Okwui Enwezor – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 06 May 2015 07:45:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 A Venezia si torna all’ utopia (multietnica e anticapitalista) https://www.micciacorta.it/2015/05/a-venezia-si-torna-all-utopia-multietnica-e-anticapitalista/ https://www.micciacorta.it/2015/05/a-venezia-si-torna-all-utopia-multietnica-e-anticapitalista/#respond Wed, 06 May 2015 07:45:21 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19550 Comunismo, diritti umani, controcultura: l’estetica come azione politica

L'articolo A Venezia si torna all’ utopia (multietnica e anticapitalista) sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

VENEZIA Che nostalgia! Alla 56ª Biennale d’arte, che si apre domenica 9 a 120 anni dalla prima edizione, va in scena la rivisitazione 2.0 (anche se non c’è l’ombra di internet) della storia dell’utopismo comunista, dei diritti umani e dell’arte come controcultura. A cucinare questa ricetta intitolata All the World’s Futures — strappalacrime e retrospettiva per chi ha almeno cinquant’anni, forse educativa per i black bloc nichilisti —, è stato chiamato un Piketty dell’arte contemporanea, nato in Nigeria cinquant’anni fa ma ben forgiato nei salotti newyorkesi e già sperimentato a Documenta di Kassel: Okwui Enwezor. Se negli anni Settanta l’arte era forma di liberazione dal giogo borghese (come insegnavano Sartre e Marcuse) oggi è diventata la sua rivisitazione etno-chic in una prospettiva le cui radici sono ben piantate nell’élite capitalistica internazionale e globalista. Una prospettiva talmente multiculturalista che, mentre da un lato la Biennale conta 89 padiglioni nazionali per offrire materiale identitario, nella mostra del curatore Enwezor difficilmente si può fissare la nazionalità degli artisti esposti, perché sono quasi tutti apolidi. Sull’ingresso del padiglione centrale ai Giardini, dal quale è opportuno iniziare la visita, accoglie il visitatore la scritta Blues Blood Bruise (musica blues, sangue, ammaccatura): significato e connessione di queste tre parole sono «aperti e liberi» secondo il curatore, ma rimandano comunque a un episodio americano degli anni Sessanta in cui un ragazzino di colore fu ingiustamente accusato di omicidio e queste tre parole usate per la sua difesa. Pendono dalla grondaia di questo stesso padiglione lunghi drappi neri: «Non sono drappi, ma tele dipinte di Oscar Murillo e ci mettono in contatto con il resto della mostra — spiega Enwezor —, che è una mostra politica nel senso che tratta del nostro rapporto con la storia. Dal Seicento ci interroghiamo su cosa ci lacera e oggi sembriamo vivere queste lacerazioni senza cercare di dare una risposta unitaria». Ovviamente la rassegna — pure lei — mette in scena queste lacerazioni e non dà risposte. E così, superate le gramaglie eccoci di fronte The western wall , il muro realizzato nel 1993 da Fabio Mauri con le valigie dei migranti (oggi il brasiliano Vik Muniz varerà, invece, una barca dei migranti) , poi un video in cui Pierpaolo Pasolini spiega Cos’è il fascismo e infine — e qui ci scappa una lacrimuccia — l’inno sovietico a tutto volume che accompagna le immagini dello svedese Runo Lagomarsino sui successi dell’ingegneria falce e martello. A questo punto ci si potrebbe aspettare di veder spuntare nell’altra sala la salma di Lenin direttamente dalla Piazza Rossa; invece no. Nell’Arena al centro del padiglione centrale ai Giardini si legge ininterrottamente Das Kapital di Marx, ma in inglese (e senza traduzioni o cuffie), accompagnato però, per alleggerire questo «oratorio» (cioè riflessione collettiva, come la definisce Enwezor), da alcune performance: ad esempio, la lettura degli appunti ingialliti su Claude Lévi-Strauss di Louis Althusser (il filosofo che strangolò la moglie, ma fu dichiarato incapace di intendere) oppure l’osservazione di opere di «migranti, ma non solo, influenzati da Marx». Sono opere come Theory of Justice (che è anche il titolo di un libro del filosofo politico John Rawls) dell’ex critico teatrale austriaco Peter Friedl, che ha preso ritagli di giornale e foto dagli anni 40 in poi sul contropotere: ci sono i partigiani, Fidel Castro, Feltrinelli con Pasternak, Nixon, i desaparecidos…, o come quelle dello scomparso registra cinematografico Chris Marker, che mostra i rifugiati politici in un’ambasciata nel 1973 o del «realista sociale» londinese Jeremy Deller, un juke box con rumori rivoluzionari e una raccolta di volantini di protesta. Usciamo a prendere una boccata d’aria, magari davanti al padiglione israeliano curato da Hadas Maor costruito con pneumatici a simulare un bunker difensivo; e se l’aria è troppo pesante per la nostra riflessione, il padiglione russo offre un’opportunità: una gigantesca maschera antigas di Irina Nakhova. All’Arsenale molte opere sono state realizzate apposta per questa Biennale e l’aria assume i colori dell’arcobaleno: i temi sono gli stessi (diritti umani, contropotere, femminismo…) ma non più rivisitati bensì interpretati in versione etnica 2.0. C’è la torre di tamburi alta sette metri di Terry Adkins (scomparso nel 2014 a Brooklyn), ci sono le performance lungo l’Arsenale trasformato da enormi muri bianchi, c’è il Cannone semovente di Pino Pascali del ’65, l’apocalisse di rottami della tedesca Katharina Grosse, le immagini dei movimenti femministi della svedese Petra Bauer, il Throne di Gonçalo Mabunda costruito con ordigni esplosi e poi maschere, stracci (chic), i vestiti tirati contro Putin esposti da Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya, fondatrice del collettivo Factory of Found Clothes ) e i grossi timbri di Barthélémy Toguo con la scritta ambigua Je suis Chalie Ebdo? . Anche in altri padiglioni sparsi in città domina l’idea dell’arte come azione politica — proprio qui, dove la politica ha abdicato ed è quasi tutto commissariato. A Ca’ Dandolo il Padiglione dell’Iraq espone acquerelli contro l’Isis e disegni realizzati da rifugiati; il padiglione dell’Armenia all’Isola di San Lazzaro una memoria sul genocidio perpetrato dai Turchi proprio un secolo fa; l’Azerbaijan punta sugli artisti che si opposero «al repressivo regime sovietico» e pure nel padiglione dell’Albania, Armando Lulaj ironizza nei suoi video sugli occupanti sovietici che colpirono una balena credendola un sottomarino. Sì perché il socialismo reale non fu poi quell’esperienza di liberazione dal capitalismo che Marx si aspettava; e così nacque un’arte come contropotere del contropotere. E oggi finiscono tutte in quel «Parlamento delle forme» che è la Biennale di Venezia.
Pierluigi Panza

L'articolo A Venezia si torna all’ utopia (multietnica e anticapitalista) sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/05/a-venezia-si-torna-all-utopia-multietnica-e-anticapitalista/feed/ 0
La Biennale contro https://www.micciacorta.it/2015/03/la-biennale-contro/ https://www.micciacorta.it/2015/03/la-biennale-contro/#respond Fri, 06 Mar 2015 08:25:56 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18842 «Espropriare gli espropriatori», come dal Libro I del Capitale , sembra il messaggio collettivo che dovrebbe uscire, se non dall’intera Biennale, certamente dalla mostra principale

L'articolo La Biennale contro sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

VENEZIA La troika vi respinge? Il vostro Parlamento è esautorato? La finanza mondiale schiaccia ogni vostra aspirazione di libertà? Nessun problema, l’arte vi viene incontro e la vostra casa, dal 9 maggio al 22 novembre, sarà la Biennale d’arte di Venezia. Se non sapessimo che il curatore della 56ª edizione è il 52enne nigeriano Okwui Enwezor (balzato alla ribalta nel 2002 per aver curato una delle più politicizzate edizioni della politicizzata Documenta di Kassel) penseremmo che Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis ci abbiano messo lo zampino. L’evento, che cade a 120 anni dalla nascita della Biennale, appare infatti come un «Parlamento delle forme», un collettivo aperto, assembleare, ex terzomondista, ex periferico dove artisti diversissimi sembrano chiamati a rispondere alle nuove forme di dominio mondiale, «dall’atteggiamento antiliberale di alcune nazioni alla controrivoluzione del capitalismo finanziario in Occidente» confessa Enwezor. «Le fratture che ci circondano abbondano in ogni angolo del pianeta e la risposta per gli artisti è tornare nell’Arena».
Già, l’Arena sarà il cuore di questa Biennale, l’area pulsante del Padiglione centrale ai Giardini dove ogni giorno, per sette mesi, verrà letto, ininterrottamente, Il Capitale di Marx accompagnando la lettura con «recital, canti di lavoro, discussioni, assemblee plenarie e proiezioni di film dedicati a esplorazioni dell’opera di Marx». Sarà come «un oratorio» popolare, l’ha definito il curatore, come ipnotici canti religiosi, che coinvolgerà il pensiero di Engels, Lenin, Rosa Luxemburg, Trotsky, Stalin, Gramsci fino a Pier Paolo Pasolini, con la sua poesia La Guinea declamata in un recital che sarà sempre ripetuto. A corredo di queste letture, opere d’arte appese alle pareti, installazioni, proiezioni di film di Eisenstein, la musica di Luigi Nono ( Non consumiamo Marx ), i tam-tam di Janson Moran e altro di contorno. «Espropriare gli espropriatori», insomma, come dal Libro I del Capitale , sembra un po’ il messaggio collettivo che dovrebbe uscire, se non dall’intera Biennale, certamente dalla mostra principale, All the World’s Futures curata appunto da Enwezor, che qui tutti chiamano amichevolmente con il nome proprio Okwui. Okwui ha radunato 136 artisti, dei quali 89 presenti per la prima volta, da 53 Paesi (molti africani) in una mostra con tante opere, sia filmiche che grafiche, di cui ben 159 nuove produzioni. Artisti che avranno anche modo di presentarsi, confrontarsi e, alla fine, dar vita a un progetto speciale: la raccolta dei curriculum di tutti gli artisti operanti nel mondo, da consegnarsi agli archivi della Biennale. Per Enwezor, che tende a saldare storia e proiezione contemporanea, si è arrivati a questa mostra globale perché la Biennale deve riscoprire quella vocazione espressa nel 1974: «L’anno successivo al golpe di Pinochet, la Biennale sostenne il Cile e si impegnò con una serie di programmi con attivisti, sindacati e studenti dimostrando che l’arte può servire alla trasformazione sociale». Anche se nella rassegna odierna il riferimento è più simbolico che di impegno militante (ma ci sarà anche una mappa dei conflitti in corso in Siria), a questa prospettiva si ispira la selezione delle opere dei vari Christian Boltansky, Robert Smithson, Chris Marker, Abdel Abdessemed, Allora & Calzadilla, Philippe Parreno e moltissimi nomi poco noti con lavori che mitizzano quasi un’intera storia del mondo come sforzo di libertà. Le loro opere saranno accompagnate da lavori più engagé come quelli di Inji Aflatoun (attivista egiziano incarcerato) o quelli sulla Borsa valori e sulle fabbriche di Andreas Gursky. Gli italiani sono quattro: Fabio Mauri, Pino Pascali e, viventi, Monica Bonvicini e Rosa Barba, più uno spazio per la rivista «the Tomorrow» con sede a Milano. Il tutto esposto in quelli che Enwezor chiama i tre filtri della rassegna: il primo dedicato ai residui ( Giardino del disordine ai Giardini), il secondo al Capitale ( Arena nel Padiglione principale), il terzo alla Vitalità (diverse sedi). Accanto alla mostra principale, ci saranno gli 89 padiglioni delle diverse nazioni tra le quali, new entry, Grenada, Mauritius, Mongolia, Mozambico, Seychelles. Il Padiglione Italia sarà curato da Vincenzo Trione; presente, per la seconda volta, il Vaticano. Più progetti speciali e 44 eventi collaterali. Le esposizioni nazionali consentono al presidente della Biennale, Paolo Baratta, di rafforzare il senso della rassegna che si presenta: «A chi, nel 1998, chiedeva la chiusura dei padiglioni nazionali perché obsoleti, oggi possiamo dire che il loro mantenimento ha consentito di non dare ospitalità alla dittatura del mercato. Nonostante i progressi delle scienze, la nostra è una sorta di age of anxiety e per questo la Biennale torna a osservare il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana. E lo fa coinvolgendo artisti e discipline diverse in una sorta di Parlamento delle forme. Siamo come l’ Angelus novus del quadro di Klee descritto da Benjamin: guardiamo le rovine della nostra storia consapevoli che dobbiamo andare avanti». Avanti verso una terra promessa, con Il Capitale ma senza il capitalismo andando oltre «l’arte non arte» degli ultimi decenni. Sebbene — o forse proprio per questo — gran parte dell’arte contemporanea sia proprio una specie di future , di edge-fund nelle mani del capitalismo finanziario internazionale.
Pierluigi Panza

L'articolo La Biennale contro sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2015/03/la-biennale-contro/feed/ 0