Nessuno Tocchi Caino – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 23 Jul 2020 14:57:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Carcere di Torino, Decima sezione https://www.micciacorta.it/2020/07/carcere-di-torino-decima-sezione/ https://www.micciacorta.it/2020/07/carcere-di-torino-decima-sezione/#respond Thu, 23 Jul 2020 14:57:17 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26196 Lo sa bene chi interviene in carcere, chi ne ha esperienza: il rischio del doppio binario, in superficie le “belle cose”, sottotraccia la violenza taciuta delle “X sezioni” è un rischio che va sciolto, affrontato. E uscire dal silenzio è la sola scelta possibile

L'articolo Carcere di Torino, Decima sezione sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

«Celle dedicate alla punizione dei detenuti con scompensi psichici. Venivano obbligati a spogliarsi e a gridare frasi come “Sono un pezzo di m...” mentre gli agenti li malmenavano con schiaffi e pugni, attrezzati di guanti per non lasciare i segni. “Figlio di p..., ti devi impiccare” urlava la guardia carceraria Antonio Ventroni al detenuto Daniele Caruso dopo averlo portato in infermeria. In due gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto, provocandogli un ematoma a un occhio, emorragia dal naso e una lesione a un dente incisivo superiore che, dopo qualche tempo, a causa di quel colpo cadeva". Decine di episodi a partire dalla primavera del 2017, denunciati prima dai detenuti e poi dalla garante di Torino, Monica Gallo, ma sempre ignorati a tutti i livelli. È l’intero "sistema carcere" a essere finito sotto inchiesta da parte del pubblico ministero di Torino Francesco Pelosi: inchiesta che si è chiusa con 25 indagati che vanno dal direttore della casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, Domenico Minervini, al capo delle guardie carcerarie, Giovanni Battista Alberotanza, ai rappresentanti del sindacato più attivo della polizia penitenziaria, l’Osapp. Violenze fisiche e vessazioni ai detenuti, denunciate in più occasioni, costano ai principali indagati l’accusa di tortura, per “condotte che comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta”, reato mai contestato prima per le violenze all’interno del carcere. Favoreggiamento e omissione di denunce di reati sono invece le accuse per il direttore Domenico Minervini, il quale avrebbe sempre ignorato le lamentele e le segnalazioni della garante, lasciando che gli agenti agissero indisturbati. Erano le celle numero 209, 210, 229, 230 della X Sezione quelle prescelte per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, nonostante nel carcere di Torino esista una sezione apposita per quel tipo di problematiche. L’ispettore Maurizio Gebbia e altri agenti penitenziari portavano lì i reclusi per “punirli” nel silenzio generale che consentiva loro di eludere le indagini. E quando i detenuti erano troppo malconci e dovevano farsi visitare li minacciavano dicendo loro che “dovevano dichiarare che era stato un altro detenuto a picchiarlo, altrimenti avrebbero usato nuovamente violenza su di lui, così costringendolo il giorno successivo alle violenze a rendere in infermeria questa falsa versione dei fatti”, come è riepilogato nel documento di chiusura delle indagini». Così le cronache dei giornali riferiscono della chiusura dell’inchiesta sulle violenze contro reclusi nel carcere di Torino (Ottavia Giustetti, “la Repubblica”, 21 luglio 2020). Ora i giudici dovranno pronunciarsi ed eventualmente confermare le accuse emerse dalle indagini che ieri si sono chiuse e che meritoriamente si erano aperte grazie alle denunce degli stessi detenuti e alla Garante di Torino. Quello che, intanto, si sa per certo è che detenuti e Garante hanno portato sul tavolo dei magistrati materiale sufficiente a non far archiviare il caso e un velo è stato squarciato. Quel velo che da molto tempo, ma negli anni più recenti con più aggressività, è stato tessuto anche mediaticamente a copertura di una realtà profonda del carcere, quella della sua perdurante natura violenta di istituzione totale e dell’impunità di chi quella violenza esercita, che nel buio delle notti delle tante “X sezioni” non ha mai smesso di produrre arbitrio, botte, umiliazioni. Torture. Chi scrive sa – per personale esperienza, avendo vissuto a lungo nelle celle anche del carcere torinese, e per conoscenza, dai tanti anni di impegno, lavoro e attività sul carcere – che per una volta che si fa giustizia per altre cento, o mille, volte cala il silenzio. Il silenzio della paura, della debolezza, della mancata tutela di chi subisce; il silenzio dell’opacità dell’istituzione, del mancato o omesso controllo di chi agisce, della sottovalutazione o, peggio, della copertura. La cultura dell’omertà, in questi casi, non solo lascia condotte gravissime impunite e esseri umani indifesi, picchiati e nudi, in balìa della violenza, ma concorre a legittimare, in silenzio ma nei fatti, una violenza che diventa istituzionale, tollerata, ammessa, anche quando la maggioranza degli agenti non la condivida e non la pratichi, o magari pensi che un carcere “costituzionale” sia più gestibile, anche per loro, di un carcere violento. Il silenzio la permette, la reitera, la consacra, questa violenza. Anche per questo, onore ai detenuti che hanno denunciato, rischiando come solo in carcere si rischia, e alla Garante che ha svolto il suo compito, rispettandone il mandato profondo. Da anni, e nei tempi più recenti soprattutto, i media rilanciano, spesso senza approfondimenti e tanto meno contraddittorio, comunicati stampa e prese di posizione di alcuni tra i sindacati di polizia penitenziaria – incluso quello citato nell’articolo – la cui cifra è quella di rimandare alla pubblica opinione un’idea di carcere in mano ai detenuti, gestito in maniera lassista; i reiterati attacchi portati a chiunque voglia introdurre elementi di riforma e maggior rispetto della norma costituzionale, si ripetono, fino al più recente attacco frontale contro la figura e i compiti del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Figura di cui, ancora ieri, uno di quei sindacati ha chiesto l’abolizione. Così, anche le lotte contro la disperazione indotta da una sciagurata gestione dei provvedimenti anti Covid-19, diventa l’immagine di un carcere dominato da pochi caporioni, immagine ridicola per chi di carcere ne sa, ma seducenti per chi non ne sa (e preferisce non sapere). Una comunicazione che ha presa su una società che del carcere tutto ignora, e che al contempo nutre una – ed è nutrita da una – crescente voglia di forca. Una comunicazione mediatica schizofrenica, che a volte concede qualche piccolo spazio alle “belle cose” che si fanno in carcere, quando il mondo esterno, le associazioni, il volontariato, gli enti locali si danno da fare per costruire ponti tra dentro e fuori, per sostenere percorsi di ritorno alla libertà, per smussare l’isolamento e l’opacità della detenzione. “Belle cose”, progetti culturali e sociali, che anche noi, negli anni, anche a Torino, abbiamo fatto, promosso, sostenuto, nella convinzione che “liberarsi della necessità del carcere” sia un percorso, non possa essere uno slogan. Ma se le “belle cose” non sono – sempre, con forza, con consapevolezza – incardinate in una decisa azione di conoscenza, controllo, presidio dei diritti fondamentali di chi è rinchiuso, rischiano di tradire i loro stessi fini. Lo sa bene chi interviene in carcere, chi ne ha esperienza: il rischio del doppio binario, in superficie le “belle cose”, sottotraccia la violenza taciuta delle “X sezioni” è un rischio che va sciolto, affrontato. E uscire dal silenzio è la sola scelta possibile. Forse è anche per questo che il carcere di Torino ha deciso, proprio nel 2017, che a due persone come noi, nonostante la volontà di dialogo, la propositività, le pregresse esperienze e quelle in corso in altri carceri, fosse vietato di entrare e lavorare con i detenuti e le detenute. Dopo una martellante campagna mediatica, condotta soprattutto dal citato sindacato, accolta e rilanciata dai media locali senza chiedersi se ci fossero altri punti di vista, e persino dall’allora procuratore capo, dopo il veto della polizia penitenziaria dell’istituto, che evidentemente conta più di ogni altro potere, siamo stati espulsi. Non un gesto, non una scorrettezza che ci potesse essere imputata, solo il dato biografico di essere stati a lungo detenuti in quelle celle, di portarne una diretta conoscenza, e di pensare, con molti e molte altri, che i diritti di chi è recluso siano una frontiera che nessuno può oltrepassare. Ciò che oggi ci colpisce, ricordando quei giorni e quei fatti, è che era lo stesso anno, erano gli stessi mesi in cui cominciavano ad accadere le violenze e le torture oggi sul tavolo della magistratura. Gli ultimi nostri ingressi, lo spettacolo teatrale con le donne detenute e un incontro con i detenuti nel teatro del carcere, dedicato al tema dell’ergastolo ostativo, con la proiezione del docufilm “Spes contra Spem”, di Nessuno Tocchi Caino, anch’esso spesso, e di nuovo ieri, attaccato da quei sindacati. In questa registrazione dell’evento di Radio Radicale c’è qualcosa che va riascoltato: le prime parole sul quel maledetto 2017, allora trascurate e silenziate ma oggi illuminanti. Ascoltatele con attenzione, dal 45,47° minuto e poi dal 54° del file 2/2 di quel video  

L'articolo Carcere di Torino, Decima sezione sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2020/07/carcere-di-torino-decima-sezione/feed/ 0
Sette ergastolani ostativi nel direttivo di Nessuno tocchi Caino https://www.micciacorta.it/2017/12/sette-ergastolani-ostativi-nel-direttivo-nessuno-tocchi-caino/ https://www.micciacorta.it/2017/12/sette-ergastolani-ostativi-nel-direttivo-nessuno-tocchi-caino/#respond Tue, 19 Dec 2017 08:40:08 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23961 È una tradizione per «Nessuno tocchi Caino» tenere il Congresso in un carcere, quest’anno quello milanese di Opera, dove, nel dicembre 2015, si era svolto l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella e da cui ha tratto ispirazione la campagna «Spes contra Spem» per il superamento dell’ergastolo ostativo ed il 41 bis. È però una […]

L'articolo Sette ergastolani ostativi nel direttivo di Nessuno tocchi Caino sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

È una tradizione per «Nessuno tocchi Caino» tenere il Congresso in un carcere, quest’anno quello milanese di Opera, dove, nel dicembre 2015, si era svolto l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella e da cui ha tratto ispirazione la campagna «Spes contra Spem» per il superamento dell’ergastolo ostativo ed il 41 bis. È però una novità assoluta che il Congresso abbia eletto nel Consiglio direttivo proprio degli ergastolani ostativi. Sono infatti 7 gli ergastolani di Opera che ora ricoprono un ruolo da dirigenti nell’associazione: tra loro ci sono Gaetano Puzzangaro, Orazio Paolello, Vito Baglio, Alfredo Sole, Rocco Ferrara, Roberto Cannavò e Giuseppe Ferlito. Uomini a cui negata per legge la speranza con un “fine pena mai” che hanno deciso di incarnarla, di essere fonte di un processo attivo di cambiamento, come testimoniano il docu-film Spes contra spem – liberi dentro di Ambrogio Crespi, di cui sono protagonisti, e quegli omonimi laboratori costituiti in varie carceri e fortemente sostenuti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal Capo del Dap Santi Consolo. Da oggi, spetterà anche ai sette ergastolani decidere e prendere iniziative volte a superare, con la pena di morte, anche la morte per pena e la pena fino alla morte, nei fatti decretate dall’armamentario emergenzialista speciale di norme e regimi penitenziari quali l’ergastolo ostativo, il 41-bis e l’isolamento diurno, per far vivere il “diritto alla speranza” che appartiene ad ogni essere umano, diritto codificato nello spazio del Consiglio d’Europa dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e dagli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT), ma negato, come è in Italia, da quello sbarramento automatico alla concessione di benefici penitenziari per chi sia imputato o condannato per i reati di cui al 4-bis, fintanto che non decida di collaborare alle indagini. In questo senso il Congresso è stato anche occasione per presentare un’altra iniziativa innovativa, un ricorso di massa, quasi 250 casi, al Comitato Diritti umani e al Comitato contro la tortura dell’Onu curato dallo studio legale di Andrea Saccucci per denunciare il sistema dell’ergastolo ostativo che, combinato al “carcere duro” e all’isolamento diurno, provoca nel tempo – come ampiamente dimostrato dalla analisi statistica prodotta da Francesco Fabi in base alle risposte ai questionari di 247 ergastolani ostativi – danni irreversibili sulla salute fisica e mentale del detenuto, tali da configurare punizioni e/o trattamenti inumani e degradanti. È la via sovranazionale, quella che Nessuno tocchi Caino continua a percorrere nello sforzo di accelerare quelle modifiche normative interne necessarie ad adeguare il nostro e altri Paesi agli standard internazionali sui diritti umani. È successo, per quanto riguarda la pena di morte, con l’approvazione della Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali da parte dell’Assemblea generale di cui proprio oggi ricorre il decennale. Potrebbe succedere, per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, già la prossima primavera, quando la Corte Europea per i diritti umani per la prima volta si pronuncerà sul ricorso di un ergastolano a vita, Marcello Viola, contro lo Stato italiano. * Tesoriera di Nessuno tocchi Caino FONTE: Elisabetta Zamparutti, IL MANIFESTO

L'articolo Sette ergastolani ostativi nel direttivo di Nessuno tocchi Caino sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2017/12/sette-ergastolani-ostativi-nel-direttivo-nessuno-tocchi-caino/feed/ 0
Usa, stop al business delle prigioni private https://www.micciacorta.it/2016/09/usa-stop-al-business-delle-prigioni-private/ https://www.micciacorta.it/2016/09/usa-stop-al-business-delle-prigioni-private/#respond Wed, 14 Sep 2016 06:26:33 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22467 Mentre nelle carceri USA parte il più grane sciopero mai avvenuto dei detenuti contro lo sfruttamento lavorativo nelle prigioni, Obama annuncia la chiusura della carceri private. In Italia si comincia finalmente a discutere dell'abolizione dell'ergastolo ostativo

L'articolo Usa, stop al business delle prigioni private sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

È consueto che in Italia il carcere non faccia notizia, a meno non si tratti di violenze o fughe, utilizzabili per alimentare domande securitarie. Infatti, quasi nessuno si è accorto, nonostante la presenza del ministro Andrea Orlando, che a Venezia il 7 settembre è stato presentato il bel docufilm «Spes contra spem. Liberi dentro», con la regia di Ambrogio Crespi, voluto e prodotto da «Nessuno tocchi Caino», da tempo impegnata per l’abolizione della pena di morte nel mondo e, in Italia, nella ancor più ardua battaglia contro l’ergastolo «ostativo», quello che rende la pena effettivamente perpetua, a meno non si «collabori con la giustizia», ovvero si mandi qualcun altro in galera al proprio posto. Il docufilm mostra e dimostra come, nonostante e contro l’ergastolo, un gruppo di condannati nel carcere milanese di Opera, da decenni dietro le sbarre, spesso nell’isolamento del famigerato articolo 41bis, continui a coltivare speranza e recupero di umanità.
Quello che appariva meno scontato è che ai media nostrani, pronti a enfatizzare quelle che assai raramente avvengono in Italia, sfuggano anche le rivolte carcerarie, quando si verificano in altri Paesi. Come quella che il 7 settembre in Florida, all’Holmes Correctional, ha visto la ribellione di 400 reclusi. Una premessa alla ben più imponente e produttiva protesta invece pacifica indetta, significativamente nell’anniversario della rivolta di Attica del 1971, il 9 settembre, nelle prigioni di 24 Stati: il più grande sciopero dei prigionieri nella storia degli Stati Uniti. Tanti i motivi alla base, nel paese che detiene il record dell’incarcerazione di massa, con quasi due milioni e mezzo di reclusi, un quarto della popolazione detenuta di tutto il mondo. Uno è quello preminente: la protesta contro condizioni di semi-schiavitù, con forme intense di sfruttamento che vedono i carcerati costretti a lavorare per pochi centesimi l’ora o addirittura gratis. Un sogno di tanti imprenditori, questo, che qualcuno ha provato a realizzare anche in Italia. Negli USA, del lavoro recluso senza diritti si avvantaggiano multinazionali come Wal-Mart, McDonald, Victoria’s Secret, Nordstrom, AT&T Wireless, realizzando profitti incalcolabili, considerando che i detenuti lavoratori statunitensi sono ben 900 mila. Si tratta di uno dei capitoli più cospicui del business penitenziario. L’altro, connesso a questo, è quello delle carceri private (che pure, ricorrentemente e non a caso, trova alfieri e proponenti anche nel nostro Paese). Adesso, la buona notizia è che il 18 agosto il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato l’intenzione di chiudere e revocare i contratti a tutte le prigioni private, che gestiscono una fetta non indifferente del sistema, circa 130 mila detenuti. La decisione fa seguito a un’approfondita indagine dalla quale è risultato che, oltre a essere costose (e, come è facile capire, autoriproducenti), le carceri privatizzate conseguono risultati inferiori a quelle pubbliche. Nella politica penitenziaria Usa, insomma, sinora non si è trattato di delitto e castigo, né tantomeno di riabilitazione: si è trattato di una questione di soldi. Ora, forse, le intenzioni dichiarate di Obama e del Dipartimento della Giustizia e, dall’altra parte, il movimento dei detenuti, con la grande capacità di mobilitazione che dimostra, incepperanno il lucroso meccanismo, concausa, assieme alla «war on drugs», dell’enorme espansione delle carcerazioni negli Stati Uniti negli scorsi decenni. Chissà che queste ventate positive non portino consiglio ed emulazione anche in Italia, dopo il lungo e grande – ma ancora privo di effetti concreti – lavoro degli «Stati generali dell’esecuzione penale» e, anche, il troppo lungo silenzio dei detenuti.

L'articolo Usa, stop al business delle prigioni private sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/09/usa-stop-al-business-delle-prigioni-private/feed/ 0
Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/ https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/#respond Fri, 20 May 2016 11:27:56 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21876 Sergio Segio ricorda per Fuoriluogo Marco Pannella, il leader radicale e di tante battaglie per i diritti scomparso ieri a Roma.

L'articolo Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
Pannella

Di Marco mi rimarrà per sempre soprattutto un’immagine. Recente, ma non per questo motivo. Piuttosto perché dice di lui quello che era un suo carattere fondamentale, che me lo ha subito fatto stimare e costantemente sentire davvero vicino: Marco Pannella era soprattutto un combattente, instancabile e determinato come nessuno. Pochi mesi fa eravamo nel carcere di Opera, una settimana prima di Natale, per il congresso di “Nessuno Tocchi Caino”, con Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Rita Bernardini e tanti altri, radicali e non. Due giorni di riflessioni e interventi centrati sul tema dell’ergastolo ostativo, quella “pena sino alla morte” cui sono condannate, contro la Costituzione e ogni senso di umanità e civiltà giuridica, oltre 1100 persone. Uomini sepolti vivi per sempre in virtù di una legge iniqua, di interpretazioni capziose e di logiche vendicative. Nel salone del carcere assisteva (ma prendeva anche la parola) una platea di detenuti, perlopiù appunto ergastolani. Molti, naturalmente, gli agenti di custodia; per una volta, però, attenti alle parole, non solo a controllare i gesti. Presenti anche il capo delle carceri, Santi Consolo, e Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale e già ministro Guardasigilli. Nell’occasione, nei rispettivi interventi – entrambi – Flick anche con una onesta e coraggiosa autocritica rispetto a posizioni precedenti – si sono pronunciati per l’abolizione di quella disumana pena; una presa di posizione forte, dato il pulpito e il ruolo, che in altri tempi o in paesi diversi dal nostro avrebbe dato i titoli delle prime pagine e di cui, invece e naturalmente, nessuno dei giornalisti pure presenti si accorse o ritenne di dare adeguato conto. Esauriti il primo giorno gli interventi più istituzionali, nel giorno seguente il clima appariva meno formale ed era più facile accorgersi di come Marco nel carcere si trovasse davvero a casa sua e di quanto fosse circondato dall’affetto straripante dei reclusi, ma anche dalla stima dei poliziotti e del personale penitenziario. Mentre parlava un oratore, dal tavolo della presidenza dove era seduto anche Pannella, cominciò a sentirsi un tambureggiare ritmico, prima leggero, appena avvertibile, poi via via crescente sino a farsi sovrastante e infine accompagnato dalle parole: ce n’est que un début, continuons le combat. Marco andò avanti a ripetere a voce sempre più alta lo slogan degli studenti francesi del maggio ’68, sino a che quella platea eterogena composta da assassini, giovani universitari, docenti, guardie e ladri, preti e mangiapreti, privilegiati e deprivati di tutto, cominciò a seguirlo e a scandire quelle parole di rivolta e di speranza. Un momento magico e incredibile, tanto più considerando il luogo, nel quale il gigante ferito dagli anni e dalla malattia rivelava intatta la sua capacità ammaliatrice e trascinante. Scandendo inopinatamente (e profeticamente, dato che ora sembra attualizzato dal diffuso fermento che scuote la Francia in queste settimane) quello slogan famoso, Marco parlava forse di sé, della fine che sentiva vicina, con la promessa – a sé e a noi che lo ascoltavamo un po’ sorpresi -, di andare oltre, di non soccombere neppure di fronte alla morte. Allo stesso tempo, con quell’incitazione a non smettere di lottare, mi parve che parlasse di me, di noi, di chiunque sentisse o avesse mai sentito nella vita la spinta e il bisogno di rivoluzionare l’esistente. Che ci regalasse un ultimo invito a continuare “in ciò che era giusto”, come lasciò detto un’altra grande figura, Alex Langer; fosse pure a combattere contro i mulini a vento, come Marco ha spesso fatto. Questo è allora il messaggio che mi pare, davvero, ci abbia lasciato. Perché lui, il leone indomabile, sta continuando anche adesso, anche domani, la sua e le nostre battaglie. Non possiamo lasciarlo solo, come lui non ha mai lasciati soli noi, specie quando eravamo nel pozzo nero delle carceri speciali, senza poter immaginare alcun futuro, ma avendo una certezza, che non andò mai tradita, neppure una volta. Ovvero che lui, con i Radicali, era al nostro fianco nelle battaglie più difficili, solitarie e contrastate, come quelle contro le leggi dell’emergenza e contro la tortura del “carcere duro”. Che lui e i suoi più stretti non si limitavano a combattere battaglie ideali e politiche, ma offrivano vera vicinanza; che, senza fallo, per decenni lui e i suoi sarebbero venuti a trovarci in carcere ogni Natale e ogni Ferragosto, a praticare da laici precetti evangelici. Lì, in quel pozzo nero, ho conosciuto Marco e le persone migliori che ho avuto la ventura di incontrare nella vita e che mi hanno regalato un’amicizia per me imperitura, come anche Franco Corleone e pochi altri. E non c’è nessuna distanza politica su singoli aspetti, come ad esempio il liberismo in economia o certe posizioni in campo internazionale, che possa togliere un solo grammo dell’affetto, della stima e della riconoscenza che provo per Marco Pannella. Continuiamo a combattere, Marco. Anche grazie a te. Sergio Segio, 20 maggio 2016

L'articolo Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/feed/ 0