partigiani – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 18 Mar 2020 16:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Il Virus della memoria. Labo Giorgio, senza fissa dimora  https://www.micciacorta.it/2020/03/il-virus-della-memoria-labo-giorgio-senza-fissa-dimora/ https://www.micciacorta.it/2020/03/il-virus-della-memoria-labo-giorgio-senza-fissa-dimora/#respond Wed, 18 Mar 2020 16:00:04 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26028 Ci dicono che muoiono soprattutto gli anziani. Muoiono i ragazzini degli anni ’40, quelli che hanno intravisto la guerra mondiale e il nazifascismo

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Il nome di uno studente che un paio di mesi dopo avrebbe compiuto 25 anni sta scritto nel manifesto che gli attacchini del comune incollano sui muri romani all’inizio di marzo del 1944. Il padre Mario era sceso da Genova il primo del mese di marzo alla ricerca del figlio. Certamente era stato arrestato. Fa tappa prima a Pisa, poi Firenze, poi raggiunge Giulio Carlo Argan, il professore di Giorgio, che lo ospita nella sua casa a Roma. Dà mandato a un avvocato per avere informazioni, prova anche col Vaticano. In questura non sanno niente e nemmeno al Viminale o a Regina Coeli. Poi il 9 marzo appare il nome del figlio su quel manifesto. Fucilato insieme ad altri nove. «Tento di credere a un’omonimia, ma non ci riesco. Manca l’accento, ma è lui, è lui» scrive. Non Labo, ma Labò. Con Argan si reca a Via Tasso, la palazzina dove i tedeschi torturano i partigiani. «La sentinella avvolta in nastri di cartucce, e con le bombe a mano negli stivali, mi dice che non c’è». Passano dal cimitero, ma «il direttore è uscito e non tornerà» gli dicono. Così se ne tornano a casa col filobus 129. Il giorno dopo riesce a leggere un «verbalino», uno dei tanti che gli operai del comune stilavano per poter, alla fine della guerra, far riconoscere le tante salme di sconosciuti che erano stati fucilati dai nazifascisti. Mario si imbatte «in un cappotto scuro spigato, pull-over verde pisello e scarpe con la suola di gomma». Forse è la descrizione di suo figlio, ma non torna un particolare: baffetti castani. «Aveva più volte tentato di farseli crescere, ma si era fermato scontento». Passa ancora un giorno e torna a Via Tasso. Nella stanza «c’è un borghese ad una scrivania, e vicino a lui un soldato» e poi un ufficiale tedesco e un «gobbetto» che viene fatto uscire. «L’interprete mi dice “Un bel figlio avete tirato su! Volete sapere quel che faceva? Era sab-bo-ta-to-re”». Per quattro mesi aveva fabbricato bombe insieme a Giulio Cortini e a Gianfranco Mattei. Uno diventerà uno dei maggiori fisici italiani. L’altro è un chimico, assistente di Giulio Natta che nel ’63 gli dedicherà il premio Nobel. Anche Giorgio Labò è un promettente architetto. In quei giorni di guerra continuava a parlare di architettura. «Si parlava di urbanistica» scrive Argan e di «città da ricostruire», luoghi nei quali «l’umanità disperata si riconosca guarita e felice». Intanto l’interprete tira fuori da un cassetto un pacco di fotografie e un sacchetto. Consegna tutto all’ufficiale tedesco. Una cravatta, due penne, gli occhiali, due tessere con la fotografia. Prima di morire era riuscito a farsi crescere i baffi. Questi fatti accadevano in un mese di marzo in tempo di guerra. Sono passati tre quarti di secolo e ci troviamo a vivere un altro conflitto. Diverso, meno cruento forse, ma spiazzante. Giorgio Labò fabbrica bombe in un laboratorio accanto al Tevere, in Via Giulia 23/a, ma quando parla col suo professore pensa alle città da ricostruire, «al dovere morale della felicità umana», compito anche dell’architetto. Quando ci discorrevi «si sarebbe detto che passasse le sue giornate in biblioteca, invece faceva le bombe per i G.a.p.». E io penso alle dichiarazioni spiazzanti dei medici che passano giorni e notti a salvare le vite di chi è stato infettato dal parassita. Ci dicono che muoiono soprattutto gli anziani. Muoiono i ragazzini degli anni ’40, quelli che hanno intravisto la guerra mondiale e il nazifascismo. Quelli che hanno vissuto la ricostruzione e la nascita della democrazia, le battaglie per i diritti negli anni ’60 e ’70, quello che è successo subito dopo. Disgrazia nella disgrazia in queste settimane di Covid-19 è la perdita di chi può dare spessore a questo tempo schiacciato sul presente. Compito dei medici e degli infermieri è curare e salvare le vite. Compito di tutti è responsabilizzarsi, restare a casa e arginare il contagio. Ma in questo spaesamento generale cerchiamo di salvare anche la memoria. * Fonte: Ascanio Celestini, il manifesto

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25 aprile. Le resistenze dentro e la profondità del mondo https://www.micciacorta.it/2017/04/23236/ https://www.micciacorta.it/2017/04/23236/#respond Tue, 25 Apr 2017 08:24:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23236 la Resistenza è fatta anche di nuove parole, la lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, nel praticare un pensiero sovversivo

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Ho sempre pensato che di partigiani e di Resistenze ce ne sono stati molti nelle tante geografie e ambienti, contadini e urbani, così come sono stato sempre dell’idea che quando la Storia accelera, lo spazio individuale delle scelte si riduce. Quello del destino stringe a un feroce faccia a faccia con se stessi. C’è stata la Resistenza eroica e ufficiale, quella politica, militare e organizzata, ma anche una minore fatta dai molti, non meno necessaria, di chi si è dato per generosità un coraggio che forse anche un minuto prima non sapeva di possedere, e quel coraggio l’ha pagato con la propria vita o salvandone un’altra. Pensando oggi 25 Aprile a quella generazione di cittadini combattenti sembra irrepetibile, come quell’epica lontanissima e lirica dei libri di Beppe Fenoglio che ha raccontato la lotta partigiana in alcuni romanzi formidabili come “Una questione privata”, dove storia individuale e Storia collettiva diventano una cosa. Ecco, insieme con quella pubblica, eroica (e retorica), è esistita ed esiste anche una Resistenza privata. Questo si ripete sempre a ogni scontro epocale tra civiltà e barbarie, che è quotidiana, nel Nord e nel Sud del mondo, in un autobus affollato o in un treno per un insulto razzista, in una fabbrica quando le leggi del profitto mettono i lavoratori uno contro l’altro e si diventa piccoli kapò pronti a tutto pur di mantenere un privilegio consumistico; nelle scuole votate al marketing, negli ospedali indirizzati al business etico, laddove si diventa complici del pensiero unico. Questo conflitto lo stiamo vivendo anche adesso, diverso e in parte sommerso, ma con le stesse lacerazioni umane, prima che sociali e politiche. Lo stiamo vivendo con distanza di valori da allora, una frattura dolorosa tra una forte esperienza del mondo e un sogno di trasformazione e il reality show dell’eterno presente dove “sembra scomparsa la profondità del mondo”, per dirla con le parole di Paolo Volponi. La nostra Resistenza civile è forse minoritaria, ma c’è. Tacere, non fare quella scelta, significa ancora abdicare al proprio dovere di esseri umani, permettere una violenza, un’ingiustizia, diventare indifferenti di fronte a una sopraffazione tra forti e deboli, soprattutto rispetto ai popoli migranti, due volte vittime di un capitalismo selvaggio che sottomette globalmente e respinge localmente. Come allora, anche oggi una parte maggioritaria del nostro paese, minacciata dalla crisi, anestetizzata dal pensiero debole, orfana della politica, sta cedendo alle lusinghe di un’indifferenza che è diventata ideologia forte, poetica del social solo, narcisismo di massa e preludio a una nuova barbarie, se ci pensiamo bene già in corso da tempo. La Resistenza privata, prima ancora di quella collettiva, non ha bisogno di grandi esibizioni, basta essere fino in fondo cittadini, ci sono persone civili che la esercitano quasi senza rendersene conto, altri devono fare uno sforzo maggiore perché disabituati a prendere la parola. Sì, perché la Resistenza è fatta anche di nuove parole, la lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà, e praticare un pensiero sovversivo cercando di riportare in luce ciò che l’informazione asservita alle logiche dell’inserzionista, e la cattiva cinematografia, trasformano in accattivante, anestetizzante e odiosa fiction. Questo dobbiamo e possiamo fare ogni giorno e per tutti i giorni dell’anno. SEGUI SUL MANIFESTO

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Liberazione. PD e comunità ebraica romana non partecipano al corteo dell’Anpi https://www.micciacorta.it/2017/04/23224/ https://www.micciacorta.it/2017/04/23224/#respond Thu, 20 Apr 2017 09:21:06 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23224 Per il terzo anno consecutivo. Organizzato un altro appuntamento per ricordare il contributo alla Liberazione della brigata ebraica

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ANPI

Anche il Pd si sfila dalla manifestazione dei partigiani: è divisiva. Il presidente nazionale Smuraglia: ci dispiace. Abbiamo fatto il possibile ma non possiamo escludere qualcuno Per il terzo anno consecutivo la comunità ebraica romana non parteciperà al corteo organizzato dall’Associazione nazionale partigiani il 25 aprile per l’anniversario, quest’anno il 72esimo, della Liberazione. La motivazione è sempre la stessa, ribadita ieri dalla presidente della comunità Ruth Dereghello: «La scelta dell’Anpi di Roma di cancellare la storia e far sfilare gli eredi del gran Muftì di Gerusalemme che si alleò con Hitler». I palestinesi. Nelle scorse settimane c’erano stati tentativi di ricomporre la frattura che risale al 2013, quando non fu fatto intervenire dal palco di porta San Paolo il rappresentante dell’associazione amici di Israele; l’anno successivo finì a spintoni dopo che alcuni rappresentanti della comunità che sfilavano dietro le insegne della brigata ebraica (che ha partecipato alla guerra di Liberazione inquadrata nel ’45 nell’esercito britannico) tentarono di cacciare dal corteo un gruppo di palestinesi con le loro bandiere. Il dialogo non ha portato però a nulla, come ha spiegato ieri il presidente dell’Anpi di Roma Fabrizio De Sanctis: «Non abbiamo ricevuto risposta al nostro invito. E non ci ha fatto sapere niente neanche il Pd». Poco dopo anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini ha fatto sapere che il partito non aderirà al corteo: «Purtroppo è diventato un elemento di divisione». La divisione tra il Pd e l’Anpi ha anche un’altra ragione: la scelta congressuale dell’Associazione partigiani di schierarsi per il no al referendum sulla riforma costituzionale. Scelta che il Pd ha attaccato in ogni modo, immaginando anche l’esclusione dell’Anpi dalle feste dell’Unità della scorsa estate. Poi si rimediò, per la disponibilità del presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia di partecipare a un confronto con Matteo Renzi proprio alla festa del partito di Bologna. Chiamato in causa ieri, Smuraglia si è detto «dispiaciuto» per la decisione della comunità ebraica romana. «Abbiamo fatto il possibile per far partecipare tutti al corteo di Roma, anche volendo non possiamo selezionare chi far intervenire e chi no – ha aggiunto. La comunità ebraica solleva una diatriba che rovina l’immagine del 25 aprile, non può lamentarsi se vengono anche rappresentanti dei palestinesi. L’unica raccomandazione che facciamo a tutti e che non si venga con bandiere che non siano quelle dei partigiani». La comunità ebraica romana ha deciso di riunirsi il 25 aprile in via Balbo, un tempo sede della brigata ebraica, con l’intenzione di «celebrare il 25 aprile senza faziosità e senza ambiguità». Secondo la presidente Dereghello «l’Anpi non rappresenta più i veri partigiani». La sindaca Virginia Raggi ha fatto sapere che interverrà a entrambe le manifestazioni. Il corteo romano dell’Anpi quest’anno avrà un percorso diverso, non partirà più dal Colosseo ma dalla zona periferica della Montagnola, dove il 10 settembre 1943 caddero 53 tra militari e civili nel tentativo di impedire l’ingresso a Roma alle truppe naziste. SEGUI SUL MANIFESTO

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Partigiana nella vita ordinaria https://www.micciacorta.it/2016/07/partigiana-nella-vita-ordinaria/ https://www.micciacorta.it/2016/07/partigiana-nella-vita-ordinaria/#comments Tue, 05 Jul 2016 15:40:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22141 Ritratto. La figura della resistente, neuropsichiatra Claudia Ruggerini

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partigiano
Claudia Ruggerini era una bellissima ragazza che a ventun anni decise di gettarsi nella lotta partigiana. E bellissima ragazza è rimasta fino alla fine della sua vita, che ha concluso ieri, a Milano, dove era nata nel 1922. È stata una donna che ha mostrato nella sua esistenza che scegliere è sempre possibile: non solo nei momenti dove la Storia si addensa, come appunto quelli della guerra e della Resistenza, ma anche dopo, quando la vita si fa quotidiana e ordinaria. Una testimonianza di vita, la sua, incredibilmente densa, e fatta di una sostanza etica che ci riguarda tutti, e che tutti dovrebbe continuare a toccare.Claudia Ruggerini nacque in via Padova 36, che via di immigrati era già negli anni Venti. La sua famiglia veniva da vicino, dalla Brianza: sua nonna era una trovatella, e sua madre aveva fatto la massaggiatrice. Famiglia matrilineare, ché anche il padre socialista non era molto presente: tanto più che quando Claudia aveva dodici anni, lui morì, massacrato di botte dei fascisti davanti a casa. E lei vide il pestaggio dalla finestra. Nonostante questo, non si sbandò: anzi, era molto studiosa, «una secchiona», come raccontava lei stessa. E fu proprio l’amore per l’arte a costituire l’innesco che determinò la consapevolezza del suo antifascismo: a Venezia, dove sua madresi recava per massaggiare i clienti ricchi, andava nelle chiese, alla Biennale d’arte, e a vedere i film del festival del cinema, che nell’Italietta fascista e provinciale non potevano circolare. Le si dischiusero allora allo sguardo mondi nuovi, nuove possibilità di vita. E quando all’università incontrò Hans, che fu il suo «fidanzatino», e (come avrebbe scoperto solo dopo la guerra) era emigrato da Vienna perché ebreo, tutto fu compiuto: perciò fu naturale, dopo l’8 settembre, diventare la partigiana Marisa. Prima fece la staffetta con la borsa carica d’armi e di documenti verso la val d’Ossola, e poi, aggregata alla brigata Garibaldi, la quinta colonna per conto del Cln dentro San Vittore. Hans, infatti, era stato rinchiuso lì, e per una serie fortuita di eventi Claudia conquistò la fiducia dei tedeschi che gestivano il carcere. «Vivevo nello spavento», mi raccontò: nonostante lo spavento non mollò, rischiando il peggio. Poi entrò a far parte, unica donna, del comitato di iniziativa fra gli intellettuali che il comunista D’Ambrosio, membro del Cln, aveva messo in piedi. Claudia conobbe bene Vittorini, divenne amica di Alfonso Gatto, e con loro occupò la redazione del Corriere della Sera il 25 aprile, per fare uscire il primo numero del giornale non più fascista. «L’ultima missione politica – raccontava Claudia – l’ho fatta nel ’53. Quando con D’Ambrosio e Reale siamo andati in Costa Azzurra da Picasso, per convincerlo a prestare Guernica a Milano per la mostra che gli dedicavano a Palazzo Reale. A un certo momento arrivò anche Jean Cocteau. Fu una giornata meravigliosa». Dopo la guerra, Claudia si laureò con Cesare Musatti, e si avviò alla carriera di neuropsichiatra, per diventare primario di neurologia a Rho. Dove avrebbe fatto un’altra battaglia a tutti gli effetti partigiana, contro le scuole speciali, dove sarebbero dovute andare solo persone con problemi mentali gravi, e dove invece venivano segregati i bambini che arrivavano dal sud che secondo l’amministrazione scolastica non avevano i prerequisiti scolastici. Claudia fece sì che quella pratica di segregazione terminasse, e si praticasse quella che oggi si chiamerebbe «integrazione». «Devi fare il sociale nella comunità: questa è politica. E l’ho sempre fatta. Quindi sì, è stata lotta partigiana anche cercare di far sì che i genitori comprendessero i figli, che i mariti comprendessero le mogli… è stata lotta partigiana benedire le corna della gente senza colpevolizzarle… Avevo una capacità, che è la cosa che ho conquistato: la capacità che la gente fa quello che si sente di fare, che è libera di fare quello che fa, basta che se ne prenda la responsabilità. Io, per me, me la sono sempre presa la responsabilità». Claudia ci lascia questa eredità: si è partigiani quando si rischia la vita lottando contro i tedeschi, ma anche quando si fa una battaglia educativa antirazzista. Perché l’esperienza del partigianato, tra le tante cose, fu una straordinaria esperienza di fraternità. Per chi volesse salutarla, i funerali di Claudia si terranno oggi alle 15 nella chiesa di via Previati a Milano.

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Vite mai domate https://www.micciacorta.it/2016/04/21731/ https://www.micciacorta.it/2016/04/21731/#respond Mon, 25 Apr 2016 16:47:15 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21731 La Resistenza delle donne: il periodo clandestino, le nozze a Ventotene, un uovo diviso in tre, un’intervista a Giovanna Marturano. I canti antifascisti proibiti e pericolosi. Anticipazioni dal lavoro (libro + 2cd) a cura di Alessandro Portelli con Antonio Parisella

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Giovanna Marturano

«Questa città ribelle e mai domata…». Il verso della canzone dei partigiani romani dà il titolo a un lavoro – due cd e un libro – che raccoglie un secolo di storie e canti antifascisti dall’archivio del Circolo Gianni Bosio, con la collaborazione del Museo della Liberazione di via Tasso. I cd documentano un antifascismo cantato che non appartiene solo alla stagione della Resistenza, ma comincia prima dell’avvento del regime e continua oggi; e non appartiene solo all’Italia sopra la linea gotica, ma anche a Roma e al Lazio, all’Umbria, all’Abruzzo, alla Campania, alla Sardegna. E i testi del libro raccontano una Resistenza tutta al femminile: dodici storie di donne che hanno combattuto il fascismo in tutti i modi, dalla lotta armata alla resistenza senza armi, hanno conosciuto il carcere e il confino, hanno trasmesso la memoria (alcuni canti dei cd li ascoltiamo dalle voci di alcune di loro). Il genere femminile del titolo «mai domata» ribadisce che non si tratta di «contributo delle donne alla Resistenza», ma di una Resistenza delle donne, protagoniste. Ribelle e mai domata. Canti e racconti di antifascismo e resistenza, a cura di Alessandro Portelli con Antonio Parisella, Squilibri editore, verrà presentato il 25 aprile a partire dalle 17 al Museo della Liberazione, via Tasso 145, Roma. Dall’intervista con la partigiana Giovanna Marturano Voi forse non sapete, come stavano i parenti, soprattutto la moglie, anche fresca sposa, a Ventotene. Allora: il confinato che riceveva dei parenti, lui doveva affittare una camera. Questa camera doveva essere esterna, doveva avere una finestra, con le grate. Perché la chiudevano a chiave la notte. Poi a intervalli regolari venivano con un bastone, (battevano) così su queste cancellate, ran dan dan dan. Poi avevano il diritto, il dovere, di vedere che facevano questi qua. Certo, per due sposi non era… Poi vedevano se le finestre, le barre, erano tagliate; a noi ci chiusero senza gabinetto, allora ‘n ci avevamo manco il gabinetto. Però quello che ci affittava la casa quando ci ritiravamo ci teneva aperta la porta per andare al gabinetto. Contenti e imbrogliati. Questa è la cosa. Poi il giorno dopo le nozze Adele Bei ci fece gli gnocchi, non so come ha trovato la farina, perché non c’era niente, era in tempo di guerra. Ci fece degli gnocchi – così, tanto così. Dico: «Adele tu sei esagerata, che credi che siamo l’orco e la moglie dell’orco?». Ce li siamo mangiati tutti. Una fame tremenda, ma lo sai che a un certo punto sparirono i gatti delle compagne; gatti a Ventotene non c’erano più. Lepre in salmì. Anche i topi si mangiavano. Le fave col baco. La seconda volta che andai, dopo sposata. Allora, ti piacciono le fave? Primo piatto: fave a minestra con due cannolicchi. Secondo piatto, fave col sugo. Terzo piatto, c’era il dolce – ci mettevano un po’ di cioccolato, quello che trovavano, e facevano un dolce. Solo fave, ed era una preparazione per quando la guerra noi abbiamo mangiato il prosciutto badogliano coi vermi. Ogni giorno, ogni volta che prendevo il prosciutto, levavo tutti i vermi, cuocevo la parte che dovevamo mangiare, e chiudendo gli occhi ce la mangiavamo. E, com’era buono, per carità. Naturalmente mio marito non li voleva vedere i vermi; la compagna dove eravamo nascosti neanche lei. Io ero più coraggiosa evidentemente, in questo senso, e allora mi chiudevo a chiave perché se no sbirciavano e non mangiavano più niente. Dico: «Ahò, volete spreca’?». Durante la Resistenza, durante il periodo clandestino, facevamo una vita terribile perché non avevamo il tempo di cucinare e c’era poco da mangiare. Allora si metteva in una stufa, si metteva questo pentolone, si gettava tutto quello che avevamo da mangiare per la giornata.. Una volta mi ricordo che dividemmo un uovo in tre; io lo sbattei forte per farlo gonfiare e poi lo misi a cuocere, senza olio perché l’olio non si trovava, e gridavo: «Venite, venite a tavola, se no si sgonfia». Se avevamo un uovo era tanto, e anche un uovo in tre era tanto. Da “Note sul canto antifascista” «I coniugi Ortenzi Giuseppe fu Bernardino e Cenci Maria Angela fu Tommaso, entrambi da Monterotondo ed ivi residenti, riferirono il 20 u.s. mese a quell’Arma come più volte e per ultimo durante tutta la giornata dal 18 – lavorando in una loro vigna – avessero udito la proprietaria di altro fondo attiguo Salvatelli Florinda fu Domenico e fu Sensi Carolina, nata anch’essa a Monterotondo il 18 marzo 1890 ed ivi residente cantare a squarciagola canzoni da essa improvvisate e adattate su motivi popolari contenenti invettive e minacce a S. E. il Primo Ministro (Benito Mussolini). L’Arma esperì le indagini del caso e la Salvatelli – ricercata dai militari e trovata la sera del 21 u.s. – confermò, con cinismo, il fatto attribuitole, dichiarando anche per iscritto che simili canzoni – da essa stessa inventate – ha cantato in passato quasi tutti i giorni ed è disposta a cantare sempre, in qualsiasi tempo e luogo». Luciana Romoli, antifascista romana, canta una popolare parodia comunista di Spartacus Picenus (T’amo con tutto il cuore/ O rossa mia santissima bandiera)1, e racconta: «Mia madre, quando eravamo piccole, io sono la terza di dieci figli, mia madre cantava questa e cantava Addio Lugano bella, poi diceva: ‘adesso che l’avete imparate non l’andate a canta’ de fori se no ce fate arresta’ a tutti’. Questa quando ci addormentava – t’amo con tutto il cuore… – questa poi si canta lentamente, proprio lentamente. Mia madre la cantava lentamente». Durante il fascismo, come sappiamo da moltissimi esempi, questi canti sono proibiti e pericolosi. Ancora Luciana Romoli: «Mio zio Angelo (…) andava nelle osterie e quando andava all’osteria si metteva a canta’ le canzoni antifasciste. Cantava ’e parodie contro Mussolini; e quindi l’arrestarono». Nel 1939, cinque contadini di Monterotondo, sorpresi da un vicino a cantare l’Internazionale, furono spediti per due anni al confino. Se si canta, dunque, è bene non farsi sentire, cantare a voce bassa (l’errore dei cinque di Monterotondo e di Florinda Salvatorelli è che cantavano «a voce piena», «a squarciagola»), in casa («non l’andate a canta’ de fòri», ammoniva la madre di Luciana Romoli alle figlie che la tradizione del canto sovversivo la succhiavano praticamente col latte materno), in luoghi rinchiusi come il carcere o il confino (dove Anna Menichetti impara dal padre le canzoni antifasciste e Mastrobbio si perfeziona nell’arte del violino), o che si credono protetti, come l’osteria o le scampagnate del Primo Maggio («cantavano Bandiera rossa in campagna, andavano in campagna e cantavano Bandiera rossa contro il fascio», ricorda Carolina Zancolla). È solo in queste circostanze eccezionali, fra l’altro, che è possibile cantare insieme e non da soli. Cantare da soli significa, infine, cantare per se stessi – ed è quello che fa Florinda Salvatorelli, inventando canzoni, strofette e parodie che nessuno deve sentire.

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Crainz. Orgoglio impastato di povertà Così l’Italia fu rifatta insieme agli italiani https://www.micciacorta.it/2015/04/crainz-orgoglio-impastato-di-poverta-cosi-litalia-fu-rifatta-insieme-agli-italiani/ https://www.micciacorta.it/2015/04/crainz-orgoglio-impastato-di-poverta-cosi-litalia-fu-rifatta-insieme-agli-italiani/#respond Thu, 23 Apr 2015 08:17:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19345 Molti di quei giovani rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò, e una parte di essi affluisce in montagna e dà vita alle prime bande partigiane

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È IL simbolo di una straordinaria storia italiana, il 25 aprile, e in questo settantesimo anniversario siamo forse più maturi per capirlo appieno: lo suggerisce il clima stesso che si è creato attorno ad esso, ed è un gran bene che sia così. È un gran bene che, superate le deformazioni di differenti climi politici e culturali, appaia oggi limpidamente che vi fu allora un’Italia che seppe scegliere in modo largamente corale, e sia pure in diversissime forme. Seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune. Altrettanto limpido ci appare oggi il raccordo fra l’epilogo di una vicenda drammatica e l’avvio della rifondazione del Paese.
Un paese piegato e piagato ma capace di risollevarsi dal degrado, dalla diseducazione, dalle degenerazioni di vent’anni di fascismo. Un paese devastato dalla guerra, da quella guerra: dai drammi evocati in modo intenso da Giuseppe Ungaretti (“Cessate di uccidere i morti,/ non gridate più, non gridate...”), Salvatore Quasimodo (“E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore/ fra i morti abbandonati nelle piazze...”), Alfonso Gatto (“Era silenzio l’urlo del mattino/ silenzio il cielo ferito/: un silenzio di case di Milano”). Una “guerra inespiabile”, per dirla con Ferruccio Parri, e nel cuore stesso di essa si posero i germi fondativi di una nuova cittadinanza democratica. E iniziò a nascere allora, in opposizione al Nuovo ordine hitleriano, anche l’idea di un Europa diversa: alla base di essa troviamo anche il manifesto Per un’Europa libera e unita, più conosciuto come Manifesto di Ventotene perché Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi lo scrissero appunto lì, dove il fascismo li aveva costretti al confino. Abbiamo bisogno di ricordarlo oggi, e ognuno ne comprende le ragioni.
Seppe risollevarsi, l’Italia, dallo sfascio dell’8 settembre del 1943: «Mai come in quel giorno — ha scritto Dante Livio Bianco — abbiamo capito cos’è e cosa vuol dire l’onore militare e la dignità nazionale: quelle parole, che spesso ci erano apparse insopportabilmente convenzionali e guaste dalla retorica, ora ci svelavano la loro sostanza dolorosamente umana, attraverso la pena che ci stringeva il cuore e la vergogna che ci bruciava. E fu motivo di più per gli antifascisti di passare all’azione». In quegli stessi mesi Pietro Chiodi, professore ad Alba, annotava: «È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato in parte anche a me». E Claudio Pavone ha ricordato così l’ultima volta che vide Leone Ginzburg prelevato nel Carcere di San Vittore dai nazisti che l’avrebbero torturato a morte: «Da una cella qualcuno iniziò a fischiare l’Inno del Piave, era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via». Altro che “morte della patria”, come pur è stato scritto! L’8 settembre muore solo una finzione di patria, con il re e Badoglio che fuggono lasciando l’esercito e il Paese senza alcuna indicazione od orientamento. Consegnando così l’Italia all’occupazione nazista e ai mesi più tragici (e pesò a lungo il diversissimo modo con cui le differenti parti dell’Italia li vissero).
Certo, non fu assente allora neppure quella «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano» che Ada Gobetti sferzava amaramente all’indomani dell’8 settembre. O quell’Italia che si è «severamente astenuta dal parteggiare», per dirla con Luigi Meneghello: con mille forme di “non scelta” o di presa di distanza da un conflitto che aveva in sé il rischio quotidiano della tragedia, dell’incrudelirsi del vivere. A lasciare il segno, a dare la reale impronta a quei mesi e all’Italia che ne sarebbe nata contribuirono però in modo decisivo i mille e differenti percorsi che portarono a opporsi — di nuovo, in diverse forme — al nazismo e alla repubblica di Salò. Percorsi strettamente connessi, nelle generazioni cresciute durante il fascismo, a una radicale e non indolore messa in discussione di se stessi: coloro che diventavano antifascisti durante la guerra e la Resistenza, annotava Giacomo Noventa, «avevano dovuto mettere un segno interrogativo o negativo a tutto ciò che avevano pensato essi stessi, sconvolgere (…) tutto il proprio pensiero e la propria vita».
Molti di quei giovani rifiutano di arruolarsi nell’esercito di Salò, e una parte di essi affluisce in montagna e dà vita alle prime bande partigiane. E quelle bande possono sopravvivere solo con il sostegno delle donne e degli uomini di quelle zone, fra le più povere del Paese (spesso «impastate con la povertà», per dirla ancora con Meneghello). A tutto questo si intrecciano le più differenti forme di “resistenza civile” e di opposizione: dall’aiuto ai perseguitati, a partire dagli ebrei, sino a quegli scioperi operai che già dal marzo del ‘43 annunciano il declino irreversibile del fascismo. E sino ai 600mila militari rinchiusi nei campi di prigionia tedeschi che potrebbero tornare in Italia aderendo a Salò, ma non lo fanno. Una grande complessità, ma con un filo robusto che la tiene insieme: si affermarono allora modi di “essere italiani” in contrasto aperto con altri modelli, e con stereotipi destinati a sopravvivere. Nella scelta di quelle donne e di quegli uomini prese corpo e vita reale insomma la polemica di Piero Gobetti contro la “società degli Apoti” propugnata da Giuseppe Prezzolini nel 1922: la società di coloro che “non la bevono”, distanti sia dal fascismo che dall’antifascismo (ma portati in realtà a prosperare all’ombra dei vincitori).
Fu dunque differenziata la partecipazione alla Resistenza, segnata anche dall’intrecciarsi e dal sovrapporsi di diverse intonazioni. Vissuta come guerra di liberazione dall’occupazione nazista, in primo luogo, ma al tempo stesso come guerra alla Repubblica di Salò: “Odiavamo i fascisti più ancora dei nazisti — ha ricordato Nuto Revelli — perché era inconcepibile che degli italiani fossero giunti a terrorizzare, torturare, ammazzare gente che aveva le stesse radici, che era cresciuta negli stessi luoghi, aveva studiato nelle stesse scuole». Era innervata, anche, di più radicali speranze di rivolgimento sociale e politico: e questa compresenza è la grande lezione de La guerra civile di Claudio Pavone, che Giorgio Napolitano ha evocato anche in questi giorni. Ma sullo sfondo delle diverse aspirazioni vi era, fortissima, l’idea di un Paese da rifondare: «Occorre rifare l’Italia e gli italiani insieme», annotava Carlo Dionisotti in quel 1945. E alla vigilia della morte il giovane partigiano Giacomo Ulivi aveva scritto agli amici: «Tutto noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi: è la premessa per tutto il resto». E aggiungeva: l’inganno peggiore del fascismo è stato quello di convincerci della “sporcizia” della politica, e di intaccare così «la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo. Ogni sua sciagura è una sciagura nostra». Parole intensamente attuali, a settant’anni da quel 25 aprile.

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L’Armata Rossa che fece la Resistenza https://www.micciacorta.it/2015/04/larmata-rossa-che-fece-la-resistenza/ https://www.micciacorta.it/2015/04/larmata-rossa-che-fece-la-resistenza/#comments Tue, 21 Apr 2015 07:29:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19310 Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani

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GIÀ si era fatto poco, e tremendamente tardi. Poi, con il crollo dell’Urss e dei partiti comunisti dell’Ue, il tema era addirittura sparito, non solo dalla ricerca storica ma anche dalle celebrazioni della Resistenza. La parte avuta dai soldati sovietici – prigionieri o collaborazionisti del nazifascismo passati ai partigiani – nella guerra di liberazione in Europa era diventato un tema fuori moda, persino ingombrante per quei Paesi che erano stati liberati dall’Armata Rossa solo per finire nella mani di Stalin, e per i quali persino il Giorno della Memoria (27 gennaio, data dell’ingresso ad Auschwitz delle truppe russe) costituiva, e costituisce tuttora, fonte d’imbarazzo.
Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recuperodella memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’ArmataRossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.
Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.
Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.
Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij _ iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.
Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59. a brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fat-ogli Gusejnov di nasci- ta azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.
Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.
Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.

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70. Partigiani contro razzismo e austerity https://www.micciacorta.it/2015/04/partigiani-contro-razzismo/ https://www.micciacorta.it/2015/04/partigiani-contro-razzismo/#respond Thu, 16 Apr 2015 06:42:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19249 A 70 anni dalla Liberazione non possiamo smettere di essere partigiani

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A 70 anni dalla Liberazione non possiamo smettere di essere partigiani.Non dobbiamo mai stancarci di ricordare che è proprio nei momenti di povertà, di crisi, che fascisti e razzisti hanno terreno più fertile per seminare odio e xenofobia, e infatti lo stanno facendo. I fascisti in camicia nera, con le braccia tese nel saluto romano, quelli delle squadracce e degli agguati (come quello che ha lasciato in fin di vita Emilio a Cremona), quelli che hanno assassinato Modou e Mor a Firenze solo perché migranti, quelli che hanno ammazzato Dax una notte di marzo a Milano. I fascisti in camicia nera, dunque, ma anche quelli in camicia verde, che nell’ultimo anno erano sui palchi sotto i quali si salutava con il saluto romano, che sotto banco prendono mazzette per Expo e fanno accordi con mafia e ‘ndrangheta, e dagli spalti parlano di “stop invasione”, come se il problema non fossero loro ma i migranti, chi prende la via del mare rischiando la vita alla ricerca di diritti e di dignità, chi è costretto dalla legge ad essere sempre clandestino, senza diritti, obbligato a lavorare in nero per pochi spiccioli o per niente, sotto ricatto continuo, sotto la continua minaccia della reclusione nei CIE o della deportazione, nella migliore memoria fascista. Quelle camicie verdi, quelle camicie nere, che quando vogliono cambiare registro danno sfogo ai loro deliri omofobici, vagheggiando sulla necessità di tornare alla famiglia tradizionale, dimenticando consapevolmente che è nella cosiddetta famiglia tradizionale che si consumano la maggior parte delle violenze di genere o di abusi; ignorando che una famiglia, una coppia è sempre tale quando c’è amore e rispetto. Le abbiamo viste, le camicie verdi e nere, negli ultimi anni stringere mani e alleanze, andare a braccetto con i peggiori rigurgiti della storia in tutta Europa: da Alba Dorata, a Jobbik al Front National di Marine Le Pen. Sappiamo in che trappola vorrebbero stringerci: quella della guerra tra poveri, dell’accettazione di buttare a mare chi è divers@ o semplicemente più pover@, quello del taglio ai diritti, ufficialmente per poter pareggiare il bilancio, in realtà per continuare a finanziare le loro speculazioni, tangenti, interessi. Una trappola, un ricatto, di cui gli artefici non sono solo le camicie verdi e nere, comodi megafoni della paura e dell’insicurezza, ma che vedono tra i propri autori anche altri, in testa Renzi e il Partito Democratico. Infatti riforme e leggi come il Jobs Act e lo SbloccaItalia, la Buonascuola o il Piano Casa del corrotto e dimissionario Ministro Lupi, che non fanno altro che cancellare i diritti di migliaia e migliaia di persone, che siano migranti o italiani, non sono altro che l’ennesima grande opera di cammufage politico: ci dicono che servono a far girare l’economia ma l’unica cosa che vediamo continuare a girare sono le mazzette e gli interessi dei soliti noti, mentre intere famiglie perdono il lavoro, la casa, mentre le scuole e le università cadono a pezzi, mentre interi territori vengono distrutti e devastati dalle grandi opere e grandi eventi, da Expo, al MUOS alla TAV. D’altronde proprio le grandi opere sono state il campo d’addestramento per le abilità di “cammufage” ed Expo ne è forse la prova più evidente: dopo 7 anni e a meno di un mese dall’inaugurazione la maggior parte dei lavori non è finita, le supposte “opere e infrastrutture sociali” sono state buttate nel cestino e gli unici che ci hanno guadagnato sono state multinazionali e le varie mafie e ‘ndrine che hanno fatto miliardi con cantieri aperti che non verranno mai ultimati, ma appunto “cammuffati”. Davanti a chi continua a confondere le acque, a chi soffia sulla guerra tra poveri per nascondere quali sono i veri autori di una crisi che continua a mordere e su cui in troppi continuano solo a speculare, noi scegliamo di essere ancora partigiani. Scegliamo di lottare, ancora per i diritti, la dignità e la libertà di tutte e tutti. Scegliamo di essere in piazza, in uno spezzone meticcio, antirazzista, antisessista e antifascista il 25 aprile, all’interno del corteo cittadino che attraverserà la città nel 70° della Liberazione. Così come, con quello stesso spezzone, saremo in piazza il 29 aprile, contro la parata nazifascista che vorrebbe sfilare a Milano, contro ogni rigurgito razzista, fascista, sessista e omofobo, di ieri e di oggi. Partigiani contro razzismo e austerity! #maiconsalvini , #maiconrenzi ****** Saranno molti i momenti a Milano in questo Aprile che vedranno impegnata la Milano Meticcia contro razzismo, fascismo e austerity. Momenti di mobilitazione di piazza, cortei, assemblee studentesche, festival e dibattiti per non lasciare spazio nella nostra città a chi in questo momento di Crisi e annullamento dei diritti costruisce ulteriore miseria e guerra tra poveri, a chi si rimette la camicia, nera o verde che sia, e si fa promotore di odio e xenophobia in televisione con i suoi proclami o nelle strade con aggressioni e intimidazioni. Oggi, nel 70° anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo, diventa ancora più necessario essere Partigiani. CALENDARIO COMPLETO DELLE INIZIATIVE: dal 15 al 17 Aprile FESTIVAL della STATALE ANTIFASCISTA e ANTIRAZZISTA 21 Aprile PRESENTAZIONE di “STORIE PARTIGIANE” 25 Aprile CORTEO CITTADINO dal 25 al 28 Aprile P.O.Q.  FESTIVAL delle CULTURE ANTIFASCISTE 29 Aprile CONTRO LE PARATE NAZIFASCISTE! > 15/16/17 Aprile – Festival della Statale Antifascista e Antirazzista statale antifaTre giornate di dibattiti, approfondimenti, pranzi sociali, aperitivi, spettacoli teatrali, presentazioni di libri, occasioni per incontrarsi e stare insieme. Tre giornate per scommettere insieme che un’altra università è possibile. GUARDA IL PROGRAMMA COMPLETO DELLA 3 GIORNI!  > Giovedì 16 Aprile 2015 – Ore 21.00 allo  SPAZIO MICENE, Via Micene 4 16 aprile micene   Prima proiezione pubblica del dvd   “Giovanni e Nori, una storia di amore e Resistenza” video per ricordare        Giovanni Pesce e Onorina Brambilla Nori. Un dvd che racconta due vite straordinarie fatte di passione politica, Resistenza e amore, dove la grande Storia                incontra per la prima volta la vita privata di due partigiani.  Con la partecipazione degli autori Daniele Biacchesi e      Gaetano Liguori > Martedì 21 Aprile 2015 – h.16.30 @ Centro Sociale Cantiere via monte rosa, 84  storie partigianePRESENZAZIONE DEL LIBRO “STORIE PARTIGIANE”  con l’autore Andrea Gaetangelo Grassia Una tappa di avvicinamento, formazione e memoria a cura del Coordinamento dei Collettivi Studenteschi, verso il 25 Aprile e lo spezzone studentesco che attraverserà il corteo del 70° della Liberazione…100% METICCI, 100% RIBELLI! GUARDA L’ARTICOLO DELLO SPEZZONE STUDENTESCO by C.C.S. & C.U.T.   > 25 Aprile 2015 – INIZIATIVA IN RICORDO DELLA RESISTENZA PER LE VIE DEL QUARTIERE h.10 Via Micene – San Siro. CHI NON HA MEMORIA NON HA FUTURO. FUORI FASCISTI E RAZZISTI DAI QUARTIERI. Il 25 Aprile mattina partiremo da Via Micene per un’iniziativa in ricordo della Resistenza e contro ogni razzismo insieme con le famiglie, i ragazzi e i bambini che vivono il quartiere: una resistenza che è pratica quotidiana per non lasciare spazio a fascisti e razzisti, ma anche per difendersi dalle speculazioni che devastano il nostro quartiere e negano il diritto all’abitare a centinaia di persone: proprio questo autunno abbiamo bloccato sgomberi e sfratti,  non disposti ad accettare il tentativo di trattare il diritto all’abitare come una questione di ordine di pubblico. [continua qui] > 25 Aprile 2015 – CORTEO CITTADINO h.14 MM1 PALESTRO - 25Aprile2015LD LIBERIAMOCI DELLA CASTA! PARTIGIANI CONTRO RAZZISMO E AUSTERITY! #MAICONSALVINI #MAICONRENZI GUARDA L’ARTICOLO DELLO SPEZZONE STUDENTESCO by C.C.S. & C.U.T.

A 70 anni dalla Liberazione non possiamo smettere di essere partigiani.Non dobbiamo mai stancarci di ricordare che è proprio nei momenti di povertà, di crisi, che fascisti e razzisti hanno terreno più fertile per seminare odio e xenofobia, e infatti lo stanno facendo.

> 29 Aprile – Mobilitazione cittadina – h.16,30 piazzale Susa M29 aOBILITAZIONE CITTADINA CONTRO LA PARATA NAZIFASCISTA! MILANO AMA LA LIBERTA’ – #BELLACIAO

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente incremento delle iniziative e della propaganda razzista, sessista, omofoba e xenofoba da parte di numerose sigle e organizzazioni neo fasciste, in particolare Milano è diventato un pericoloso crocevia dell’estrema destra europea.

> 25/26/27/28 Aprile PARTIGIANI IN OGNI QUARTIERE presenta: FESTIVAL DELLE CULTURE ANTIFASCISTE POQ2015Per il settantesimo anniversario della Liberazione dal Regime nazifascista, Partigiani in Ogni Quartiere quadruplica ed è lieto di presentarvi il “Festival delle culture Antifasciste e Antirazziste”, una quattro giorni di concerti, teatro, sport popolare, dibattiti ed incontri che si terrà presso il Parco di Trenno, uno dei parchi minacciati dalle opere di cementificazione di EXPO, dal 25 al 28 aprile. GUARDA IL PROGRAMMA DI TUTTE LE GIORNATE! VAI AL BLOG DELLA RETE PARTIGIANI IN OGNI QUARTIERE

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O par­ti­giano https://www.micciacorta.it/2015/02/o-partigiano/ https://www.micciacorta.it/2015/02/o-partigiano/#respond Sat, 14 Feb 2015 10:29:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18652 Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli

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Massimo Rendina. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli in una intervista (parte di una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore Dall’8 set­tem­bre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata sto­ria e la vivida memo­ria nel rac­conto del coman­dante par­ti­giano Mas­simo Ren­dina. «Ero tor­nato a Bolo­gna dalla Rus­sia indi­gnato con­tro il fasci­smo per­ché i miei sol­dati li aveva man­dati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a lavo­rare al Resto del Car­lino. L’8 set­tem­bre andai a tro­vare i miei geni­tori a Torino, ma quel giorno i tede­schi entra­rono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli imper­mea­bili verdi, mi impres­sionò la dif­fe­renza con il nostro eser­cito scal­ci­nato. E c’erano delle donne che urla­vano, uno di loro sparò e credo che abbia col­pito qual­cuno. Non sono sicuro ma fu deter­mi­nante per me, fu come una ribel­lione inte­riore: gliela fac­cio pagare. Credo che sia suc­cesso a tanti che furono presi da sen­ti­menti diversi, ricordi della prima guerra mon­diale, i giu­ra­menti alla patria, io avevo giu­rato da uffi­ciale… Per cui non ci fu una base comune ma tante sto­rie indi­vi­duali che entra­rono nella Resistenza.

«Pos­siamo farlo insieme»

Entrai in un bar vicino alla sta­zione e c’era gente che diceva biso­gna fare qual­cosa, basta coi tede­schi, e c’era Cor­rado Bon­fan­tini, che disse: chi vuole fare qual­cosa, pos­siamo farlo insieme. Mi diede appun­ta­mento il giorno dopo e for­mammo le squa­dre, divise fra Par­tito d’Azione e socia­li­sti. Il nostro com­pito era infor­ma­tivo, di sabo­tag­gio e anche di eli­mi­na­zione, simile ai Gap. Io non sapevo che esi­stes­sero i Gap se non per sen­tito dire. Face­vamo le stesse cose, ma senza la stessa capa­cità orga­niz­za­tiva e senza le azioni glo­riose fatte dai Gap di Torino che erano coman­dati da Gio­vanni Pesce e da Ilio Baron­tini, che erano stati in Spa­gna. La prima cosa era pro­cu­rare le armi per for­mare squa­dre che potes­sero com­bat­tere seria­mente, e ali­men­tare la guer­ri­glia che si veniva for­mando in mon­ta­gna. Comun­que abbiamo com­piuto varie azioni, abbiamo fatto sal­tare gli impianti fer­ro­viari, varie cose che si dove­vano fare in quei tempi. Io ero abba­stanza esperto di esplo­sivi per­ché avevo fatto il corso gua­sta­tori nell’esercito. Anche eli­mi­na­zioni: c’era un reparto di poli­zia addetto con­tro i par­ti­giani, e io mi ero fatto amico, fin­gendo di esser fasci­sta, con uno di que­sti agenti che mi diceva come rice­ve­vano le infor­ma­zioni – le dela­zioni sono state mol­tis­sime per­ché erano ben pagate. E io ho par­te­ci­pato a que­ste azioni di eliminazione. I fasci­sti sco­pri­rono il comando mili­tare, col quale ero in con­tatto tra­mite i cat­to­lici. Fu preso in una chiesa, dove avrei dovuto tro­varmi anch’io, tutto il comando mili­tare del Cln e furono fuci­lati al Mar­ti­netto. Per­ché non andai a quell’incontro? Mi aveva man­dato Bon­fan­tini; lui disse a me di andare per­ché si sen­tiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza Cari­gnano e luI mi fece cenno di stare attento; appena fatto que­sto cenno gli sal­ta­rono addosso due, mi ricordo con imper­mea­bili chiari, gli sal­ta­rono addosso. Bon­fan­tini si divin­co­lava e gli spa­ra­rono alla schiena. Io mi allon­ta­nai, ero disar­mato, non andai a quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in peri­colo. Mi dis­s­sero di rag­giun­gere un reparto di Giu­sti­zia e Libertà nel Mon­fer­rato. Però avrei dovuto por­tarmi die­tro dei ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, gio­va­nis­simi, ave­vano costi­tuito un distac­ca­mento e fatto delle azioni, quindi li cono­scevo bene. Nel frat­tempo venni a sapere che un ragazzo che si chia­mava Folco Por­ti­nari, che poi sarebbe diven­tato fun­zio­na­rio della Rai e docente, era stato preso dai tede­schi e gli ave­vano detto, a lui e altri, che se si arruo­la­vano nelle SS ita­liane avreb­bero avuto un trat­ta­mento par­ti­co­lare; se no, dove­vano andare ai lavori for­zati in Germania.

A punta di pistola

A punta di pistola mi feci con­se­gnare un camion dell’azienda del gas, e andai all’appuntamento con que­sti qua­ranta in divisa da SS. Salimmo sul camion e andammo a Superga. Deci­demmo di dor­mire lì nel campo, però i ragazzi della Barca sospet­ta­rono che que­ste SS erano vere, e discu­te­vano se ucci­dermi – poi deci­sero di aspet­tare e io ebbi salva la vita, ma per mira­colo. Fatto sta che con que­sto camion che tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, rag­giun­gemmo la 19brigata, e lì mi dis­sero che avrei dovuto coman­dare que­sto reparto, che era piut­to­sto con­si­stente, poi però mi nomi­na­rono capo di stato mag­giore e pas­sammo nella val di Lanzo. Lì avemmo delle avven­ture piut­to­sto pesanti, dei rastrel­la­menti feroci. Uno di que­sti ci portò a disper­derci. La nostra tec­nica era di pre­ve­dere di doverci disper­dere e di avere dei punti di rac­colta. Il mio punto di rac­colta era una con­ce­ria, vicino al parco della Man­dria, e men­tre era­vamo lì che ci sta­vamo rior­ga­niz­zando arrivò uno che sem­brava un con­ta­dino a dire che c’era un car­rar­mato che ave­vano rimesso a posto, pro­prio den­tro la Man­dria, e lui ci avrebbe aperto una certa por­ti­cina e avremmo potuto recu­pe­rarlo. Andammo, presi una decina di uomini, c’era anche Adolfo, il com­mis­sa­rio poli­tico. Io per primo mi pre­sen­tai davanti a que­sta porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise il suo mitra sotto il brac­cio destro, e io avevo la pistola in mano e gli uomini die­tro. Aprimmo que­sta porta — e ci spa­ra­rono. Io non fui preso dai primi colpi per­ché quello che mi doveva ucci­dere fu col­pito da que­sto mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una raf­fica e fui ferito, fui ferito gra­ve­mente. Quelli che erano die­tro a me mi tira­rono indie­tro e mi sal­va­rono, men­tre que­sto Adolfo rimase in mano loro e fu preso e lo impiccarono. Mi nasco­sero nei sot­ter­ra­nei della con­ce­ria dove c’erano delle grandi cal­daie, faceva un caldo ter­ri­bile. La ferita mi faceva molto male, sbat­tevo la testa pen­sando di ammaz­zarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi inton­tivo sol­tanto, fin­ché mi tira­rono fuori e mi sal­va­rono, pro­prio. Poi i nostri reparti si riu­ni­rono e ritor­nammo nel Mon­fer­rato, e io mi tro­vai in una cascina nel Mon­fer­rato dove vera­mente mi sal­va­rono la vita per­ché ci furono dei rastrel­la­menti feroci e que­sti con­ta­dini, non sapevo nean­che chi fos­sero, rischia­rono la pelle per nascon­dermi, face­vano delle buche col letame per­ché i tede­schi ave­vano dei cani che fiu­ta­vano, e mi sal­va­rono. Con­ti­nuai fino alla libe­ra­zione a zoppicare. Noi ave­vamo dei rap­porti straor­di­nari con la gente. Era­vamo, se si può dire, molto ric­chi, nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata redi­stri­buita alle for­ma­zioni par­ti­giane, soldi ci arri­va­vano anche dalla Fiat, poi anche gli alleati ci man­da­vano non armi ma soldi. Per cui il rap­porto con con­ta­dini era buono per­ché noi paga­vamo, non davamo i buoni. Molte volte erano gene­rosi, non vole­vano essere pagati a volte; noi abbiamo pas­sato un periodo molto buono dal punto di vista dell’alimentazione. Certo le con­di­zioni erano duris­sime ma l’accoglienza da parte della popo­la­zione fu una cosa straordinaria.

Scen­demmo dalle montagne

14ultima f01Partigiani

Quando scen­demmo dalle mon­ta­gne ci ponemmo il pro­blema di che tipo di guer­ri­glia fare. In pia­nura dove­vamo inven­tare, e io, per carità non pre­tendo di essere uno stra­tega, fui uno dei fau­tori della guerra delle volanti – cioè pren­demmo dei camion grossi, li facemmo coraz­zare, il padre di Ser­gio Pinin Farina ci fece coraz­zare dei camion con delle lastre di metallo, e quat­tro cin­que di quei camion diven­ta­vano una volante, si face­vano della azioni molto veloci soprat­tutto con­tro i posti di blocco, e ci si riti­rava. Durante i rastrel­la­menti si nascon­de­vano que­sti camion, li ave­vamo anche inter­rati con delle fati­che spa­ven­tose per fare delle buche enormi per que­sti camion. Facemmo delle azioni, pren­demmo anche una pic­cola città, Chieri, neu­tra­liz­zando con le volanti i pre­sidi vicini. Per sba­glio nelle prime luci dell’alba io spa­rai un colpo di bazooka con­tro il cam­pa­nile. La presa di Chieri, che pre­lude a Torino, fu inte­res­sante per­ché que­ste bri­gate nere erano gente feroce per cui tro­vammo nei sot­ter­ra­nei gente mori­bonda per­ché ave­vano messo fra le dita dei piedi del cotone imbe­vuto di qual­cosa che bru­ciava e gli ave­vano bru­ciato i piedi, erano in can­crena… E deci­demmo di fuci­larli in piazza, e li fuci­lammo dopo un pro­cesso in cui il pre­si­dente della corte era un uffi­ciale dei cara­bi­nieri che poi diventò il coman­dante dei cara­bi­nieri a Roma.

I ricordi, anche dolorosi

I ricordi si affa­stel­lano, sono anche dolo­rosi per­ché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, dicias­sette anni, e ave­vano molta fidu­cia in me. Il rap­porto di fidu­cia col coman­dante era impor­tante, non per­ché fosse più valo­roso o corag­gioso ma per­ché ti dava un minimo di sicu­rezza in una guerra così insi­cura come quella della guer­ri­glia. Io avevo l’esperienza della guerra di Rus­sia ma ho avuto delle paure ter­ri­bili. Tu non puoi avere paura: devi reci­tare, di fronte agli altri, per­ché se no li fai morire; la paura del coman­dante è la morte dei sot­to­po­sti. Tu devi reci­tare di sapere quello che vuoi, non avere incer­tezze; se mandi uno in un certo posto è per­ché sai che dev’essere così, que­sto l’avevo impa­rato in guerra in Russia. E così arri­vammo agli ultimi giorni tor­men­tati della presa di Torino. Noi ci atte­stammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di atte­starci prima sul Po per divi­dere le zone d’attacco. E men­tre era­vamo lì rice­vemmo l’ordine di non entrare a Torino. Il colon­nello Ste­vens della radio inglese aveva avuto infor­ma­zioni dal comando gene­rale dell’esercito inglese che c’era un rag­grup­pa­mento di divi­sioni tede­sche che stava pun­tando su Torino. Ste­vens diceva che se noi entra­vamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il san­gue sarebbe corso in un modo spa­ven­toso. Noi ci fer­mammo per qual­che ora, medi­tammo – ma la città era insorta, già nelle fab­bri­che si com­bat­teva. Allora Cola­ianni, che si chia­mava Bar­bato come nome di bat­ta­glia, che era il coman­dante della zona atte­stata sul Po, disse: biso­gna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che pas­sa­rono il Po. Il coman­dante si inca­volò come una bestia per­ché lasciai il posto per andare con loro, però rien­trai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il side­car. E furono giorni di com­bat­ti­menti feroci. Torino è l’unica città dove si è vera­mente com­bat­tuto tanto, e ci sono degli epi­sodi che non sono stati forse rac­con­tati. La cosa ter­ri­bile di Torino è che c’erano i fran­chi tira­tori, i quali non spa­ra­vano con­tro i par­ti­giani: spa­ra­vano con­tro chiun­que, era un’azione ter­ro­ri­stica. E chi li orga­niz­zava era que­sto Solaro che fu poi impic­cato allo stesso albero di Igna­zio Vian che era un eroico par­ti­giano nostro impic­cato dai fasci­sti. Solaro fu preso non so come, e comin­ciò a dire che era un uomo di sini­stra, che aveva ade­rito al par­tito fasci­sta per­ché voleva che diven­tasse comu­ni­sta… Il tri­bu­nale mili­tare ne ordinò la m+orte. Mi ordinò di farlo impic­care. Fu inca­ri­cato un gruppo della 19ma, però andai anch’io. Ed è una cosa spa­ven­tosa, que­sto uomo distrutto che sa di essere ammaz­zato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore di giu­sti­zia, ti fa sem­pre male vedere un uomo morire in quelle con­di­zioni. Io ero con­tra­rio alle impic­ca­gioni, tanto è vero che ho chie­sto se pote­vamo fuci­larlo, mi dis­sero no; qual­cuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che vole­vano resti­tuire alla popo­la­zione que­sta visione del col­pe­vole, l’ orga­niz­za­tore dei fran­chi tira­tori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per sal­varlo, mi sem­brava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popo­la­zione sopraf­fece lo schie­ra­mento di que­sti uomini della 19ma, lo impic­ca­rono e impic­cato lo por­ta­rono in giro per Torino fin quando lo but­ta­rono nel fiume».

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Addio a Paolo Bolo­gna, quel partigiano che a 16 anni salì in montagna https://www.micciacorta.it/2015/02/addio-paolo-bolo%c2%adgna-quel-partigiano-che-16-anni-sali-montagna/ https://www.micciacorta.it/2015/02/addio-paolo-bolo%c2%adgna-quel-partigiano-che-16-anni-sali-montagna/#respond Fri, 13 Feb 2015 11:47:46 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18649 Il ricordo . È morto Paolo Bologna, ex partigiano protagonista della Repubblica dell’Ossola

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Era andato coi par­ti­giani a sedici anni, Paolo Bolo­gna. Nella bri­gata Mat­teotti, con la quale prese parte alla straor­di­na­ria espe­rienza della Repub­blica dell’Ossola. Poi si era aggre­gato alla divi­sione Val­toce, e con loro era fug­gito in Sviz­zera alla ricon­qui­sta della valle da parte tede­schi e fascisti.

Paolo Bolo­gna è morto nella notte di mer­co­ledì nella sua casa di Domo­dos­sola. Dopo la guerra era stato per vent’anni pre­si­dente dell’Anpi della sua città, e poi aveva scritto alcuni libri sulla Resi­stenza osso­lana. Quando qual­che mese fa ero andato da lui, per un’intervista sulla sua scelta par­ti­giana, mi aveva detto: «Non amo par­lare di me». È che Paolo amava, come me, le sto­rie degli altri, ascol­tarle e intrec­ciarle. Tra i suoi libri c’è «Il prezzo di una capra mar­cia», in cui, ispi­ran­dosi al modello di La strada del Davai di Nuto Revelli, aveva rac­colto molte testi­mo­nianze dirette di par­ti­giani ossolani. «Il prezzo di una capra mar­cia» era l’espressione che aveva usato un con­ta­dino per dire di quando aiu­tava la gente a espa­triare per le mon­ta­gne in cam­bio di mille lire a per­sona, il prezzo di una capra, appunto, ma di una capra «mar­cia» («si faceva per umanità»). Quel con­ta­dino di Crodo, che si chia­mava Secondo Jorda, era stato bec­cato dai tede­schi la volta che avrebbe dovuto far scap­pare un certo Mike Bon­giorno: qual­cuno aveva fatto la spiata. Quat­tro mesi a San Vit­tore, e poi al campo di lavoro di Bol­zano. Era solo una delle tante sto­rie rac­colte da Paolo in quel libro del 1969, in cui c’era anche un inter­vento di Gian­franco Con­tini. Dieci anni dopo aveva pub­bli­cato il libro su «La bat­ta­glia di Megolo» (dove era morto il coman­dante Bel­trami), con la pre­fa­zione di Pajetta, il cui fra­tello era morto in Ossola. Quando, a casa sua, gli avevo detto che sarei tor­nato, aveva rispo­sto: «Eh, non so se la pros­sima volta ci sono ancora». Pen­sai fosse spi­rito val­li­giano osso­lano. Lo era, in effetti. Ho solo fatto in tempo a tele­fo­nar­gli, qual­che giorno fa, che ancora non sapevo della gra­vità delle sue con­di­zioni, per chie­der­gli una foto da par­ti­giano da met­tere nel mio libro. Aveva ancora voglia di scher­zare, con la stessa leg­ge­rezza di quel ragazzo di sedici anni che era salito in montagna.

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