto gli anziani. Muoiono i ragazzini degli anni ’40, quelli che hanno intravisto la guerra mondiale e il nazifascismo

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Il nome di uno studente che un paio di mesi dopo avrebbe compiuto 25 anni sta scritto nel manifesto che gli attacchini del comune incollano sui muri romani all’inizio di marzo del 1944. Il padre Mario era sceso da Genova il primo del mese di marzo alla ricerca del figlio. Certamente era stato arrestato. Fa tappa prima a Pisa, poi Firenze, poi raggiunge Giulio Carlo Argan, il professore di Giorgio, che lo ospita nella sua casa a Roma. Dà mandato a un avvocato per avere informazioni, prova anche col Vaticano. In questura non sanno niente e nemmeno al Viminale o a Regina Coeli. Poi il 9 marzo appare il nome del figlio su quel manifesto. Fucilato insieme ad altri nove. «Tento di credere a un’omonimia, ma non ci riesco. Manca l’accento, ma è lui, è lui» scrive. Non Labo, ma Labò. Con Argan si reca a Via Tasso, la palazzina dove i tedeschi torturano i partigiani. «La sentinella avvolta in nastri di cartucce, e con le bombe a mano negli stivali, mi dice che non c’è». Passano dal cimitero, ma «il direttore è uscito e non tornerà» gli dicono. Così se ne tornano a casa col filobus 129. Il giorno dopo riesce a leggere un «verbalino», uno dei tanti che gli operai del comune stilavano per poter, alla fine della guerra, far riconoscere le tante salme di sconosciuti che erano stati fucilati dai nazifascisti. Mario si imbatte «in un cappotto scuro spigato, pull-over verde pisello e scarpe con la suola di gomma». Forse è la descrizione di suo figlio, ma non torna un particolare: baffetti castani. «Aveva più volte tentato di farseli crescere, ma si era fermato scontento». Passa ancora un giorno e torna a Via Tasso. Nella stanza «c’è un borghese ad una scrivania, e vicino a lui un soldato» e poi un ufficiale tedesco e un «gobbetto» che viene fatto uscire. «L’interprete mi dice “Un bel figlio avete tirato su! Volete sapere quel che faceva? Era sab-bo-ta-to-re”». Per quattro mesi aveva fabbricato bombe insieme a Giulio Cortini e a Gianfranco Mattei. Uno diventerà uno dei maggiori fisici italiani. L’altro è un chimico, assistente di Giulio Natta che nel ’63 gli dedicherà il premio Nobel. Anche Giorgio Labò è un promettente architetto. In quei giorni di guerra continuava a parlare di architettura. «Si parlava di urbanistica» scrive Argan e di «città da ricostruire», luoghi nei quali «l’umanità disperata si riconosca guarita e felice». Intanto l’interprete tira fuori da un cassetto un pacco di fotografie e un sacchetto. Consegna tutto all’ufficiale tedesco. Una cravatta, due penne, gli occhiali, due tessere con la fotografia. Prima di morire era riuscito a farsi crescere i baffi. Questi fatti accadevano in un mese di marzo in tempo di guerra. Sono passati tre quarti di secolo e ci troviamo a vivere un altro conflitto. Diverso, meno cruento forse, ma spiazzante. Giorgio Labò fabbrica bombe in un laboratorio accanto al Tevere, in Via Giulia 23/a, ma quando parla col suo professore pensa alle città da ricostruire, «al dovere morale della felicità umana», compito anche dell’architetto. Quando ci discorrevi «si sarebbe detto che passasse le sue giornate in biblioteca, invece faceva le bombe per i G.a.p.». E io penso alle dichiarazioni spiazzanti dei medici che passano giorni e notti a salvare le vite di chi è stato infettato dal parassita. Ci dicono che muoiono soprattutto gli anziani. Muoiono i ragazzini degli anni ’40, quelli che hanno intravisto la guerra mondiale e il nazifascismo. Quelli che hanno vissuto la ricostruzione e la nascita della democrazia, le battaglie per i diritti negli anni ’60 e ’70, quello che è successo subito dopo. Disgrazia nella disgrazia in queste settimane di Covid-19 è la perdita di chi può dare spessore a questo tempo schiacciato sul presente. Compito dei medici e degli infermieri è curare e salvare le vite. Compito di tutti è responsabilizzarsi, restare a casa e arginare il contagio. Ma in questo spaesamento generale cerchiamo di salvare anche la memoria. * Fonte: Ascanio Celestini, il manifesto

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Mattarella, le foibe, le amnesie e le falsificazioni della Storia https://www.micciacorta.it/2020/02/mattarella-le-foibe-le-amnesie-e-le-falsificazioni-della-storia/ https://www.micciacorta.it/2020/02/mattarella-le-foibe-le-amnesie-e-le-falsificazioni-della-storia/#respond Wed, 12 Feb 2020 09:20:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25967 Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe

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Come cittadino, come storico del nazismo e soprattutto come triestino sono rimasto sconcertato, amareggiato e disgustato dalle dichiarazioni del Presidente Mattarella sulla questione delle foibe. Avevo otto anni quando i partigiani di Tito, il 1 maggio del 1945, proprio sotto casa mia fermarono la loro avanzata per non esporsi al tiro della guarnigione tedesca, asseragliata nel Castello di San Giusto. Erano scesi dall’altipiano del Carso in due colonne, una si era diretta all’edificio del Tribunale dove i tedeschi avevano installato il Comando e l’altra al Castello di San Giusto, dove il vescovo Santin svolgeva il ruolo di mediatore tirando le trattative per le lunghe in modo da dare il tempo ai neozelandesi, avanguardia dell’esercito alleato, di arrivare ed evitare in tal modo che la resa venisse consegnata nelle sole mani dell’esercito di liberazione yugoslavo. Così la guarnigione tedesca si arrese il 2 maggio, presenti anche gli anglo-americani, giunti a marce forzate dalla litoranea. Ma sul Carso, a vista d’occhio dalla città, si combatteva ancora. La cosiddetta “battaglia di Opicina” è costata molti morti, in gran maggioranza tedeschi, e si sarebbe conclusa solo il 3 maggio. Secondo certe ricostruzioni (Leone Veronese, 1945. La battaglia di Opicina, Luglio Editore, 2015) i primi a essere gettati nelle cavità carsiche furono soldati dell’esercito tedesco, fucilati dopo la resa. La versione secondo cui gli infoibati sarebbero stati in maggioranza cittadini inermi che avevano il solo torto di essere italiani è falsa. La grande maggioranza di quelli che poi furono gettati nelle foibe erano membri dell’apparato repressivo nazifascista, in mezzo ci saranno state anche persone che non avevano commesso particolari crudeltà ma c’erano anche quelli che avevano torturato o scortato i treni che portavano ebrei e combattenti antifascisti nei campi di sterminio. Così come non regge la versione che vorrebbe la città di Trieste sottoposta a una dittatura sanguinaria durante i 40 giorni dell’occupazione yugoslava. Se non altro per la presenza delle truppe anglo-americane. Peggiori delle false ricostruzioni sono le amnesie. Infatti si dimentica (o si ignora) che l’apparato repressivo nazifascista a Trieste non era di ordinaria amministrazione, aveva un suo carattere di eccezionalità perché ne facevano parte personaggi che hanno avuto un ruolo centrale nella politica di sterminio di Hitler. Christian Wirth era uno di questi. Si legga il curriculum terrificante di questo individuo su Wikipedia: responsabile del programma di eutanasia, prelevava le vittime dalle prigioni, dagli ospedali psichiatrici, tra gli zingari. Comandante del lager di Belzec, riorganizzatore di quello di Treblinka, di Sobibor, fu il primo a usare il monossido di carbonio per gasare i deportati. Arriva a Trieste nel 1943. Un anno dopo i partigiani lo individuano e lo uccidono (non è vero, come scrive Wikipedia, che fu ucciso in combattimento presso Fiume, il suo certificato di morte è apparso in rete non più tardi del 2017, dice: von Banditen erschossen, morto in un agguato organizzato dai partigiani mentre passava su una macchina scoperta, nei pressi di Erpelle (Hrpelje) a pochi chilometri da Trieste). Ma ce n’erano altri di personaggi dalla pasta criminale analoga a Wirth, che si erano fatti i galloni nei peggiori Lager del Reich e venivano a Trieste dove gente importante li accoglieva a braccia aperte e dove trovavano anche il modo di non perdere certe abitudini, visto che a portata di mano avevano la Risiera di San Sabba, un forno crematorio che la mia città ha avuto la vergogna di ospitare. Proprio a Opicina la salma di Wirth ricevette gli onori militari. Trieste e zone circostanti, assurte a provincia del Reich, erano diventate un ricettacolo di criminali di guerra, l’angolo di un continente dove la risacca della storia aveva deposto i suoi rifiuti più immondi. I partigiani di Tito hanno liberato l’umanità da alcuni di questi individui, hanno spento quel forno crematorio. Dovremmo essere loro grati per questo, pensando quale tributo di sangue è stato da essi versato per compiere quella missione. Ora però vengono ricordati come un’orda di barbari assetati di sangue, non di sangue nemico, no, di sangue di povera gente inerme che non aveva alzato un dito contro di loro. Ciò che accadde in quelle tragiche giornate di aprile/maggio 1945 impedì alla memoria storica di mettersi subito al lavoro. Quello che sarebbe stato l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia si costituì senza i comunisti. Enzo Collotti diede un contributo fondamentale all’impostazione della ricerca e l’Istituto divenne uno dei luoghi dove cominciai a capire in che razza d’inferno ero cresciuto. Il primo periodo d’attività fu dedicato a “mettere in sicurezza”, come si dice in termine aziendale, la storia dei movimenti di liberazione nella regione, storia tormentata e perciò fonte di drammatiche divisioni (un esempio per tutti l’eccidio di Porzus, ripreso anche nell’ampia pubblicazione, Atlante storico della lotta di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Una resistenza di confine 1943-1945, 2005). Tra tutti gli Istituti della Resistenza italiani quello di Trieste fu l’unico dove la presenza comunista o fu assente o svolse un ruolo decisamente secondario. Del resto il comunismo è finito ormai da 30 anni e i suoi seguaci di allora sono in genere i più accaniti nell’infierire sul suo cadavere, ma a leggere certe vaneggianti uscite di quotidiani come “Il Giornale” o “Libero Quotidiano” nel Giorno della Memoria  sembra che orde di “trinariciuti” riescano ancora a dettare legge in Italia. Negli Anni ’90 la dissoluzione dell’ex Yugoslavia ha investito in pieno il senso d’identità nazionale di croati, sloveni, serbi, macedoni; i nazionalismi hanno fatto a pezzi l’esperienza socialista, la guerra di liberazione non è stata più l’epopea fondativa dello Stato federale, l’immagine di Tito è stata strappata dal piedestallo e se si voleva trovare gente che gettava fango sulla sua figura e sul suo ruolo la si trovava soprattutto tra i suoi compatrioti. L’orrore di quella guerra degli anni Novanta, che così bene Paolo Rumiz ha decodificato nei suoi meccanismi oscuri, ha cancellato ogni traccia di orgoglio per l’eroica ribellione alla dittatura nazifascista. Le falsità, le deformazioni, le mistificazioni che oggi dilagano avrebbero potuto diventare communis opinio in quel contesto, invece gli storici triestini legati all’Istituto colsero l’occasione dell’apertura di certi archivi per intensificare la ricerca della verità. Perché questo va detto con forza: le ispezioni nelle cavità carsiche, le esumazioni, le ricerche per dare un nome ai morti, il recupero e l’attento esame dei registri, di qualunque documento in grado di fare luce sulle circostanze, sulle vittime e sui carnefici, tutto questo lavoro ingrato e difficile fu opera di storici che si riconoscevano pienamente nei valori della Resistenza posti alla base della nostra Costituzione, come Roberto Spazzali, Raoul Pupo e molti altri. Sono loro che hanno dimostrato rispetto per gli infoibati, che hanno contestualizzato quegli avvenimenti, mentre alla canea revanscista e neofascista il destino di quei morti non interessava per nulla, era solo pretesto, strumento, per aggredire gli avversari politici di turno e oggi per fare pura e semplice apologia del fascismo. Come mai nel Giorno della Memoria un Presidente della Repubblica invece di rivolgersi ai primi per impostare un discorso con un minimo di rigore storico si rivolge ai secondi?   Si legga anche la seguente documentazione (da Angelo Del Boca, Italiani brava gente)
Fonte: Sergio Bologna, Volerelaluna

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Quale memoria? Le foibe al tempo del «populismo storico» https://www.micciacorta.it/2020/02/quale-memoria-le-foibe-al-tempo-del-populismo-storico/ https://www.micciacorta.it/2020/02/quale-memoria-le-foibe-al-tempo-del-populismo-storico/#respond Wed, 05 Feb 2020 15:30:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25952 Un seminario organizzato dall’Anpi è stato «contestato» dall’estrema destra italiana che lo ha definito «un oltraggio agli esuli istriani e dalmati infoibati vittime dell’odio comunista»

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Memoria e ricordo . La contestazione al seminario organizzato dall’Anpi esprime in modo visibile l’emersione di un fenomeno che le «politiche memoriali», organizzate attorno all’istituzione di leggi ad hoc finalizzate all’uso pubblico della storia, hanno finito progressivamente per alimentare fino alla sua tracimazione nel discorso pubblico Si è tenuto ieri un seminario, presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato della Repubblica, con storici di rigore e professionalità, riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Come Giovanni De Luna, Franco Ceccotti e Anna Maria Vinci e Marta Verginella, e che, per il solo motivo di essersi svolto, è stato «contestato» da esponenti dell’estrema destra italiana che lo hanno definito «un oltraggio agli esuli istriani e dalmati infoibati vittime dell’odio comunista» ed un’iniziativa «dal chiaro obbiettivo negazionista». L’episodio esprime in modo visibile l’emersione di un fenomeno che le «politiche memoriali», organizzate attorno all’istituzione di leggi ad hoc finalizzate all’uso pubblico della storia, hanno finito progressivamente per alimentare fino alla sua tracimazione nel discorso pubblico: il populismo storico. Esso ha progressivamente preso corpo in tutte le società democratiche del continente, ne è esempio la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre scorso sui totalitarismi, e rappresenta il superamento del revisionismo e una sua manifestazione a base «di massa», cioè non più chiusa entro il solo perimetro del dibattito storiografico o pubblico-divulgativo. Sul piano della comunicazione nella società il populismo storico è organizzato su una reciprocità dialettica con ciò che si definisce «senso comune». Il suo impatto mediatico e la diffusione dei suoi rovesciamenti storiografici si alimentano della capacità di «ritorno» che questi ultimi producono sull’opinione pubblica, trasformata in fonte di forza e ispirazione per spinte, sempre più oltranziste, verso il ribaltamento del senso della storia. Presentato dai suoi animatori come espressione di novità e liberazione antidogmatica dalla cosiddetta «storia ufficiale» (vale a dire dall’esercizio metodologico della disciplina e dalla trasmissione del sapere scientifico) il populismo storico ricava le proprie istanze dall’uso del più vecchio e consunto degli armamentari ideologici quello della negazione, dell’autoassoluzione e della memoria selettiva. In questo quadro la «complessa vicenda del confine orientale» richiamata nell’articolo 1 della stessa legge istitutiva del giorno del ricordo viene sistematicamente elusa dal dibattito pubblico. Sono in questo modo cancellati dalla memoria nazionale «il fascismo di frontiera» (lo squadrismo delle camice nere contro le popolazioni jugoslave prima della marcia su Roma), la guerra di aggressione scatenata dal regime di Mussolini il 6 aprile 1941; i crimini di guerra contro civili e partigiani compiuti dalle truppe del regio esercito e dalle milizie fasciste in Jugoslavia; l’impunità garantita alle migliaia di «presunti» criminali di guerra inseriti nelle liste delle Nazioni Unite per essere processati in una «Norimberga italiana» mai celebrata in ragione degli equilibri geopolitici della «Guerra Fredda». Correlata a questo si porrebbe anche la questione della «continuità dello Stato» nel quadro della transizione dal nazifascismo alla democrazia in Italia, nonché la scabrosa vicenda dei risarcimenti, dovuti e non pagati, ai familiari delle vittime delle stragi nazifasciste in Europa. La strumentalizzazione che la destra politica compie attorno alla vicenda delle foibe riassume i caratteri nazionali di un Paese che non avendo fatto i conti col proprio passato cerca di superarlo riscrivendolo. La contestazione dei «populisti storici» agli storici, e alla storia stessa, si incardina così in quello «spirito dei tempi» che la società contemporanea si trova a vivere oggi, nel pieno di una delle sue crisi più profonde. La funzione della storia rimane quella di organizzare un «orizzonte di senso» rispetto al tempo trascorso attraverso il metodo scientifico ovvero un processo in grado di comporre una relazione di significati il più possibile precisa che connetta le vite diverse di generazioni di persone, popoli e società. La storia, in sostanza, non solo spiega da dove veniamo e rende visibili le radici d’origine ed i processi d’impianto delle nostre società ma soprattutto ci mostra le ragioni e gli sviluppi attraverso cui siamo diventati ciò che siamo, nel bene e nel male. Enucleata dall’onere specifico e dirimente di offrire una «resa di complessità» la storia finisce per essere rappresentata attraverso forme monodimensionali o retorico-celebrative che ne impoveriscono il portato culturale o la trasfigurano in strumento propagandistico della debole politica dei giorni nostri come forma di regolazione e controllo selettivo della memoria collettiva, finalizzato al governo del presente. Su questo terreno diviene indispensabile la resistenza della cultura e delle coscienze. * Fonte: Davide Conti, il manifesto

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La notte della memoria. In Italia crescono razzismo, antisemitismo, negazionismo https://www.micciacorta.it/2020/01/la-notte-della-memoria-in-italia-crescono-razzismo-antisemitismo-negazionismo/ https://www.micciacorta.it/2020/01/la-notte-della-memoria-in-italia-crescono-razzismo-antisemitismo-negazionismo/#respond Fri, 31 Jan 2020 08:41:17 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25944 Il virus dell’odio. Rapporto Eurispes, per il 15,6% la Shoah non c’è mai stata. Nel 2004 i negazionisti erano 2,7%. Migranti nel mirino

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Tra il 2004 e il 2020 gli italiani che negano l’Olocausto sono passati dal 2,7 al 15,6%. Parallelamente, la convinzione che gli stranieri ci tolgano il lavoro, rispetto a dieci anni fa, è cresciuta dal 24,8% al 35,2% mentre la percentuale di chi vede negli immigrati una minaccia all’identità nazionale è aumentata dal 29,9% al 33%. Sono i numeri contenuti nel rapporto «Italia 2020» presentato ieri dall’Eurispes. Per l’istituto di ricerca siamo «un paese che galleggia» con una popolazione che «si è adattata allo stato di perenne crisi, che brucia ricchezza e risparmi», un paese «incattivito» che guarda con diffidenza gli stranieri e, con più frequenza, giustifica razzismo e antisemitismo. «È nefasto ritenere che si possa riprendere un accettabile assetto di navigazione grazie alla vittoria di una minoranza sull’altra, e ‘senza fare prigionieri’ – ha spiegato il presidente Gian Maria Fara -. La politica bellicista sa distruggere ma non ricostruire». I PREGIUDIZI ANTISEMITI si stanno diffondendo: il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 15,6% la nega. L’affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario trova consenso nel 23,9% della popolazione. Per il 61,7% i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non rappresentano un problema. Il 60,6%, però, ritiene che siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo. Sono soprattutto i più giovani a non considerarli atti isolati mentre dai 35 anni in su vengono derubricati a bravate. Inoltre, il 19,8% ritiene che «Mussolini sia stato un grande leader che ha commesso qualche sbaglio»; il 14,3% ritiene che «gli italiani amano le personalità forti» e che «siamo un popolo di destra». CAPITOLO MIGRANTI: per il 77,2% vengono sfruttati dai datori di lavoro ma gli italiani sono anche convinti che ci tolgano il lavoro. Il 38,3% pensa che provochino l’aumento delle malattie. Crolla di 17 punti la posizione secondo la quale gli stranieri portano un arricchimento culturale (dal 59,1% al 42%), diminuisce dal 60,4 al 46,9% la convinzione che contribuiscano alla crescita economica. Un decimo trova gli immigrati ostili (10,1%), l’8,1% li trova insopportabili. Secondo il 45,7% un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli immigrati è «giustificabile solo in alcuni casi». Per il 17,1% (più 6,7% rispetto al 2010) è condivisibile «guardarli con diffidenza». PER CONTRASTARE l’immigrazione clandestina, il 26,2% ritiene che il governo dovrebbe erogare aiuti ai paesi di provenienza (più 7,7% rispetto a dieci anni fa), il 24% (a fronte del 33,6% del 2010) ritiene che il governo dovrebbe inasprire i controlli alle frontiere; per il 16% la priorità è agevolare la regolarizzazione dei clandestini (nel 2010 era il 25,5%). Rispetto al 2010, sono diminuiti gli italiani favorevoli allo ius soli (dal 60,3% al 50%) e sono aumentati i sostenitori dello ius sanguinis (dal 10,7% al 33,5%). In calo coloro che auspicano lo ius culturae cioè la cittadinanza per chi è nato qui purché educato in scuole italiane (dal 21,3% al 16,5%). «GLI IMMIGRATI REGOLARI in Italia sono circa 5,2 milioni, pari all’8,7% della popolazione, e gli irregolari circa 500mila – ricorda Fara -. Producono il 9% del Pil, circa 139 miliardi di euro annui. Il denaro che spediscono ai loro familiari (6,2 miliardi annui) è molto più importante di quanto l’Italia destina agli aiuti internazionali. Le loro imprese (oltre 700mila) assumono centinaia di migliaia di italiani. Versano 14 miliardi annui di contributi sociali e ne ricevono solo 7: i loro contributi ci permettono di pagare oltre 600mila pensioni». INFINE, GLI SBARCHI NEL 2019 sono calati del 50,4% rispetto al 2018 ma la copertura mediatica è stata da record, «accreditando la rappresentazione di un’emergenza». Dal 2018 è la politica a presidiare il tema immigrazione: «La viva voce dei suoi esponenti è risultata centrale nel 38% dei servizi del prime time (48% per i tg Rai e 24% su Mediaset)». Il risultato è che il 30,4% giudica la propria città come poco o per niente sicura. Infine, gli italiani si fidano sempre meno della politica, del governo e del parlamento, preferendo le forze armate e le forze dell’ordine. «Il linguaggio di odio e razzismo – sottolinea il ministro del Lavoro, Stefano Patuanelli – non è sconnesso né dai crescenti episodi razzisti né dal crollo della consapevolezza di ciò che avvenne nei lager nazisti». E la collega all’Istruzione, Lucia Azzolina: «Sono dati che spaventano. La scelta di potenziare lo studio della Storia è quanto mai necessaria». * Fonte: Adriana Pollice, il manifesto foto: Dachau, dirittiglobali.it

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Piero Terracina. Ricordare i nomi che Auschwitz voleva cancellare https://www.micciacorta.it/2019/12/piero-terracina-ricordare-i-nomi-che-auschwitz-voleva-cancellare/ https://www.micciacorta.it/2019/12/piero-terracina-ricordare-i-nomi-che-auschwitz-voleva-cancellare/#respond Tue, 10 Dec 2019 15:51:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25838 È l’autunno del 2005 e in Polonia fa caldo come in Italia. In quello che fu il campo di sterminio Auschwitz II ci stanno i camosci. Oppure i daini. Non mi ricordo. Però ho in mente le facce degli studenti

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Piero Terracina tiene in mano il microfono. Attorno a lui ci stanno i ragazzi delle scuole di Roma. È l’autunno del 2005 e in Polonia fa caldo come in Italia. In quello che fu il campo di sterminio Auschwitz II ci stanno i camosci. Oppure i daini. Non mi ricordo. Però ho in mente le facce degli studenti. Uno che era tanto militante, uno di sinistra che mi ricordava come ero io alla sua età. Tanta voglia di leggere i libri che non consigliano mai a scuola, voglia di fare politica, poca voglia di studiare latino e greco. Un altro che dice di essere di destra e poi mi hanno detto che è diventato buddista. Una ragazzina che parla con lo slang delle borgate, ma si commuove quando dice «mamma mi ha messo in valigia il maglione pesante. Adesso fa un caldo che schiumi, ma a quel tempo si congelavano». E chissà cosa la commuove. Il freddo o la madre che gli internati non avevano più. «Quando so’ arrivata a Auschwitz me so detta: me sa’ che sarà una pezza, ‘na cosa parecchio pesante». E il ragazzo di destra: «non credevo che mi avrebbe toccato così tanto. Pensavo: vabbè, vai là e senti storie, ti informi. Però alla fine è stata ‘na cosa troppo particolare, davvero forte». E quello di sinistra dopo di lei: «lo immaginavo che era come passare un’esame, una cosa da arrivarci preparato. E poi è stato di più. Non basta la preparazione. Prima di arrivare qui o ci credi o non ci credi. Però poi lo vedi quello che è stato e allora è proprio più forte. E soprattutto perché ci stanno loro». E loro sono i deportati che raccontano come hanno vissuto l’internamento nel campo di sterminio. Quell’anno parlano Shlomo Venezia, Andra e Tatiana Bucci, Sami Modiano, Enzo Camerino e Piero Terracina. Quest’ultimo posa il microfono e i ragazzi cominciano a chiacchierare tra di loro. Il giovane di destra pensa al nonno col tumore «magari stai a cena con la famiglia, pensi che lui adesso sta bene e invece devi chiamare l’ambulanza e portarlo all’ospedale». Il nazismo è come una malattia che non ti lascia mai in pace. Questo gli viene in mente. E poi un altro giovane dice che lo «colpisce il discorso che ha fatto Terracina perché è proprio verso i ragazzi…». E infatti Piero aveva 15 anni quando il 22 maggio del ‘44 è arrivato sulla Bahnrampe di Auschwitz. «Eravamo 64 persone in un vagone e 64 persone non ci stanno. Era cominciato, ormai anzi era già in fase avanzata l’annullamento totale dell’essere umano. Mio padre lo portavano via e salutava col braccio. Mia madre ci benedice e poi: andate andate, andate via. Poi aggiunse qualche parola che io lì per lì non la capii. Dico a mio fratello: ma che cosa ha detto? Aveva detto mia madre che aveva capito tutto. Disse: non vi vedrò più. Ci portarono in una baracca chiamata sauna. Ci portano via per toglierci i vestiti, i capelli, i peli. Chiedo a uno sventurato come me: Dove sono i miei genitori? E lui mi fa: Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì». «Ci venne tolto il nome» aggiunge. Così mi viene in mente quello che racconta Tatiana Bucci. Appena possibile la madre la raggiungeva nella sua baracca per bambini e le ricordava il nome. «Tu ti chiami Tatiana – diceva – e tu ti chiami Andra» aggiungeva parlando alla sorellina. «Molti bambini dimenticavano il nome» dicono. E su questo torno al discorso di Piero quando ci ricorda che: «Non si capivano le parole, si capiva soltanto il linguaggio del bastone. Il mio nome è 5506. Un numero molto semplice, ma imparate un po’ a dirlo in tedesco. E poi in quanti modi si può dire? Si può dire cinquemilacinquecentosei, cinquantacinque zero sei, cinque cinquantasei. Le SS lo dicevano così come gli capitava e bisognava capirlo senno saremmo stati puniti. Bastonati dai nostri compagni». Quando comincia la prima lezione a scuola si fa l’appello. Da ragazzo mi sembrava una cerimonia inutile. Non è così. Alla stessa cerimonia ogni anno puoi assisterci alle Fosse Ardeatine quando si pronunciano i nomi dei 335 ammazzati dai nazisti. Il nome è importante. E ad Auschwitz è la prima cosa che venne cancellata. Ricordiamone almeno uno. Terracina Piero. * Fonte: Ascanio Celestini, il manifesto

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Giaime Pintor. La storia di una rivolta morale dell’antifascismo https://www.micciacorta.it/2019/10/giaime-pintor-la-storia-di-una-rivolta-morale-dellantifascismo/ https://www.micciacorta.it/2019/10/giaime-pintor-la-storia-di-una-rivolta-morale-dellantifascismo/#respond Sat, 26 Oct 2019 08:32:57 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25719 GIAIME PINTOR. Due volumi delle Edizioni Ensemble dedicati alla figura dell’intellettuale. Nato cento anni fa, sarebbe caduto combattendo nel 1943 nei primi mesi della lotta di Liberazione

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«Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile». Raccontare la breve esistenza di Giaime Pintor, morto a ventiquattro anni su una mina tedesca, a Castelnuovo al Volturno, in Molise, durante il compimento di un’azione di infiltrazione nel territorio occupato dai nazifascisti, è ripercorrere la traiettoria di una generazione di intellettuali che si formò all’ombra del fascismo per poi, nel mentre stesso in cui il regime ancora celebrava i suoi declinanti fasti, distaccarsene con motivazioni proprie. Prima ancora che a un’opposizione politica, il dato che emerge è quello di una rivolta ideale e morale, che si incanala progressivamente verso esiti di rifiuto esistenziale. Ci aiutano in questo percorso di scavo nella coscienza nazionale e continentale le Edizioni Ensemble di Roma che, con la ristampa del Sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (a cura di Andrea Comincini, pp. 291, euro 15) e del romanzo testimonianza di Carlo Ferrucci, La mina tedesca (pp. 203, euro 16), ci restituiscono un quadro d’insieme. Anche e soprattutto dopo le polemiche, a volte impietose, sui modi e i termini da adottare per capire certe scelte. NEL CASO DI GIAIME, la voracità intellettuale e la bulimia culturale sono i vettori su cui modella progressivamente una precisa identità, che è solo in parte tributaria dello spirito dei suoi tempi, semmai interrogandosi su quelli a venire. Le domande rimarranno nel suo caso senza risposta, di fatto cadendo in combattimento nei primi mesi della lotta di Liberazione. Saranno quindi altri che se ne faranno latori, a partire dal fratello Luigi. L’origine famigliare sarda, in un ambiente che dell’interconnessione tra formazione culturale, al limite dell’erudizione leopardiana, e ruolo sociale, aveva fatto la sua ragione d’identità, è senz’altro un primo calco dal quale partire. L’incontro con Roma, fin da piccolo, costituisce un’altra tappa importante. Se l’infanzia cagliaritana fu segnata dalla condizione di felice abbandono a sé e alla propria famiglia, ben presto l’irrequietezza di Giaime iniziò ad emergere, con una sorprendente precocità, dal momento che il rapporto con la lettura e la conoscenza si costituirono in lui come una sfera di identità autonoma. Alla curiosità, peraltro, si legava sempre più spesso l’insofferenza. Se negli anni della formazione adolescenziale ciò poteva essere ancora inteso come un tratto di distinzione tipico di un’età che cercava di perimetrare il proprio sé, il trasferimento al Roma nel 1935, sua città elettiva, per concludere gli studi liceali, ne segnò l’atto di autonomia. Fondamentale fu il salotto della casa degli zii, che ospitava una nutrita congerie di amici e interlocutori, dal filosofo Giovanni Gentile a Lucio Lombardo Radice, quest’ultimo poi pedagogista e matematico di vaglia, che erano parte del gruppo dei giovani intellettuali comunisti (Antonio Amendola, Bufalini, i fratelli Natoli) presenti nella capitale. Non si trattava di iniziare a svolgere un lavoro politico ma di intessere la tela delle reciprocità. Le quali, poi, avrebbero comunque influito enormemente nell’evoluzione del radicamento sociale e culturale dei risorti partiti antifascisti. La cifra di Giaime, in quegli anni di prodromi e premesse del cambiamento, è quella di un’immedesimazione diretta, senza mediazioni, nei temi culturali, alla quale si accompagna, in forma di autodifesa, un distacco ironico, a tratti sarcastico, ma comunque individualistico, dal fascismo più grottesco. L’avvio degli studi universitari, nella facoltà di giurisprudenza, e la partecipazione ai Littoriali, costituirono un ulteriore momento di transizione. Poiché fu in quelle circostanze, per un giovane uomo che per tutta la sua breve esistenza rimase essenzialmente un letterato, traduttore novatore di autori tedeschi, germanista in erba e in fiore, che il problema di raccordare lettere ad azioni, pensieri a scelte, iniziò a formularsi appieno. Se l’Europa si stava consegnando con sufficiente inconsapevolezza alla tragedia di una guerra mondiale, tra quel gruppo di giovani cresceva invece un disagio che si sarebbe poi tradotto in contrapposizione attiva. Sul piano intellettuale era il rigetto dell’irrazionalismo fideistico che stava lievitando come corredo e legittimazione della violenza che si sarebbe scatenata di lì a poco; sul piano etico era la messa in discussione del primato di un’inesistente moralità fascista; sul piano politico, infine, diventava la negazione della statolatria fascista ma anche del suo antipluralismo. Proprio dal lavoro di traduttore dal tedesco, e di filologo, il giovane intellettuale trasse e maturò la convinzione che la realtà è assai più complessa di quelle raffigurazioni che intendono incapsularla in pochi paradigmi. COME TRADUTTORE di Rainer Maria Rilke (poi di Kleist, Trakl, Arnim, Jünger e altri ancora), e pubblicista, si adoperò in un duplice lavoro: liberare i versi dalla ridondante retorica dannunziana, riprodottasi in molteplici registri, ed evitare che l’intero apparato poetico tedesco fosse inghiottito dalla rutilante autoraffigurazione del nazismo, affermatosi in Europa come vera e propria mitopoiesi, capace di ingoiare anche il patrimonio letterario tedesco. Nel 1940, pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, si laureò e partì per il servizio militare, che svolse con crescente demotivazione, irritazione ed infine estraneità, come ufficiale subordinato. Il trasferimento a Torino per motivi di servizio, gli valse una grande opportunità, quella di entrare in contatto e poi collaborare attivamente con il cenacolo della casa editrice Einaudi (Massimo Mila, Leone Ginzburg, Felice Balbo, Cesare Pavese). Più la crisi bellica si incancreniva, maggiore era l’intransigenza che Pintor e i suoi amici e colleghi andavano maturando. La consulenza editoriale gli era facilitata dalla grande capacità di cogliere una molteplicità di aspetti della trasformazione in atto, potendo fare affidamento sulla sua poliedricità intellettuale. La repentina caduta del regime lo fece quindi rientrare a Roma da Vichy, dove era stato nel mentre trasferito come aggregato alla missione militare italiana. Nella capitale rimase fino ai primi giorni di settembre, lavorando prima all’ipotesi di una testata giornalistica, poi all’intelaiatura di rapporti e scambi tra i partiti antifascisti e l’esercito. Pintor, tuttavia, era e rimaneva anche un militare. La crisi dell’8 settembre, quindi, fu da lui vissuta non più in chiave di sollecitazione intellettuale ma soprattutto in termini operativi. Più che il maturare dell’antifascismo come cultura politica, contava il viverlo come primato dell’opposizione ai fatti. «A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento». Prima partecipò agli scontri a Porta San Paolo, poi si mosse verso Brindisi, dove nel mentre erano riparate le autorità regie. Benché si fosse messo a loro disposizione, dinanzi al tracollo in atto e all’inettitudine di ciò che restava dei comandi («dopo essermi convinto che nulla era cambiato tra i militari»), decise di abbandonare la città andando a Napoli, dove, nel mentre, mentore Benedetto Croce, si stava cercando di costituire un corpo di volontari, comandato dal generale Giuseppe Pavone. Fallito anche questo tentativo, infine si aggregò si servizi di intelligence dell’esercito britannico, con l’incarico di assumere il comando di un piccolo gruppo di combattenti. TRE GIORNI PRIMA di morire scrisse l’accorata, dolente e lucidissima lettera-testamento al fratello Luigi, manifesto generazionale: «oggi in nessuna nazione civile il distacco tra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza». Parole che sembrano riecheggiare in qualche modo lo stato presente delle cose. Pintor non fu icona ma rimase uomo. Come tale, incorporando anche conflitti interiori. Il resto, francamente, rimane eco solo di una vacua e sterile polemica, in una battaglia di parole dove non si sente mai il trascorso riecheggiare del piombo. * Fonte: Claudio Vercelli, il manifesto

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