Prima guerra mondiale – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 04 Nov 2018 08:21:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Lettera da Fiume. I fascisti in fuga dall’impresa dannunziana https://www.micciacorta.it/2018/11/lettera-da-fiume-i-fascisti-in-fuga-dallimpresa-dannunziana/ https://www.micciacorta.it/2018/11/lettera-da-fiume-i-fascisti-in-fuga-dallimpresa-dannunziana/#respond Sun, 04 Nov 2018 08:21:05 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24951 Claudio Magris ha pubblicato un articolo di aspra condanna del neofascismo e dei tentativi di seminare zizzania fra la minoranza italiana d’oltre confine e di riaccendere vecchi rancori nazionalistici contro gli italiani rimasti sulla sponda orientale

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I fascisti di Casapound che avevano minacciato di tenere un concerto provocatorio a Fiume nel tardo pomeriggio o nella serata di ieri – come avevano annunciato -, non si sono fatti proprio vedere nel capoluogo del Quarnero. Il loro annuncio, invece di raccogliere una sperata, sia pure scarsa adesione fra i connazionali rimasti al di là del confine orientale, ha suscitato in città e nell’intera regione istro-quarnerina, un’alzata massiccia di scudi contro tutti i fascismi vecchi e nuovi. Per due intere settimane articoli infiammati contro i provocatori di Casapound, a difesa dei valori dell’antifascismo e della fraterna convivenza tra italiani, croati e sloveni nell’Istria e nel Quarnero sono apparsi su tutti i quotidiani della regione, da La Voce del Popolo al Novi List di Fiume, dal Glas Istre di Pola al Primorke Novine di Capo d’Istria, per citare solo quelli che siamo riusciti a leggere. Non a caso i primi a puntare il dito contro la provocazione fascista sono stati i connazionali di Fiume con alla testa il presidente dell’Assemblea della Comunità degli italiani, Moreno Vrancich, il redattore capo del quotidiano La Voce del Popolo, Roberto Palisca ed altri sulle pagine del giornale e su Internet, docenti universitari attori del Dramma Italiano e scrittori tra cui Vanni D’Alessio, Mirko Soldano, Giuseppe Nicodemo ed altri. La Voce del Popolo, organo dell’Unione Italiana in Croazia e Slovenia, ha pubblicato quasi ogni giorno le reazioni delle comunità degli italiani riunite sotto lo slogan «Ripudiamo il fascismo». In tal modo la risposta alla provocazione di Casapound ha rafforzato i rapporti di convivenza fra le popolazioni slave maggioritarie e la minoranza italiana sparsa da Fiume a Capo d’Istria, da Pirano a Zara. Le proteste antifasciste hanno trovato l’appoggio anche del quotidiano Il Piccolo di Trieste. Il noto scrittore triestino Claudio Magris ha pubblicato un articolo di aspra condanna del neofascismo e dei tentativi dell’estrema destra dello stivale di seminare zizzania fra la minoranza italiana d’oltre confine e di riaccendere vecchi rancori nazionalistici contro gli italiani rimasti sulla sponda orientale. Ecco, di fronte a queste reazioni, ed ai messaggi delle autorità croate di Fiume a sostegno della minoranza italiana, anche gli «eroi» di Casapound hanno finito per nascondersi, darsi alla fuga, sparire dalla scena. Come dice la gente qui a Fiume, «I neri i ga calato le braghe». Inneggiando al fascismo, al suo carico di violenze e di disprezzo per l’uomo, col pretesto di celebrare oltre confine la «vittoria dell’Italia del novembre del 1918» e «il suo virtuale ritorno in Istria e nel Quarnero – si leggeva su La Voce del Popolo – i gerarchi di Casapound hanno finito per prendere schiaffi e pugni in faccia dai connazionali rimasti sulla sponda opposta dell’Adriatico e di rafforzare lo spirito di fraternità fra le varie etnie dell’Istria e del Quarnero, che si è irrobustito negli ultimi 70 anni di vita in comune». * Fonte: Giacomo Scotti, IL MANIFESTO

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In diecimila manifestano a Trieste contro Casapound https://www.micciacorta.it/2018/11/in-diecimila-manifestano-a-trieste-contro-casapound/ https://www.micciacorta.it/2018/11/in-diecimila-manifestano-a-trieste-contro-casapound/#respond Sun, 04 Nov 2018 08:09:48 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24947  Serpentone plurale con tanti italiani e sloveni. Dura polemica con il Comune di destra

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TRIESTE. In un insolito sabato d’autunno, Trieste si è svegliata progressivamente blindata e in alcuni tratti deserta. I commercianti hanno abbassato le serrande e tra i cittadini circolava un certo malcontento. Nel primo pomeriggio la città si riempita di due anime contrapposte, mentre il Comune invitava a rimanere «in casa fino alle 20». Da un lato, in pieno centro, Largo Riborgo ospitava il raduno nazionale di Casapound. Tra la folla, ancora limitata a qualche centinaio di persone, dominava il colore nero. Al balcone di un palazzo era appesa la scritta «Trieste Pro Patria» e, da lassù, alcuni esponenti del partito neofascista hanno salutato la folla, sventolando le loro bandiere. A breve sono arrivati alcuni bus che trasportavano altri militanti provenienti da diverse parti d’Italia: in tutto meno di 2000, alla faccia della «mobilitazione nazionale». Il corteo di Casapound era pronto a partire, accompagnato dalla musica di Wagner. DALL’ALTRO LATO, in cima al colle di san Giacomo, anche il corteo antifascista si stava preparando. L’atmosfera era più variopinta. Singoli, famiglie e diverse istanze sociali. Più di 10.000 secondo i promotori. Riccardo Laterza, in rappresentanza della rete Trieste Antifascista e Antirazzista che aveva organizzato la manifestazione, ha aperto con un intervento. «Viste le tante presenze anche internazionali, chiederei un favore a chi ne è in grado: provate a riportare ai vostri vicini queste parole, che dopo di me saranno lette anche in sloveno, in più lingue possibili: facciamo in modo che questa sia una manifestazione di tutte e di tutti». PRESENTI, nel lungo serpentone antifascista, il mondo culturale italiano e sloveno, il mondo sindacale, il mondo laico e cattolico, il mondo femminista e il mondo Lgbt della città. «Prendo posizione contro questa scelta infelice sia da parte del sindaco che del prefetto – ha dichiarato lo scrittore Pino Roveredo – Sono sollevato perché ci sono molti giovani e vuol dire che c’è una presa di coscienza». Stefania Grimaldi, presidente della Cooperativa La Collina di Trieste, ha così motivato la sua presenza: «Noi rappresentiamo un pezzo della cooperazione sociale, crediamo nei valori della convivenza, dell’inclusione e dell’uguaglianza». PRESENTE anche Antonio Parisi della comunità Lgbt di Trieste. «Sono qui per accogliere nella maniera più refrattaria possibile l’idea (e non tanto le persone) che gruppi fascisti possano prendere in mano la città», spiega. Un unico momento di tensione si è registrato quando alcuni esponenti di Potere al Popolo hanno contestano i rappresentanti del Partito democratico, presente a livello comunale, regionale e nazionale. Dall’opposizione in Comune sono scesi in piazza alcuni consiglieri, tra cui Sabrina Morena di Sel. «Sono qui per difendere i valori della Costituzione e dell’antifascismo e trovo indecente che si commemori così la prima guerra mondiale: con un corteo fascista nel centro della città, al quale è stata data più visibilità di quello antifascista», con una critica esplicita al ruolo del Comune guidato dalla destra. Nel frattempo Casapound è sembrata rallentare ma poi ha proseguito tagliando perpendicolarmente via Carducci, luogo più vicino all’altro corteo. Non si è sentita più la musica e i passi dei manipoli neofascisti hanno continuato silenziosi e ordinatissimi, diretti verso il Giardino pubblico. Ma nessuno ha più parlato del concerto previsto per la serata a Fiume (Croazia). NEL TARDO pomeriggio, Simone di Stefano di Casapound ha dato il via al suo provocatorio e delirante comizio. «Di certo noi oggi non siamo venuti qui per prendere voti… Siamo venuti qui semplicemente per onorare il sacrificio di 600.000 e più italiani che erano i nostri nonni e i nostri bisnonni che nella grande guerra si sono battuti come leoni scrivendo col sangue i confini di questa nostra nazione. Noi oggi siamo qui per celebrare una vittoria». Qualche centinaio di metri più in là, risuonava una voce opposta. «Mi chiamo Lidia, nome di battaglia Bruna e ho fatto la staffetta partigiana a Novara – ha raccontato Lidia Menapace- Io credo che il successo di questa straordinaria giornata viene dal fatto che non siamo tutti in cattedra a raccontare grandi valori, giudizi ed eroismi ma siamo davvero popolo, tutti e tutte, giovani e meno giovani». * Fonte: Emily Menguzzato, IL MANIFESTO

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Il pane o la guerra. La rivolta di Torino https://www.micciacorta.it/2017/09/23706/ https://www.micciacorta.it/2017/09/23706/#respond Tue, 05 Sep 2017 16:15:49 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23706 Storie. Agosto 1917, mentre «il Piave è il cimitero della gioventù» a Torino è rivolta, con le operaie in prima fila al canto di «Prendi il fucile buttalo per terra»

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Barricate ovunque, insorti armati: 41 morti, duecento feriti, centinaia di arresti «Vidi sbucare i cavalli lanciati al galoppo, i soldati con la sciabola sguainata nella destra in una selvaggia carica: non persi un attimo, con un gesto rapido mi aprii la camicia mostrando il petto nudo. Non vedevo più nulla. Poi con la coda dell’occhio vidi una specie di ombra che traversava la via venendomi vicino: era una ragazza molto giovane, si era liberata della sua camicetta mettendo poi il suo seno a nudo con lo stesso gesto che avevo fatto io, ma con più grazia, con più semplicità. Un urlo formidabile scoppiò dalla folla della barricata, dalle finestre aperte vennero incitamenti perché la cavalleria si fermasse. “Viva la pace, abbasso la guerra”. I soldati sbalorditi da tanto ardimento si fermarono ad un metro dai nostri petti nudi. Il silenzio era diventato ad un tratto sepolcrale, poi l’ufficiale dette ordine al suo squadrone di fare dietro fronte». NON È LA SCENA di un film in bianco e nero con Amedeo Nazzari, Alida Valli e cavalli scalpitanti. È la cronaca scritta da un ventenne militante socialista, tra i protagonisti dell’insurrezione dell’agosto 1917 a Torino, nel pieno della guerra: «Le cinque giornate del proletariato torinese» le definisce Antonio Gramsci su Il Grido del Popolo, che però griderà solo nelle cantine della questura, perché il settimanale è subito sequestrato. «I carri blindati entravano in azione specialmente nel tratto del corso che va da Porta Palazzo a corso Principe Oddone. Improvvisamente un nugolo di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l’ordine era di andare a ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto; allora le donne si slanciarono, disarmate, all’assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi sulle mitragliatrici, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e di lacrime. Le tanks avanzavano lentamente. Le donne non le abbandonavano. Le tanks alfine dovettero arrestarsi». NOI SAPPIAMO nome, cognome e fattezze dell’allora sindaco di Torino, dell’arcivescovo della città, del questore, del prefetto, del ministro degli interni, di tutte le gerarchie e gerarchiette immaginabili. Conosciamo il nome di Antonio Gramsci e di altri dirigenti del Partito Socialista. Non sappiamo niente, né nome né volto delle donne che si arrampicano sui blindati, ci è del tutto ignota la ragazza che indossa il suo corpo come uno scudo nudo contro l’oscena carica dei soldati. Minerva e Marianna, in un gesto solo. «IL MEDICO CAPO di questo Municipio mi riferisce che i chaffeurs delle automobili per il trasporto dei feriti si rifiutano di eseguire il servizio e di intervenire sulle piazze e sulle vie, perché sono fatti segno egualmente agli spari dei soldati quantunque le automobili portino ben visibile il segno della Croce Rossa. Rivolgo viva preghiera all’Eccellenza Vostra affinché, nell’interesse generale, voglia compiacersi di impartire opportuni ordini, per evitare l’indicato gravissimo inconveniente» supplica con il cappello in mano il Sindaco di Torino, Leopoldo Usseglio, rivolgendosi al comandante della piazza, generale Galeazzo Sartirana. Generale di un Regio Esercito che spara sulla Croce Rossa.

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È L’ALTRA guerra. Una guerra che non sta nel fango delle trincee, negli assalti alla baionetta, sui picchi dolomitici, non c’è …Terzo Alpini sulla via il Monte Nero a conquistar. Sta in un’altra musica: prendi il fucile e gettalo giù per terra, vogliam la pace e non vogliam più la guerra cantano le donne a squarciagola. Qualche volta viene cantata anche al fronte ed è subito plotone d’esecuzione. NON ERA SGORGATO all’improvviso questo canto. Era da più di un anno che la città e la provincia erano in fermento. Scioperi massicci si susseguivano in tutti i comparti industriali. Manodopera soprattutto femminile. Contro il carovita, contro gli accaparramenti, contro la mancanza del pane. Il pane. Per procacciarselo devono fare interminabili code all’alba, prima di entrare in fabbrica. «Per il pane» diventa poco alla volta anche «contro la guerra», per il ritorno a casa di figli, mariti e padri. La tradotta che parte da Torino, a Milano non si ferma più, ma la va diretta al Piave, cimitero della gioventù. E I QUARTIERI OPERAI in quella manciata di giorni a fine agosto del ’17 esplodono in una sommossa, moto, tumulto, rivolta, insurrezione. Chiamala come ti pare. I pochissimi storici che l’hanno studiata si sono sbizzarriti in catalogazioni a presa rapida. I viali con gli alberi abbattuti per costruire barricate, le mitragliatrici e i mortai issati sopra, i collegamenti tra insorti in bicicletta, di cui il generale Sartirana vieterà prontamente la circolazione, i quarantuno morti accertati, i duecento feriti, le centinaia di arresti e successive condanne, dicono qualcosa della natura politica eversiva di quei giorni, del binomio non solo novecentesco di guerra e sfruttamento e della sua centralità. Parla chiaro anche lo smarrimento e, troppo spesso, la latitanza dei sindacalisti e dei dirigenti socialisti. «ADDIO TABARIN» va ancora forte nelle sale da ballo non solo torinesi, anche se non è chiaro per chi sia stata belle quell’epoque. È invece palpabile che il tuorlo delle esistenze è entrato in fase frullamento. CAPORETTO è alle porte, a Pietrogrado il Palazzo d’Inverno sta per cambiare inquilini, un signore inglese di nome Balfour è sul punto di fare una dichiarazione destinata a sconvolgere i connotati al Vicino Oriente e dintorni, da pochi giorni gli alti comandi francesi hanno messo a tacere tramite fucilazioni di massa i soldati che si rifiutavano spudoratamente di tornare nella macelleria delle trincee e, grandezza della microstoria globale, in una caserma del Texas, nei medesimi giorni di Torino, una rivolta antirazzista di soldati afroamericani in partenza per il fronte europeo viene sedata solo con la corte marziale. *****

A ottobre una memoria teatrale sui protagonisti della sommossa di Torino

Il gruppo teatrale «bequadro» di Torino, con un occhio «polimorfo», sta per riproporre per ottobre la cronaca nuda e cruda degli eventi a salvaguardia della nostra sgangherata memoria. Per una rappresentazione attenta che cerca di guardare anche in faccia alcuni dei protagonisti e ne accompagna le diramazioni postinsurrezionali delle esistenze. Come Pietro Ferrero, ad esempio, operaio, giovane ed entusiasta animatore intellettuale, anarchico, segretario della Fiom, promotore dei consigli operai e, alla salita al potere dei fascisti, legato alla caviglia ad un camion e trucidato insieme ad una dozzina di altri operai e militanti dagli squadristi di Piero Brandimarte in quella che è stata la strage di Torino del dicembre 1922. Nel 1971 l’assassino Brandimarte avrà il piacere di vedere la sua salma ufficialmente onorata da un plotone di bersaglieri. E Maria Giudice, prima segretaria di Camera del Lavoro in Italia, collaboratrice di Gramsci, processata per i fatti di agosto, poi in Sicilia per contrastare la politica della mafia. A Catania dà alla luce una figlia, intelligente ed inquieta, che non avrà la gioia di vedere lo strepitoso successo internazionale del suo romanzo, L’arte della gioia. Goliarda Sapienza di nome. FONTE: Claudio Canal, IL MANIFESTO

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Storie globali del Novecento italiano https://www.micciacorta.it/2015/02/storie-globali-del-novecento-italiano/ https://www.micciacorta.it/2015/02/storie-globali-del-novecento-italiano/#respond Thu, 26 Feb 2015 09:11:42 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18758 La grande guerra. I limiti del «nazionalismo metodologico» nella ricerca storiografica. Due volumi sul primo conflitto mondiale evidenziano le sue conseguenze nella elaborazione di una «identità europea»

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C’è un aspetto che emerge, tra i molti, nella grande costel­la­zioni di ele­menti che con­no­tano la prima guerra mon­diale ed è la sua dimen­sione di scala. Non è solo un fatto quan­ti­ta­tivo ma anche qua­li­ta­tivo. Anzi, chiama in causa, quanto meno se si vogliono coglierne gli effetti di lungo periodo, soprat­tutto il secondo fat­tore. La qua­lità, in que­sto caso, rin­via alla natura dei pro­cessi di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del ricorso alla forza di massa, quella che con­notò cin­que anni di dis­san­guanti com­bat­ti­menti ma anche un lungo periodo suc­ces­sivo, quando il tempo della pre­va­ri­ca­zione per­durò, tra­ci­mando negli anni suc­ces­sivi e disin­te­grando una parte impor­tante dei dispo­si­tivi di media­zione poli­tica che le società libe­rali ave­vano edi­fi­cato dal secondo Otto­cento in poi. Più in gene­rale, ciò che mutò fu la gerar­chia dei ruoli sociali e delle prio­rità poli­ti­che, por­tando al risul­tato di una «Glo­bal War» che, come tale, non si con­clu­deva sui campi di bat­ta­glia, quando l’ultimo colpo di fucile o di ati­glie­ria era stato spa­rato. Fatto che implica la com­pren­sione di quella che per gli ita­liani è stata intesa come la Grande guerra soprat­tutto in quanto oggetto di stu­dio trans­na­zio­nale. Sem­pre meno potremo quindi rac­con­tarci quella fen­di­tura da un punto di vista nostrano, dovendo pro­ce­dere piut­to­sto sul piano della let­tura intrec­ciata con le nar­ra­zioni sto­rio­gra­fi­che e con i depo­siti memo­ria­li­sti che ci deri­vano dagli altri Paesi chia­mati in causa.

I quat­tro ver­santi della ricerca

Evi­tiamo, dun­que, di reci­tare una obbli­gata gia­cu­la­to­ria sui «ritardi» o sulle «omis­sioni», poi­ché molta strada è stata invece fatta dalla ricerca, riu­scendo, almeno par­zial­mente, a coniu­gare i quat­tri ver­santi prio­ri­tari del lavoro sto­rio­gra­fico: la sto­ria diplomatico-militare, quella poli­tica, la sto­ria sociale ed infine quella cul­tu­rale. Il come riu­sci­remo ad ali­men­tare un mec­ca­ni­smo ad inca­stro, che tenga insieme que­ste diverse decli­na­zioni, ci dirà della capa­cità di com­pren­dere il feno­meno bel­lico, e i suoi cascami poli­tici di lungo periodo nella costi­tu­zione dell’identità euro­pea con­tem­po­ra­nea. Soprat­tutto se rap­por­tata alle ten­ta­zioni, adesso revi­vi­scenti, di dare fiato ad anta­go­ni­smi par­ti­co­la­ri­sti dinanzi alla crisi delle sovra­nità nazionali. Tor­niamo tut­ta­via all’oggetto di ana­lisi, la Prima guerra mon­diale. Avvia­tasi come un con­flitto tra­di­zio­nale, ovvero loca­liz­zato in una regione pre­cisa, legato per­lo­più a logi­che pre­da­to­rie e spar­ti­to­rie pre­ve­di­bili nei loro moventi così come nei risul­tati che da esse sareb­bero dovuti deri­vare, desti­nato quindi a svol­gersi secondo indi­rizzi ope­ra­tivi rite­nuti certi, ben pre­sto, invece, sfuggì di mano ai pro­ta­go­ni­sti. Fu la cer­chia stessa dei par­te­ci­panti ad assu­mere una dimen­sione che, per l’epoca, non si era ancora vista. Poi­ché ad essere chia­mate in causa erano nazioni che da tempo costi­tui­vano (o ambi­vano ancora a costi­tuire) imperi colo­niali, fatto che diede da subito una cor­nice sovra-europea al con­fronto mili­tare. Ma quelle stesse entità impe­riali, chia­mando a rac­colta le popo­la­zioni subal­terne, varia­mente uti­liz­zate come com­bat­tenti o nello sforzo bel­lico che si com­piva nelle retro­vie, inne­sca­rono pro­cessi dai quali ne sareb­bero uscite sec­ca­mente ridimensionate. L’evoluzione del con­flitto, infatti, si misurò non solo sui tea­tri di com­bat­ti­mento ma anche e soprat­tutto nelle infi­nite retro­vie, che si esten­de­vano per oriz­zonti spa­zial­mente infi­niti e social­mente inde­fi­niti. Fu guerra mon­diale anche per que­sto, chia­mando in causa, nella spa­smo­dica mobi­li­ta­zione di donne, uomini e risorse d’ogni genere quanti, altri­menti, ne sareb­bero rima­sti fuori o almeno un passo indie­tro. E se ciò che pre­cede il con­flitto inne­sca­tosi nel 1914 è anche e soprat­tutto sto­ria del colo­nia­li­smo che si fa impresa impe­ria­li­sta, quel che ne segue, non nel 1918 ma a par­tire già dal 1917, con la frat­tura rivo­lu­zio­na­ria russa, è un rivol­gi­mento di quel pro­cesso di «nazio­na­liz­za­zione delle masse» che sfugge al con­trollo delle classi diri­genti libe­rali, tra­sfor­man­dosi in qual­cosa d’altro. Non è un caso, quindi, se il novem­bre del 1918 non san­ci­sca la con­clu­sione defi­ni­tiva del con­flitto armato, tra­du­cen­dosi sem­mai in una plu­ra­lità di guerre civili, in un feno­meno di pro­li­fe­ra­zione e dis­se­mi­na­zione di esse nelle terre di con­fine, così come nelle aree con­tese, che avreb­bero attra­ver­sato con fero­cia soprat­tutto l’Europa orien­tale fino alla prima metà del decen­nio suc­ces­sivo. Que­ste ultime avreb­bero inol­tre segnato il destino non solo delle popo­la­zioni che ne ven­nero coin­volte ma, in imme­diato riflesso, di quanti ne furono anche solo spet­ta­tori, rein­tro­du­cendo, dopo le vicende del 1848 e, soprat­tutto, i fatti della Comune di Parigi, il nesso tra guerra voluta e con­dotta dai mili­tari e sol­le­va­zione spon­ta­nea dei civili.

Gli equi­li­bri infranti

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La nostra moder­nità si rein­venta in quello spa­zio e in quel tempo, così come si invera il comu­ni­smo, non come par­tito (e dot­trina) del con­fronto armato per­ma­nente ma in quanto sog­getto della tra­sfor­ma­zione repen­tina, rom­pendo que­gli argini del par­la­men­ta­ri­smo den­tro i quali, invece, le forze socia­li­ste si erano pro­gres­si­va­mente incu­neate, fino a rima­nerne del tutto impri­gio­nate. La nozione di vio­lenza assume in tale fran­gente un signi­fi­cato com­ple­ta­mente dif­fe­rente da quello ante­ce­den­te­mente attri­bui­tole, e il lungo dopo­guerra, di cui i fasci­smi capi­ta­liz­ze­ranno gli inte­ressi, rac­co­glie que­sto muta­mento antro­po­lo­gico, per con­durre, passo dopo passo, il con­ti­nente euro­peo verso un’altra cata­strofe, vent’anni dopo. Que­sto ed altro ancora viene in mente leg­gendo due volumi recenti, usciti in occa­sione del fiacco e scialbo cen­te­na­rio, pal­li­da­mente cele­bra­tivo, del nostro inter­vento nella Prima guerra mon­diale. Stiamo par­lando di un libro a più voci, diretto da Nicola Labanca, il Dizio­na­rio sto­rico della Prima guerra mon­diale (Laterza, pp. 498, euro 28), che si avvale di una qua­ran­tina di col­la­bo­ra­zioni, non­ché del testo di Anto­nio Gibelli, La Grande guerra. Sto­rie di gente comune, 1914–1919 (Laterza, pp. 328, euro 20). Due opere diverse ma per più aspetti inter­se­cate, ancor­ché inconsapevolmente.

Nel dive­nire degli eventi

La prima ci offre un det­ta­glio sele­zio­nato dello stato di evo­lu­zione della sto­rio­gra­fia, a par­tire da quella ita­liana. Un con­gruo numero di voci, curate da pro­fes­sio­ni­sti del set­tore, copre le prin­ci­pali aree tema­ti­che che riman­dano al con­flitto. La seconda, invece, rac­co­glie e rie­la­bora la guerra per come venne vis­suta e rac­con­tata da chi fu costretto a com­bat­terla, oppure ad assi­stere ad essa, gli uni e gli altri acco­mu­nati da una con­di­zione di cre­scente espro­pria­zione del signi­fi­cato degli eventi e, in imme­diato riflesso, della loro ricon­du­ci­bi­lità ad una razio­na­lità quo­ti­diana che non fosse quella della sem­plice logica di soprav­vi­venza. Se Labanca dà voce all’analisi a distanza, medi­tata, ossia affi­data ad una nuova gene­ra­zione di stu­diosi, Gibelli la offre ad alcuni dei pro­ta­go­ni­sti del men­tre, attra­verso una let­tura incro­ciata (e cri­tica) delle testi­mo­nianze scritte dei com­bat­tenti di allora. Nell’uno e nell’altro caso emerge comun­que la con­sa­pe­vo­lezza, matu­rata in milioni di indi­vi­dui, di essere improv­vi­sa­mente legati tra di loro, ancor­ché divisi in fronti oppo­sti. Il con­flitto si pre­senta come una immensa rete, senza fine o con­clu­sione pos­si­bile (e pre­sto anche senza un fine razio­nale), dove l’esistenza indi­vi­duale, e lo stesso signi­fi­cato della vita, ven­gono schiac­ciati all’interno di una inte­la­ia­tura che si regge da sé, in un con­flitto dove l’unica cer­tezza acqui­sita è la per­ce­zione del movi­mento iner­ziale degli eventi. Spae­sa­mento, spiaz­za­mento, disin­canto (per coloro che ave­vano voluto invece cre­dere nella guerra come oppor­tu­nità per acce­le­rare i tempi di un qual­che cam­bia­mento) sono quindi moneta comune nelle cose allora scritte e dette a viva voce, negli infi­niti col­lo­qui in trin­cea così come ovun­que vi fosse l’eco imme­diata delle armi. La que­stione della dimen­sione epo­cale del con­fronto armato si intrec­cia quindi con il supe­ra­mento della sepa­ra­zione tra la sfera mili­tare e quella civile, attuata con il regime delle mobi­li­ta­zioni di massa, che coin­vol­sero non solo quanti furono inviati a com­bat­tere in immensi car­nai ma anche quelle comu­nità nazio­nali, che rima­sero intrap­po­late den­tro il gigan­te­sco cir­cuito del «fronte interno».

Carne della civi­liz­za­zione tecnica

Dai due libri escono quindi ritratti a tinte forti, molto curati sul piano delle fonti e della loro let­tura cri­tica. Soprat­tutto, le sto­rie infi­nite che ci ven­gono così resti­tuite ren­dono omag­gio non solo di un’umanità che resi­ste con le poche risorse che ha con­cre­ta­mente a dispo­si­zione, ma anche della prima, gigan­te­sca prova alla quale que­gli stessi uomini e quelle mede­sime donne furono sot­to­po­sti, la per­ce­zione che la civiltà indu­striale con­tem­plava non solo lo sfrut­ta­mento attra­verso il lavoro ma la scar­ni­fi­ca­zione sui campi di bat­ta­glia. Un’immensa offi­cina della civi­liz­za­zione tec­nica, come già Anto­nio Gibelli aveva avuto modo di rile­vare in un’altra sua impor­tante opera, dove la morte è una pre­senza costante, tanto sel­vag­gia quanto «razionale».

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