postdemocrazia – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 31 Dec 2016 08:16:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Dardot e Laval.Il respiro breve di un pamphlet https://www.micciacorta.it/2016/12/respiro-breve-un-pamphlet/ https://www.micciacorta.it/2016/12/respiro-breve-un-pamphlet/#respond Sat, 31 Dec 2016 08:16:01 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22830 I limiti del saggio «Guerra alla democrazia» di Pierre Dardot e Christian Laval. Una categoria «antica» – quella di lotta di classe – potrebbe mettere al riparo da ogni rischio di «riduzionismo», tanto «economico» quanto «politico»

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«La vittoria del fascismo», scrivono Pierre Dardot e Christian Laval nelle prime pagine del loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi, trad. di Ilaria Bussoni, pp. 142, 15 euro), «è una possibilità con cui dobbiamo fare i conti. E nessuno potrà dire ‘noi non sapevamo’». È un’affermazione che condivido, pur non avendo qui lo spazio per qualificarla e precisarla, come sarebbe necessario. Dà in ogni caso il senso dell’urgenza politica che pervade il testo dei due autori francesi. A differenza dei ponderosi volumi da loro scritti negli ultimi anni – La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista e Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo (entrambi editi da DeriveApprodi), a cui va aggiunto Marx, Prénom Karl (Gallimard, 2012) – questo nuovo libro è una sorta di manifesto, un lungo pamphlet pensato e scritto come un intervento direttamente politico. Vale la pena dunque di discuterlo in quanto tale, anche tenendo presente la notevole influenza che in particolare La nuova ragione del mondo ha esercitato nel dibattito italiano. LO SFONDO di Guerra alla democrazia è definito dal processo di radicalizzazione e rafforzamento del «neoliberalismo» negli anni successivi all’inizio della grande crisi economica e finanziaria nel 2007/8. È un processo che andrebbe indagato sulla scala globale che il «neoliberalismo» ha assunto come riferimento fondamentale fin dalla sua origine. Qui tuttavia, coerentemente con i loro obiettivi, Dardot e Laval si soffermano in particolare sull’Europa. Centrale è per loro, del tutto comprensibilmente, la «lezione greca», ovvero la sconfitta del tentativo di Syriza – nella prima metà del 2015 – di rompere politicamente con la continuità neoliberale dell’austerity. Il giudizio è molto netto: «vista da oggi, la partita sembrava truccata. La lezione greca dimostra che nessuna inflessione può venire davvero dall’interno del gioco istituzionale europeo, proprio per la forza del ricatto che viene esercitato sui recalcitranti nei confronti della linea dominante». QUESTO «RICATTO» ricapitola nella prospettiva di Dardot e Laval i capisaldi del neoliberalismo (in particolare nella sua variante «ordoliberale»), esasperandone le caratteristiche «anti-democratiche» e «oligarchiche». Sono qui ripresi i tratti fondamentali della ricostruzione «genealogica» del neoliberalismo proposta – innestando significative integrazioni e correzioni su una traccia foucaultiana – in La nuova ragione del mondo. Con quel libro Dardot e Laval hanno contribuito a «spiazzare» l’immagine dominante a «sinistra» del neoliberalismo, criticandone in particolare l’interpretazione puramente «negativa» (smantellamento delle regole, riduzione dei margini d’azione dello Stato). Il neoliberalismo è piuttosto a loro giudizio «una forma di potere positiva e originale», capace di plasmare le «forme di vita» e le «condotte» sincronizzandole alla «logica del capitale». Il nuovo libro di Dardot e Laval è in particolare molto efficace nell’analizzare il radicale svuotamento della democrazia rappresentativa che si è determinato negli ultimi anni in Europa, nel segno dell’affermarsi di quel «nuovo concetto di sovranità» di cui parlò nel dicembre 2011 (dopo la destituzione di Papandreu in Grecia) l’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet. Il fatto è, tuttavia, che la parte «propositiva» del manifesto di Dardot e Laval, interamente ritagliata attorno a un’intransigente «rivendicazione di democrazia», non mi pare davvero all’altezza delle stesse sfide indicate nella parte analitica. Il problema, del resto, era già presente – sotto il profilo teorico – in La nuova ragione del mondo, dove gli stessi Dardot e Laval scrivevano che «che è più facile evadere da una prigione che uscire da una razionalità». ORA, CHIUNQUE ABBIA VISTO ad esempio Papillon sa che per progettare un’evasione è fondamentale lo sguardo che si getta ai muri della propria prigione. E ho l’impressione che la particolare interpretazione della categoria foucualtiana di «governamentalità» proposta da Dardot e Laval finisca per fare velo alle crepe di quei muri ben più di quanto non contribuisca a individuarle e ad allargarle. Tanto è vero che i riferimenti alla «promozione di forme di soggettivazione alternative» e alle «contro-condotte» come terreno di lotta e resistenza, nelle ultime pagine di quel libro, lasciava un po’ spiazzati. Né il successivo Del comune ha contribuito a risolvere il problema di comprendere – per dirla nel modo più semplice possibile – da dove e come possano emergere queste contro-condotte capaci di definire un’alternativa al neoliberalismo. Abbiamo ora, in un testo più esplicitamente politico, una risposta a questo problema? «L’unica alternativa possibile al neoliberalismo», scrivono in Guerra alla democrazia Dardot e Laval, «parte dall’immaginario». Ok, suona bene «immaginario». Né mi sogno di contestare la potenza politica dell’immaginazione – al contrario. Ma questa potenza dovrà ben essere materialmente qualificata e impiantata in processi sociali e politici determinati – dovrà essere nutrita da e a sua volta nutrire lotte. Qui si parla di un «blocco democratico internazionale», di una «federazione europea e mondiale» di «coalizioni democratiche». Se ne può dire qualcosa di più? I LORO «CONTORNI programmatici» non si possono definire, perché – ci informano i due autori in modo un po’ sorprendente – «averne la pretesa significherebbe contravvenire al principio stesso della democrazia». Si può dire allora qualcosa sulla loro composizione e organizzazione? Solo in negativo, sembrerebbe: occorre «rompere una volta per tutte con la logica del partito e degli spauracchi della rappresentanza». Alla fine, tuttavia, proprio nell’ultima pagina del libro un paio di regole «non negoziabili» vengono pur sempre formulate: la «rotazione delle cariche» e la «non rieleggibilità nelle funzioni pubbliche». Chissà che ne direbbe, in Italia, il movimento 5 stelle… Vi sono molti passaggi interessanti e originali in Guerra alla democrazia, ad esempio la ripresa della definizione aristotelica di democrazia come potere dei poveri, e dunque di «una parte della polis». Ripeto tuttavia che lo svolgimento di una proposta politica che si vorrebbe radicalmente democratica, federativa e cooperativa è davvero molto debole, se non evanescente, in questo libro. Completamente eluso, in particolare, rimane nella «pars construens» il problema del potere – della costruzione di un rapporto di forza che consenta appunto di «immaginare» (e dunque di praticare) un’«alternativa possibile». DARDOT E LAVAL sono autori di libri importanti, sono schierati politicamente da quella che io considero essere la «parte giusta». La loro critica, sulla base di un’analisi realistica di quel che è diventato lo Stato nel tempo neoliberale, di ogni «statualismo» e «nazionalismo» di sinistra è oggi davvero preziosa in Europa – così come la loro insistenza sulla necessità di tenere aperta la «questione europea» pur criticando a fondo l’Unione europea «per come esiste oggi». E trovo condivisibile la loro insistenza sull’importanza, nella prospettiva di una reinvenzione dell’«internazionalismo», di un lavoro sulle norme e sulle istituzioni del «comune». SE DARDOT E LAVAL criticano tuttavia con qualche ragione gli approcci «economicistici» alla crisi contemporanea in Europa, a me pare che il loro approccio sconti un «riduzionismo» di segno opposto – finendo per nutrire una teoria della «pura politica», dove il riferimento alla democrazia appare svuotato di ogni determinazione materiale. A me pare, al contrario, che la teoria politica di cui abbiamo bisogno oggi – come esito di un lavoro collettivo in cui Dardot e Laval sono interlocutori fondamentali – debba necessariamente articolarsi con una nuova critica dell’economia politica. Letta in una chiave politica, e rinnovata a fronte dell’attuale realtà del capitalismo, una categoria «antica» – quella di lotta di classe – potrebbe mettere al riparo da ogni rischio di «riduzionismo», tanto «economico» quanto «politico». La versione integrale di questo articolo si può leggere nel sito www.euronomade.info SEGUI SUL MANIFESTO

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Sulle tracce della postdemocrazia L’ultima scommessa di Bauman https://www.micciacorta.it/2015/02/sulle-tracce-della-postdemocrazia-lultima-scommessa-di-bauman/ https://www.micciacorta.it/2015/02/sulle-tracce-della-postdemocrazia-lultima-scommessa-di-bauman/#respond Wed, 25 Feb 2015 09:20:53 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18746 Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, la decostruzione delle trasformazioni subìte dalla nozione di democrazia

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Il libro di Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni Stato di crisi (Einaudi) merita indubbiamente una particolare attenzione, per una pluralità di motivi diversi. Per la formula, anzitutto. Un «colloquio» fra due studiosi, fra loro in sintonia su molti aspetti, ma anche talora dissonanti, e non su punti di secondaria importanza. Col risultato di immergere il lettore in un dialogo autentico e intellettualmente vivace, proteso all’approfondimento di questioni di grande importanza, senza alcuna concessione alla vuota ritualità del confronto accademico. Notevole è poi la scelta di uno stile improntato ad una limpidezza davvero esemplare. Pur affrontando temi di rilevante complessità, gli autori riescono ad evitare la Scilla del tecnicismo impenetrabile, senza essere risucchiati nella Cariddi delle banalizzazioni giornalistiche.
Infine, esercita una forte suggestione anche il disegno complessivo del testo, poiché delinea un percorso che conduce gradualmente dalla lucida presa d’atto di una condizione generalizzata di crisi — dello Stato, della modernità, della democrazia — fino alla prospettazione di un «nuovo ordine globale», come suona il titolo del paragrafo conclusivo. A tutto ciò si aggiunga un rilievo, che potrà apparire (e forse può anche essere effettivamente) marginale, ma che tuttavia non può essere taciuto. Il nome di Zygmunt Bauman è diventato famoso, ben al di là dei limiti della comunità scientifica, per l’accostamento alla principale «scoperta» a lui abitualmente attribuita, compendiata nell’aggettivo «liquida», col quale in un fortunato libro uscito in inglese nel 2000 ( Modernità liquida , Laterza) il sociologo polacco alludeva alla società odierna. Come spesso accade (il che non significa che debba obbligatoriamente continuare a verificarsi), quell’espressione, originariamente coniata per indicare le caratteristiche di una società le cui strutture si scompongono e ricompongono rapidamente e in maniera fluida e volatile, si è trasformata in uno slogan orecchiabile, applicabile alle realtà più diverse — dalla politica alla filosofia, fino allo sport e alla cucina. Con effetti caricaturali, e talora irresistibilmente comici, facilmente immaginabili. E con la conseguenza, molto meno divertente, di inchiodare lo stesso Bauman alla vacua ripetitività di una formuletta. Questo nuovo testo rende giustizia ad uno studioso le cui tesi, come quelle di qualunque altro, sono certamente criticabili e forse in parte inaccettabili, ma che tuttavia non può essere ridotto al raggio angusto di un aggettivo di successo. Ciò detto e doverosamente riconosciuto, si deve anche notare che il libro mantiene solo in parte le impegnative promesse formulate nella prefazione, soprattutto per quanto riguarda la prospettazione di quella che viene definita come «postdemocrazia». Assai puntuale, e immune da ogni indebita sacralizzazione, la decostruzione delle trasformazioni subìte dalla nozione di democrazia, fra Pericle e Alexis de Tocqueville (per indicare «estremi» non solo in senso cronologico). Pienamente condivisibile anche il giudizio complessivo, ricalcato sulla troppo spesso dimenticata affermazione di Jean-Jacques Rousseau (che pure è stato uno dei «padri» della democrazia moderna): «Secondo il preciso significato della parola si può dire che non è mai esistita una democrazia, e non esisterà mai». Dichiarazione — questa — che potrebbe essere altresì accompagnata da un autore trascurato da Bauman e Bordoni, vale a dire Platone, il quale rileva che, più che una vera e propria forma di governo, la democrazia è «un supermercato delle costituzioni», in cui sono esposte disordinatamente tutte le forme di governo. Il punto vero, tuttavia, sempre sintomaticamente eluso dai detrattori della democrazia, e non risolto da Bauman e Bordoni, è un altro, e riguarda appunto la delineazione di una possibile alternativa. Restituendo al termine «crisi» — costantemente ricorrente nel testo — la sua originaria accezione medica, si potrebbe dire che gli autori sembrano orientati semplicemente a prendere atto del decesso del paziente chiamato democrazia. Una certificazione di morte che potrebbe forse essere evitata, se si applicasse alla nozione di democrazia ciò che un famoso penalista replicò a chi gli faceva notare la totale infondatezza della nozione di pena. E si potrebbe dunque concludere che sì — è vero — la democrazia fa acqua da tutte le parti. Ma, almeno finora, in oltre tremila anni di civiltà occidentale, nessuno (neppure Bauman e Bordoni) è riuscito ad inventare nulla di meglio.

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