partito radicale – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 22 Jun 2021 09:09:28 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Caso Battisti. Dei delitti, delle antipatie e delle pene https://www.micciacorta.it/2021/06/caso-battisti-dei-delitti-delle-antipatie-e-delle-pene/ https://www.micciacorta.it/2021/06/caso-battisti-dei-delitti-delle-antipatie-e-delle-pene/#respond Mon, 21 Jun 2021 15:48:25 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26433 Carcere & Giustizia. Tre vicende connesse: Cesare Battisti in sciopero della fame per protestare contro un illegittimo isolamento carcerario. Il Partito Radicale promuove con la Lega un referendum sulla giustizia che si dimentica del carcere. I giudici di Modena archiviano definitivamente la strage di detenuti del marzo 2020

L'articolo Caso Battisti. Dei delitti, delle antipatie e delle pene sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Viviamo in un paese dove la reticenza e la dimenticanza sono la regola, una delle poche che unisce ceti sociali e orientamenti politici diversi. L’unica memoria – lunga e accanitamente inossidabile, oltre che falsata – a essere promossa e coltivata è quella relativa agli anni Settanta del secolo scorso e, in particolare, di quell’insieme di vicende impropriamente riassunte nella definizione “anni di piombo”. Una memoria a senso unico dalla quale non è consentito derogare o dissentire, proponendo e argomentando chiavi di lettura o ricostruzioni diverse e alternative a quelle dominanti, come nel caso di Paolo Persichetti, ex detenuto politico per le vicende delle Brigate Rosse, ora perquisito e perseguito in ragione delle sue posizioni, ricerche e pubblicazioni storiche. Quanto quella regola sia cogente e intramontabile ce lo confermano, da ultimo, tre vicende relative allo stato della giustizia e alla amministrazione delle pene in Italia, solo apparentemente slegate.
  • Lo sciopero della fame in corso da parte del detenuto Cesare Battisti.
  • Il referendum sulla giustizia co-promosso da Partito Radicale e Lega.
  • L’archiviazione dell’inchiesta sulla strage di detenuti avvenuta a Modena durante e dopo i disordini dell’8 e 9 marzo 2020.
L’isolamento e l’antipatia come supplementi di pena Il detenuto politico Cesare Battisti è in sciopero della fame per protestare contro l’isolamento di fatto in cui è tenuto da 27 mesi, «dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta», scrive. La sezione di alta sicurezza (AS2) di Rossano Calabro, dove si trova dopo l’iniziale periodo trascorso nel carcere sardo di Oristano, «è una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “Antro Isis” è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme». Lo sciopero e le sparute notizie sulla stampa hanno provocato qualche reazione e anche indotto qualche rara manifestazione di solidarietà. A loro modo assai eloquenti, dato che vi è stato persino chi, pur promuovendo appelli e iniziative, ha tenuto a premettere di avere Battisti in somma antipatia. Aspetto, peraltro, richiamato di frequente allorché si parli o si scriva dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo. Lo ha fatto, ad esempio, anche Michele Serra scrivendone su “la Repubblica”, sia pur entro un ragionamento e un giudizio critico – a seguire quello più netto e precedente di Mattia Feltri – riguardo le condizioni di carcerazione cui viene costretto l’anziano militante, a dispetto dei regolamenti e di ogni logica che non sia quella simbolica e vendicativa. Un altro giornalista, Vittorio Pezzuto, di area liberale e radicale, per denunciare quella che definisce «una vendetta che il nostro ordinamento giudiziario non prevede» e per chiedere che «s’interrompa il livore contro l’assassino» non trova incoerente e fomentante esattamente quel livore aprire il suo articolo con questo incipit: «Cesare Battisti è un uomo vigliacco, tra i più detestabili». Beninteso, ogni individuale simpatia o antipatia verso chiunque da parte di chiunque è prerogativa soggettiva indiscutibile, non fosse che, nello specifico, rivela una incapacità di comprensione dell’evidenza: vale a dire che quello pazientemente e sapientemente montato lungo almeno un decennio contro Battisti dagli apparati politico-giudiziari-mediatici italiani è un caso da manuale di costruzione bipartisan del mostro, di character assassination, pensato come tappa finale di una resa dei conti con il pugno di scampati alle ondate repressive degli anni Ottanta. A quella costruzione hanno, con zelo ed efficacia, partecipato persino eminenti figure intellettuali ed editorialisti di prima pagina normalmente di ben altro livello, come Antonio Tabucchi, Claudio Magris o Alberto Asor Rosa, che si sono esercitati nell’arte troppo facile dell’insulto, naturalmente condito da dotti riferimenti, e di una animosità, se non maramalda, resa più incomprensibile dal tempo trascorso dai fatti. «Le Brigate Rosse – questi pezzenti della politica», inveiva Magris in prima pagina del Corriere della Sera, probabilmente senza sospettare che da quei brigatisti poteva essere inteso come complimento, poiché essere pezzenti tra pezzenti, stare al capo opposto delle élites, era storicamente un irrinunciabile carattere programmatico, quando non biografico, in tutte le rivoluzioni proletarie, anche in quelle immaginarie o sedicenti. Asor Rosa arrivava ad attaccare il “suo” quotidiano, “il manifesto”, accusandolo di aver ospitato (addirittura dare parola ai mostri!) un’intervista a Battisti, usando questi raffinati toni: «L’intervista conferma, ma anche ribadisce e aggrava, quel che già sapevamo, e cioè che Battisti è un miserabile, uno che per salvarsi di fronte a un pubblico ignaro è disposto a versare fiumi di fango su di noi e sulla nostra storia, un mentitore e un vigliacco». E ancora: «Passiamo il nostro tempo da quindici anni a questa parte a sostenere l’azione della magistratura contro i mascalzoni, i ladri, i depravati sessuali che oggi sono al potere nel nostro paese, e dobbiamo leggere proprio sul manifesto e assistere inerti alle accuse infamanti che questo mentecatto-delinquente riversa su di essa?». Oggi forse questi linguaggi e queste esibizioni di hate speech non colpiscono più, abituati come purtroppo siamo diventati a frequentare i social media, ridotti a discarica verbale di bullismi contrapposti e narcisismi aggressivi, affollata palestra di disinformazione e di cattivi sentimenti. Ma è attraverso questi percorsi e processi, istruiti dall’alto, che la cultura della forca e della gogna diventa – è divenuta – la trama condivisa del sentimento e del discorso pubblico. Il potere dei simboli e il delitto politico Non è dunque questione della personalità di Battisti, dei Battisti, ma delle sue obiettive responsabilità, per quanto a lungo negate, in questo caso non diverse da quelle di migliaia e migliaia di altri militanti dell’epoca, a loro volta in connessione con decine di migliaia di loro, di nostri, sodali. Il delitto è delitto, va bene, e il suo sortire da motivazioni politiche viene ormai comunemente considerata un’aggravante, perlomeno in Italia e in contrasto con la storia, ancor di più con quella patria della prima metà del Novecento. Ma aggravato o meno che sia, non può essere privato delle sue chiavi di lettura, vale a dire dei contesti, se lo si vuole non giustificare ma comprendere. Se lo si fa, e lo è fatto con determinazione, è stato solo per rendere plausibile la doppia operazione: mostrificare gli uni per assolvere gli altri, ovvero sé stessi, lo Stato delle stragi, i suoi registi e i suoi manovali. Quell’operazione ha come corollario finale la vendetta, la quale ha bisogno di simboli negativi per rendersi più accettabile socialmente e anzi per raccogliere e capitalizzare politicamente ampio consenso. O per dare l’esempio a futura memoria, come nel caso del brigatista Mario Moretti, tuttora incarcerato dopo più di quarant’anni, a eterno monito, in una paradossale nemesi storica per chi pretendeva di educarne cento colpendone uno. Come ha ben annotato ne La Stampa Mattia Feltri: «invocare un trattamento giusto e dignitoso per un uomo detestato da tutti immagino sia un pochino velleitario, perché si sa, la Costituzione comprende diritti da garantire a chiunque, ma noi preferiamo garantirli a chi ci sta simpatico». O a chi sta o proviene dalla nostra stessa parte: criterio, anzi sentimento, che ha funzionato solo per i militanti delle destre armate e/o stragiste ma non per quelli del campo opposto, rinnegati quali “sedicenti rossi” dalle sinistre istituzionali e abbandonati da quelle extraparlamentari, a propria volta stigmatizzate o addirittura criminalizzate, comunque intimorite e a loro volta storicamente sconfitte e politicamente emarginate. Quella della costruzione del simbolo negativo, del mostro, peraltro, è storia vecchia, cominciata con Pietro Valpreda e piazza Fontana per divenire una delle tecniche principali, affinata scientificamente e lungamente collaudata negli anni della “madre di tutte le emergenze”, quella contro la lotta armata di sinistra di quasi mezzo secolo fa, in seguito riprodotta e stabilizzata nei decenni successivi per fenomeni diversi, a cominciare dalla corruzione e dalle mafie. Quella lunga stagione politica e giudiziaria è considerata una “eccellenza italiana”, divenuta modello per altri paesi, sempre e tuttora rivendicata dai suoi protagonisti. Naturalmente, avendone negate e occultate alcune parti poco presentabili ma invece fondanti, quali quella della tortura sugli arrestati. Alle radici dello scontro tra politica e magistratura Da lì, da quella emergenza, originano i disequilibri istituzionali, le deleghe in bianco alla magistratura, le successive devastanti lotte di potere, la superfetazione di leggi e apparati di eccezione, il rapporto malato tra procure e media, il sostanzialismo giuridico, la trasformazione dell’imputato in nemico e dell’azione giudiziaria in lotta, l’uso abnorme dei reati associativi e la sapiente distillazione delle intercettazioni, il prolungamento all’infinito della carcerazione preventiva come arma di pressione e ricatto, l’invenzione del “concorso morale” e della “partecipazione esterna”, la costruzione e gestione del “pentito” quale architrave del processo, eccetera. Insomma, di tutti quei problemi che affliggono e avvelenano tuttora il sistema giustizia e che riverberano su quello penitenziario, su parte dei quali si propone ora di intervenire il referendum per il quale Lega e Partito Radicale stanno raccogliendo le firme. Che però evita accuratamente di risalire alle origini e alle cause della patologia degenerativa onde poterle riformare effettivamente nei modi giusti e nella misura dovuta, senza la quale anche questo passaggio rischia di diventare questione di schieramenti, di appartenenze, di tifoserie contrapposte, di lobby e di logge, ovvero di tutele di interessi particolari e di quel garantismo a senso unico e a uso delle classi dominanti nel quale le forze di centrodestra si esercitano con successo dagli anni Novanta del secolo scorso, avendo avuto la capacità di convincerne spesso anche quelle di centrosinistra. I sei quesiti referendari ora avanzati riguardano aspetti in gran parte relativi all’organizzazione giudiziaria: elezione del CSM, responsabilità diretta dei magistrati, meccanismo per la relativa valutazione professionale, separazione delle carriere, limiti al ricorso alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino. Neppure uno è dedicato «al nucleo duro della giustizia: i delitti e le pene», da cui deriva la bulimia penale e l’ipertrofia penitenziaria, come ha ben osservato Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara. Che ne ha anche messo in evidenza la spiegazione: «Riproporre il referendum sull’ergastolo (come i Radicali fecero nel 1981 e, mancando le firme necessarie, nel 2013), o formulare quesiti mirati su due leggi massimamente carcerogene (la Bossi-Fini in tema di immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti) non è un’opzione praticabile, se scegli di promuovere i referendum con Matteo Salvini». La Fini-Giovanardi, in verità, è stata pur tardivamente cassata dalla Corte costituzionale nel 2014, ma, nel complesso, è l’originaria Iervolino-Vassalli che andrebbe radicalmente riformata, essendo da quarant’anni responsabile della gran parte degli ingressi annuali nelle celle e del loro sovraffollamento. Matteo Salvini è, in effetti, quello stesso leader politico che da ministro dell’Interno, congiuntamente con il collega alla Giustizia Alfonso Bonafede, partecipò a una sorta di spot pubblicitario del partito della gogna, prontamente diffuso a reti e social unificati, nel quale entrambi comparivano trionfanti in favore di telecamere all’arrivo in aeroporto dell’ex latitante, catturato (alcuni sostengono sarebbe più appropriato definirlo un sequestro) in Bolivia per essere estradato in Italia. Persino “la Repubblica” lo definì un «filmino inquietante». Vite leggere come piume: l’eccidio di Modena A sua volta, Bonafede è quello stesso Guardasigilli pentastellato che (non) informò i parlamentari sulla strage senza precedenti avvenuta nelle carceri l’8 e 9 marzo 2020, con 13 morti, disse, dovute perlopiù a overdose da farmaci: poche parole e scarni dettagli, neppure i nomi delle vittime, ma certezza, ancorché apodittica, sulle cause dei decessi espresse in Aula del Senato l’11 marzo, in un intervento dalle facoltà divinatorie. In effetti, un anno dopo, la procura di Modena – città dove si sono verificati 9 dei 13 decessi, chi in cella, chi subito dopo il trasferimento – ha chiesto l’archiviazione della vicenda: secondo i PM, non vi sarebbero responsabilità, se non quelle dei reclusi che si sono rivoltati, nove dei quali, perlopiù e sostanzialmente, si sarebbero suicidati imbottendosi di metadone e medicine sottratti dall’infermeria. Esattamente come annunciavano già dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, il ministro e il coro mediatico. Ricostruzione ora, infine e definitivamente, convalidata dal Giudice che, con ordinanza del 16 giugno 2021, ha accolto la richiesta della procura e in tre scarne paginette archiviato la morte di Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah. Nomi stranieri per vite senza peso e per morti da dimenticare. A nulla sono serviti gli appelli, le controinchieste, le testimonianze di detenuti che parlano di pestaggi e di mancato soccorso, i tanti dubbi e le evidenti incongruenze di cui si è alla fine accorta anche qualche testata nazionale, come “Domani” e “la Repubblica”, o trasmissioni RAI come “Report” (documenti, ricostruzioni, interpellanze, testimonianze e appelli sono pubblicate nelle Newsletter del Comitato per la verità e giustizia sulle morti in carcere sorto all’indomani della strage e tuttora attivo). Se la vita di 13 detenuti vale così poco, figuriamoci quella ora in gioco di uno solo, per giunta così antipatico come Cesare Battisti, che dalla cella di Rossano Calabro ha annunciato di essere dal 2 giugno in sciopero della fame, per chiedere la fine di un ingiustificato e illegittimo isolamento e di voler «comprendere le ragioni che mi spingono a lottare fino all’ultima conseguenza in nome del diritto alla dignità per ogni persona detenuta, di tutti». Il potere indistruttibile di carceri e leggi speciali Su questa vicenda, sperando si concluda non drammaticamente e secondo giustizia, vi è da fare un’ultima considerazione. Nel pur marginale e relativo scandalo, ultra-minoritario e da microbolla, per le condizioni di detenzione di Cesare Battisti non ha trovato il minimo spazio lo scandalo più grande che dovrebbe contenerlo: quello per le piccole Guantanamo italiane, come se i diritti umani, il rispetto dell’ordinamento penitenziario e il garantismo non dovessero valere per imputati e condannati per il terrorismo islamico e per chiunque, quali che siano i reati contestati. Come nota a margine e conclusiva, va ricordato un altro pertinente rimosso: vale a dire che la Guantanamo originaria è ancora aperta e attiva. Un lager aperto nel 2002 che ha rinchiuso in condizioni intollerabili 800 uomini (per averne una vaga idea si veda il bel film The Mauritanian del regista Kevin Macdonald, basato sulla storia di uno di loro, Mohamedou Ould Slahi, che vi ha trascorso 14 anni da innocente). Tutti sono stati oggetto di “consegne straordinarie”, ossia di rapimenti, e molti sono stati torturati nei Black sites gestiti dalla CIA in tutto il mondo, spesso con la complicità degli alleati degli Stati Uniti e dei tanti paesi che hanno consentito i rapimenti, il sorvolo e le “consegne”; Italia compresa, direttamente coinvolta nel caso dell’iman Abu Omar, sequestrato a Milano e consegnato all’Egitto per esservi torturato. Vicenda su cui governi di opposto orientamento hanno apposto il sigillo omertoso del Segreto di Stato. A distanza di vent’anni, nel lager statunitense continuano a essere tenute prigioniere ancora 40 persone, 28 addirittura senza accusa né processo. Nulla hanno potuto neppure i probabilmente sinceri propositi di chiuderlo da parte di Barack Obama, al tempo della sua presidenza degli Stati Uniti. Come a dire che il potere materiale di quegli apparati, gli interessi che li sostengono e di cui sono beneficiari, è ancora più forte e inaccessibile di qualsiasi potere politico e legislativo che pure li ha partoriti. I suoi piccoli cloni italiani (le cui radici normative e gestionali vanno, anche qui, rintracciate nelle carceri speciali e nei “braccetti della morte” degli anni Settanta e Ottanta), nessuno, ma proprio nessuno, vuole chiuderli e neppure vederli e denunciarli. Per l’organizzazione penitenziaria, evidentemente, così come per una parte di quella giudiziaria, non vi sono semplicemente condannati (o, peggio, imputati), la cui pena va amministrata, nel rispetto dei regolamenti e della Costituzione, ma vi sono dei nemici da trattare diversamente ed extra legem, per i quali non valgono i comuni diritti. A ennesima riprova che i mostri facilmente sfuggono al controllo dei propri creatori, talvolta persino mordendo loro la mano e comunque vivendo poi di vita propria, di una macchinica autonomia, di un salvacondotto permanente, di poteri indiscutibili quanto disumani. Grazie dunque a Battisti, il cui sciopero della fame indirettamente consente – consentirebbe – pur brevemente di portarli alla luce e di metterli in discussione. * Fonte: Sergio Segio, Vita.it

L'articolo Caso Battisti. Dei delitti, delle antipatie e delle pene sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2021/06/caso-battisti-dei-delitti-delle-antipatie-e-delle-pene/feed/ 0
Elezioni e Fiscal compact. Perché Emma Bonino fa il gioco degli anti-europeisti https://www.micciacorta.it/2018/03/24223/ https://www.micciacorta.it/2018/03/24223/#respond Sun, 04 Mar 2018 09:03:45 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24223 4 marzo. Cara Emma, distruggere quello che resta dello stato sociale non è una buona idea

L'articolo Elezioni e Fiscal compact. Perché Emma Bonino fa il gioco degli anti-europeisti sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Alcuni fra i miei amici e soprattutto amiche hanno intenzione di votare +Europa e la persona di Emma Bonino. Ottima scelta mi verrebbe voglia di dire, perché si tratta di una persona di grande coerenza e simpatia, e rappresenta una storia di dignità e di coraggio: la storia del partito radicale, nonostante le attuali polemiche che mal comprendo. Marco Pannella venne a Parigi quando ero esule in quella città nel 1977. I politici di tutte le appartenenze mi consideravano un appestato o un mascalzone perché coi miei compagni parlavamo ai microfoni di una radio che denunciava l’alleanza austeritaria della Dc e del Ppc, e Pannella venne a portarmi la sua solidarietà e insieme partecipammo a un convegno dedicato a Pasolini, che era presieduto da Julia Kristeva.  Chapeau. Già allora pensavo però che Pannella ed Emma Bonino come lui avessero una cultura tutta politico-giuridica, ma non avessero la più pallida idea di cosa sia lo sfruttamento e di cosa siano le lotte sociali. Emma Bonino chiede il voto per avere più Europa, dice che per rispettare le regole imposte dal fiscal compact per cinque anni dovremmo bloccare ogni voce di spesa. Fantastica idea, ma pericolosa: i treni pendolari cascherebbero a pezzi, gli incidenti si moltiplicherebbero peggio di come già succede ora. Gli studenti delle scuole periferiche d’inverno morirebbero dal freddo e i calcinacci gli romperebbero la testa, mentre migliaia di insegnanti si suiciderebbero per la miseria e per la depressione. Milioni di persone rimarrebbero senza assistenza sanitaria, gli ospedali si troverebbero senza siringhe e senza cerotti. I medici emigrerebbero verso la sanità privata. Alla faccia della non violenza quante decine di migliaia di morti ci costerebbe l’idea della brava Emma? No, distruggere quello che resta dello stato sociale non è una buona idea. Questo vuol dire forse che io voglio meno Europa? No, vuol dire che Emma Bonino ha capito male cos’è l’Europa. Negli ultimi dieci anni l’Unione europea è morta nel cuore della maggioranza degli europei, e l’antieuropeismo cresce a dismisura proprio perché la classe dirigente neo-liberista ha trasformato l’Unione in uno strumento del potere finanziario, così i lavoratori vedono l’Unione come la causa della loro miseria. L’imposizione del fiscal compact, il sistematico prelievo di risorse dalle tasche di chi lavora per ripianare il debito delle banche è la causa evidente dell’agonia dell’Unione. Il fiscal compact è un cappio al collo della popolazione europea. E quando il cappio si stringe non arriva più sangue al cervello, e la popolazione europea, col cervello in agonia, segue i predicatori di violenza, di odio, di nazionalismo razzista. Questo è il fiscal compact. Bonino fa lo stesso errore degli anti-europeisti, di coloro che vogliono tornare all’illusoria sovranità nazionale: identifica l’Unione europea con il fiscal compact. Io voto Potere al popolo perché sono europeista, e voglio che l’Unione non sia uno strumento del sistema finanziario ma uno strumento per l’uguaglianza salariale di tutti i cittadini europei, per la solidarietà e per il reddito di esistenza, per la riduzione dell’orario di lavoro. Voto Potere al popolo perché nonostante questo nome un po’ retrogrado vuole rompere la dipendenza della società dalla regola autoritaria del Fiscal compact, vuole liberare le energie della società dal dominio del sistema finanziario. FONTE:  Bifo, IL MANIFESTO

L'articolo Elezioni e Fiscal compact. Perché Emma Bonino fa il gioco degli anti-europeisti sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2018/03/24223/feed/ 0
Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/ https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/#respond Fri, 20 May 2016 11:27:56 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21876 Sergio Segio ricorda per Fuoriluogo Marco Pannella, il leader radicale e di tante battaglie per i diritti scomparso ieri a Roma.

L'articolo Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
Pannella

Di Marco mi rimarrà per sempre soprattutto un’immagine. Recente, ma non per questo motivo. Piuttosto perché dice di lui quello che era un suo carattere fondamentale, che me lo ha subito fatto stimare e costantemente sentire davvero vicino: Marco Pannella era soprattutto un combattente, instancabile e determinato come nessuno. Pochi mesi fa eravamo nel carcere di Opera, una settimana prima di Natale, per il congresso di “Nessuno Tocchi Caino”, con Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti, Rita Bernardini e tanti altri, radicali e non. Due giorni di riflessioni e interventi centrati sul tema dell’ergastolo ostativo, quella “pena sino alla morte” cui sono condannate, contro la Costituzione e ogni senso di umanità e civiltà giuridica, oltre 1100 persone. Uomini sepolti vivi per sempre in virtù di una legge iniqua, di interpretazioni capziose e di logiche vendicative. Nel salone del carcere assisteva (ma prendeva anche la parola) una platea di detenuti, perlopiù appunto ergastolani. Molti, naturalmente, gli agenti di custodia; per una volta, però, attenti alle parole, non solo a controllare i gesti. Presenti anche il capo delle carceri, Santi Consolo, e Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale e già ministro Guardasigilli. Nell’occasione, nei rispettivi interventi – entrambi – Flick anche con una onesta e coraggiosa autocritica rispetto a posizioni precedenti – si sono pronunciati per l’abolizione di quella disumana pena; una presa di posizione forte, dato il pulpito e il ruolo, che in altri tempi o in paesi diversi dal nostro avrebbe dato i titoli delle prime pagine e di cui, invece e naturalmente, nessuno dei giornalisti pure presenti si accorse o ritenne di dare adeguato conto. Esauriti il primo giorno gli interventi più istituzionali, nel giorno seguente il clima appariva meno formale ed era più facile accorgersi di come Marco nel carcere si trovasse davvero a casa sua e di quanto fosse circondato dall’affetto straripante dei reclusi, ma anche dalla stima dei poliziotti e del personale penitenziario. Mentre parlava un oratore, dal tavolo della presidenza dove era seduto anche Pannella, cominciò a sentirsi un tambureggiare ritmico, prima leggero, appena avvertibile, poi via via crescente sino a farsi sovrastante e infine accompagnato dalle parole: ce n’est que un début, continuons le combat. Marco andò avanti a ripetere a voce sempre più alta lo slogan degli studenti francesi del maggio ’68, sino a che quella platea eterogena composta da assassini, giovani universitari, docenti, guardie e ladri, preti e mangiapreti, privilegiati e deprivati di tutto, cominciò a seguirlo e a scandire quelle parole di rivolta e di speranza. Un momento magico e incredibile, tanto più considerando il luogo, nel quale il gigante ferito dagli anni e dalla malattia rivelava intatta la sua capacità ammaliatrice e trascinante. Scandendo inopinatamente (e profeticamente, dato che ora sembra attualizzato dal diffuso fermento che scuote la Francia in queste settimane) quello slogan famoso, Marco parlava forse di sé, della fine che sentiva vicina, con la promessa – a sé e a noi che lo ascoltavamo un po’ sorpresi -, di andare oltre, di non soccombere neppure di fronte alla morte. Allo stesso tempo, con quell’incitazione a non smettere di lottare, mi parve che parlasse di me, di noi, di chiunque sentisse o avesse mai sentito nella vita la spinta e il bisogno di rivoluzionare l’esistente. Che ci regalasse un ultimo invito a continuare “in ciò che era giusto”, come lasciò detto un’altra grande figura, Alex Langer; fosse pure a combattere contro i mulini a vento, come Marco ha spesso fatto. Questo è allora il messaggio che mi pare, davvero, ci abbia lasciato. Perché lui, il leone indomabile, sta continuando anche adesso, anche domani, la sua e le nostre battaglie. Non possiamo lasciarlo solo, come lui non ha mai lasciati soli noi, specie quando eravamo nel pozzo nero delle carceri speciali, senza poter immaginare alcun futuro, ma avendo una certezza, che non andò mai tradita, neppure una volta. Ovvero che lui, con i Radicali, era al nostro fianco nelle battaglie più difficili, solitarie e contrastate, come quelle contro le leggi dell’emergenza e contro la tortura del “carcere duro”. Che lui e i suoi più stretti non si limitavano a combattere battaglie ideali e politiche, ma offrivano vera vicinanza; che, senza fallo, per decenni lui e i suoi sarebbero venuti a trovarci in carcere ogni Natale e ogni Ferragosto, a praticare da laici precetti evangelici. Lì, in quel pozzo nero, ho conosciuto Marco e le persone migliori che ho avuto la ventura di incontrare nella vita e che mi hanno regalato un’amicizia per me imperitura, come anche Franco Corleone e pochi altri. E non c’è nessuna distanza politica su singoli aspetti, come ad esempio il liberismo in economia o certe posizioni in campo internazionale, che possa togliere un solo grammo dell’affetto, della stima e della riconoscenza che provo per Marco Pannella. Continuiamo a combattere, Marco. Anche grazie a te. Sergio Segio, 20 maggio 2016

L'articolo Non è che l’inizio. Marco Pannella, il rivoluzionario sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/05/non-linizio-marco-pannella-rivoluzionario/feed/ 0
Il compagno che era liberale https://www.micciacorta.it/2016/05/21873/ https://www.micciacorta.it/2016/05/21873/#respond Fri, 20 May 2016 06:43:47 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21873 Marco Pannella 1930-2016. Dalla storica battaglia referendaria sul divorzio all’opposizione alle leggi d’emergenza degli anni ’70. Fino alle campagne antiproibizioniste. Una vita in prima linea sul fronte dei diritti civili

L'articolo Il compagno che era liberale sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
Pannella

Marco, che se ne è andato ieri stroncato non da uno ma da due cancri, perché l’uomo era così, eccessivo in tutto, suppliva da solo a un vuoto che ha segnato, sempre e solo nel male, la storia italiana: la mancanza di una destra liberale con la quale per la sinistra fosse possibile confrontarsi con reciproco vantaggio. Si parla di destra politica, perché l’albero genealogico della cultura nazionale invece qualche frutto d’oro su quel versante può vantarlo, e quei nomi che tornavano continuamente in ballo nei monologhi fluviali che Pannella aveva l’ardire di spacciare per interviste: da Benedetto Croce al tanto citato quanto disatteso Mario Pannunzio. A lui, forse, la definizione sarebbe andata stretta, come qualsiasi etichetta avesse preteso di definire la sua personalità straripante. Pannella non si sentiva un uomo di destra e certo con la destra italiana aveva ben poco a che spartire. I radicali non hanno smesso di chiamarsi, tra loro, «compagni». E il «suo» Partito radicale discendeva direttamente dall’ala sinistra del partito originario, quello nato nel 1955 e che contava tra i suoi fondatori l’intera aristocrazia intellettuale del liberalesimo italiano. Pur diviso, quel gruppo di grandi intellettuali concordava nel vedere i «rossi» solo come un pericolo. Non la «Sinistra radicale» di Giacinto detto Marco, che al contrario spingeva per un’unione laica di tutte le forze di sinistra, comuniste, socialiste e liberali. Quando i fondatori abbandonarono il partito, a ereditarlo rimase solo la corrente di sinistra e il suo capo, dal 1963 segretario e padre padrone a vita dell’intero partito. Nelle sue campagne Pannella era ossessivo e martellante, da giovane così come in tarda età. Ma c’era del metodo, e dell’intelligenza politica raffinata, nella sua ossessione. Per tutti gli anni ’60 caricò a testa bassa sul divorzio senza concedere un attimo di tregua, inventandosi espedienti comunicativi uno via l’altro, adoperando a man bassa l’alleanza con un giornale, Abc, dal quale ogni politico comme il faut si sarebbe tenuto lontanissimo per la tendenza a sciorinare tette abbondanti e mutandine succinte, ma che era in compenso popolarissimo. Non si trattava però di un caso maniacale. Nell’Italia codina e baciapile di quegli anni, quando persino un galantuomo come il futuro presidente Scalfaro sbottava in pubblico a fronte di una scollatura esagerata e le Kessler rappresentavano la frontiera del proibito, Pannella aveva individuato nel divorzio la leva capace di forzare i limiti culturali di un Paese che di laico non aveva ancora nulla. Il seguito provò che aveva ragione. Pannella era laico e a tratti, soprattutto a cavallo tra i ’60 e i ’70, anche «laicista», se non proprio mangiapreti. Quel lusso la cultura comunista, che le «masse cattoliche» le aveva ben presenti da molto prima che Berlinguer scrivesse su Rinascita di «compromesso storico», non poteva permetterselo. Il compito spettava a una destra liberale, democratica, laica, e in Italia a rappresentarla c’era quasi esclusivamente la torreggiante figura di Pannella. Ma senza quella spinta, la sua e spesso solo la sua, sarebbe stato impossibile arginare la tendenza del Pci a svendere il divorzio pur di non entrare in rotta di collisione con le masse cattoliche e con il partitone che le rappresentava. Anche nella battaglia strenua, a volte epica, ingaggiata tra la seconda metà dei ’70 e l’intero decennio successivo, quella per i diritti e le garanzie contro le emergenze e le ingiustizie che venivano quotidianamente perpetrate in nome della giustizia, è tangibile, inconfondibile, un’impronta che risale più alla grande destra liberale che non alla sinistra. Non c’erano solo interessi di bottega dietro lo schieramento del Pci a favore dell’emergenza, allora. C’era anche un intero pensiero che, al fondo, considerava l’interesse di Stato infinitamente superiore alla difesa dei diritti, e che in nome di quell’interesse era pronto a violentare il diritto come avvenne il 7 aprile, o a far passare per matto un leader sequestrato pur sapendo di condannarlo così a morte. Non è un caso che Pannella sia stato tra i pochissimi a opporsi a quella cultura guidata solo dalla miopia della ragion di Stato, di fronte alla quale capitolarono con scomposto entusiasmo anche tanti sedicenti liberali, Repubblica in testa. Per chi veniva dalla cultura crociana, inutile negarlo, stare dalla parte di Antigone era più facile che per chi arrivava da quella marxista, che si trattasse del terrorismo e Toni Negri o della camorra e di Enzo Tortora, vittima di un «effetto collaterale» della campagna contro le mafie fondata sui pentiti. Per indole e carattere, per il suo istrionismo innato, Marco Pannella spettacolarizzava al massimo ogni campagna, e nell’uso della comunicazione era anche più astuto ed esperto di quanto apparisse. Così, le sue battaglie potevano sembrare, in superficie, venate da infatuazioni un po’ donchisciottesche per questa o quella causa. Invece erano sorrette da un impianto coerente e rigoroso. Quando muoveva contro la magistratura, il suo non era semplice garantismo: era la consapevolezza che negli ’80 un potere dello Stato aveva preso a invadere aree di altrui competenza, e che i risultati sarebbero stati comunque esiziali. Quando offriva spinelli in giro per le strade, non si trattava solo di una trovata libertaria, ma della coscienza di quanto l’intero impianto costituzionale fosse minato dal disattenderne i princìpi in materia di libertà individuali. Nell’ultimo scorcio della prima Repubblica nessuno aveva denunciato l’occupazione dello Stato da parte dei partiti più del Partito radicale. Però, quando quel castello venne giù in pochi mesi come una torre di fiammiferi, Pannella non fu tra quelli che brindarono ebbri, a differenza di tanti che quel sistema lo avevano sin lì coperto e supportato senza vergogna. Marco credeva nella Costituzione come pochi. In nome della Costituzione aveva ingaggiato un duello durato 15 anni con l’amico Cossiga. Per difendere la Costituzione era stato il vero regista dell’elezione di Oscar Scalfaro. In quel tripudio che tintinnava di manette, nei giorni di tangentopoli, avvertiva un lezzo che con la Costituzione repubblicana aveva poco a che spartire. Per noi di sinistra Marco Pannella è un caso unico. Siamo stati al suo fianco e lo abbiamo applaudito tante volte. Ce lo siamo trovati di fronte e ci ha fatto digrignare i denti in altrettante occasioni. E’ quello che capita con la miglior destra, anzi che capiterebbe se ci fosse: ringrazi il cielo perché esistono quando si tratta di diritti e libertà, ti tirano pazzo quando difendono il liberismo. Però sai che se in Italia ci fossero stati più uomini come Marco Pannella, oggi sarebbe un Paese migliore.

L'articolo Il compagno che era liberale sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/05/21873/feed/ 0
D’Elia dovrà chiedere la grazia alla Suprema corte del loft? https://www.micciacorta.it/2014/05/2014-05-08-16-35-48/ https://www.micciacorta.it/2014/05/2014-05-08-16-35-48/#respond Thu, 08 May 2014 16:32:13 +0000 http://localhost:8888/?p=16258 Forcaiolismo francese, forcaiolismo italiano

L'articolo D’Elia dovrà chiedere la grazia alla Suprema corte del loft? sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
Dal quotidiano Liberazione del 24 febbraio 2008 un editoriale sulle polemiche contro la candidatura di Sergio D’Elia e il veto posto dai vertici del Pd

segio su d’elia – liberazione 0208

L'articolo D’Elia dovrà chiedere la grazia alla Suprema corte del loft? sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2014/05/2014-05-08-16-35-48/feed/ 0