populismo penale – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 26 Jul 2020 07:00:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Violenze e forze dell’ordine. Quando è marcio il frutteto https://www.micciacorta.it/2020/07/violenze-e-forze-dellordine-quando-e-marcio-il-frutteto/ https://www.micciacorta.it/2020/07/violenze-e-forze-dellordine-quando-e-marcio-il-frutteto/#respond Sun, 26 Jul 2020 07:00:32 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26202 I police studies, sviluppatisi nei paesi anglosassoni, dimostrano che non si tratta di poche mele marce, bisogna andare a vedere il frutteto

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Da George Floyd a Piacenza, gli abusi commessi da parte delle forze dell’ordine hanno conquistato la ribalta pubblica. Il dibattito che ne è seguito si articola in due direzioni: alcuni insistono sull’integrità dell’operato di poliziotti e Cc, rifugiandosi nella formula delle poche mele marce. Questa posizione mira a liquidare sbrigativamente un problema che si connota come un fiume carsico della vita pubblica italiana, e, per rimanere nella storia recente, da Carlo Giuliani a Riccardo Magherini, ha rivelato l’inadeguatezza delle forze di polizia italiana a rapportarsi con la complessità sociale contemporanea. Altri, sull’onda di quanto è successo a Minneapolis, propongono di smantellare le forze di polizia. Anche questa posizione, per quanto prospetticamente valida, mostra le sue evidenti lacune. Innanzitutto, perché sorvola sulle specificità del contesto statunitense. In secondo luogo, perché i tagli alla polizia, in UK e negli Usa, sono parte del pacchetto neoliberista. Ad esempio, dal 2010, quando i Tories sono tornati al potere, i tagli alle forze di polizia si attestano al 30%, con la cancellazione di esperienze come le Female Units, vere e proprie unità di supporto per le donne vittime di violenze, composte da poliziotte, assistenti sociali e counsellors. All’interno della cornice neoliberista, privatizzare la polizia significa affidarsi a gruppi equivoci, come è successo in Francia e in UK, con società che facevano capo ai neofascisti a gestire i centri di permanenza e gli hotspot. Come vorrebbe fare la Lega con le ronde padane. La questione di una polizia all’altezza di una società democratica, multiculturale e, possibilmente, inclusiva, rimane in tutta la sua attualità. I police studies, sviluppatisi nei paesi anglosassoni, dimostrano, per dirla col criminologo inglese Maurice Punch, che non si tratta di poche mele marce, bisogna andare a vedere il frutteto. Da un lato, le forze di polizia non sono asettiche rispetto alla società in cui operano, bensì ne riflettono gli umori, le percezioni e le pulsioni. In altre parole, il razzismo, il sessismo e il classismo, in una società che ha fatto della domanda di sicurezza la sua cifra politica, si pone come un elemento strutturale delle forze dell’ordine. Dall’altro lato, lo spirito di corpo, l’identità professionale, l’esercizio di funzioni repressive, rendono i poliziotti più lenti a recepire i mutamenti sociali. È stato così nell’Inghilterra dei primi anni Ottanta, coi bobbies ad agire verso gli afrocaraibici sull’onda del pregiudizio verso i lavoratori ospiti, senza tenere conto che si trovavano di fronte a cittadini britannici di nascita e di cultura. È così nell’Italia di oggi, dove Ps e Cc si ostinano a utilizzare categorie moraliste come «drogato» nei confronti del popolo della notte, fino a provocare tragedie come quella di Federico Aldrovandi e Riccardo Magherini. Nel caso italiano, inoltre, troviamo l’afflato etico delle polizie continentali, che pretendono di esercitare un presidio di tipo morale sui valori fondativi della vita associata, e si credono di conseguenza al di sopra della legge. È proprio questo il nodo da sciogliere, ovvero quello dell’accountability. Lo scarto tra le pratiche di polizia, ad orientamento contenitivo, e il flusso delle relazioni sociali, può essere colmato attraverso l’istituzione di meccanismi e procedure che tutelino i cittadini, e rendano le forze dell’ordine responsabili dei loro comportamenti. Ad esempio, in UK esiste l’Independent Office for Police Conduct, a cui ci si può rivolgere nel caso si ritenga di essere stati vittime di abusi, che dispone del sostegno personale e legale a favore dei ricorrenti, e ogni anno presenta una relazione al Parlamento. Un organismo di questo tipo sostituirebbe le attuali procedure di inchiesta, che al momento, in Italia, sono interne alle singole forze di polizia. L’obbligatorietà del numero di matricola costituirebbe la seconda misura da implementare, in modo da rendere identificabili i poliziotti e di facilitare l’avvio di eventuali inchieste. Altri aspetti riguardano la formazione e il reclutamento. A partire dalla rivolta afrocaraibica di Brixton del 1981, la polizia britannica si è adoperata per reclutare tra le sue fila membri delle minoranze razziali, fino ad espandere il discorso inclusivo verso il reclutamento di poliziotti Lgbtqi. Tali misure vanno di pari passo a una formazione orientata verso il rispetto delle diversità. Ovviamente, se i rapporti di forza rimarranno orientati a destra, queste misure non basteranno a cambiare positivamente l’operato delle forze di polizia. Costituirebbero comunque un passo avanti in un paese in cui nessuno, neppure la Lega, vuole smilitarizzare i Carabinieri. * Fonte: Vincenzo Scalia, il manifesto

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L’ergastolo e i suoi sostenitori. Alle radici dell’emergenza https://www.micciacorta.it/2019/10/lergastolo-e-i-suoi-sostenitori-alle-radici-dellemergenza/ https://www.micciacorta.it/2019/10/lergastolo-e-i-suoi-sostenitori-alle-radici-dellemergenza/#respond Wed, 09 Oct 2019 07:54:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25691 Le reazioni alla sentenza della Corte Europea sui diritti umani mostrano ancora una volta quella innaturale convergenza bipartisan tra sinistra, destra, centro che ormai da decenni esiste sul carcere duro, sulla cosiddetta sicurezza, sul populismo penale

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Le reazioni alla sentenza della Corte Europea sui diritti umani riguardo il cosiddetto “ergastolo ostativo”, che, respingendo il ricorso presentato dal governo italiano, ribadisce la disumanità di un ergastolo senza alcuna possibilità di benefici e di liberazione condizionale, invece prevista per l’ergastolo “normale” (dopo 26 anni di pena scontata, è bene ricordare a coloro, dell’antimafia dell’ “occhio per occhio”, che si stracciano oggi le vesti) mostrano ancora una volta quella innaturale convergenza bipartisan tra sinistra, destra, centro che ormai da decenni esiste sul carcere duro, sulla cosiddetta sicurezza, sul populismo penale. Era successo lo stesso al tempo della sentenza con la quale il medesimo organismo aveva condannato l’Italia per la morte in 41bis di Bernardo Provenzano, tenuto in carcere sino al decesso. Al (ex) capo mafioso era stato nuovamente prorogato il regime di cui all’art. 41-bis (il cosiddetto carcere duro) il 23 marzo 2016, ossia poco prima della sua morte, avvenuta il 13 luglio 2016; ciò nonostante da tempo fosse ridotto a uno stato puramente vegetativo. Anche in quel caso vi era stata la reazione pavloviana degli “addetti ai lavori” delle procure e dei loro supporter mediatici e politici: «il 41 bis non si tocca». Come ora ripetono: «il 4 bis non si tocca», pena, addirittura, «uccidere nuovamente Falcone e Borsellino». Proprio la vicenda Provenzano, però, mostra a chiunque non sia accecato da furore vendicativo, che la ratio – prevalente, se non assoluta – di tali norme non è quella dichiarata, ovvero rendere impossibile o almeno difficile la comunicazione tra mafiosi in carcere e quelli in libertà, di interrompere sodalizi criminali, di assicurare legalità e giustizia al livello che la particolare pericolosità mafiosa necessita, bensì quella di costringere alla “collaborazione giudiziaria” attraverso forme di pressione che alcuni qualificano invece come tortura. Insomma, contro la mafia e il terrorismo il fine giustifica i mezzi. Anche nei confronti di quanti sono in carcere, quello dell’isolamento del 41bis, da decenni. Anche rispetto a ex appartenenti a organizzazioni criminali da tempo scomparse. Tali misure finiscono dunque per avere una semplice, e terribile, funzione simbolica, per dire: «chi attacca lo Stato deve morire in carcere». Niente più che una vendetta con funzione deterrente e rassicurativa nei confronti di opinioni pubbliche disinformate e sapientemente manipolate con dosi quotidiane di giustizialismo. Anche oggi media e commentatori confondono l’ergastolo ostativo con l’ergastolo tout court o assicurano che quest’ultimo in realtà non esiste. In effetti, degli oltre 1700 ergastolani attuali, i due terzi sono “ostativi”, ma il rimanente terzo non gode certo di alcun automatismo di benefici, sottoposti invece a costante osservazione e progressione e alla valutazione dei magistrati. Le radici di questo irrigidimento o imbarbarimento non solo dei sentimenti pubblici, ma prima e assieme degli apparati normativi e delle prassi che a livello giudiziario e carcerario si sono progressivamente instaurate, sono da ricercare nella logica di emergenza e Stato dell’eccezione. Emergenza ed eccezione che poi, sempre, divengono stabili e “nuova normalità”. In quella visione, che data dai tempi della “madre di tutte le emergenze”, quella contro le forme di ribellione armata negli anni Settanta, il deviante, il reo, viene trasformato in un nemico da annichilire e distruggere a tutti i costi, anche al prezzo di rinunciare allo Stato di diritto, o comunque a sue parti fondamentali, e di imporre ripetute e progressive lacerazioni all’ordinamento penale e a quello penitenziario. Parafrasando il famoso sermone del pastore Martin Niemöller: Prima colpirono i terroristi: erano nemici dello Stato e del sistema dei partiti. Allora li torturarono, fecero leggi d’eccezione e tribunali speciali, li misero in carceri speciali, li assoggettarono all’articolo 90 (l’antesignano del 41bis), li sottoposero a condanne esemplari. (si era a cavallo tra gli anni 70 e gli anni Ottanta) Poi si accanirono contro i tossicodipendenti, importando dagli Stati Uniti le logiche della “Tolleranza zero”, con cui stigmatizzarono i consumatori di sostanze e di cui riempirono le carceri, trasformando la “guerra alla droga” in lotta a oltranza contro le vittime delle droghe, che intanto morivano a migliaia. (dal 1973, allorché è iniziato questo tipo di rilevazione, i morti per overdose in Italia sono stati 25.069). Anche in quel caso si fecero nuove leggi, improntate alla massima severità, trasformando un problema sociale e sanitario in una questione penale. (si era alla fine degli anni Ottanta) Poi fu la volta dei mafiosi: erano fuoriusciti dallo spazio e dal ruolo ancillare del potere politico che storicamente avevano avuto: avevano osato mordere la mano che li aveva sempre nutriti e spesso protetti. E furono di nuovo leggi speciali, l’ergastolo ostativo e il 41 bis. (e siamo all’inizio degli anni Novanta) Poi nel mirino finirono i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i malati psichici: disturbavano, e allora vennero criminalizzati a colpi di decreti-sicurezza e di leggi sul “decoro urbano”. Il carcere, del resto, è un business che tende a incrementare sé stesso (oltre 10 milioni di detenuti a livello mondiale; il record lo hanno gli Stati Uniti, con 2.121.300, vale a dire 710 detenuti ogni 100 mila abitanti).  È insomma avvenuta «la trasformazione del povero da figura economicamente inutile se in libertà, a soggetto economicamente redditizio quando prigioniero» (Elisabetta Grande, Il terzo strike – la prigione in America, Sellerio, 2007) (e si è arrivati agli anni Novanta e Duemila). Poi venne il turno degli immigrati: erano troppi, un flusso continuo che faceva paura e che facilmente poteva essere strumentalizzato da forze politiche sempre più ciniche. Vennero varate apposite norme: la legge Martelli del 1990 che cercava di governare i flussi, programmandoli sulla base delle necessità produttive del Paese: riducendo così gli uomini a braccia; assieme, sanzionava penalmente, anche con il carcere, l’immigrazione clandestina e fissava i meccanismi di espulsione. La successiva legge Turco-Napolitano del 1998 istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanei, vale a dire luoghi in cui detenere persone colpevoli solo di essere straniere, sottoponendole a un “diritto penale del nemico”. Su questi impianti normativi, inasprendoli ulteriormente, interverrà poi la legge Bossi-Fini del 2002. Poi arrivarono Minniti e Salvini. E siamo all’oggi. Lo Stato d’eccezione aveva individuato il nuovo nemico nello straniero; più di recente, ha iniziato a criminalizzare anche quelli che considera suoi complici, vale a dire le Organizzazioni Non Governative, le ONG. Intanto, migranti e rifugiati continuano a morire a decine di migliaia nel tentativo di entrare in Europa; a finire in Centri di identificazione ed espulsione o, ora, nei CPR, spesso peggiori delle carceri; a essere sfruttati bestialmente nelle campagne del Mezzogiorno; a essere quotidianamente discriminati e sempre più spesso aggrediti nelle città. Doppiamente perseguitati, in quanto stranieri e in quanto poveri. (ed è storia che dura da oltre 30 anni, ma che oggi vede un drastico peggioramento perché il razzismo promana direttamente dall’alto, dalla politica, dalle politiche dei governi, dagli imprenditori dell’odio e dai professionisti della paura) Per i rom, infine, non c’è stata una stagione, per quanto lunga: la loro persecuzione comincia nella notte dei secoli e non ha mai avuto fine. Grazie a tutto ciò il sistema penale e penitenziario si è irrigidito, dall’alto verso il basso. La riforma e le misure alternative si sono inceppate e svuotate. Gli ergastolani crescono anno dopo anno, in controtendenza rispetto le statistiche sulla criminalità. Nel 1981, l’anno in cui si tenne il referendum per l’abrogazione della pena perpetua promosso dal Partito Radicale (che ottenne, pare incredibile, il 22,63% dei consensi, oltre 7 milioni di voti), gli ergastolani erano 318. Nel 1989, allorché la Camera approvò (anche questo pare ora incredibile) un ordine del giorno per l’abolizione del carcere a vita, erano circa 400. A fine 2018 gli ergastolani in carcere erano 1.748. Nel 2017 erano 1.735; un anno prima erano 1.687. Nel 2015 erano 1.633, nel 2014 1.584. Nel 2005 erano 1.224. E così via. I reati più gravi, invece, gli omicidi sono in forte calo rispetto dagli anni Novanta (da 1.916 omicidi volontari nel 1991 a 368 nel 2017). In particolare, mostrano una consistente diminuzione gli omicidi compiuti dalla criminalità organizzata (da 342 a 55) e ancor più quelli commessi dalla criminalità comune (da 879 a 144). Questi i dati, questo il quadro. Il resto è propaganda e sentimento di vendetta. Legittimo e anche comprensibile se riguarda il singolo, barbaro e ingiustificabile se promana dalle istituzioni.

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Sandro Baratta, viaggio critico nel cuore di tenebra dello Stato di diritto https://www.micciacorta.it/2019/07/sandro-baratta-viaggio-critico-nel-cuore-di-tenebra-dello-stato-di-diritto/ https://www.micciacorta.it/2019/07/sandro-baratta-viaggio-critico-nel-cuore-di-tenebra-dello-stato-di-diritto/#respond Wed, 24 Jul 2019 09:33:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25572 Populismo penale. Torna per Meltemi il «classico» «Criminologia critica e critica del diritto penale» di Alessandro Baratta

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Un’analisi delle politiche del controllo anticipatrice dell’età «neoliberale», scritto nella stagione della più grande avanzata delle lotte operaie e sociali dal Dopoguerra. La legge, il potere, il diritto, l’economia non sono mai innocenti. Difendono la società intesa come insieme di valori e interessi omogenei. Chi squarcia il sipario è criminalizzato come accade ai poveri, subalterni e migranti che sono considerati devianti o nemici. Questo libro oggi è un potente antidoto ed è un contributo al rapporto virtuoso tra i saperi critici e i movimenti «In galera, gettate la chiave, fateli marcire in cella». Il piacere della gogna e del supplizio aizzato da schiumanti ministri contro latitanti dagli anni Settanta, capitane delle navi delle Ong o migranti sopravvissuti ai naufragi e ai campi di concentramento in Libia, è l’espressione del populismo penale. L’uso demagogico e punitivo del diritto oggi trasforma i dissenzienti, e non solo i responsabili di un reato, in criminali, nemici dell’umanità, colpevoli di condotte contrarie al volere del potere, indipendentemente dal fatto che le sue leggi rispettino i diritti fondamentali delle persone. IL «SALVINISMO», variante di questo populismo, è una contraddizione nella storia dell’illuminismo giuridico di Beccaria, nucleo fondante della cultura giuridica del XX secolo. Il suo autoritarismo non è tuttavia estraneo a questa storia illuminata. Al contrario, è uno dei suoi risvolti. La legge, il potere, il diritto, l’economia non sono mai innocenti. Sono dispositivi che difendono una società intesa come un insieme di valori e interessi omogenei. Chi squarcia il sipario di questa finzione è considerato un deviante, talvolta un “nemico”. Prima che il diritto egli contraddice il “bene” che unisce la comunità. Sono tutte credenze, contrarie allo stato di diritto costituzionale, che addebitano la causa del reato a una “naturale” propensione alla devianza da parte dell’oppositore e comunque del diverso. Questa strategia risponde all’ideologia della difesa sociale, il cuore di tenebra dello Stato di diritto. Punto di arrivo di una lunga evoluzione del pensiero penalistico e penitenziario, questa ideologia organicistica riproduce un’idea astorica della società funzionale alla riproduzione del potere del momento. Formalmente difende gli interessi dei cittadini (il “popolo”). In realtà garantisce i dominanti in nome della trinità: proprietà, confini e sovranità. È in nome di queste leggi che nascono i processi di criminalizzazione guidati da chi ha il potere di definire i subalterni, i poveri o i migranti attraverso uno stigma, un’etichetta, lo status sociale di “criminale”. LA CRITICA di questa ideologia oggi è necessaria, considerata la sua aggressività e il vistoso arretramento della capacità di interpretarla e combatterla. Gli strumenti utili per realizzare una simile impresa si trovano in uno dei capolavori del pensiero critico che è stato finalmente ripubblicato. Parliamo di Criminologia critica e critica del diritto penale di Alessandro Baratta (Meltemi, pp. 311, euro 20). Insieme a Carcere e fabbrica di Dario Melossi e Massimo Pavarini (ripubblicato l’anno scorso da Il Mulino, recensito da Patrizio Gonnella su Il manifesto il 30 ottobre 2018); Sorvegliare e punire di Michel Foucault (Einaudi); Pena e struttura sociale di Georg Rusche e Otto Kirchheimer (Il Mulino), il libro di Baratta permette di comprendere il potere come una manifestazione del controllo sociale e del governo della forza lavoro che integra e reprime, socializza e punisce, educa e cambia la mentalità attraverso il sistema penale, il carcere, la scuola o il mercato del lavoro. Scritto nella stagione della più grande avanzata delle lotte operaie e sociali dal Dopoguerra, il libro riprende la genealogia del potere disciplinare e la analizza alla luce delle nuove tendenze del “tardo-capitalismo”, quella che più tardi sarebbe stata definita come la sua svolta “neoliberale” o “postfordista”. Baratta vede la discontinuità evidenziata nel dibattito tra Foucault e Gilles Deleuze sul passaggio dalla società disciplinare a una società del controllo. Il carcere, oggetto della sua riflessione, è considerato parte di una “rete” di poteri – definita da Foucault “panottico” – dove l’individuo ha la funzione di (auto)disciplinarsi e controllare gli altri. Strumento di inclusione ed esclusione della forza lavoro, esso fa parte di un’«economia politica della pena e della criminalità» e risponde ai «rapporti di produzione». IN QUESTA CORNICE è vibrante la polemica contro la criminalizzazione dei movimenti sociali creata dal diritto penale dell’emergenza contro il terrorismo. Baratta critica i “partiti operai” (il Pci in Italia, l’Spd in Germania) che scelsero nel corso degli anni Settanta di farsi coinvolgere nella «politica dell’ordine pubblico corrispondente alla logica del capitale e dei suoi interessi». Questa impostazione serve oggi per ricostruire la storia politica del giustizialismo. Di solito si considera solo una parte di questa storia, considerata come un’involuzione della magistratura nel suo rapporto con il potere politico. La critica del diritto penale, che è anche critica dell’uso politico del diritto fatto dai suoi attori, inserisce tali vicende nella più ampia trasformazione del capitalismo «che ha bisogno, per motivi ideologici e economici, di disoccupati e di un’emarginazione criminale». PUBBLICATO NEL 1982, questo libro non è solo un classico della “criminologia critica”, un approccio a cui ha dato un solido inquadramento teorico insieme a Melossi, Pavarini, Giuseppe Mosconi o Tamar Pitch in Italia. È anche uno dei più importanti contributi al rapporto virtuoso tra i saperi critici e i movimenti sociali. Questa opera ha lo stesso valore di quella di Franco e Franca Basaglia a sostegno dell’abolizione dell’istituzione totale del manicomio, quella di Foucault contro il carcere e la repressione, di Marx nella critica dell’economia politica del capitalismo o della scuola di Francoforte nella teoria critica della società. La consapevolezza della sintesi, e delle differenze tra questi approcci, emerge in un testo fondamentale tanto per gli studenti, quanto per chi è alla ricerca di una politica che passi all’attacco e non resti a difesa dei principi. Criminologia critica e critica del diritto penale è stupefacente per la sua capacità di offrire strumenti utili per smontare la strategia bipartisan del securitarismo. Si tratta dell’esito virulento della nostra società neoliberale che ha concepito il rischio come un’opportunità e consuma la libertà (economica) che pretende di produrre cancellandola con un’escalation di sanzioni, repressioni e politiche di polizia. Il libro di Baratta è un antidoto «alla Lombroso renaissance potenziata dall’uso delle gogne mediatiche sui social network e del risentimento sociale», scrive la curatrice del volume Anna Simone. La chiave di questo classico sta nell’adottare il punto di vista delle classi subalterne, seguendo la trasformazione della loro oppressione, senza trascurare il fatto che tale oppressione è anche il risultato dell’interiorizzazione dei comportamenti che rendono i subalterni lo specchio di ciò che vuole il potere. Obiettivo della «teoria materialistica della devianza», scrive Stefano Anastasia nella postfazione, è una «politica criminale alternativa» fino «alla prospettiva della massima contrazione e, al limite, del superamento del sistema penale». La tensione tra la prospettiva dell’abolizionismo penale e l’adozione di un «diritto penale minimo» è uno dei punti problematici e vivi di questa ricerca. La libertà del suo autore indica comunque una tendenza alternativa al diritto penale della diseguaglianza, lo scandalo che ha generato anche il populismo penale oggi al potere. «Il programma di Baratta – scrive Dario Melossi nella prefazione al volume – ha come bersaglio il populismo penale che, inventato Oltreoceano alla fine del secolo scorso, come accompagnamento penale alle tesi neoliberiste, è infine approdato sulle nostre coste sotto le bandiere del “sovranismo”, proprio nel momento in cui Oltreoceano se ne sta cominciando a fare la critica». * Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO

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Domani la Val Susa marcia contro il decreto sicurezza https://www.micciacorta.it/2019/01/domani-la-val-susa-marcia-contro-il-decreto-sicurezza/ https://www.micciacorta.it/2019/01/domani-la-val-susa-marcia-contro-il-decreto-sicurezza/#respond Fri, 25 Jan 2019 09:54:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25188 La Val di Susa si schiera contro il decreto sicurezza. E sabato sarà in piazza ad Avigliana, a ridosso della Giornata della memoria, contro una legge che «discrimina l’uomo in base al luogo in cui è nato, compiendo uno strappo vigoroso ai principi della Costituzione». La manifestazione, con ritrovo alle ore 14 in piazzetta De […]

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La Val di Susa si schiera contro il decreto sicurezza. E sabato sarà in piazza ad Avigliana, a ridosso della Giornata della memoria, contro una legge che «discrimina l’uomo in base al luogo in cui è nato, compiendo uno strappo vigoroso ai principi della Costituzione». La manifestazione, con ritrovo alle ore 14 in piazzetta De Andrè, è promossa dai comuni di Vaie e di Avigliana, Recosol (la rete dei comuni solidali), Anpi Valle di Susa e Val Sangone, Chiesa Valdese di Susa, Chiesa Battista di Meana e dall’Ufficio pastorale migranti Diocesi di Susa. Ha aderito, tra gli altri, il movimento No Tav. La Valle ha intrapreso, ormai da due anni, un progetto di microaccoglienza diffusa con piccoli gruppi di migranti inseriti in ogni paese. Si tratta di un esperimento che ha avuto una eco nazionale, poi copiato da molti altri territori. Una scommessa vinta di integrazione riuscita che oggi rischia di essere abbandonata. «Con il decreto 113/2018, convertito in legge, ci troviamo di fronte – spiegano gli organizzatori – a nuove regole che impediscono il rinnovo della protezione umanitaria da parte dei migranti che ne avevano diritto. Questa legge genererà circa 60mila irregolari in due anni. I nuovi clandestini non potranno essere rimpatriati nei Paesi d’origine, sia per mancanza di fondi, sia soprattutto per la mancanza di accordi bilaterali con i governi dei Paesi di provenienza. Si riverseranno così nelle strade delle nostre città senza diritti, senza tutele e senza la possibilità di lavorare in regola. Saranno le amministrazioni comunali, in totale solitudine e con pochi mezzi, a doversene fare carico. In questo modo si rischierà di alimentare la delinquenza, il lavoro nero, lo sfruttamento del lavoro e della prostituzione». La Val di Susa è stata storicamente un luogo di transito, abitato da una comunità legata al suo territorio e nello stesso tempo capace di coltivare i semi dell’accoglienza. Ecco, perché non vuole rimanere silente. «La legge di Salvini non riconosce la protezione ai migranti per motivi umanitari, cancellandone la tutela per casi legati allo stato di salute, alla maternità, alla minore età, al tragico vissuto, ai maltrattamenti affrontati durante il difficile viaggio verso l’Italia. È una legge non solo repressiva verso chi viene definito “straniero”, ma anche verso gli stessi italiani che vedranno limitati i loro diritti a manifestare». * Fonte: Mauro Ravarino, IL MANIFESTO

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Stato d’eccezione. Prima vennero i “terroristi” https://www.micciacorta.it/2019/01/stato-deccezione-prima-vennero-i-terroristi/ https://www.micciacorta.it/2019/01/stato-deccezione-prima-vennero-i-terroristi/#respond Mon, 14 Jan 2019 08:51:11 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25151 Allora li misero in carceri speciali, li assoggettarono all’articolo 90, li torturarono, fecero leggi d’emergenza e tribunali speciali, li sottoposero a condanne esemplari

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Prima colpirono i "terroristi": erano nemici dello Stato e del sistema dei partiti. Allora li misero in carceri speciali, li assoggettarono all’articolo 90 (l’antesignano dell’attuale 41bis), li torturarono, fecero leggi d’emergenza e tribunali speciali, li sottoposero a condanne esemplari. Si era a cavallo tra la metà degli anni Settanta e quella degli Ottanta. Poi si accanirono contro i tossicodipendenti, importando dagli Stati Uniti logiche e norme di “tolleranza zero”, con cui stigmatizzarono i consumatori di sostanze dei quali riempirono le carceri, trasformando la “guerra alla droga” in lotta a oltranza contro le vittime delle droghe, che intanto morivano a migliaia (dal 1973, allorché è iniziato questo tipo di rilevazione, i morti per overdose in Italia sono stati 25.069). Anche in quel caso si fecero nuove leggi, improntate alla massima severità, trasformando un problema sociale e sanitario in una questione penale. Si era giunti alla fine degli anni Ottanta. Poi venne la volta dei mafiosi: erano fuoriusciti dai confini stabiliti e dal ruolo ancillare del potere politico che storicamente gli era proprio; avevano osato mordere la mano che li aveva sempre nutriti e spesso protetti. E furono di nuovo leggi e misure eccezionali, l’ergastolo ostativo e il carcere duro del 41 bis sino alla morte. Siamo all’inizio degli anni Novanta. Nel 1981, l’anno in cui si tenne il referendum per l’abrogazione della pena perpetua promosso dal Partito Radicale (che ottenne, pare incredibile, il 22,63% dei consensi, oltre 7 milioni di voti), gli ergastolani erano 318. Nel 1989, allorché la Camera approvò (anche questo pare ora incredibile) un ordine del giorno per l’abolizione del carcere a vita, erano circa 400. Oggi (a fine giugno 2018) sono 1.726, di cui circa i tre quarti (1.231) “ostativi”, vale a dire che non possono ottenere alcun beneficio se non si “pentono” e "collaborano" con i magistrati, ovvero non denunciano altri. Si tratta di un numero in costante crescita, in forte controtendenza rispetto al calo della criminalità, mafiosa e non, e degli omicidi. Anche su questo l’Italia si è allineata alle tendenze globali, e particolarmente statunitensi, alla iper-penalizzazione. Gli ergastolani negli USA sono addirittura 160mila, di cui 50mila senza possibilità di condizionale. Il carcere è un business che, come tutti i business, tende a incrementare sé stesso: oltre 10 milioni di detenuti a livello mondiale; il record lo hanno gli Stati Uniti, con 2.121.300 reclusi, vale a dire 710 ogni 100mila abitanti, senza contare gli altri circa 5 milioni sottoposti a misure penali o libertà vigilate fuori dal carcere. Poi nel mirino finirono i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i malati psichici: disturbavano, e allora vennero criminalizzati a colpi di decreti-sicurezza, di polizie municipali e di “DASPO urbano”, dal florilegio di ordinanze dei sindaci alla metà degli anni Novanta alle più recenti norme Minniti-Orlando e, infine, al decreto Salvini, che è arrivato persino a reintrodurre la penalizzazione del blocco stradale e di quello ferroviario, una fattispecie di reato introdotta a suo tempo da Scelba, il ministro di polizia degli anni Cinquanta, specializzato nella repressione antioperaia! Progressivamente si è realizzata «la trasformazione del povero da figura economicamente inutile se in libertà, a soggetto economicamente redditizio quando prigioniero» (Elisabetta Grande, Il terzo strike – la prigione in America, Sellerio, 2007). Ma, assieme e intanto, si è alimentato a livello sociale il discorso d’odio verso i più deboli. Non si contano più i quotidiani episodi di violenza, pubblica e privata, contro senzatetto e mendicanti ma anche – è il dato nuovo – verso chi li soccorre e aiuta. Poi venne il turno degli immigrati: erano troppi, dicevano i governanti convincendone i governati; un flusso continuo che faceva paura e che facilmente poteva essere strumentalizzato da forze politiche sempre più ciniche. Vennero varate apposite norme: la legge Martelli del 1990 che cercava di governare i flussi, programmandoli sulla base delle necessità produttive del Paese: riducendo così gli uomini a braccia; assieme, sanzionava penalmente, anche con il carcere, l’immigrazione clandestina e fissava i meccanismi di espulsione. La successiva legge Turco-Napolitano del 1998 istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanei, vale a dire prigioni in cui detenere persone colpevoli solo di essere straniere, sottoponendole a un “diritto penale del nemico”. Su questi impianti normativi, inasprendoli ulteriormente, intervenne poi la legge Bossi-Fini del 2002. E siamo all’oggi, dove le politiche del respingimento, dei muri e della chiusura non hanno neppure più bisogno di essere tradotte in norme, né tanto meno discusse in Parlamento e neanche essere condivise collegialmente dal governo in carica: per chiudere i porti bastano i tweet e i proclami del ministro di polizia. Dagli anni Novanta, lo Stato d’eccezione aveva progressivamente individuato il nuovo nemico nello straniero, iniziando da ultimo a criminalizzare anche quelli che considera suoi complici, vale a dire le Organizzazioni Non Governative, le ONG, giacché il razzismo istituzionale non tollera testimoni. Intanto, migranti e rifugiati continuano a morire a decine di migliaia nel tentativo di entrare in Europa (dal 1993 al 5 maggio 2018 le morti accertate sono state 34.361, mentre, a livello mondiale, dal 2000 a oggi sono oltre 60mila i migranti morti nel tentativo di lasciare il loro Paese; stragi di cui, naturalmente, nessuno si ritiene responsabile); a finire in Centri di identificazione ed espulsione, spesso peggiori delle carceri; a essere sfruttati bestialmente nelle campagne del Mezzogiorno e del profondo Nord; a essere quotidianamente discriminati e sempre più spesso aggrediti nelle città. Doppiamente perseguitati, in quanto stranieri e in quanto poveri. Ed è storia che dura da oltre 30 anni, ma che oggi vede un drastico peggioramento perché il razzismo promana direttamente dall’alto, dalla politica, dalle politiche dei governi, dagli imprenditori dell’odio e dai professionisti della paura. Per i rom, infine, non c’è stata una stagione, per quanto lunga: la loro persecuzione comincia nella notte dei secoli e non ha mai avuto termine. L’episodio del vicesindaco triestino che ha gettato nell’immondizia abiti e coperte di un senza tetto ha destato, per fortuna e per una volta, una qualche emozione e risposta pubblica. Reazioni invece del tutto assenti allorché periodicamente le ruspe, gialloverdi o di centrosinistra in egual modo e misura, sgomberano i campi di periferia dove rom e sinti sono costretti, seppellendo nelle macerie anche le loro povere cose. Del resto, anche nella civile Milano “col cuore in mano”, hanno denunciato i volontari, capita che la polizia e la nettezza urbana buttino nei cassonetti le coperte dei senza dimora, talvolta e paradossalmente distribuite dai servizi sociali del Comune stesso. Lo stesso si può dire per la proposta del vicepremier Di Maio riguardo la vicenda dei 49 migranti bloccati per settimane in mare sulle navi delle ONG Sea Eye e Sea Watch, ovvero di accogliere solo donne e bambini, in tal modo smembrando le famiglie. Una proposta solo apparentemente un po' meno crudele di quella del suo collega Salvini, attestato sul rifiuto totale e ad oltranza. Occorre sapere che a ogni sgombero di un campo rom, nel disinteresse generale, si pone l'identica questione, con la disponibilità dei Comuni di ospitare (naturalmente solo per breve tempo e in luoghi che è eufemistico definire di accoglienza) unicamente le madri e i piccoli figli, dividendo le famiglie e costringendo i padri e tutti gli altri alla strada. Anche laddove non vi è quell’odio e quell'accanimento istituzionale verso poveri e migranti cui ci sta abituando l’attuale governo, infatti, trionfano annoiate burocrazie, idolatria della legge e umana indifferenza. Lo chiamano decoro urbano. Nei fatti si tratta di pulizia etnica e sociale. Beninteso, in nome della pubblica sicurezza. Fonte: Sergio Segio, Vita.it

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Al via la sperimentazione del Taser, un elettroshock su persone disarmate https://www.micciacorta.it/2018/09/al-via-la-sperimentazione-del-taser-un-elettroshock-su-persone-disarmate/ https://www.micciacorta.it/2018/09/al-via-la-sperimentazione-del-taser-un-elettroshock-su-persone-disarmate/#respond Thu, 06 Sep 2018 07:59:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24818 Repressione. In dodici città italiane viene introdotta l'arma che ha già suscitato proteste negli Stati Uniti, come racconta la maxi inchiesta di Reuters. Altissimo il rischio di abusi.

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Da ieri una settantina di agenti in dodici città per i prossimi tre mesi (Milano, Napoli, Bologna, Torino, Firenze, Palermo, Genova, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi) avranno in dotazione una pistola che spara scariche elettriche. La pistola è comunemente chiamata Taser dal nome della prima ditta produttrice (che però oggi si chiama Axon Enterprise). L’ESPERIENZA statunitense, fortemente contestata da Amnesty International, dall’American Civil Liberties Union, dai gruppi di advocacy americani Truth Not Tasers e Fatal Encounters, ha evidenziato come quest’arma a partire dal 2000 negli Usa sia stata potenzialmente mortale. Essa non è stata usata come alternativa meno violenta rispetto alle tradizionali pistole che sparano pallottole ma come più facile e meno faticosa alternativa alla parola, alle manette, all’opposizione fisica. STRAORDINARIA per cura e ampiezza è la ricerca dei giornalisti della Reuters che la scorsa estate ha pubblicato sul web un’inchiesta approfondita sui danni collaterali da Taser. L’indagine giornalistica è stata costruita a seguito della visione di documenti giudiziari, rapporti di polizia, autopsie, certificati medico-legali e notizie di stampa locali. Dunque in un arco di tempo pari a circa sedici anni, oltre mille sarebbero state le persone morte negli Stati Uniti in scontri con la Polizia a causa dell’uso dell’elettroshock. In ben 153 casi la Reuters ha scoperto che i medici legali hanno esplicitamente citato la pistola Taser come causa della morte. In 442 casi di uso improprio della Taser sono state presentate denunce da parte dei parenti delle vittime che per ora sono costate, in termini di risarcimenti alle istituzioni o alle assicurazioni, ben 172 milioni di dollari. QUESTO ACCADE perché con la pistola che spara scariche elettriche si colpiscono non persone armate pericolose (in questo caso nessuno farebbe a meno delle più tradizionali pallottole), ma uomini o donne giudicati agitati, che si muovono scompostamente, che si oppongono al fermo. Dunque va chiarito che il Taser è un’arma usata contro persone non armate. EPPURE quando il fondatore della società Taser, Rick Smith, lanciò il prodotto nel mercato pazzo dell’America neo-liberale lo definì un prodotto sicuro, con rischi minimi. Ma le sue affermazioni sulla sicurezza non avevano alcun avallo scientifico. Il punto non è l’uso dell’arma su persone sane, ma su persone con pregressi problemi cardiaci o neurologici. E in tali casi che il rischio diventa letale. Douglas Zipes è un cardiologo che, come ricorda la Reuters, ha testimoniato in decine di cause contro l’azienda Taser. Ha ricordato come i test e le sperimentazioni scientifiche effettuate erano state del tutto inadeguate. Nel 2009 lo stesso Smith, dopo un decennio e una sperimentazione su cavie animali con problemi cardiologici, dovette ammettere che il Taser era potenzialmente letale. MA LA SBORNIA SECURITARIA è cieca, dunque nel mondo sono state messe in commercio circa un milione di pistole Taser. L’azienda continua a sostenere che la sua arma sia alla stregua di uno spray orticante e ha fatto di tutto, sempre secondo i giornalisti della Reuters, per condizionare la scienza medica. DUNQUE ORA anche in Italia c’è un’arma in più nelle nostre città. Obiettivamente non ce ne era bisogno, visti gli usi e abusi avvenuti in America. C’è inoltre chi nel Governo (Salvini, ovviamente) e tra i sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria ne ha evocato l’uso anche negli istituti di pena. IL TASER NELLE CARCERI è inutile, pericoloso, nonché vietato dagli organismi internazionali. In carcere ci vogliono pazienza, dialogo, esperienza, comunicazione e non scariche elettriche. La gran parte degli operatori ha straordinarie capacità professionali e i conflitti li risolve senza aver bisogno del Taser che invece andrebbe ad aumentare i conflitti. In carcere bisognerebbe avere più operatori sociali, più psicologi, più mediatori, più medici, più direttori. Finanche più giovani poliziotti. Ma meno armi. Questa è l’idea costituzionale della pena. INFINE speriamo proprio che il Taser non sia l’ennesimo strumento di dissuasione contro chi legittimamente protesta nelle piazze. Lo spazio democratico va preservato dall’elettroshock. * Fonte: Patrizio Gonnella, IL MANIFESTO

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Quando il decoro urbano uccide https://www.micciacorta.it/2018/02/decoro-urbano-uccide/ https://www.micciacorta.it/2018/02/decoro-urbano-uccide/#respond Wed, 28 Feb 2018 16:02:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24187 Ci sono vittime del gelo ma prima di tutto di scelte politiche. Con i decreti sicurezza e le ordinanze locali, la povertà è stata trasformata in un crimine

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Ci sono vittime del gelo ma prima di tutto di scelte politiche. Con i decreti sicurezza e le ordinanze locali, la povertà è stata trasformata in un crimine. Alcuni amministratori locali festeggiano l’allontanamento di senza dimora, altri sono pronti a sottoporre quelli recalcitranti al Trattamento Sanitario Obbligatorio. «I poveri sono brutti, sporchi e talvolta anche cattivi – scrive Sergio Segio,  Coordinatore del Rapporto sui diritti globali – Ma le regole dovrebbero essere fatte per l’uomo e non viceversa. E l’uomo, per fortuna, non è riducibile a una tipologia, che più piace alle istituzioni, quella del “povero meritevole”, quella su cui, non a caso, è modellato il recente provvedimento del Reddito di inclusione. Se la soglia di accesso ai servizi è troppo alta per alcuni, la risposta è di abbassarla, differenziando le strutture in base alle diverse necessità e problematiche, potenziando le unità mobili e le risposte individualizzate. Proprio come provano a fare, quasi sempre con scarso sostegno istituzionale e con croniche carenze di risorse, le migliori realtà associative…»
  di Sergio Segio*

Lo chiamano “decoro urbano”, con l’ormai consueta torsione di significati che una politica cinica ha da tempo imparato a utilizzare per legittimare provvedimenti dei cui reali obiettivi evidentemente (non sempre, come vedremo più avanti), e a ragione, ci si vergogna.

Scopi e risultati dei molteplici decreti e “pacchetti” sicurezza succedutisi negli anni (ultimo quello Minniti dell’aprile 2017) sono invece quelli di soppiantare lo Stato sociale con lo Stato penale. Non si tratta di uno slogan, bensì della concretissima erosione, e infine sostituzione, di quell’insieme di politiche, di misure e di servizi atti a realizzare inclusione sociale e a sostenere i cittadini più vulnerabili con politiche e misure che mirano a nascondere, contenere, penalizzare e segregare tutti quei soggetti considerati, appunto, di disturbo al “decoro urbano”. Un concetto usato per estendere a dismisura e alla bisogna quello di sicurezza (a sua volta da tempo rovesciato del senso originario) e per criminalizzare i poveri.

Come si traducano quei concetti e quelle norme nel concreto ce lo evidenziano, da ultimo, le cronache di questi giorni di freddo e neve.

Nella notte di lunedì 26 febbraio vicino alla Stazione centrale di Milano è morto un uomo nell’angolo di strada che era diventata la sua casa. Aveva quarantasette anni, si chiamava Massimiliano, “Max lo chef” per chi lo conosceva, a ricordare e forse mitizzare un lontano passato di “normalità”. Un «irriducibile della strada», secondo la definizione ormai invalsa non solo in un giornalismo facile allo stigma ma anche tra “addetti ai lavori”; laddove il lavoro sarebbe appunto anche quello di prevenire, per quanto possibile, eventi tragici e ricorrenti come questo. Una definizione che, al di là di ogni intenzione ed eventuale buona fede, sposta la responsabilità sulla vittima. Nella cultura corrente segnata dal darwinismo sociale, difatti, essere poveri è di per sé divenuta una colpa, non più una condizione imposta e provocata dalle ingiustizie sociali; essere poveri “irriducibili”, che rifiutano la mano che le istituzioni tendono loro, diventa addirittura una perseveranza nel crimine. Tanto che in alcune città gli amministratori pubblici stanno ragionando sulla possibilità di sottoporre i recalcitranti a Trattamento Sanitario Obbligatorio. Lo ha dichiarato esplicitamente a Genova il consigliere delegato alla Protezione Civile Sergio Gambino, ma l’opportunità stata valutata anche dal sindaco di Milano, salvo in questo caso concludere, dopo il parere della propria avvocatura, che in questi casi il TSO non è giuridicamente applicabile.

Chissà che un prossimo decreto sulla sicurezza e sul “decoro” non arrivi ad equiparare il povero senza tetto allo psicotico, superando così il problema dell’internamento forzoso.

Baobab, Roma, campo base. Ph Andrea Costa

L’assessore milanese al Welfare Pierfrancesco Majorino, nell’occasione, ha ricordato che in città nei dormitori vi sono 2.700 posti letto, di cui trecento liberi.

Soluzioni semplici sicuramente non esistono, ma di fronte al rifiuto di accedere alle strutture predisposte – senza però dimenticare che in altre tempi e in altre città, invece, i posti letto disponibili erano e sono inferiori alle necessità – la prima cosa per chi ha responsabilità politiche è farsi domande e provare a costruire risposte, necessariamente diverse dalla coazione ma anche da logiche sottese sui “poveri meritevoli”, da aiutare, e “irriducibili”, da abbandonare al proprio destino. I poveri sono brutti, sporchi e talvolta anche cattivi. Ma le regole dovrebbero essere fatte per l’uomo e non viceversa. E l’uomo, per fortuna, non è riducibile a una tipologia, che più piace alle istituzioni, quella del “povero meritevole”, quella su cui, non a caso, è modellato il recente provvedimento del Reddito di inclusione (leggi anche 10 punti per un vero reddito minimo garantito).

Se la soglia di accesso ai servizi è troppo alta per alcuni, la risposta è di abbassarla, differenziando le strutture in base alle diverse necessità e problematiche, potenziando le unità mobili e le risposte individualizzate. Proprio come provano a fare, quasi sempre con scarso sostegno istituzionale e con croniche carenze di risorse, le migliori realtà associative, come ad esempio SOS Stazione centrale, che da quasi quarant’anni opera sul campo a Milano con una logica di bassa soglia.

Quando, ad esempio, si blindano notte tempo le stazioni, come anche di recente quella del capoluogo lombardo, creando così disagi ai pochi viaggiatori e ai tanti senza tetto, occorre sapere che quel “decoro” ha costi umani. E dunque si tratta di scelte politiche, non di inevitabilità.

Farsi domande. E magari provare anche a dare ascolto, e a raccoglierne i suggerimenti, non solo alle associazioni con maggiore e diretta esperienza, ma anche ai diretti interessati. Come Aldo, ex manager finito sulla strada, ora attivo presso un rifugio della Caritas, sentito dal Corriere della Sera, che ha ricordato la sua vita randagia: «Io ci andavo nei dormitori. Esiste tra noi una classificazione in base alla qualità: canile 1, canile 2, canile 3».

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Quando i dormitori (tutti, non solo i migliori) verranno invece visti da chi ne ha bisogno come ostelli accoglienti e rispettosi sicuramente il numero degli “irriducibili” e delle morti sarà minore. Sapendo che vanno affrontate anche problematiche diverse e associate alla povertà e all’assenza di un tetto, dalle dipendenze alle patologie psichiatriche, ognuna delle quali necessita di un approccio e di risposte appropriate e mirate.

Per il momento, gli “irriducibili” continuano a morire anche nelle città dove le politiche sociali obiettivamente sono meglio gestite com’è Milano.

Alle cui porte, invece, a Sesto San Giovanni, proprio quello stesso lunedì in cui Massimiliano moriva di freddo si era tenuta in mattinata una conferenza stampa convocata dal locale e leghista assessore alla Sicurezza. Il quale ha rivendicato i numeri della propria indefessa opera di “decoro urbano”, addirittura presentandosi con una bella torta al cioccolato e pistacchio con sopra impresse le cifre della pulizia sociale effettuata: «Ho voluto portare la torta, perché dobbiamo festeggiare per i nostri cittadini. Abbiamo liberato le strade da duecento persone che facevano cose non belle sul nostro territorio, molte delle quali erano vere bombe a orologeria con diversi reati alle spalle», ha detto. I giornalisti intervenuti ai festeggiamenti e al taglio della torta hanno potuto così apprendere che gli allontanamenti effettuati dalla polizia locale dal luglio scorso sono stati 208, di cui 99 per mendicità e 71 per bivacco.

Autore Mauro Biano (fonte: il manifesto)

Insomma, poveri e senza dimora, altro che criminali. Che fine abbiano fatto queste “bombe a orologeria” non è al momento dato sapere. Quel che è certo è che le loro povere cose, comprese le coperte che meritevoli associazioni e cittadini pietosi avevano fornito per mitigare freddo e sofferenze sono finite nell’immondezzaio, lasciandoli così ancora più esposti e bisognosi. La stessa cosa era peraltro successa a Massimiliano, cui qualche giorno prima di morire l’Amsa aveva buttato via le coperte, secondo quanto ha raccontato a Radio Popolare di Milano Wainer Molteni di “Clochard alla riscossa”, che ha commentato così sui social la morte di Max: «Burian fa la prima vittima a Milano, zona stazione centrale… tanta tristezza, voglia di spaccare il mondo… ma quelli da salvare sono tanti e manca il tempo per potersi incazzare!».

Vittime del gelo, ma prima ancora delle leggi che hanno trasformato la povertà in un crimine.

  * Coordinatore del Rapporto sui diritti globali (ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui). Questo il suo articolo di introduzione del Rapporto: Fermare l’apocalisse umanitaria, a proposito della guerra contro i poveri del mondo Fonte: Sergio Segio, Comune-info

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Appunti da Laboratorio Manituana. Per reagire alla securizzazione https://www.micciacorta.it/2017/07/23480/ https://www.micciacorta.it/2017/07/23480/#respond Mon, 03 Jul 2017 09:28:29 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23480 Durante le ultime settimane, nel soffocante clima politico torinese, il tema della repressione sembra essere entrato con prepotenza nel dibattito pubblico

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Durante le ultime settimane, nel soffocante clima politico torinese, il tema della repressione sembra essere entrato con prepotenza nel dibattito pubblico. Pensiamo sia necessario porre alcune questioni per riuscire a scardinare la narrazione mainstream che parla della stretta repressiva come di un’ovvia e comprensibile risposta ad una presunta “emergenza sicurezza”. Uno dei punti di partenza obbligati è la connessione organica tra l’offensiva repressiva, il processo di securizzazione di ogni ambito della società e la tendenza autoritaria imboccata negli ultimi anni da parte delle istituzioni di governance dei maggiori paesi a capitalismo avanzato. Il tema è indubbiamente complesso, ma crediamo sia importante provare a sviscerarlo facendo emergere i vari livelli su cui si articola il fenomeno, senza che queste poche righe abbiano un obiettivo diverso da quello di offrire alcuni spunti di riflessione. Viviamo in un paese che, nel proprio passato, ha visto esempi di lotte condotte a partire da un’analisi molto avanzata in fatto di critica ai dispositivi di controllo messi a punto dal padrone collettivo. La battaglia degli operai FIAT contro la schedatura da parte dei loro padroni oggi risulta più attuale che mai: la legge italiana che impedisce alle imprese di costruire inchieste interne, e che deriva da appunto quell’esperienza, ha il fine di evitare che queste possano essere utilizzate contro chi lavora. Tuttavia oggi veniamo schedati continuamente e le informazioni che forniamo su internet attraverso PC o smartphone, solo per portare l’esempio più evidente, sono funzionali tanto al controllo poliziesco a fini repressivi,quanto al mercato. Disciplinarizzazione, tendenze neo-autoritarie e sistema capitalistico possono essere inseriti nuovamente nello stesso quadro analitico, mostrando così come solo all’apparenza queste tendenze siano tra loro contraddittorie, con buona pace di ogni critical theory da cattedra. Come non pensare congiuntamente, dunque, i tentativi di “esecutivizzazione” delle liberal-democrazie occidentali e la tendenza securitaria? La gestione della sicurezza che vediamo negli ultimi anni si configura sempre di più, infatti, come uno degli elementi di un nuovo paradigma costituzionale. Se la securizzazione è un processo più sottile e difficile da monitorare, in cui spesso siamo attori inconsapevoli, la repressione poliziesca costruita sull’onda dell’emergenza e gestita con strumenti sempre più raffinati ne è l’altra faccia della medaglia, quella più visibile e brutale. Tra i maggiori responsabili, in quanto primi sostenitori di questa costruzione, ci sono i mezzi d’informazione, autori di narrazioni tossiche che sono entrate nella vulgata comune facendosi nei fatti dogmi inattaccabili. Il termine emergenza, su tutti, è il dispositivo grazie al quale vengono legittimate tutte le forzature autoritarie dei governi europei: quelle che sono condizioni strutturali di un sistema ingiusto e diseguale vengono narrate come emergenze da risolvere al più presto isolando il sintomo invece di attaccare le cause. Per quanto riguarda la questione strettamente repressiva, bisognerà ammettere che, eccetto alcune importanti eccezioni (come quella valsusina), negli ultimi anni un serio approfondimento del problema non è stato all’ordine del giorno, lasciando così spazio a meccanismi di auto-rappresentazione per “addett* ai lavori”.  La lotta anti-repressiva rischia di diventare non una possibilità di allargamento, ma una gabbia autoreferenziale dalla quale risulta difficile uscire. Gli ultimi mesi restituiscono in questo senso una forte stretta nei confronti di ciò che resta dei  movimenti sociali italiani, che vengono attaccati su più fronti, mentre, nel frattempo, la strategia disciplinare viene estesa a tutte le soggettività non incasellate nello schedario organizzato del sistema. L’attacco a chi non garantisce il “decoro urbano” è protratto mettendo nelle mani dei sindaci poteri più simili a quelli di un prefetto che a quelli di un amministratore locale. La gestione delle strade delle nostre città subisce il processo repressivo che da sempre i movimenti contestano e attaccano: la politica e i temi sociali si fanno da parte per lasciare spazio alla violenza del manganello. L’ordinanza della giunta Appendino che vieta la vendita di alcolici dopo le 20.00 nelle zone della cosiddetta mala movida si inserisce nel solco di questa tendenza. Non è solo un attacco ai negozi che vendono le birre dai frigoriferi e neanche un attacco alla movida tout-court. L’obiettivo disciplinare perseguito è quello di costruire una città ordinata e tranquilla, senza eccedenze, senza conflitti e senza fenomeni che fuoriescano dal circuito del divertimento messo a profitto. Lo si fa, tradizionalmente, costruendo ghetti, ripulendo i centri storici e espellendo in periferia il malcontento sociale, nonché imponendo come modalità principale di divertimento nei quartieri più vivaci il consumo nei bar, bonificando i luoghi di socialità collettiva, strade e piazze. In questa prospettiva si inseriscono le leggi Minniti e Orlando che, oltre a estendere a tutti i livelli i dispositivi di polizia e controllo preventivo sperimentati negli stadi nell’ultimo decennio, operano inoltre nell’ottica di lasciare mano libera in merito di ordine pubblico alle istituzioni locali direttamente dipendenti di quella parte di popolazione impaurita e diffidente, che alla socialità nello spazio pubblico preferisce il silenzio e l’ordine. È, infatti, proprio sul piano locale che si prova costruire una guerra fra poveri funzionale alla conservazione dello status quo. Nei quartieri gentrificati: i giovani “perditempo” (precarizzati, disoccupati) contro i “bravi pensionati” (che faticano a chiudere il mese). Nei quartieri periferici: il proletariato storico bianco contro i migranti e le nuove soggettività razzializzate. Sono questi i soggetti che vengono fatti scontrare nella quotidianità della metropoli lasciando che siano le amministrazioni locali a decidere quando e come usare il manganello per “risolvere” i problemi, a patto che queste attacchino sempre e solo chi vive in condizioni di disagio. L’ideologia allarmistica e islamofoba, veicolata dalla propaganda di tutti i principali partiti del paese, soffia d’altronde sul fuoco di un processo di securizzazione in corso ormai da un decennio. Quest’ultima stretta securitaria e repressiva è evidentemente solidale rispetto a una logica di attacco frontale ai movimenti che è vissuto dalla controparte come l’ennesima battaglia campale di “igiene pubblica” delle città. Torino è in questo senso un buon esempio: dopo la celebre crociata pre-olimpica e anni di repressione giudiziaria da parte dei vari “pool” di zelanti magistrati specializzati in “crimini” di movimento, dopo anni di test e prove, tra gli stadi e la Valle di Susa, dopo aver costruito a tavolino i nemici perfetti (ultras e notav, mendicanti e migranti, venditori ambulanti e nuovi poveri, privati di ogni determinazione e portato politico-sociale), quei meccanismi vengono ora generalizzati, in modo discrezionale e poco chiaro, e lasciati all’interpretazione delle amministrazioni locali e delle forze dell’ordine. Nello specifico della nostra città, assistiamo inoltre ad un’inquietante incertezza e ambivalenza dell’amministrazione comunale nella gestione dell’ordine pubblico; un  atteggiamento che maschera in realtà una precisa volontà di delega della questione sicurezza ai “tecnici” e agli esperti in materia, ovvero prefetto e questore. L’incapacità di legittimare il proprio ruolo da parte di un Movimento 5 Stelle oggi alla ricerca di fiducia da parte di quel sistema Torino contro cui si era scagliato in campagna elettorale, in parallelo ad una mal celata diffidenza della questura – da sempre vicina agli ambienti del Partito Democratico – restituisce una azione securitaria incontrollata, fatta di scatti improvvisi e messaggi contraddittori. In questo filone si inseriscono lo sgombero della casa di Said l’ottobre scorso, le cariche durante il corteo del primo maggio e l’imbarazzante polemica intorno ai fatti di San Carlo durante la finale di Champions. Seguono la violenza nei confronti di Maya, colpevole di aver protestato di fronte a un arresto e di essere una militante notav, e il pestaggio di un ragazzo di origini senegalesi, a Porta Palazzo, interrotto solo quando la pozza di sangue era ormai larga un metro; per poi coronare in bellezza queste “sbavature” con le cariche dell’altra sera in piazza Santa Giulia. Oltre a testimoniare del grado di neutralizzazione violenta nei confronti di alcune figure sociali specifiche, tali fenomeni evidenziano inoltre un elemento non riducibile alle operazioni classicamente repressive: la generalità della stretta securitaria, la sua portata di trasformazione dell’intero assetto societario, che coinvolge – direttamente o indirettamente, in misura maggiore o minore – uno spettro ampio e variegato della popolazione. È questo, allora, uno dei punti nodali sui quali interrogarci, tanto a livello analitico quanto sul piano strategico. Come investire, infatti, questo nodo fondamentale praticando forme di rifiuto e autorganizzazione espansive e potenzialmente maggioritarie? Proprio la dimensione generale e totalizzante di questo processo potrebbe aprire, in quest’ottica, terreni di scontro inediti. Ci permettiamo, a questo punto, una breve digressione storica. Degrado deriva dal verbo latino degradare, letteralmente “scendere i gradini”. Nel Medioevo, in Italia, viene utilizzato per indicare le persone che al fondo delle scalinate delle chiese chiedono l’elemosina. Oggi il termine, investito ormai di un significato tecnico specifico, compare in una legge dello Stato italiano che stabilisce la posizione di ciascuno in una scala di protezione e libertà differenziale di fronte all’arbitrio delle forze dell’ordine. Quelle stesse forze dell’ordine che, senza iniziare l’infinito elenco di abusi, omicidi, violenze e torture perpetrati negli anni, sono costitutivamente un organo che agisce al margine della legalità, là dove le norme impersonali non possono farlo. Lo scriveva già Walter Benjamin: la polizia è spettrale, difficile da definire nelle sue competenze, perché “l’affermazione che i fini del potere poliziesco siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del restante diritto è completamente falsa. Anzi, il “diritto” della polizia mostra fino a che punto lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti a ogni ordinamento giuridico, non riesca più a garantirsi con l’ordinamento giuridico il raggiungimento dei propri fini empirici chepur intende raggiungere a ogni costo.”  Alla luce del decreto Minniti e del suo immediato utilizzo, si potrebbe addirittura parlare, in questo senso, di una sorta di introduzione di uno “stato d’emergenza” all’italiana, che rivisita sulla base della propria storia giuridico-poliziesca una serie di misure di sospensione – de facto e de iure –  del cosiddetto“stato di diritto”, ormai ben note nel contesto francese.In Italia, d’altra parte, questa stessa sfera statuale ha sempre rivendicato la propria natura democratico-costituzionale, salvo poi coniugare, nell’ultimo quarantennio, eccezionalità giuridica (le leggi speciali della fine degli anni’70) e lampi autoritari (come nel caso di Genova 2001 e i vari omicidi polizieschi degli ultimi anni). Sono i reduci di quel PCI, che sostenne e giustificò l’ondata repressiva degli anni ’70, a introdurre oggi le misure di securizzazione dello spazio pubblico più drastiche e avanzate, adattando al caso italiano le tendenze neo-autoritarie in corso di sviluppo su scala europea. Se alle spalle dell’intervento del sindaco Appendino bisogna riconoscere l’incertezza e l’imbarazzo di una giunta in stato di stallo, dietro ai Minniti e agli Orlando bisogna, invece, cogliere la continuità politica di una storia, ormai quarantennale, di esercizi repressivi e guerra ai movimenti. Non siamo particolarmente appassionati  di anniversari e rievocazioni storiche spesso dense di retorica e fantasiosi recuperi ideologici, ma pensiamo che, nell’ottica di opporre una “nostra” continuità alla “loro”, sia opportuno riprendere alcuni spunti dal quarantennale del 1977: al netto degli esiti di quell’antico ciclo di lotte, l’assemblea di Bologna contro la repressione è forse l’esempio migliore per capire cosa intendiamo con dibattito potenzialmente maggioritario attorno alla repressione. Di fronte a questo quadro, urge infatti una riflessione collettiva e non settaria sulla questione delle politiche di sicurezza e sulla spirale repressiva e disciplinare alla quale siamo oggi sottoposti. I termini della questione potrebbero essere i seguenti: solidarietà, autodifesa e autorganizzazione vs telecamere, questurini e proibizionismo. A fronte di un’offensiva condotta non solo contro gli spazi sociali e i movimenti, ma contro ogni forma di socialità che provi ad uscire dall’ottica di mercato o che comporti anche solo una minima forma di opposizione, la costruzione di una risposta trasversale e massiva è oggi un punto prioritario. Ripartiamo, quindi, dai “servitori dell’ordine” cacciati da piazza Santa Giulia per aprire una possibile dinamica di risposta collettiva al nuovo cocktail securitario e repressivo firmato Minniti/Orlando. Riteniamo utile affrontare questo  tema anche nell’ottica del G7 sul lavoro che si terrà a settembre nella nostra città, in relazione a cui si è già attivata la macchina della disinformazione volta a costruire un clima di allarmismo funzionale al meccanismo repressivo. Per opporsi agli sbocchi repressivi di questo scenario è dunque necessario investire politicamente il terreno qui abbozzato. E’ per questo che invitiamo chiunque sia interessat* a una discussione collettiva su come costruire una dinamica contro-egemonica rispetto alla tendenza securitaria in corso, partendo dalle nostre vite e dalla nostra città. Ci vediamo a Manituana, il 10 luglio, ore 21H. Uscire dal ghetto, distruggere la gabbia, creare e organizzare la nostra rabbia.” Fonte: Manituana

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Cosenza: cariche e botte per i contrari al dl sicurezza del ministro Minniti https://www.micciacorta.it/2017/06/23445/ https://www.micciacorta.it/2017/06/23445/#respond Tue, 20 Jun 2017 07:14:19 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23445 COSENZA. Botte, manganellate e cariche ripetute per soffocare la contestazione nei confronti di Marco Minniti

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COSENZA. Visita del capo del Viminale all'Università della Calabria COSENZA. Botte, manganellate e cariche ripetute per soffocare la contestazione nei confronti di Marco Minniti. Temperatura altissima all’Università della Calabria per la visita del ministro degli Interni, relatore nel master sull’intelligence organizzato dal professor Mario Caligiuri, quest’anno alla sua decima edizione. Fischi, slogan pepati e sfottò anche all’indirizzo del rettore Gino Crisci. Oltre un centinaio i manifestanti che hanno tentato di avvicinarsi all’Aula Magna di Arcavacata, ma sul ponte «Bucci», nel cuore dell’ateneo, sono stati respinti più volte con la forza dalla celere in assetto antisommossa. Militanti degli spazi sociali dell’area urbana cosentina, studenti dei collettivi universitari, precari della ricerca, migranti e occupanti di case hanno esposto un voluminoso foglio di via nei confronti del ministro, in segno di protesta verso il decreto legge sicurezza. Il cartellone e gli altri striscioni recanti messaggi contro l’ossessione securitaria non sono stati tollerati dai dirigenti della locale Digos e di conseguenza sono state ordinate diverse cariche nel tentativo di strapparli e sottrarli alla vista di Minniti. Strenua, la resistenza dei manifestanti che pur di non lasciarsi portar via gli striscioni, hanno riportato contusioni e ferite. Un ragazzo, colpito violentemente a un occhio da una manganellata e medicato nel pronto soccorso, è stato dimesso nel tardo pomeriggio. Atmosfera tetra nella semivuota Aula Magna, presidiata da decine di poliziotti e uomini della sicurezza. Il responsabile del master sull’intelligence, Mario Caligiuri, ha osannato la visita di Minniti, paragonandolo a Fausto Gullo, un altro politico calabrese che nel secondo dopoguerra fu ministro dell’Agricoltura e in seguito assunse la guida del dicastero di Grazia e Giustizia. Inorriditi da questo paragone, i ricercatori di Storia contemporanea presenti alla protesta: a differenza di Minniti, infatti, il comunista Gullo era figura di alto spessore umano e politico. Mai ordinò l’uso della polizia contro le manifestazioni di dissenso. Al contrario, in virtù della sua riforma agraria, divenne riferimento per le lotte contadine e alla fine degli anni Sessanta assunse posizioni garantiste a sostegno dei movimenti antagonisti repressi dalla legislazione d’emergenza. L’intervento di Minniti all’Unical è stato contestato anche all’interno dell’Aula Magna. Nonostante i rigidissimi controlli all’ingresso, pur essendo sprovvisto di accredito, il docente precario Giuseppe Bornino è riuscito a penetrare nella sala, e nel bel mezzo del suo intervento, dalle prime file ha esibito al ministro un foglio di via, «vista l’incostituzionalità e l’antidemocraticità del decreto entrato in vigore il 18 aprile 2017 (…), che con la scusa del Decoro urbano allontana da luoghi e città soggetti indesiderati di qualsiasi tipo (manifestanti, occupanti, migranti, poveri), così incentivando abusi di potere e repressione indiscriminata, giustificata da un perpetuo stato emergenziale». Bornino è stato subito fermato e portato via, mentre il professor Caligiuri annunciava che il suo master presto diventerà addirittura un corso di laurea. In attesa del seminario sul commissario Montalbano o del workshop sul tenente Colombo. FONTE: Claudio Dionesalvi, IL MANIFESTO

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