Paco Ignacio Taibo II – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Fri, 17 Feb 2017 08:47:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Che Guevara. Le vere icone non muoiono mai https://www.micciacorta.it/2017/02/22999/ https://www.micciacorta.it/2017/02/22999/#respond Fri, 17 Feb 2017 08:47:42 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22999  La monumentale biografia dedicata al rivoluzionario da Paco Ignacio Taibo II: «Senza perdere la tenerezza» torna, rivista e aggiornata, per Il Saggiatore, a cinquant'anni dalla sua morte in Bolivia

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I lettori dello spagnolo/messicano Paco Ignacio Taibo II conoscono e apprezzano la sua scrittura scoppiettante e da giallista affermato con cui ha conquistato fama internazionale. C’è anche un Taibo narratore di personaggi e storico. Sua è una biografia di Pancho Villa (Tropea, 2006) e sua è la monumentale biografia di Ernesto Guevara pubblicata nel 1996, che ora ritorna, rivista e aggiornata, in occasione dei cinquant’anni dalla uccisione del Che in Bolivia nel novembre 1967: Senza perdere la tenerezza (Il Saggiatore, pp. 1.116, euro 26). IL RAPPORTO tra Taibo e Guevara ha un antefatto curioso. Nel 1994 uscì un suo libro con il titolo L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte (Newton Compton), in cui per la prima volta si faceva chiarezza su un passaggio della biografia guevariana relativo al 1965, data che precede la decisione della spedizione guerrigliera in Bolivia. Taibo, a cui per la prima volta vennero aperti gli archivi cubani (lui disse di aver potuto consultare solo per poche ore alcuni documenti riservati), fu il primo a scrivere di una missione internazionalista in Africa, specificamente in Congo, coordinata da Guevara proprio nel 1965. In seguito, si apprese dell’esistenza di un diario africano, che Guevara visse a Praga dopo l’Africa e poi fece ritorno in incognito a Cuba per addestrare il gruppo di guerriglieri che lo avrebbe accompagnato in Bolivia. Una consegna del silenzio e di riservatezza aveva circondato le vicende di Guevara dal 1964 – quando non comparirà più a Cuba – fino alla morte nel 1967. DI UNA NUOVA EDIZIONE di questa biografia scritta da Taibo c’era indubbiamente necessità. Negli ultimi vent’anni il dibattito e la ricerca intorno al Che sono proseguiti incessantemente, come ricorda lo stesso autore nella sua nota introduttiva. Cuba ha fornito nuovi particolari biografici su quello che la storiografia ufficiale dell’isola definisce il «guerrigliero eroico». Fidel Castro ha dato, inoltre, il nulla osta perché fossero pubblicati per la prima volta gli scritti di Guevara rimasti inconclusi e inediti, in particolare gli appunti filosofici e quelli di economia politica che rappresentano il lavoro più maturo della sua produzione teorica e quelli più polemici verso la modellistica sociale ed economica del «socialismo reale» di Mosca e dei paesi dell’Est. Altri documenti parzialmente inediti sono stati pubblicati relativi al dibattito economico che divampò a L’Avana nei primi anni Sessanta e che vide il Che, pur nella sua carica di ministro dell’Industria, andare in minoranza sull’idea del progressivo abbandono della monocultura della canna da zucchero e di una rapida industrializzazione dell’isola per renderla il più possibile indipendente. Oggi, a differenza di due decenni fa, di Guevara sappiamo quasi tutto e gli inediti – se ce ne sono ancora – non sono fondamentali per un giudizio definitivo sulla sua personalità. INTANTO – ricorda Taibo nella sua minuziosa ricostruzione biografica – non muore il mito Guevara. La sua icona ha tutti gli ingredienti per resistere al logorio del tempo: l’assassinio in Bolivia a 39 anni, l’abbandono dell’Avana quando era al culmine delle gratificazioni come leader della rivoluzione, la coerenza tra il dire e il fare portata alle estreme conseguenze (come annotava Eduardo Galeano), il volto bello e giovane ritratto in decine di fotografie (in particolare in quella di Alberto Korda che lo raffigura con basco e sguardo rivolto all’orizzonte), l’impossibilità di invecchiare sia nel fisico sia nelle idee, un viaggio giovanile in alcuni paesi latinoamericani a bordo di una moto come farebbe un ragazzo degli anni 2000, la laurea in medicina per rendersi socialmente utile. Grazie a questi ingredienti, Guevara è diventato uno dei riferimenti del 1968 e poi dei movimenti di rivolta successivi, fino a quello recente «no global». È l’unico mito rivoluzionario che resiste sia in Europa sia in America Latina, dove dell’iconografia comunista non sono sopravvissuti né Lenin né Mao né Trotzsky e neppure Rosa Luxemburg. Per le nuove generazioni, anche se non hanno mai letto i suoi scritti e conoscono ben poco di lui, il Che resta sinonimo di ribellione al potere e di indissolubile rapporto coerente tra etica e politica. QUELLO CHE PIACE nella lettura delle oltre mille pagine della biografia scritta da Taibo è il rifuggire da facili cliché per sgombrare il campo da interpretazioni un po’ agiografiche o semplicistiche. L’idea che Guevara sia una sorta di moderno Don Chisciotte guerrigliero non gli rende onore. Il Che non è stato soltanto uomo d’azione, ma anche statista (troppo spesso resta in ombra l’esperienza di ministro dal 1961 al 1963, anni decisivi nella transizione cubana) e autore di alcuni libri fondamentali sulla rivoluzione dei barbudos. Un altro errore – si evince dalla lettura di Taibo – è considerare il pensiero politico di Guevara come un nucleo teorico a tutto tondo, un marxismo libertario e umanista da contrapporre al marxismo autoritario ed economicista. La sua biografia intellettuale è, invece, empiricamente caratterizzata da scelte che avvengono sulla scorta di esperienze, incontri, letture e maturazione politica indotta dall’esperienza a L’Avana. Il Che, all’inizio della sua avventura cubana, era un marxista dottrinario che guardava con favore alle esperienze del «socialismo reale». Poi matura progressivamente un distacco da quei modelli. Ci sono perciò nei suoi scritti intuizioni e spunti critici, non ancora una teoria alternativa al socialismo di Stato. La vita di Guevara si spezza per giunta mentre la sua riflessione è in evoluzione e non ha ancora preso la forma compiuta di un’alternativa al modello sovietico. In soli undici anni, da quando parte nel 1956 con Fidel Castro dal Messico alla volta di Cuba fino alla decisione di guidare la guerriglia in Bolivia, il Che condensa una serie straordinaria di esperienze e riflessioni politiche che lo trasformano in un personaggio assolutamente singolare. Taibo rifugge pure dal cliché della «rottura» politica tra Castro e Guevara. Preferisce far parlare documenti e testimonianze sulla doccia fredda arrivata nel 1963, quando il Che sferra un attacco ai primi segnali di burocratismo e cerca di modificare il sistema di pianificazione. In quel cruciale 1963 si era aperto lo scontro al vertice del governo cubano a cui contribuiscono due economisti europei, presenti a L’Avana come consulenti: Ernest Mandel e Charles Bettelheim. Il primo sostiene le posizioni di Guevara, il secondo è d’accordo con quanti chiedono una rapida correzione di rotta per tornare al primato dell’agricoltura. La sterzata finale arriva quando un documento del Consiglio dei ministri ufficializza che l’agricoltura e la canna da zucchero devono tornare il fulcro dell’economia dell’isola. Il Ministero dell’industria, di conseguenza, perde il controllo delle attività produttive. È in quel passaggio che Guevara matura la decisione definitiva di lasciare L’Avana su cui stava meditando da tempo. Taibo riporta una confidenza del Che fatta a un suo collaboratore già nel 1961: «Restiamo qui per cinque anni e poi ce ne andiamo. Anche più vecchi di cinque anni, potremo ancora fare una guerriglia». Poi verranno le missioni sfortunate in Africa e Bolivia, che Taibo ricostruisce puntigliosamente. LA MORTE DI GUEVARA chiuderà un’epoca della rivoluzione cubana e della storia dell’America Latina. Cuba ripiega. Sfuma l’obiettivo guevariano di estendere la rivoluzione in altri paesi del continente (dove prevarranno spietate dittature militari) e di sottrarsi al dilemma o Stati Uniti o Unione sovietica. Implacabili ammonimenti sulle possibili alternative erano già venuti nel 1961 (la tentata invasione a Playa Girón finanziata da Washington) e nel 1962 (la «crisi dei missili», lo scontro Kennedy-Krusciov sull’installazione di ordigni nucleari a Cuba). La rivoluzione cubana in quei frangenti si istituzionalizza e imita, pur mantenendo indubbi margini di autonomia in politica estera e interna, gran parte delle malattie del «socialismo reale», soprattutto nel decennio settanta, definito dagli stessi intellettuali cubani «decade grigia»: burocrazia, inefficienza, partito unico. Solo nel 1987, a vent’anni dalla morte di Guevara, Castro tenterà il recupero delle riflessioni politiche del Che. Il contesto è quello delle riforme della perestrojka avviate da Mikhail Gorbaciov a Mosca. Cuba preferisce cercare altre alternative, scavando nelle origini della propria rivoluzione. Arriverà ben presto però la crisi economica seguita al crollo del «socialismo reale» a rendere più pragmatica la politica dell’Avana giunta con caparbietà e coraggio – non privi di contraddizioni e abbagli – fino al nostro 2017.
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Taibo II. L’Amarcord di noi eterni Robin Hood messicani https://www.micciacorta.it/2016/05/21777/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21777/#respond Tue, 03 May 2016 11:09:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21777 Un racconto autobiografico di Taibo II sulla sua generazione dall’utopia rivoluzionaria a oggi

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Mexico

Loro (ossia noi 45 anni fa). Loro pensavano di essere immortali. Erano assolutamente convinti che il passato, il presente e il futuro fossero materiale intercambiabile anche solo in un ciclo di 24 ore. Era la conseguenza di non avere abbastanza passato, di avere un disinformato eccesso di involontario rispetto per il presente e di non essersi messi a pensare seriamente al futuro. Non avevano la capacità di immaginare pessimisticamente il futuro. E quindi nemmeno di intuire che esistesse quella cosa chiamata avvenire. Loro credevano fedelmente nella moltitudine di fantastici paradisi futuri che in quegli anni erano di moda, e naturalmente non condividevano la maligna frase di Paul Nizan che dipingeva l’adolescenza e la giovinezza come una disgrazia irreparabile; sebbene la citassero spesso, facendola passare per la penna di Malraux. Loro parlavano di se stessi come fossero volatili, effimeri, come se fossero sempre sull’orlo della sparizione o della consacrazione. Sembravano logori eroi poco più che adolescenti, discepoli di un Houdini maoista dotato del senso dell’umorismo, o personaggi di un Rulfo leninista, urbanizzati da 50 anni di magia ripetitiva e autoritarismo statale priista (in riferimento al Pri, il partito al governo del Messico per 70 anni dal 1929 al 2000, ndt). Loro intuivano che niente era totalmente impossibile. Forse la colpa era del clima, dell’atmosfera irreale che si viveva nella Città del Messico degli anni Sessanta, delle perniciose piogge di quel settembre. Erano giorni in cui le illusioni svanivano senza lasciare il retrogusto della sconfitta, perché erano state sostituite rapidamente da altre nuove illusioni altrettanto splendide, fiammanti e rotonde. Loro avevano una leggera ammirazione per i Puma, perché erano universitari e venivano dalla seconda divisione. Ammiravano pochi sportivi, solo gli impossibili e i pazzi come il ceco Emil Zátopek, la locomotiva umana, o l’etiope Abebe Bikila, magro e smunto, figlio di una dieta a base di fame, morto a 41 anni, due volte vincitore della maratona. E naturalmente anche Sir Edmund Hillary e lo sherpa Tensing, a cui il neozelandese disse che la ragione suprema per salire sull’Everest (8.848 metri calcolati sull’impossibile linea retta che nessuno usa) era because is there (“perché sta lì”), cosa che rimase senza risposta perché lo sherpa tenne per sé quello che stava pensando, e cioè che lui lo sapeva da molti anni. Loro indossavano camicie bianche e azzurre di cotone grezzo e pantaloni di jeans lievemente scampanati, senza arrivare alle zampe di elefante; le ragazze usavano bluse rosa e azzurro pallido con ricami messicani, e pantaloni di jeans, perché la minigonna non era una buona compagna per entrare di sera e uscire di notte dai quartieri operai. Loro, gli uni e le altre, accorrevano impavidi come tanti Peter Pan e Campanellino al timone della corazzata Potëmkin in una città sporca e aspra dove se ti distraevi ti potevano rompere le calze con un coltello, rubarti le illusioni, torturarti, ficcarti in una macchina blu e romperti la mandibola a calci, cavarti un occhio con la punta di un tondino, buttarti sotto le zampe di cavalli in corsa, dare scosse elettriche alle tue palle fino a farti sembrare un albero di Natale, riempirti i polmoni di gas e le costole di paletti, tirarti fuori le tue ultime paure e le tue ultime lacrime. Loro, gli uni e le altre, credevano di essere immortali e incorruttibili. Il tempo, che è una merda, si incaricò di dimostrargli il contrario, o una variazione: alcuni, solo alcuni, sarebbero stati corruttibili, ma tutti erano mortali. Amore per il bene Ormai è un luogo comune, questa cosa di dire che uno è attaccato a questa città da un cordone ombelicale, intrappolato in un misto di amore e odio. Ripasso le mie stesse parole. Mi sento l’ultimo dei moicani. Constato, confermo: non c’è odio. Solo un’enorme, un’infinita sensazione d’amore per la città mutante in cui abito e che mi abita, che sogno e mi sogna. Una volontà d’amore che più che risolversi nella rabbia, nel possesso o nel sesso, scivola nella tenerezza. Devono essere le manifestazioni, il colore dorato della luce nello Zócalo, le bancarelle dei libri, i tacos di carne, i fiumi di solidarietà profonda, gli amici dell’officina meccanica che mi salutano quando passo. Sarà questo meraviglioso sole d’inverno. Sarà. Ogni storia è personale Ho una forte relazione affettiva con l’Internazionale. È una delle canzoni che la mia famiglia canta alla cena di San Silvestro, ma non riusciamo a far funzionare il coro troppo bene. Mio padre la canta con il testo dei socialisti spagnoli degli anni ’30, come la cantava a dieci anni quando era in esilio in Belgio; è lo stesso testo che conosce mia moglie, Paloma, che lo imparò ascoltando suo padre e i suoi amici nell’esilio messicano. La mamma conosce la versione anarchica della Cnt che cantavano i suoi zii del sindacato dei muratori e le sue zie del sindacato delle sarte di Gijón. Io e mio fratello Benito conosciamo la traduzione messicana che cantavamo alla fine degli anni ’60, e mio fratello Carlos e mia figlia conoscono un miscuglio di tutto ciò. A cena, poi, magari c’è qualche amico italiano, e a volte qualcuno che l’ha imparata in Argentina. Per cui il coro, oltre al fatto che siamo stonati di natura, viene stranissimo. Alcuni diranno “paria” della Terra, e altri “poveri”. Ma questa non è la chiave di tutta la faccenda? Un coro discordante di voci con accenti differenti e lingue diverse? Ho pensato di scrivere in un foglietto che al mio funerale voglio far suonare una versione che credo di aver ascoltato, se la memoria non mi inganna, da Edith Piaf con l’orchestra e il coro dell’Armata Rossa. Poi ho rinunciato al proposito, non voglio lasciare ai miei sofferenti eredi l’impossibile compito di trovare quel disco. Non importa così tanto, quando sarà il momento di andarmene suonerà nella mia testa. Loro. (Ossia noi 50 anni dopo) Loro avevano reso pubblica l’intenzione di vivere cent’anni, e stavano reclutando in assemblee e conferenze, con un certo successo, volontari per fargli spingere in futuro le loro sedie a rotelle alle manifestazioni. Loro si erano fatti delle magliette che sul davanti dicevano “Nati per perdere” e dietro “Ma non per negoziare”. Loro avevano imparato che non esiste una cosa come “La vittoria finale”, bensì una successione di trionfi e fallimenti che obbligavano a concludere che la guerra contro lo Stato e i suoi demoni era perpetua. Loro navigavano nell’eternamente ingiusta e abusiva società messicana come Robin Hood invecchiati, negandosi la pensione, pienamente coscienti che se Marx fosse nato a Toluca sarebbe morto fucilato al fianco di Rubén Jaramillo. ( Traduzione di Giovanni Dozzini) *** Paco Ignacio Taibo II  è tra le presenze più attese della terza edizione di Encuentro, il Festival delle letterature in lingua spagnola che si tiene a Perugia da domani all’ 8 maggio, e che quest’anno si apre anche alla musica, al teatro e all’audiovisivo. Tra gli altri scrittori presenti Enrique Vila- Matas, Luis Sepúlveda, Arturo Pérez- Reverte Info www. encuentroperugia. it IL RITORNO A quattro mani di Paco Ignacio Taibo II ( La Nuova Frontiera, trad. di C. Cacucci pagg. 448, euro 19) In libreria da dopodomani

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Così le parole finirono al rogo come le streghe https://www.micciacorta.it/2015/05/cosi-le-parole-finirono-al-rogo-come-le-streghe/ https://www.micciacorta.it/2015/05/cosi-le-parole-finirono-al-rogo-come-le-streghe/#respond Thu, 07 May 2015 12:21:30 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19566 Il 10 maggio del 1933 i nazisti bruciarono oltre 25mila libri in cima alla lista c’era Remarque

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BRUCIANO . Duecentotrentadue gradi Celsius, la temperatura alla quale la carta si incenerisce, si consuma nel fuoco, e la cenere si volatilizza nella notte. La data rimarrà fissata nella memoria: 10 maggio 1933. Originariamente progettate per essere celebrate simultaneamente in ventisei città, alcune delle cerimonie furono impedite dalla pioggia, ma a Berlino, a Monaco, ad Amburgo, a Francoforte, i libri bruciarono. Alla fine di gennaio i nazisti avevano preso il potere e s’era conclusa l’esperienza della Repubblica di Weimar, un mese più tardi bruciava il Reichstag e iniziava la caccia ai socialisti e ai comunisti, agli anarchici e ai sindacalisti. Per le cerimonie dei roghi dei libri si mise in moto il rituale. Tutti i parafernali del nazismo: bande musicali, fiaccolate, carri di buoi pieni di volumi, convocati per il grande atto purificatore della giovinezza contro l’intellettualismo ebraico: un grande rogo pubblico di libri. Le foto mostreranno membri delle Sa, poliziotti, studenti sorridenti, felici, intenti a radunare libri da gettare nei falò. La festa della barbarie. A Berlino, nella Opernplatz, non brucia la carta, bruciano le parole. Bruciano i libri con le poesie di Bertolt Brecht, ma soprattutto bruciano i versi, le magnifiche parole: Non lasciatevi sedurre, non esiste alcun ritorno. Il giorno è alle porte, c’è già il vento della notte. Non verrà un altro domani. Non lasciatevi convincere che la vita è poco. Interviene il ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, pura energia maligna, elegante, sottile, istrionico. La sua voce cresce negli altoparlanti, raschia un po’: «Uomini e donne di Germania, l’era dell’intellettualismo ebraico sta giungendo alla fine. Da queste ceneri rinascerà la fenice di una nuova era. Oh, secolo! Oh, scienza! È un piacere essere vivo! ». Di quale scienza parla? Della scienza primitiva di bruciare nei roghi? Bruciano le meravigliose geometrie dorate e umane di Gustav Klimt. Bruciano i brillanti testi di Sigmund Freud sull’isteria e i sogni. Chi bruciava i suoi libri avrebbe finito per bruciare sei milioni di ebrei come lui. Bruciano nei falò i testi di Einstein, i racconti di Sholem Asch, i testi del ceco Max Brod, i romanzi dei fratelli Mann, persino la relativamente innocente Vicky Baum viene incenerita. Si bruciano i geniali romanzi sociali di Jack London, Theodore Dreiser, John Dos Passos, forse in quel momento il miglior scrittore del primo scorcio di ventesimo secolo. In cima alla lista c’era il capolavoro di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale . Bruciano i romanzi storici di León Feuchtwanger, bruciano i grandi romanzi antimilitaristi di Barbusse, Il fuoco, persino l’Hemingway di Al di là del fiume e tra gli alberi. Imperdonabile, il pacifismo, per i boia del fuoco. Bruciano le riproduzioni delle fantasmagorie di Marc Chagall e i quadri di Paul Klee. Bruciano, è chiaro, le riproduzioni del neorealismo terribile e drastico di George Grosz e Otto Dix. Bruciano i libri del futuro premio Nobel Anna Seghers. Nel falò si immolano i libri di Heinrich Heine. Senza rendersene conto, Goebbels e i suoi ragazzi avevano creato la lista fondamentale della cultura della metà del ventesimo secolo, stavano costruendo le raccomandazioni che avremmo seguito da adolescenti ansiosi pochi decenni più tardi: i libri, i quadri, gli articoli di filosofi e scienziati, le poesie. I nazisti non si rendevano conto che la temperatura alla quale brucia un libro non è solo la temperatura del fuoco sulla carta, è anche quella del fuoco dello sguardo sulla parola. Racconto questa storia per ricordare. Per non dimenticare. E l’ultima cosa che voglio ricordare è che il primo libro pubblicato in Germania dopo la sconfitta del nazismo fu Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. (Traduzione di Giovanni Dozzini)

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