Patrizia Moretti – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Thu, 07 Jan 2016 07:59:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Acad. Mai più soli di fronte agli abusi in divisa https://www.micciacorta.it/2016/01/mai-piu-soli-di-fronte-agli-abusi-in-divisa/ https://www.micciacorta.it/2016/01/mai-piu-soli-di-fronte-agli-abusi-in-divisa/#respond Thu, 07 Jan 2016 07:59:38 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21081 Intervista. L’associazione mette a disposizione le competenze acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere

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Cucchi

Il telefono si illumina e vibra. Suona per tre volte. Se dall’altra parte nessuno risponde, la chiamata viene deviata automaticamente ad un altro cellulare, per altri tre squilli. Se ancora non c’è risposta, lo squillo rimbalza su un altro numero e così via, a cascata su un elenco di utenti. Fino a quando qualcuno degli operatori non preme il tasto verde del suo apparecchio e accoglie la richiesta di soccorso. È questa l’ossatura essenziale del numero verde di Acad, associazione che ha trasformato la sigla che manifesta la diffidenza delle bande di strada verso le forze dell’ordine (Acab: «All cops are bastards») in una struttura di supporto «contro gli abusi in divisa». In questi giorni Acad compie due anni. Al pronto intervento contro i soprusi di potere arrivano in media circa dieci chiamate a settimana. Queste telefonate sono l’emblema di una catena che rompe la solitudine, squarci di verità in un paese che si sta accorgendo di avere un problema con le forze dell’ordine. Snocciolare gli anelli di questa catena significa ripercorrere una Spoon River di morti violente. Vuol dire raccontare storie che sarebbero affogate nell’isolamento se non si fosse messo in moto un processo di condivisione e mutuo soccorso che le ha messe in relazione. «Ogni squillo al telefono verde di Acad è un colpo al cuore, ad ogni chiamata spero che sia solo una richiesta generica di informazioni o anche uno scherzo stupido. Mi auguro con tutto me stesso di non trovarmi per l’ennesima volta davanti a una tragedia inaccettabile», racconta uno dei volontari di Acad al Manifesto. Eppure questi due anni di esperienza dolorosa insegnano molto. «Le ore immediatamente successive all’abuso sono quelle più importanti — racconta Luca Blasi, che lavora al nodo romano dell’Associazione — Serve subito un avvocato, nel caso di decesso è fondamentale il perito di parte, così come è necessario verificare che l’autopsia venga svolta correttamente». In questi anni di lavoro, quelli di Acad si sono resi conto che, accanto alle questioni tecniche, sono importanti anche gli aspetti comunicativi. Può essere decisivo avere la forza e la lucidità di raccontare subito la vicenda per quella che è, divulgare il più possibile storie che smentiscano quelle ufficiali, in base alle quali — ad esempio — Federico Aldrovandi è stato descritto un drogato che si uccise da solo, per di più buttandosi addosso ad un manganello e spezzandolo. Di Davide Bifolco, ucciso da un colpo partito dalla pistola di un carabiniere alla periferia di Napoli, si disse invece che portava «un latitante» sul motorino. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, dovettero rompere il galateo del pudore e mettere in scena i corpi martoriati dei loro cari per bucare il muro di gomma dell’informazione. Dopo la riapertura delle indagini, scattata anche grazie alla grande fiaccolata convocata dai Cucchi e da Acad a piazza Indipendenza, di fronte al Csm, Ilaria ha scelto di nuovo di mettere in scena l’orrore. Ha divulgato le foto di alcuni dei carabinieri coinvolti nella morte di Stefano. Lo stesso ha fatto Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto sette anni fa a Varese dopo aver passato una notte in una caserma dei carabinieri.
Il muro del canto - ZeroCalcare
Il muro del canto — ZeroCalcare
«Ilaria e Lucia hanno consentito che migliaia di cittadini si rendessero conto che ci sono delle persone in carne e ossa dietro il vanto di aver pestato a sangue “un drogato di merda”. Nascosto dietro questo orrore, non c’è una figura astratta, c’è persino un sorriso», riflette ancora Blasi a proposito della diffusione virale di quelle immagini e della polemica che ne è scaturita. Acad nasce da un’intuizione semplice quanto opportuna: mettere a disposizione del maggior numero possibile di persone le competenze legali, comunicative e politiche acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere. Non più una doverosa manovra di nicchia ma un’operazione di tutela dei diritti civili nel paese dei misteri insabbiati e delle macellerie messicane. Nel gennaio del 2014 a Bergamo, il primo evento pubblico. «La nostra forza è l’unione, se restiamo soli non possiamo nulla», disse quel giorno Domenica Ferrulli, figlia di Michele, manovale di 51 anni, morto durante un fermo di polizia a Milano nel 2011. «A proposito di Ferrulli bisogna ricordare una cosa importante — raccontano da Acad — ammanettare una persona mettendogli le mani dietro la schiena e poi appoggiarsi col ginocchio sul suo corpo, pancia a terra, è molto pericoloso». È morto così Federico Aldrovandi. Morì così anche Ferrulli. «Quella posizione causa soffocamento o compressione del cuore. Quella manovra non andrebbe più insegnata nelle scuole di polizia. E invece per quel che ne sappiamo costituisce ancora la normale prassi». Ci sono famiglie che hanno la forza di agire, prendere parola, sfidare la pubblica autorità. In quei casi Acad svolge un lavoro di supporto. Ma spesso gli abusi si verificano in zone grigie, in situazioni difficili, in particolari contesti ambientali e condizioni sociali. Non è facile essere vittime e al tempo stesso essere scaraventati sui media. E allora quelli di Acad sanno che bisogna prendere in mano la faccenda, fornendo supporto legale e anche aiuto economico, ove necessario. E poi ci sono le campagne di sensibilizzazione: la richiesta della sospensione a tempo indeterminato dal servizio, il numero identificativo, il reato di tortura. Dal punto di osservazione dei dieci «punti Acad» sparsi su tutto il territorio emerge anche l’eccessivo ricorso ai Tso, i Trattamenti sanitari obbligatori che vengono comminati con troppa facilità per risolvere questioni delicate o per sbrogliare situazioni complesse. Andrea Soldi, un’altra delle vittime di abusi di cui si occupa Acad, è morto nell’agosto scorso a Torino dopo un Tso a causa di uno «strangolamento atipico»: sono indagati tre vigili urbani e uno psichiatra. Al numero verde di Acad sono stati denunciati pestaggi ai centri d’accoglienza per migranti e abusi di potere contro persone costrette ai domiciliari, eccessi di repressione in nome del decoro urbano ai margini dei famigerati quartieri della «movida» e misteriosi decessi in carcere. Acad segue il caso di Nicolò e Tommaso De Michiel. I due fratelli erano poco più che ventenni nel 2009, quando furono vittime a Venezia, la loro città, di un pestaggio poliziesco. Vennero portati in questura, Tommaso in mezzo a più uomini in divisa. Il suo caso è classificato tra i dossier «Sopravvissuti» di Acad, perché il giovane la cavò «solo» con una costola rotta, l’altra incrinata, ematoma ai testicoli, trauma facciale, emorragia ad un occhio, labbra tumefatte, lesioni ai polsi provocate da trascinamento. Fu suo padre a fermare il mucchio selvaggio. Entrò negli uffici di polizia mostrando il tesserino: era anche lui un agente. In seguito venne sospeso dal servizio per il semplice fatto di aver partecipato ad una iniziativa pubblica per dire che non tutti gli agenti sono come quelli che hanno picchiato i suoi figli. Compare anche lui, proprio un poliziotto, in «Figli come noi» il video del Muro del Canto nel quale alcuni parenti di vittime di abusi in divisa soffiano simbolicamente per spazzare via le ingiustizie.

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Patrizia Moretti: «Mauro Guerra ucciso come Federico» https://www.micciacorta.it/2015/08/patrizia-moretti-mauro-guerra-ucciso-come-federico/ https://www.micciacorta.it/2015/08/patrizia-moretti-mauro-guerra-ucciso-come-federico/#respond Wed, 05 Aug 2015 09:20:31 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20128 Mauro Guerra, 32 anni, una lau­rea in eco­no­mia e la pas­sione per la gra­fica e il cul­tu­ri­smo, è morto in mezzo ai campi, inse­guito dai cara­bi­nieri chia­mati a pla­carlo anche con un rico­vero coatto

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Una fiac­co­lata con il sin­daco Mauro Sbi­cego, fra le cen­ti­naia di per­sone che hanno sfi­lato, in silen­zio, da Car­mi­gnano a Sant’Urbano. Un’inchiesta a Rovigo con il pro­cu­ra­tore capo Car­melo Ruberto che segue da vicino il lavoro del sosti­tuto Fabri­zio Suriano. E il fune­rale di domani pome­rig­gio che rimet­terà quest’angolo del Pado­vano al con­fine con il Pole­sine sotto i riflet­tori nazio­nali. Mauro Guerra, 32 anni, grande e grosso, una lau­rea in eco­no­mia e la pas­sione per la gra­fica e il cul­tu­ri­smo, era senza dub­bio bor­der­line. Ma è morto in mezzo ai campi, inse­guito dai cara­bi­nieri chia­mati a pla­carlo anche con un rico­vero coatto. Il tren­tenne era riu­scito a «fug­gire». Un mili­tare lo aveva plac­cato, ma stava avendo la peg­gio nella vio­lenta col­lut­ta­zione. Il mare­sciallo Marco Pego­raro ha estratto la Beretta d’ordinanza: due colpi in aria e poi ha preso la mira su Mauro. È rima­sto un cada­vere coperto da un len­zuolo in mezzo alla cam­pa­gna bru­ciata dall’afa. Patri­zia Moretti, la mamma di Fede­rico Aldro­vandi, ha levato la sua voce a soste­gno della fami­glia Guerra e di chi ora pre­tende mas­sima tra­spa­renza. «Mauro l’hanno dipinto come un mostro, come ave­vano fatto con mio figlio dieci anni fa», dichiara al Cor­riere Veneto. «C’è una ver­sione uffi­ciale carica di lati oscuri, i cara­bi­nieri che inda­gano su se stessi e una vit­tima che viene cri­mi­na­liz­zata». Patri­zia dà voce pub­blica a tanti altri: «Con­ti­nuano a spa­rare senza pen­sarci due volte, come se fosse assi­mi­lato un senso di impu­nità con­so­li­data. Sarà sem­pre peg­gio. Per­ché tutto que­sto acca­ni­mento fino a ucci­dere? Serve un freno, forse una for­ma­zione ade­guata, una cul­tura diversa. E la fine dell’impunità, la pos­si­bi­lità di essere spo­gliati di quella divisa con cui com­met­tono que­sti abusi». La morte di Mauro Guerra è desti­nata ad aggiun­gersi alla sequenza di ana­lo­ghi casi. Per ora, la fami­glia ha scelto di affi­darsi agli avvo­cati. Ma c’è sem­pre da sta­bi­lire se mer­co­ledì era stata dav­vero atti­vata la pro­ce­dura del Trat­ta­mento sani­ta­rio obbli­ga­to­rio. L’Usl 17 della Bassa pado­vana, i medici e il ser­vi­zio 118, il muni­ci­pio di Sant’Urbano e l’Arma sono i sog­getti chia­mati a cer­ti­fi­care se per Mauro era in corso un Tso oppure no. Un «caso» ancora aperto, quindi. Tant’è che nei social c’è chi chiede: «Mauro Guerra, fuori la verità». Come pure si è mobi­li­tata la curva degli ultrà del Cal­cio Padova con uno stri­scione in sin­to­nia con il Dna poli­tico. Domani alle 16:30 nella par­roc­chiale della fra­zione di Car­mi­gnano l’ultimo saluto a Mauro Guerra. L’epigrafe è sin­to­ma­tica: ripro­duce il Cri­sto che aveva dise­gnato recen­te­mente. E alla fine della ceri­mo­nia reli­giosa è pre­vi­sta una can­zone di Vasco Rossi: «Gli angeli», le ultime note che Mauro aveva affi­dato al suo pro­filo Fb. Ma anche in pieno ago­sto l’eco della tra­ge­dia di Car­mi­gnano farà fatica a stem­pe­rarsi nell’indifferenza vacan­ziera. In que­sti giorni, sono riaf­fio­rati par­ti­co­lari sulla per­so­na­lità del tren­tenne. Con­dan­nato per stal­king, noto in paese da tempo per le sue biz­zar­rie, but­ta­fuori nei locali not­turni, con una vena arti­stica che con­fonde fede e vio­lenza. Ma resta il fatto che, den­tro l’abitazione di fami­glia in via Roma e durante l’inseguimento a Mauro in mutande, la sicu­rezza di tutti è cla­mo­ro­sa­mente sal­tata. E alla fine un inter­vento (Tso o meno) di rou­tine è sfo­ciato in un dramma inspie­ga­bile. L’accertamento delle respon­sa­bi­lità diventa il minimo. È agli atti l’autopsia effet­tuata per conto della pro­cura dal medico legale Lorenzo Mari­nelli. Hanno assi­stito i con­su­lenti Luca Mas­saro (per il cara­bi­niere) e Gio­vanni Cec­chetto, per la fami­glia Guerra. Un solo pro­iet­tile ha cau­sato la morte per emor­ra­gia interna. Risale, invece, ad un paio di mesi fa il decesso durante un Tso di Mas­si­mi­liano Mal­zone, 39 anni di Agnone nel Cilento. Indaga la pro­cura di Lago­ne­gro in Puglia, soprat­tutto dopo il cla­mo­roso caso di Fran­ce­sco Mastro­gio­vanni, il mae­stro di Castel­nuovo Cilento morto il 4 ago­sto 2009 nel ser­vi­zio psi­chia­trico di Vallo della Lucania.

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La mamma di Federico Aldrovandi: nessun perdono, mai più tribunali https://www.micciacorta.it/2015/07/la-mamma-di-federico-aldrovandi-nessun-perdono-mai-piu-tribunali/ https://www.micciacorta.it/2015/07/la-mamma-di-federico-aldrovandi-nessun-perdono-mai-piu-tribunali/#respond Tue, 07 Jul 2015 16:06:46 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19943 Ecco perché la madre di Federico Aldrovandi ha deciso di rinunciare alle cause pendenti contro gli assassini di suo figlio e chi li applaude

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Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla. I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario. Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli. Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso. L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine. Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così. Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico. Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere. Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico. Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento. Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente. Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio. Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso. Non sarà una sentenza a fare la differenza nel loro atteggiamento. Rifiuto di mantenere questo livello basato su loro bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro è un mestiere. Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso. Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri. Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta. Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore. E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto così a 18 anni. Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia. Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere. Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro. Perciò ritirerò le querele ancora in corso. Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta. Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento. Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore. Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio. Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia. C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa perché esiste ed è grave. Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo. Per me l’onore è un’altra cosa. L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio. Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa. *mamma di Federico Aldrovandi

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