processo 7 aprile – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sun, 14 Jan 2024 08:47:42 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 La discussione su Toni Negri, il manifesto, gli anni Settanta https://www.micciacorta.it/2024/01/la-discussione-su-toni-negri-il-manifesto-gli-anni-settanta/ https://www.micciacorta.it/2024/01/la-discussione-su-toni-negri-il-manifesto-gli-anni-settanta/#respond Sun, 14 Jan 2024 08:47:42 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26711 Dopo le critiche sul modo in cui abbiamo trattato la figura del filosofo-militante in occasione della sua scomparsa, in un'assemblea si sono ritrovate le voci e le generazioni di questo giornale

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Pannella

Dopo le critiche sul modo in cui abbiamo trattato la figura del filosofo-militante in occasione della sua scomparsa, in un'assemblea si sono ritrovate le voci e le generazioni di questo giornale   Viviamo in tempi di flame rabbiosi e istantanei sui social e bolle che balcanizzano le discussioni e rendono molto difficile il dialogo. E allora, quando sono emerse alcune divergenze con alcuni compagni e compagne storiche del manifesto a proposito del giornale dello scorso 17 dicembre dedicato alla scomparsa di Toni Negri, abbiamo scelto una strada in ostinata controtendenza: convocare un’assemblea. Per discutere, scambiarsi informazioni e punti di vista, mettere in comune esperienze. Quest’incontro è avvenuto lo scorso 11 gennaio, nella nostra redazione di via Bargoni. Nella stanza dei caporedattori si sono strette una accanto all’altra le diverse generazioni del manifesto. «Questa direzione ha il compito di non sfuggire alle polemiche. Dunque, anche le critiche dure sono un indice di vitalità», è la premessa di Andrea Fabozzi. Assieme a lui, ha dato il benvenuto anche Massimo Franchi, a nome del Cda. E c’era anche Tommaso Di Francesco, che era assieme a Luciana Castellina quando, nel 1969, il gruppo del manifesto venne radiato dal Pci. APRE IL DIALOGO a più voci quest’ultima, una delle promotrici della lettera che ha dato il via alla discussione.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Il manifesto e Potere operaio: un confronto che faremo Precisa subito che il dissenso su come abbiamo scelto di raccontare la figura di Negri «non è generazionale». «La commemorazione di Toni Negri è apparsa così forte da apparire come identità del giornale – è la preoccupazione di Luciana – Per questo sentiamo il bisogno di momenti di collegamento che ci riportino a posizioni più comuni». Tocca a Famiano Crucianelli esplicitare ulteriormente. Con un avvertimento: nessuno ha l’intenzione di ristabilire qualche ortodossia o omogeneizzare la «ricchezza della pluralità», la biodiversità propria delle culture politiche che attraversano il giornale. «Già il gruppo originario del manifesto aveva una sua pluralità interna – precisa Famiano – Non era un gruppo bolscevico, c’era una dialettica fortissima. Non a caso ci sono state discussioni e rotture negli anni: ma ciò non ha mai rappresentato la desertificazione di una storia comune». Poi ricorda le posizioni dei deputati del Pdup in occasione degli arresti del 7 aprile: «Votammo contro leggi emergenza e contro l’arresto di Negri. Girammo le carceri speciali per avere un dialogo con quei compagni. Demmo una mano a tirar fuori dal carcere anche Oreste Scalzone, afflitto da problemi di salute». Ma l’impressione di Famiano è che «per il ricordo di Negri si sia avvertita una semplificazione che rappresenta un torto a lui stesso: è apparso come un intellettuale e un filosofo sofisticato, ma è stato e si è sempre definito un militante politico». Da qui discende che avremmo mancato di evidenziare «la concretezza politica di quella storia: ciò che è avvenuto dalla metà degli anni Settanta in poi. L’errore del compromesso storico da una parte e la germanizzazione del paese per cui il movimento si infilò in un angolo». Il nodo è tutto politico e per certi versi ancora attuale, dal momento che «le condizioni soggettive perché possa maturare l’alternativa non sorgono spontaneamente». LA PAROLA va a Massimo Anselmo, compagno del manifesto napoletano. «Negli anni Settanta stava avvenendo una mutazione dei rapporti di forza tra le classi e internazionali che ad esempio Lotta continua, dalla quale provenivo, non riusciva a leggere – racconta – Cosa che invece faceva il manifesto. Oggi bisogna capire come è cambiata la pelle del produttore. Dobbiamo essere elemento collettivo di inchiesta sociale». È vicino a questo giornale fin da allora anche Maurizio Iacono. Il quale ricorda di aver chiesto lui stesso a Negri, nel 1983, di scrivere dalla galera un articolo per il manifesto sul centenario della morte di Marx. Oggi accoglie la sfida dell’innovazione delle categorie di lettura, ma avverte il pericolo che anche la teorica critica sia digerita dal sistema. «C’è un grande revival internazionale di Marx – afferma – Ma bisogna stare attenti a non avere nessuna nostalgia. Non bisogna tornare indietro. Siamo in un’epoca in cui sembra si sia persa la profondità, tutto sembra giustapposto in superficie: persino le forme eversive sono compatibili. Abbiamo bisogno di trovare un Uno nuovo di fronte a un Molteplice sparso che il neoliberalismo ha dimostrato di riuscire a riassorbire». NEL GIRO di pochi interventi siamo arrivati alle sfide contemporanee. Marco Bascetta sottolinea che questo sguardo ha animato il giornale in occasione della scomparsa di Negri. «Gran parte degli autori hanno lavorato con Toni nella fase del cosiddetto postoperaismo – argomenta – A partire dagli anni Novanta, Toni diventa militante in un altro modo». È il Toni Negri dell’inchiesta metropolitana, del postfordismo e delle nuove forme di produzione. «Toni nella sua vita è stato molte cose – prosegue Marco – è stato cattolico, poi socialista, ha vissuto in un kibbutz, poi operaista- Noi abbiamo pensato fosse utile raccontare la fase in cui interloquì con i nuovi movimenti. Possiamo dire che da cattivo maestro era divenuto buono scolaro dei movimenti». Questa fase, durata fino a oggi, quasi trent’anni, è anche quella che accompagna l’emersione di Negri sulla scena globale. «Il lavoro teorico del Negri della quadrilogia con Michael Hardt da Impero in poi, anticipata da Il lavoro di Dioniso edito da manifestolibri, ha avuto una risonanza in tutto il mondo che per un intellettuale comunista italiano è un caso più unico che raro – constata Marco – Per trovare un fenomeno analogo dal punto di vista della diffusione planetaria forse bisogna tornare a Gramsci. Dunque, non è si trattato solo di raccontare un personaggio, ma di dar conto di un fenomeno teorico politico vasto». Più vasto è divenuto anche l’orizzonte di questo giornale, nel corso di questi decenni. «In una storia lunga – sostiene Marco – Entrano più persone e anche altre correnti. Il solco tracciato da Romolo ha importanza fondativa, ma Roma è negli anni è andata oltre quel solco, è cresciuta». A PROPOSITO di decenni, Giansandro Merli propone uno sguardo dal punto di vista della sua generazione, cioè di quelli che sono nati negli anni Ottanta. «Siamo stati giovani in periodi diversi e abbiamo conosciuto Toni in momenti diversi – premette – Io l’ho conosciuto nel 2009, in un’assemblea cui partecipavano la Fiom, l’Flc, sindacati di base, studenti, centri sociali». Per Giansandro, il manifesto dello scorso 17 dicembre ha marcato la differenza con tutti quelli che non accettano che «uno degli intellettuali italiani più noti al mondo sia un comunista e lo sia stato fino alla fine». «Quel giornale con Negri in copertina ha venduto molto – sostiene – Se dovessi trovarci un limite direi che forse non abbiamo spiegato abbastanza quanto la sua opera sia discussa dappertutto nel pianeta».Per i compagni che sono venuti a trovarci in redazione, il giornale ha commesso soprattutto l’errore di «semplificare» la complessità delle vicende degli anni Settanta. Ciò emerge, sostiene Vincenzo Vita, dal commento in prima pagina affidato a Paolo Virno (uno che su molte cose con Negri non era d’accordo, a cominciare dall’inesauribile ottimismo antropologico del Professore). Il suo testo contiene un inciso molto duro contro «una canaglia dell’antico Pci», a proposito della persecuzione giudiziaria contro i movimenti. «Il Pci ha avuto luci e ombre: il 7 aprile è un’ombra, e lo abbiamo segnalato – replica Andrea Colombo – Certo, si poteva fare una discussione storica, ma forse non era il momento. Si può sempre fare, senza andare a cercare le ragioni o i torti di quella che fu non soltanto la sconfitta di una battaglia ma la guerra perduta». Andrea inquadra i fatti della seconda metà degli anni Settanta nel contesto della grande sconfitta: «Sarebbe sproporzionato parlare solo degli errori di Negri, che pure ci furono. Allora lo avvertivamo tutti, anche il Pci cercava vie di uscita. Eravamo fortissimi ma capivamo che stavamo per perdere. Il Toni dirigente politico fu uno dei pezzi di questa sconfitta, non il responsabile». PER ROBERTO Ciccarelli la scelta del manifesto, su spinta soprattutto di Rossana Rossanda, di intraprendere in solitaria una campagna garantista in occasione dei processi del 7 aprile rappresenta un punto di svolta politico-culturale che ha proiettato il giornale nel futuro, oltre quegli anni Settanta. «Questo giornale nel 1979 creò un caso politico-giornalistico – ricorda Roberto – Lo fece contestando l’impianto di quel processo e la cultura giuridica che lo aveva ispirato. Lo fece trasformandosi e diventando il giornale che aspira a parlare alla sinistra intera e quindi all’intera società. Fu un momento fondativo». Poi Roberto racconta un retroscena dell’intervista che fece a Toni Negri lo scorso luglio, in occasione dei suoi novant’anni. «Quella discussione poteva avere tagli diversi- -ricorda Roberto – Ma fu lui a propormi di farla sul suo rapporto con il manifesto. Il che fa capire l’affetto che nutriva verso questo giornale e per Rossanda, con la quale ebbe un rapporto che diventò critico e anche molto duro, come accade tra comunisti». Racconta anche del 1997, di quando aveva scelto di tornare in Italia, in prigione, perché era convinto che da quella posizione avrebbe strappato l’amnistia per gli anni Settanta: «Fu in quell’occasione, prima di tornare, che Rossanda gli disse: ‘Non partire, è una trappola’. Proprio lei, che quindici anni prima gli aveva contestato la scelta di riparare in Francia».In mezzo a questo rovesciamento, e a questo rapporto tra due grandi intellettuali e militanti politici, c’è il manifesto. «Toni da comunista ha letto in chiave politica il suo rapporto con questo giornale – conclude Roberto – Il che ci offre l’occasione di discutere del manifesto del presente e del futuro». «NOI FACCIAMO un quotidiano – dice Andrea Fabozzi ponendo la critica e la discussione come attitudini permanenti – E facendolo ci sottoponiamo ogni giorno al giudizio di tutti: degli amici e dei compagni, ma innanzitutto di un pubblico vasto. Non abbiamo nessun interesse a chiuderci alla critica e certamente abbiamo ogni giorno tante cose di valore ma anche tante lacune. Viviamo del resto tempi difficili da leggere e raccontare, con di fronte a noi la peggiore destra e proprio il fatto che sia arrivata al governo è un’altra prova dei nostri limiti. Per questo che le vostre critiche, che non abbiamo condiviso, siano arrivate sulla memoria di Negri ha favorito l’impressione che si trattasse solo di discussione interna. Non può essere così e vi invito a starci addosso anche su altre questioni». Luciana Castellina rievoca i momenti delle divisioni con Negri. Come sui consigli di fabbrica: il manifesto gli attribuiva una funzione positiva, di pungolo al sindacato, per Potere operaio erano uno strumento riformista. E avverte: «Non siamo un giornale come gli altri, nasciamo dalla critica al giornalismo e dal rapporto passivizzante tra chi scrive e chi legge». Del resto, in quale giornale come gli altri ci sarebbe stata una discussione del genere? * Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto

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Marione Dalmaviva, una memoria «Viva», nei sorrisi e nel cuore https://www.micciacorta.it/2020/04/marione-dalmaviva-una-memoria-viva-nei-sorrisi-e-nel-cuore/ https://www.micciacorta.it/2020/04/marione-dalmaviva-una-memoria-viva-nei-sorrisi-e-nel-cuore/#respond Sat, 11 Apr 2020 17:42:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26070 Vicino al nostro giornale, militante di Potere Operaio e pubblicitario, venne coinvolto nell’inchiesta del 7 Aprile 1979 su Autonomia Operaia e subì un lungo periodo di detenzione preventiva

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Il 21 marzo di quattro anni fa ci lasciava Mario Dalmaviva. Se ne andava dopo una lunga malattia una persona speciale, molto vicina alla storia de «il manifesto» nel periodo delicatissimo che fu la fine degli anni Settanta e l’avvio degli anni Ottanta. A lui questo giornale ha davvero voluto molto bene. Mario Dalmaviva era stato militante di Potere Operaio e pubblicitario, venne coinvolto nell’inchiesta del 7 Aprile 1979 su Autonomia Operaia e subì un lungo periodo di detenzione preventiva prima di essere condannato ad una pena di sette anni, poi ridotta a quattro (già scontati). Fu quello della battaglia contro il teorema del magistrato Calogero, un impegno costante del quotidiano comunista «il manifesto» e dell’iniziativa di Rossana Rossanda. Come scrisse salutandolo per l’ultima volta il «fratello» Alberto Magnaghi «la sua ribellione all’ingiustizia era cominciata nel 1981, con uno sciopero della fame di sessanta giorni, per rivendicare la propria innocenza: il giudice Caselli lo aveva, poco prima del “teorema” del giudice padovano Calogero, prosciolto da tutti i reati torinesi per cui era inquisito. Ma anche per rivendicare la propria estraneità, dal carcere speciale di Fossombrone, al progetto delle Br di rilancio della lotta armata, attraverso le rivolte carcerarie». Mario è stato un rivoluzionario gentile, sempre incline al sorriso. Veniva da lontano, da sociologia di Trento; aveva conosciuto Sergio Bologna a Milano e Vittorio Rieser a Torino, con il quale aveva fondato la Lega studenti–operai, anticipatrice, con gli scioperi alla Lancia, dell’incontro sociale fra università e fabbrica ai cancelli della Fiat: così nacque la fondativa assemblea permanente operai-studenti. Dal carcere di Torino l’autore cominciò a inviarci una serie di vignette fatte in scarsità di mezzi e spazi, facendo così di necessità virtù. Tutte avevano come unico protagonista la porta sbarrata di una cella: dall’interno e dall’esterno quei tratti contaminati di parole e sbarre rappresentavano un infinito recluso. Pareva impossibile che da quella condizione uscissero delle nuvole pensierose e divertite che ponevano domande sui contenuti della nostra residua libertà. La libertà di tutti. La cella diventava un espediente narrativo che chiedeva l’ascolto di una generazione, dando la misura dell’angoscia e della claustrofobia non solo della detenzione carceraria, in una forma e misura grafica. Furono quelle le prime vignette uscite sul «manifesto». Ebbero subito un grande successo, anche perché fortemente segnate dalla volontà di restituire nel segno e nello spazio breve del fumetto dentro la nuvola e nel modo della satira, tutta la pesantezza del tempo. Mario Dalmaviva, non volle mai rinunciare alla cifra poetica della sua serenità. E utilizzava – come abbiamo scritto per ricordarlo quattro anni fa – ogni vignetta, ogni balloon, come fossero una lima per segare le sbarre delle prigioni, concrete e mentali di una generazione. Sempre siglando «Viva», una nuova firma per noi, una sigla luminosa, un neon fantasmagorico dal nero-cella, un «segno» del suo rimanere in vita nonostante tutto, a memoria della radice «umanitaria» del suo cognome. Un timbro di testimonianza lucida e allegra. * Fonte:Tommaso Di Francesco, il manifesto

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Nanni, l’imprenditore della moltitudine https://www.micciacorta.it/2019/06/nanni-limprenditore-della-moltitudine/ https://www.micciacorta.it/2019/06/nanni-limprenditore-della-moltitudine/#respond Sat, 08 Jun 2019 14:52:46 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25471 Nanni Balestrini. Un intellettuale e militante profondamente laico, che disdegnava l’utopia e vantava la propria amoralità Dai tempi di Potere Operaio con Nanni ne abbiamo fatte tante… non solo di riviste. Sono stordito, ora, alla notizia della sua morte. Mi chiedono un ricordo, qualcosa come un necrologio. Non credo che Nanni ne abbia mai scritti. È […]

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Nanni Balestrini. Un intellettuale e militante profondamente laico, che disdegnava l'utopia e vantava la propria amoralità Dai tempi di Potere Operaio con Nanni ne abbiamo fatte tante… non solo di riviste. Sono stordito, ora, alla notizia della sua morte. Mi chiedono un ricordo, qualcosa come un necrologio. Non credo che Nanni ne abbia mai scritti. È contrario al suo carattere… e anche al mio. E poi, come fa a morire la Signorina Richmond? Che classe, quel Nanni! I poeti attorno a lui lo temevano perché era il solo che aveva lasciato l’anima accanto, fuori dalla poesia; i critici e i teoretici, con i quali conviveva, anch’essi lo temevano perché Nanni metteva quel po’ di razionalità che la poesia non gli rubava, a disposizione del fare, della politica, dei compagni. ASSEMBLARE I PEZZI Eccolo dunque, Nanni, organizzatore di cultura sovversiva, produttore di riviste politiche. Quelle cose, quelle macchine non erano mai «sue» ma appunto «dei compagni». Non ho mai avuto notizia né esperienza di un bisticcio fra Nanni e i responsabili di un qualsiasi lavoro politico che lui avesse nelle sue mani di editore. Metteva i compagni a lavoro, la sua generosità era vincente, sempre, il suo lavoro quello di un’impresa comunista. Qualche tempo fa, lavorando su Assemblea, e discutendo con Michael Hardt la figura di una nuova proposta teorica, quella dell’«imprenditore politico della moltitudine», mi sono venute in mente le esperienze di Nanni negli anni ’70. Come definire un imprenditore della moltitudine? Come un «meccanico» che assembla i pezzi di una macchina, meglio, per stare nella letteratura, come un autore che trasforma il «volgare» in lingua. Non è un inventore, ma qualcuno che recupera quanto fa parte dell’esperienza comune, in essa collaudato, e ne fa cosa praticabile, una nuova macchina. Ecco l’opera di Nanni messa in luce, questa sua capacità di far diventare «arte» il mettere insieme cose ed eventi, linguaggi ed emozioni politiche e di trasformare pallide avanguardie comuniste in macchine da guerra. Nanni, il meccanico, non ha mai sognato orizzonti gloriosi nel comunismo realizzato. Nanni ha sempre vissuto la realtà quotidiana del lavoro militante. Disdegnava radicalmente l’utopia e vantava la propria amoralità: naturaliter comunista. Non pensava al futuro ma già viveva nell’avvenire. Ci ho pensato tanto a questa capacità di Nanni di farti sentire «naturale» nelle situazioni più avventurose e a confronto del pensiero critico. Talvolta ho ritenuto si trattasse di una qualità tipica del «provinciale», quale anch’io, come Nanni, sono. Attratti dalle metropoli, Milano, Roma, Parigi, Berlino… ma presto ci stavano stretti i comportamenti e le discipline metropolitane. Invece del rifiuto, tuttavia, costruivamo allora, e con loro vivevamo, lì nella metropoli, gruppi di amici che replicavano la forza dei provinciali, togliendone la solitudine e costruendo semplificazioni creative delle complesse mediazioni metropolitane e dando afflato collettivo ad ogni lavoro. La Feltrinelli anni ’60, dove crebbe Nanni, quella dei due premi Nobel, fu davvero una macchina siffatta. Nanni aveva lì imparato ad agire. Ma appunto si trattava di un nuovo movimento – e così capisci quel bisogno di produrre politicamente insieme che divenne epidemico fra i ’60 e i ’70 – un movimento che unì, nel fare politica, la generazione prodotta dal ’68 e molteplici comunità di ragioni e di affetti, nel segno del comunismo. Nanni ne fu prodotto e motore, quintessenza di quel vivere. Era così semplice stare assieme, fare le cose assieme. Io, Nanni, l’ho davvero amato. Mi ci ritrovavo, con lui, in quel suo «fare» senza troppo pensarci su, perché era più importante pensare facendo, costruendo. Il criterio, la misura stavano nel fare. La laicità di Nanni era tutta qui: una laicità sovversiva, un piacere della «superficie» in tumulto, alla Deleuze, alla Guattari (con i quali da vicino l’avrebbe poi condiviso), un’allegria della singolarità, dell’immanenza, senza il problema (o l’ossessione) di negare quel che non c’era o non valeva, come la trascendenza o l’autorità.
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IL NUOVO MECCANO Laicità perché è una condizione ottima, ci si sta bene, un comportamento degno del Momus di Leon Battista Alberti: «Destinato farsescamente alla formazione del principe, il Momus si rivela come l’antiprincipe, un libro della distruzione di ogni ordine e di ogni potere. In attesa che nel suo humus, o nella camera oscura della storia, prenda forma la nuova immagine di un nuovo Principe, quello che sulla trasgressione fonderà il suo potere» (così si definisce Nanni nella Prefazione del libro). Siamo stati bene, passando le notti a comporre PotOp, o a discutere senza costrutto su come riempire Compagni Virgola. Abbiamo girato l’Italia per contattare amici intellettuali dispersi e mezz’Europa alla ricerca di un Osvaldo furioso, abbiamo lavorato insieme (un nuovo «meccano» balestriniano) a costruire AR&A – una piattaforma logistica, oggi si direbbe, per le mille imprese editoriali della moltitudine autonoma. Alfabeta nascerà anch’essa di lì. Calogero trasformò presto questa iniziativa in «associazione di malfattori», in delinquenza organizzata. Poi vennero Rebibbia, Fossombrone, Palmi, Trani, per me. Per Nanni, Parigi, e poi Aix-en-Provence. Che cosa avrebbe fatto, isolato da quel suo Heimat che aveva costruito? Ce lo chiedevamo, ritenendo che il poeta fosse più in difficoltà dei suoi rozzi compagni. E invece, con Giairo a lato, Nanni associò gli intellettuali attorno a Deleuze e a Faye in «trasversali» letterarie e politiche – Change International – che permisero alla sinistra sovversiva di togliere spazio e fortuna (comunque di resistere) all’ennesima invasione dei Rosacroce, all’irrazionalismo reazionario dei nouveaux philosophes. VERSO I COLLAGE Mancò solo Foucault a quell’appuntamento, in un momento di crisi del suo pensiero, che di lì a poco si riaprì – quale powerful effectiveness – a quelle nuove resistenze. Intanto Nanni ad Aix metteva insieme una banda (letteralmente, non solo leggevano poesie ma le suonavano e cantavano) attorno a Roubaud, un forte poeta dell’ultimo Novecento francese. Una nuova primavera, questa, per Nanni, che nella fuga dalla repressione feroce dei Calogero, dei Dalla Chiesa, del «compromesso storico» ritrovava il senso del gioco e dell’avventura. I collage cominciano allora. Un’incredibile agilità dell’epico e dell’ironico si combinano dentro questo nuovo meccano. Quei giornali che aveva organizzato, ora Nanni comincia (e lo farà tanto più rientrando in Italia alla fine degli ’80) a ritagliarli e a ricostruire figure e manifesti di un’avventura già repressa, ma sempre di nuovo risorgente e sempre più radicalmente sovversiva! Un insegnamento deleuziano: quanto rivoluzionarie potevano essere, quanto potenti quei semplici frammenti di materia varia, in superficie danzanti. In Italia intanto il potere e i letterati del Corriere della Sera puntavano sull’oblio di Vogliamo tutto. Non c’è intervista fatta a Nanni in quei tempi nella quale, benevolmente e ipocritamente, non gli si chiedesse se non era pentito di aver scritto Vogliamo tutto, quel capolavoro della letteratura operaista che resta, ad oggi, uno dei più bei romanzi del Novecento. Bisognava dimenticarlo, cancellarlo quel romanzo che cantava una rivoluzione operaia – che se non era stata vincente nella società, aveva comunque distrutto quell’indecente luogo di sfruttamento che era la fabbrica fordista. L’EPICA DEGLI INVISIBILI Quel libro era uno sfregio alla casa Agnelli, in quel tempo regnante, e ai sudditi plaudenti (i quarantamila?). Era la voce dei duecentomila rivoltosi di Mirafiori e aveva meritato a Nanni di essere incluso nella grande repressione del 7 aprile ’79. Bene, Nanni replica con quell’altro bellissimo racconto che è Gli invisibili. Vogliamo tutto è il ’69 in fabbrica, Gli invisibili sta fra il ’77, l’autonomia sociale e la galera di quella nuova generazione. L’epico diventa resistente. Questo lavoro di Nanni dura per anni, fino a L’orda d’oro, scritta con un altro fratello, Primo Moroni, formidabile documento ed apologia delle lotte dell’autonomia operaia e sociale – di quei Settanta che avevano rifondato speranza, cultura e vita politica in Italia – e che, repressi, l’hanno mandata all’inferno. Questo ha vissuto Nanni, il secolo steso fra la luce di una rivoluzione possibile e la più infame restaurazione, senza mai staccare l’impegno militante dalla riflessione politica. Dicevamo della deleuziana «superficialità» di Nanni. Da non confondere, ricordavamo, con indifferenza ma da comporre piuttosto con passione sovversiva. Il meccano di Balestrini vive in questa tensione. Che vuol dire che i ’70 sono finiti solo per i persecutori, che invece l’odio per i padroni (non più del vapore ma della finanza e di tutto il resto) vien fuori ancora e sempre più forte. Cresce la resistenza tenendo viva la speranza che Nanni ci ha lasciato. Così nell’ultimo suo scritto, nell’estate parigina del 2018: «Lo scarto fra la nostra immaginazione e le nostre aspettative nutrì quei lunghi//giorni d’estate quando fantasticavamo di viaggiare in posti esotici//e di combattere contro le malefatte degli imperialisti nel mondo//cavalli cervi cinghiali rossi e neri si agitano//che c’era da leggere nella grotta che venne scoperta//che nessuno ha completamente svelato il segreto//si deve poter fare tutto non esistono limiti//sarebbe stato un inizio una rivoluzione//però era troppo tardi era già tutto finito». Non è rassegnazione: «Non c’era nulla//poi all’improvviso arriva qualcosa». Il Bisonte di Altamira, l’odio accumulato nei secoli contro la prepotenza dei padroni, la nostra liberazione: Nanni scrive di ciò senza nulla concedere al futuro perché siamo vissuti nell’avvenire. Nell’ultimo periodo, Nanni stava male, entrava e usciva dall’ospedale, mi aveva telefonato, con la voce suadente e maliziosa che gli conoscevo, chiedendomi: sei pronto che facciamo una bella rivista? Sì, Nanni, sempre ai tuoi ordini. * Fonte: Toni Negri,  IL MANIFESTO

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Il fantasma del 7 aprile aleggia ancora a Padova https://www.micciacorta.it/2018/01/24044/ https://www.micciacorta.it/2018/01/24044/#respond Fri, 26 Jan 2018 10:02:52 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=24044 Il procuratore Calogero ha querelato Umberto Contarello per dei commenti espressi sul processo all'Autonomia Operaia nel 1979

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POLEMICHE. Lo sceneggiatore ha poi fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria» PADOVA. Padova è sempre «impiombata» dal 7 aprile. Anche dopo quasi 40 anni scatta il riflesso pavloviano. E si riapre il campo di battaglia sul teorema di Pietro Calogero (sposato dal Pci) e sulla «supplenza giudiziaria» (contestata dai garantisti dell’epoca) nei confronti dell’Autonomia e dei «cattivi maestri» di Scienze Politiche. Mercoledì sera al Centro universitario di via Zabarella si discuteva, senza tanti problemi e con una completa gamma di opinioni, la tesi di laurea di Giulia Princivalli (che è nata nel 1993) Padova di piombo. Lo scontro fra Pci e Autonomia Operaia negli anni ’70 (Alba Edizioni, pagine 102, euro 10). È il medesimo sforzo di libera riflessione che nel 2002 aveva prodotto Luca Barbieri con I giornali a processo: il caso 7 aprile al termine del corso in Scienze della comunicazione. Ma paradossalmente non fa notizia. È squillato l’allarme rosso per combattenti e reduci. Calogero ha querelato Umberto Contarello, in gioventù segretario cittadino della Fgci, per la sua testimonianza nel web che faceva passeggiare il pm dentro le stanze della Federazione di via Beato Pellegrino. Nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si è rimangiato lo «scherzo della memoria», ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Così Padova torna ad avvelenarsi, come se il tempo si fosse cristallizzato. Per fortuna, la storia restituisce quella stagione tutt’altro che univoca. E la città dell’altro secolo si è «riconciliata», soprattutto grazie a chi ha preservato passioni meno tristi e più critiche. Un altro «ricordo» di Contarello era passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…». Per la giustizia, valgono sempre le parole di Giovanni Palombarini che ricopriva il ruolo di giudice istruttore: «L’impostazione del pm ha goduto a lungo di forza interna, nell’ideologia della magistratura del tempo prima ancora che nel sistema delle impugnazioni, e sostegni esterni, anche di un partito politico, affidati a strumenti di informazione spesso partecipi di quella impostazione. È ipotizzabile che si possa sviluppare una riflessione su questo dato, che nella sua drammatica oggettività è emerso dalla storia del processo 7 aprile?». Per «il manifesto», parla l’editoriale di Rossana Rossanda: «Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? Forse “l’Espresso”, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come quella di Negri? “Repubblica” che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi,codardi e coperture. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica ma a un trucco giudiziario». Per la politica, infine, a Padova chiunque può sorridere. Chi aveva l’indice puntato e chi stava alla sbarra, massimi dirigenti del Pci e militanti del Movimento del ‘77, funzionari e portavoce dei centri sociali nella campagna elettorale del 4 marzo si ritrovano insieme nello stesso «contenitore» guidato da un ex magistrato. Comunque, ben oltre il fantasma del 7 aprile e il desueto ring scenografico, a Padova ci si preoccupa ancora del futuro. Senza più «cassaforti» né rendite di posizione, bisogna preservare dalle lobby sussidiarie al declino almeno la libertà dell’Ateneo e il servizio pubblico nella «fabbrica della salute». FONTE: Ernesto Milanesi, IL MANIFESTO

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Padova. Un seminario per inaugurare l’archivio Ferrari Bravo https://www.micciacorta.it/2017/05/23353/ https://www.micciacorta.it/2017/05/23353/#respond Tue, 30 May 2017 06:52:36 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23353 Convegni. L’eredità di un pensiero critico. A Padova un seminario sul populismo

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È focalizzato sui populismi (anche «di sinistra») e democrazia post-rappresentativa il seminario inaugurale dell’Archivio Luciano Ferrari Bravo: oggi a Padova con inizio alle 14.30, nell’aula B1 di Ca’ Borin all’interno della storica sede di Scienze Politiche, ne ragionano il ricercatore della Normale di Pisa Loris Caruso, la filosofa femminista Ida Dominijanni e Marco Revelli, docente all’Università del Piemonte Orientale e saggista. Un appuntamento che restituisce non solo l’originale e preziosa eredità di Ferrari Bravo, ma soprattutto permetterà di attivare la ricerca al di là di miopi orizzonti di potere. Padova, insomma, si candida ancora come «laboratorio politico» sul terreno dei movimenti, delle mutazioni e dei saperi conflittuali. Perché più che le alchimie istituzionali, elettorali contano sempre le analitiche consapevolezze sullo «stato di cose presente». DA QUESTO PUNTO DI VISTA Ferrari Bravo è stato (e rimane) il pioniere del lavoro intellettuale come supporto indispensabile alla critica del «sistema». Nel filone dell’operaismo, ha coltivato fin dagli anni Settanta – insieme agli altri docenti di Scienze Politiche – la riflessione sulla crisi del fordismo fino a saper intuire sul versante giuridico e politico gli effetti dell’attuale governance più o meno globale. Arrestato il 7 aprile 1979 da Pietro Calogero, subì oltre cinque anni di detenzione preventiva per poi essere prosciolto dall’accusa di insurrezione e reintegrato nell’Ateneo. Scomparso il 26 aprile 2000, finora i suoi saggi fondamentali erano raccolti in Dal fordismo alla globalizzazione (manifestolibri). Ora finalmente l’intera produzione di Ferrari Bravo è accessibile on line all’indirizzo www.archivioLFB.eu grazie al lavoro collettivo di Serena Angelucci, Luca Basso, Giada Bonu, Beppe Caccia, Claudio Calia, Sandro Chignola, Stefano Crabu, Sebastian Kohlscheen, Omid Firouzi, Clara Mogno, Alberto Montaruli, Corinna Morini, Caterina Peroni, Luigi Emilio Pischedda, Devi Sacchetto e Stefano Visentin. Il sito contiene libri, articoli, materiali d’inchiesta e alcuni inediti che rappresentano la miglior «piattaforma» per le iniziative future, destinate ad alimentare ricerche e dibattiti sul neo-municipalismo, sul lavoro postoperaio e sull’effettiva consistenza di modelli come la logistica. «L’ARCHIVIO LFB ha un’ambizione ulteriore rispetto a quella di fungere da punto di raccolta degli scritti di Luciano. L’attitudine sperimentale sulla quale battiamo muove dal presupposto che sia necessario tirare una linea rispetto al passato: fare un passo oltre i riferimenti identitari, le logiche di gruppo, la conseguente frammentazione soggettiva. Provando a riprodurre lo stile con cui Luciano aveva affrontato la sua epoca e anticipato la nostra» affermano i promotori dell’iniziativa di oggi. «Tracciare una linea significa per noi ostinatamente ricominciare. Creare uno spazio dove sia possibile mettere in comune intelligenze e condividere strumenti, a beneficio in particolare di chi oggi si affaccia al mondo e vuole provare a trasformarlo, afferrandolo da un punto di vista di parte». Una bella scommessa, che si giocherebbe anche Ferrari Bravo. SEGUI SUL MANIFESTO

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Rivista «Metropoli», da Pre-print a Re-print https://www.micciacorta.it/2016/12/22764/ https://www.micciacorta.it/2016/12/22764/#respond Thu, 08 Dec 2016 09:10:17 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22764 Più libri più liberi. La ristampa anastatica della rivista che sabato 10 verrà presentata a Roma

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Nel giugno 1979 arrivò nelle edicole e vendette subito uno sproposito il primo e molto atteso numero di una nuova rivista. Si chiamava Metropoli ed era redatta, come spiegava il primo editoriale, «da un collettivo di compagni che, nel suo insieme, ha attraversato il ’68, l’autunno caldo delle lotte di fabbrica; poi ancora l’esperienza breve e felice di Potere operaio, l’area dell’autonomia e dintorni; successivamente il movimento del ’77 ed in particolare la sua ala beffarda e creativa». Quando la rivista, in gestazione già da un paio d’anni, vide finalmente la luce molti dei suoi redattori erano in galera oppure inseguiti da mandati di cattura per una quantità di reati sufficienti a riempire mezzo codice penale. Erano stati spiccati il 7 aprile e pochi mesi dopo, il 21 dicembre, una nuova raffica avrebbe colpito quasi tutti i redattori scampati alla prima falcidie. Il secondo numero del giornale sarebbe in effetti uscito quasi un anno più tardi, nell’aprile 1980, pensato e spesso anche scritto nelle patrie galere. Altri 5 fascicoli sarebbero seguito nel 1981, mentre il «caso 7 aprile» continuava a tenere banco sulle prime pagine. CON UNA BIOGRAFIA del genere era inevitabile che la rivista restasse indebitamente incisa nella memoria come un giornale dal piglio quasi militare, scritto sotto il fischio delle pallottole. Nulla di più distante dalla verità. Metropoli era sì una rivista di battaglia, ma con obiettivi infinitamente più ambiziosi di un intervento a raggio corto nel «dibattito» tra movimento e organizzazioni combattenti. C’era anche questo, né poteva essere diversamente nell’Italia del 1979, ma non si trattava certo dell’elemento centrale. Metropoli si misurava con una trasformazione complessiva dell’assetto sociale, delle dinamiche del comando e delle forze produttive allora solo agli albori ma di cui già coglieva la portate e le dimensioni, e che intuiva essere destinata a stravolgere l’intero catalogo del discorso politico e rivoluzionario che si era snodato nel decennio precedente. Veniva rimesso in discussione proprio tutto: dalla concezione della rivoluzione come presa del potere alla mitologia dell’eguaglianza intesa come elemento che accomuna capitalismo e socialismo, sino alla possibilità del superamento rivoluzionario e non vuotamente umanistico della logica schmittiana amico/nemico. A RIGORE e nonostante il senso comune immagini il contrario, Metropoli non è una rivista degli anni ’70, se non per la composizione della redazione nella quale figurano alcuni dei principali dirigenti operaisti del decennio rosso, come Bifo, Lucio Castellano, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Paolo Virno, Lauso Zagato. È invece un giornale che da quel decennio mira a prendere consapevolmente commiato per attrezzarsi e affrontare una fase che intravede radicalmente diversa. Tra i tanti contenuti ancora oggi preziosi, la sezione sulla Frontiera che occupa una postazione centrale nel numero 6 della rivista fissa punti cardinali a tutt’oggi validi e indica un orizzonte che a 35 anni di distanza è ancora lo stesso. La frattura col passato è evidente già nei linguaggi scelti, a partire dalla decisione di raccontare il sequestro Moro con un fumetto: neppure i più sprezzanti avrebbero potuto immaginare che ci fossero in giro togati tanto decerebrati da spulciare quelle vignette per trovare indicazioni precise sulla realtà del sequestro. Invece andò proprio così. La rottura linguistica e la scelta di procedere per via di inchiesta sociale concreta sarebbero state anche più marcate se la rivista avesse potuto uscire sempre e non solo nel suo primo numero per come era stata pensata: obiettivo reso proibitivo dal soggiorno carcerario di quasi tutta la redazione. Metropoli mantenne sempre, però, un’attenzione giornalistica e non solo riflessiva forte sull’universo delle periferie urbane e sugli scenari internazionali. New York, che non era ancora un ghetto dorato aperto solo ai benestanti, campeggia praticamente in tutti i fascicoli, ma altrettanto viva era l’attenzione profetica per i paesi dell’Est. Nel primo numero figura un ampio «Dossier Polonia» curato da Piperno che anticipava di un anno gli scioperi di Danzica a la nascita di Solidarnosc. A RILEGGERLI OGGI, nel bellissimo reprint in due volumi in anastatica edito da PGreco (euro 38), i numeri di Metropoli sono anche una testimonianza storica affascinante: registrano infatti, come in un’istantanea nitida, la breve fase in cui si delineava la rivoluzione produttiva e sociale in procinto di sconvolgere tutti gli assetti precedenti, incluso quello sovversivo, lasciando però ancora aperta l’opzione di una sua possibile evoluzione verso la liberazione dal lavoro invece che in direzione di un rinsaldamento del dominio reso possibile proprio dalla minore necessità del lavoro. C’è un elemento in più che rende questa raccolta preziosa: compaiono qui, nella rivista o nei più densi e teorici materiali di riflessione contenuti nella collana acclusa «Pre-Print», i pezzi migliori nella produzione di Lucio Castellano, scomparso nel 1995. Per chi lo ha conosciuto e ancor più per chi non ha avuto questa fortuna è l’occasione giusta per scoprire o riscoprire l’audacia della sua intelligenza, la lucidità delle sue analisi dissacranti quanto taglienti, l’anticipo con cui sapeva cogliere dinamiche e domande che oggi sembrano quasi ovvie ma che allora erano invece difficilmente prevedibili. SEGUI SUL MANIFESTO

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Antigone, la storia italiana dietro le sbarre https://www.micciacorta.it/2016/10/22613/ https://www.micciacorta.it/2016/10/22613/#comments Sat, 29 Oct 2016 06:48:31 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22613 Cultura politica. 25 anni di critica dell'emergenza. campagne, documentazioni, fino all'associazione e ai suoi interventi

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Antigone si specchia in un fumetto che ripercorre la sua storia: la ripercorre però, come è ovvio, senza i confronti appassionati e forse verbosi che caratterizzarono le discussioni da cui nacque; senza il fumo delle sigarette non ancora bandite nelle riunioni, senza la lucidità e i dubbi che si alternavano nel misurarsi in quel mutamento del paradigma della giustizia che dava corpo al suo nascere. Un paradigma diverso, caratterizzato da norme d’eccezione che rispondevano a una situazione anch’essa d’eccezione: il passaggio di parte di movimenti antagonisti cresciuti negli anni precedenti, a forme di lotta armata nell’ipotesi di innescare un conflitto in grado di estendersi e interpretare bisogni diffusi. La risposta d’eccezione – si conierà allora l’espressione «legislazione d’emergenza» – era quella di rendere l’esercizio della giustizia penale strumento di lotta per arginare tale fenomeno, piegando il sistema da informativo a offensivo e il processo da luogo dell’accertamento a luogo dell’espressione della vittoria dello stato. Frammenti di ciò che, in altri e più duri contesti, sarà chiamato «diritto penale del nemico» già si intravedevano allora: Antigone riusciva a identificarne i germi.

LA DISSOCIAZIONE

Era nata come rivista, nell’alveo del manifesto, cementata proprio dalla capacità del giornale di proporsi come luogo ove interrogarsi su sviluppi e derive della sinistra e costruire cultura politica. Era inizialmente un suo supplemento, ben presto si rese autonoma e rimase in edicola bimestralmente per circa tre anni, finché la tensione che ne aveva determinato la ragione d’essere non scemò, per la sconfitta definitiva delle ipotesi che avevano armato la mano di una parte del movimento del decennio precedente. L’obiettivo era duplice: da un lato comprendere se e cosa stesse mutando, dall’altro offrire una via di uscita possibile a quanti – ed erano molti – erano finiti per scelta, suggestione o semplicemente per l’estensione abnorme dell’indagine, nella rete dei fatti, delle inchieste e delle conseguenti detenzioni e che desideravano uscirne ritenendo ormai determinata la sconfitta di un conflitto in parte agito e in parte immaginato.

UNA TERZA VIA

Per questo Antigone lavorò culturalmente e politicamente attorno all’ipotesi di una «dissociazione dalla lotta armata», che non implicasse necessariamente la cooperazione attiva con l’inquirente: una terza via tra «irriducibilismo» e «collaborazione» che offrisse un possibile ritorno a quanti volevano chiudere con quel periodo, pur non essendo disposti ad assumere un ruolo di sostegno attivo alle indagini verso i propri ex compagni. Il suo sottotitolo fu appunto Bimestrale di critica dell’emergenza. La sua premessa era stato un Centro di documentazione della legislazione dell’emergenza, costituito da alcuni esponenti della sinistra con diverse esperienze e professioni: protagonisti della criminologia critica, giornalisti attenti, operatori del diritto, parlamentari, giovani desiderosi di comprendere. Oggi ripercorrere quei nomi sembra quasi mettere in ordine una galleria di figurine di persone che negli anni successivi avranno ruoli anche importanti nel dibattito all’interno della sinistra italiana; allora erano acuti osservatori tenuti insieme dalla volontà di comprendere e di non essere spettatori muti di un conflitto che da un lato distruggeva le ipotesi di movimento e partecipazione che avevano caratterizzato gli anni precedenti, dall’altro introduceva forme e prassi destinate a mutare la fisionomia successiva dello spazio di agibilità politica. Il Centro documentò così processi, quale quello piuttosto fantapolitico del «7 aprile», in cui era risuonata l’accusa inedita di insurrezione ai danni dello stato, e che negli anni si sarebbe svelato sempre più come manifesto assertivo di un’ipotesi piuttosto che come indagine sostenuta da elementi concreti: molte incriminazioni poi cadute, molte assoluzioni, non senza però aver fatto scontare anni di custodia cautelare alle persone coinvolte. Se questa era stata la premessa di Antigone, l’esito è stato quello di ampliare l’analisi al sistema dell’esecuzione penale e della detenzione nel suo complesso. In parte perché molto di ciò che era allora eccezione ben presto diventò normalità e alcuni mutamenti vennero introiettati dal sistema stesso. In parte perché l’area dell’intervento penale andava espandendosi, sulla spinta di norme che regolavano comportamenti soggettivi, quali quelle sulle droghe dei primi anni Novanta, e di crescenti debolezze sociali che aprivano a nuove forme di microcriminalità con parallela crescita della percezione d’insicurezza. Cresceva così il ricorso al carcere, mutava la sua funzione, piegandosi a strumento di controllo territoriale diffuso, quasi adempiendo così alle previsioni foucoultiane. Antigone si strutturò allora come associazione per comprendere la privazione della libertà quale nuovo paradigma diffuso e intervenire in esso. Perché quell’estendersi non aggredisse il fulcro residuale dei diritti di cui ogni individuo è titolare, qualunque sia il suo stato di libero o recluso. Questa è l’associazione di oggi, nota e stimata, ma pur sempre accorta e mai ferma a guardarsi con compiacimento perché sempre desiderosa di capire e intervenire: di esercitare un ruolo politico a partire da una profonda competenza tematica. Questa è l’associazione che per un attimo si guarda allo specchio, nei disegni di un fumetto. SEGUI SUL MANIFESTO

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Anni 70, quell’operazione clandestina firmata Pci https://www.micciacorta.it/2016/08/anni-70-quelloperazione-clandestina-firmata-pci/ https://www.micciacorta.it/2016/08/anni-70-quelloperazione-clandestina-firmata-pci/#respond Thu, 04 Aug 2016 08:39:28 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22339 L’infiltrato», di Vindice Lecis, edito daNutrimenti. Sanna è il protagonista ispirato a una vicenda di intelligence, vera ma poco nota, tra il partito e lo Stato

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«In questo semestre non ancora concluso gli attentati contro persone o cose sono stati 1487. Il mese peggiore è stato gennaio con 372 attentati violenti. Poi c’è stata una diminuzione». «Dopo il rapimento di Aldo Moro?». «Sì, esatto». È un brano di una conversazione fra Ugo Pecchioli, responsabile della Sezione Problemi dello Stato del Pci, e Antonio Sanna, «funzionario disciplinato, fedele e deciso». Si svolge durante una riunione del «gruppo antiterrorismo» di Botteghe Oscure, un organismo composto dai dirigenti considerati «i maggiori esperti del fenomeno eversivo» allo scopo di monitorare con attenzione millimetrica le mosse della «violenza eversiva». Siamo nell’estate del 1978. Dialoghi come questi sono riprodotti con un robusto tasso di verosimiglianza ne L’Infiltrato(Nutrimenti, 190 pp., 15 euro). L’autore Vindice Lecis sceglie un episodio poco noto della storia del Pci e dell’Italia recente per il suo romanzo, un noir ad alta tensione politica ma soprattutto la storia (vera) di un’operazione clandestina rimasta a lungo segreta: l’infiltrazione di un militante del Pci in un gruppo della galassia della lotta armata sotto la direzione di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il racconto si apre con la strepitosa scena dell’incontro fra il generale e il comunista Pecchioli al casello autostradale Settebagni, fuori Roma. Il primo: «Ho bisogno della vostra collaborazione, dell’aiuto del Partito comunista. A patto che lei mi risparmi la tiritera che siete i più fedeli alla Repubblica. Lo so già da almeno trent’anni». L’altro: «Non esageri, la nostra vigilanza democratica non può essere scambiata per una propensione all’impegno poliziesco». Sanna invece è un personaggio di fantasia, incarnazione delle mille azioni della «vigilanza democratica» del Pci. E anche nello sviluppo della trama c’è qualche altra concessione alla fiction. Ma è il minimo sindacale di libertà quello che si prende Lecis, che da trentacinque anni fa il cronista nel Gruppo L’Espresso e si è già dimostrato accurato autore di romanzi su altri episodi della nostra storia recente. Per scrivere questo suo ultimo ha consultato il Fondo Pecchioli conservato all’Istituto Gramsci (e consultabile in rete su Archivi on-line del Senato) ed ha parlato con fonti dell’epoca che comprensibilmente ancora oggi chiedono riserbo. Della vicenda però si trova una traccia nel libro di Gianni Cipriani Lo stato invisibile, (Sperling&Kupfer, 2002) e una recente solida conferma in Tutti gli uomini del generale di Fabiola Paterniti (Melampo, 2016), in cui l’infiltrato che alla fine contribuisce «a dare una mazzata decisiva alla colonna romana della Br» viene descritto da Umberto Bonaventura, l’uomo di Dalla Chiesa che lo «gestì». Torniamo ora al gruppo di compagni scelti fra i più affidabili di Botteghe Oscure che analizzano «il fenomeno terrorista», e che lavorano alacremente a uno studio «che nemmeno il ministero possiede». Il Pci della solidarietà nazionale però non vuole essere una banca dati. Combatte la sua guerra contro brigatisti, terroristi ed eversori; svolge un’azione di intelligence parallela a quella dei servizi e delle forze dell’ordine; denuncia i sospetti nelle università e nelle fabbriche con zelo da primo della classe per dimostrarsi rocciosamente «fedele alla Repubblica». Fin dal 1974 è in corso una «collaborazione attiva» fra il partito e il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani per combattere il comune nemico del terrorismo, come racconterà nel ’97 lo stesso ministro alla Commissione Stragi. Gli amari frutti di questa politica e degli anni dell’emergenza sarebbero tutta un’altra storia. La storia dell’Infiltrato invece si dipana tutta dentro l’orizzonte ideologico piccista, nel suo modello culturale, dei suoi tic. Dopo l’omicidio Moro il partito si sente stretto «in una tenaglia di ferro e di piombo»: dopo l’avanzamento elettorale del 75 e 76 ripiega sull’appoggio al governo Andreotti. Ma è in mezzo a due fuochi. Da destra arrivano gli attacchi della propaganda Dc, blandi in realtà, che lo considera la matrice dei brigatisti (di «album di famiglia» parlerà Rossana Rossanda nel marzo ’78, provocando ruvide reazioni dal Pci); dalla sua sinistra piovono critiche durissime (e azioni) dei movimenti e delle fazioni armate, nemici giurati del compromesso storico e della politica berlingueriana. In questo contesto matura il salto di qualità operativo, e cioè la scelta di infiltrare Vasco (nome di fantasia) in un’organizzazione armata quando Dalla Chiesa diventa «coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo» e decide l’attacco al cuore delle Br con l’utilizzo degli infiltrati. In questo chiede «aiuto» al Pci per «esperienza, dedizione, capacità di mantenere fermezza senza troppe tattiche», perché possiede «ancora il retaggio della clandestinità» ed è «occhiuto quanto una caserma dei carabinieri di un piccolo paese». Il Pci, al massimo livello, avalla l’operazione chiedendo garanzie sulla vita di Vasco. L’operazione parte. Seguendo Sanna, il tramite fra partito e infiltrato, attraversiamo due anni della storia italiana, il 78 e il 79. Gli anni dell’omicidio di Guido Rossa, dell’attività dei gruppi extraparlamentari, dell’ostilità del Pcus alla crescente autonomia di Berlinguer. Il protagonista li racconta dal suo punto di vista. «Calogero era un coraggioso», riflette a proposito del giudice del Processo 7 aprile, architettato sulla base di un teorema costruito ad hoc per dimostrare la partecipazione di Autonomia operaia alla lotta armata, teorema poi crollato. Ma questo punto di vista senza dubbi consente di illuminare le scelte del Pci sin nelle pieghe più buie e contraddittorie. E riportare il lettore di oggi agli interrogativi brucianti aperti in quegli anni: la «potenza geometrica» del fuoco brigatista ha modificato in senso difensivo, e se sì quanto, la politica del Pci e quella del paese? Ovvero quali sono state le concrete conseguenze della lotta armata nella storia della sinistra italiana oltre – si fa per dire – al drammatico tributo di sangue versato da ogni parte in causa? Il libro di Lecis ha il pregio di riportarci lì, in quell’incrocio di strade possibili. E a ripercorrere quelle realmente imboccate dai protagonisti. Come è finita la storia è noto, come finisce la storia di Vasco lo lasciamo scoprire al lettore e alla lettrice. SEGUI SUL MANIFESTO

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Il pane, le rose… e il Dom Perignon | Conversazione con Chicco Funaro https://www.micciacorta.it/2016/02/il-pane-le-rose-e-il-dom-perignon-conversazione-con-chicco-funaro/ https://www.micciacorta.it/2016/02/il-pane-le-rose-e-il-dom-perignon-conversazione-con-chicco-funaro/#respond Wed, 03 Feb 2016 15:34:53 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21273 L'esperienza di Rosso, il gruppo politico e la rivista attiva negli anni Settanta, le lotte autonome, l'altro movimento operaio nel racconto di uno dei protagonisti, Chicco Funaro in un video di officinamultimediale

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Funaro

L'esperienza di Rosso, il gruppo politico e la rivista attiva negli anni Settanta, le lotte autonome, l'altro movimento operaio nel racconto di uno dei protagonisti, Chicco Funaro in un video di officinamultimediale https://www.youtube.com/watch?v=dWV2xfMZHQI Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finché non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato. Carlos Ruiz Zafón

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Le Confessioni pericolose https://www.micciacorta.it/2016/02/le-confessioni-pericolose/ https://www.micciacorta.it/2016/02/le-confessioni-pericolose/#respond Mon, 01 Feb 2016 11:47:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21252 In occasione dell’uscita dell’autobiografia di Toni Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015), che tante polemiche ha sollevato, abbiamo intervistato il curatore del volume Girolamo De Michele

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potere operaio

Intervista su “Storia di un comunista” di Toni Negri Marco Ambra: Lasciamo da parte l’acritica stroncatura di Simonetta Fiori su Repubblica, segno di un evidente fastidio provocato dalla lettura di questa autobiografia, alla quale peraltro lo stesso Negri ha replicato sine ira ac studio. Partiamo invece dal testo. Scorrendo le seicento pagine della vita di Toni Negri il lettore ha l’impressione di avere a che fare con una confessione, nel senso dato a questa categoria dalla filosofa Marìa Zambrano: la confessione è un genere letterario che sorge laddove l’autore intenzionato a raccontare la propria vita individui un conflitto di questa con la verità (La confessione come genere letterario, ed. it. Bruno Mondadori, Milano 2004). L’effetto principale di questo conflitto sarebbe l’emergere, nell’autore, dell’uscita dal senso di isolamento attraverso la comunicazione di questo conflitto. Ma per farlo l’autore della confessione deve farsi carico di lavoro faticoso, della produzione di un linguaggio in grado di raccontare. Come dice lo stesso Negri «il linguaggio bisogna reinventarlo, attraverso segni e parole che corrispondono ad altro, che indicano altro rispetto a quello che nella mia infanzia ancora mi dicevano» (p. 15). In che modo l’io narrante della vita di Toni Negri è riuscito a parlare questo nuovo linguaggio?Quale relazione ha questa esigenza con il suo essere un filosofo? E con il suo essere un militante? Girolamo De Michele: Consentimi solo un accenno alla recensione di Simonetta Fiori. Il 5 ottobre 2014, su «la Repubblica» la stessa signora si peritò di definire questo libro – che ancora non esisteva – “un’inopportuna agiografia” stroncando in effetti non il libro, ma la scheda di segnalazione editoriale che lo annunciava: stroncare un libro un anno prima che esso esista credo sia un record. Veniamo invece al testo. In effetti, il titolo di lavoro che ci ha accompagnato per quasi due anni era “Confessioni”, e se alla fine abbiamo optato per “Storia” è stato anche per i possibili fraintendimenti di questa parola polisemica, che noi intendevamo proprio come tu l’hai intesa – come del resto è detto nel libro. Il lavoro della confessione è stato faticoso, perché faticosa è stata la ricerca di sé da parte dell’io narrante, in atti che era faticoso attraversare – ma quando non lo è? Così, il giovane Toni oscilla fra un “io” che si cerca e una terza persona che è un po’ il suo io che gli si rappresenta davanti: se vuoi, un io che si scopre “un altro”. Solo quando troverà se stesso non come soggetto declinabile alla prima persona singolare, ma come collettivo, questo io avrà un proprio linguaggio, sempre declinato in “un grande noi collettivo” – come recitano gli appunti di lavoro sul manoscritto. En passant, che questo lavoro stilistico non sia stato colto da chi ha parlato di solipsismo o ego-biografia dimostra che mio fratello è figlio unico, perché non ha mai criticato un film prima di averlo visto: ma che te lo dico a fare? Quale poteva essere, il linguaggio di questa narrazione, se non quello filosofico? Essere filosofo non è per Negri un orpello o una spilletta sul bavero: Negri è filosofo perché lo è diventato, dunque la filosofia è uno strumento di lettura e interazione, sia critica che pratica, col mondo. Il che rende importante anche la narrazione del diventare-filosofo di Negri, dalle prime irrequietudini bruniane e spinoziste, al lungo attraversamento della grande filosofia tedesca, all’apprensione del doppio linguaggio – quello francese e quello tedesco – della filosofia. Ma al tempo stesso, il giovane filosofo in divenire è anche un militante, prima cattolico poi socialista – in anni nei quali questa forma di militanza significava sporcarsi le mani nella miseria contadina del profondo Veneto, nelle prime inchieste sulla società degli anni Cinquanta, nel mondo del lavoro, che peraltro il giovane Negri conosce sin dall’adolescenza, sia per le sue origini contadine, sia per il bisogno di pagarsi i viaggi in autostop con i quali entra in contatto col mondo. Sono tratti che determinano un carattere fatto di curiosità per il mondo, di lavoro continuo, di inquietudine, di un uso critico e non monumentale delle categorie filosofiche, che chi conosce il Negri attuale non fatica a ritrovare ancor oggi. Per concludere: non è casuale che il linguaggio, filosofico e militante, nel quale Negri trova infine se stesso sia un linguaggio diverso da quello degli inizi, degli anni Cinquanta: è il linguaggio di una filosofia e di una militanza intrecciate negli anni Sessanta, quando tutto cambia.   A. :L’autore ha deciso di raccontare la propria vita ripercorrendo l’intrico di avvenimenti, storie, esperienze personali, pratiche sociali che dall’orizzonte cupo della seconda guerra mondiale rinviano al “lungo ’68” italiano, fino al 1979, anno in cui Negri vieni arrestato. Lungo questa faglia critica si consuma l’esperienza dell’Autonomia operaia, il lento maturare della trasformazione dell’operaio-massa in operaio sociale, il postfordismo, l’emergere del lavoro cognitivo, la restaurazione neoliberista. Si tratta di un punto di vista interno al movimento e per questo di rilievo storiografico. In che senso Negri individua nel decennio ’68-’79 l’onda lunga del ’68 europeo (in particolare francese e tedesco)? D. M.: Il lungo Sessantotto italiano ha peculiarità proprie, attraverso le quali si attualizzano secondo una sorta di differenza italiana quelle potenzialità che erano esplose in altro modo a Parigi e Berlino, e secondo proprie differenti strade erano giunte a esaurimento – con modalità tragiche in Germania – mentre in Italia le lotte si allargavano. Le ragioni sono in quegli stessi processi che indichi nella domanda, e che sottendono il modello di sviluppo italiano, che parte da una generale arretratezza nel dopoguerra per giungere a produrre una vera e propria mutazione antropologica non solo nelle forme e nei rapporti di produzione, ma anche dei comportamenti, e addirittura nei corpi, della generazione degli anni Sessanta e Settanta. In secondo luogo, il biennio ’68-’69 non conosce, nonostante la Strage di Stato del 12 dicembre 1969, un punto arresto e di involuzione: in modi complessi, che nel libro cerchiamo di narrare sia dalla prospettiva del lungo periodo, sia da quella evenemenziale, più narrativa e coinvolgente, di alcuni singoli momenti di lotta, il movimento non solo non si ferma, ma avanza, conquista potere nelle fabbriche e nei quartieri, si dota di strumenti comunicativi originali ed efficaci, fino a porsi, all’interno delle lotte e nel contrasto con le nuove forme di produzione – segmentazione, parcellizzazione, fabbrica diffusa sul territorio – questioni che già preludono alla globalizzazione e alla produzione nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia. A.: Le pagine che raccontano le origini di Potere Operaio e il fermento della prima metà degli anni ’60 appaiono lontane, per stile e ritmo, alle pagine dedicate all’Autonomia.Come se una nuova forma di vita imponesse all’io narrante un commiato e un’accelerazione dai vecchi giochi linguistici della sinistra partitica, dal riformismo socialista e dal paradigma keynesiano. Fra i primi ad intuire questa svolta ci fu sicuramente Raniero Panzieri e il gruppo dei Quaderni rossi. Quali furono i limiti di quella esperienza? Cosa produce nella narrazione di Negri il senso di quella accelerazione? D. M.: Come già detto, il Negri dei primi anni Sessanta che partecipa, ultimo arrivato e un po’ intimidito e sulla difensiva, alle riunioni dei “Quaderni Rossi” non è lo stesso Negri degli anni Settanta, della metropoli milanese, di “Rosso” e dell’autonomia diffusa. A dispetto della cronologia che vuole questi periodi vicini, la radicalità degli stili di vita e di militanza degli anni milanesi sembra davvero un’altra epoca. Di conseguenza doveva trovare un linguaggio adeguato, più rapido e frenetico rispetto all’alternanza fra i febbrili viaggi in autostop e la quiete padovana: ma ti assicuro che questo mutamento della narrazione è venuto da sé, prodotto dall’oggetto della narrazione. Quali i limiti dell’esperienza dei “Quaderni Rossi”? Retrospettivamente, io più che di limiti parlerei di una potenza di essere che esprime tutto quel che può. Panzieri e i “Quaderni” hanno rappresentato un momento di rottura formidabile, un coagulo di soggettività e intelligenze di prim’ordine, che è stato per un certo periodo nutrito delle diverse tendenze – quella più “sociologica”, quella più “militante” – che nei “Quaderni” hanno convissuto fin quando è stato possibile. Poi l’accelerazione impressa dalle lotte ha determinato la necessità di una nuova fase – quella di “Classe Operaia”, ma anche del germinare dei circoli di Potere Operaio, nella quale la produzione teorica era ancor più stretta attorno alle pratiche di lotta. Succederà lo stesso anche con “Classe Operaia” e Potop: ogni esperienza, pratica o teorica, giunge prima o poi al proprio limite, e richiede una rottura con le proprie radici, un salto in avanti. A.:Riprendendo i suoi anni da assistente di Filosofia del diritto a Padova, Negri ricorda le proprie conversazioni con Carlo Diano a proposito della «storia segreta della filosofia che viveva in parallelo nella nostra antropologia» (p. 144), di quella tensione insolubile tra forma ed evento, tra passione e ragione all’interno della quale la storia del pensiero si rinnova. La storia della filosofia è per Negri sempre doppia, sempre abitata da questa tensione antagonista, mai riducibile a nessuna dialettica. Contro la lettura di Marx che riporta la soggettivazione della forza lavoro all’uno del politico (il partito, il movimento, la sinistra) Negri si dichiara «agostiniano» (pp. 516-517), interprete di una storia come terreno frastagliato, campo di lotta fra l’agire umano e le forze collettive. In che modo questa posizione del suo io teoretico ha influito sul suo modo di affrontare l’esperienza politica? Perché Negri si distinse da quegli «scolastici» (Tronti, Cacciari e in parte lo stesso Panzieri) che preferirono riportare l’analisi del lavoro vivo all’interno del capitale, attraverso la rievocazione dell’autonomia del politico e del primato della sovranità? D. M.: La pagina in cui, pur con le giuste critiche, Negri ricorda ciò che ha imparato alla scuola di Diano è davvero importante: riguardandola all’indietro, è lì, prima ancora che nel confronto con i testi, nelle polemiche con Cacciari e il suo pensiero negativo, che Negri impara qualcosa di fondamentale che ritroverà poi in Nietzsche, e che costituirà un vaccino preventivo contro le illusioni della dialettica, del continuismo, della bella totalità. Cacciari e Tronti – io terrei da parte Panzieri, anche per riconoscergli l’onestà intellettuale – hanno elaborato costruzioni teoriche sofisticate e complesse, ma il cui scopo era, alla fin fine, giustificare la loro incapacità di uscire dall’ombra del Padre, di rompere con la Casa Madre, con quella sorta di grande Altro che era per loro il Partito (dal quale, peraltro, Tronti non si era mai separato). Nel caso di Tronti, si assiste al paradosso di un pensatore che ha prodotto Operai e capitale, un libro formidabile, il più importante non per una fase, ma per una generazione, per poi passare il resto della sua vita in preda a una specie di senso di colpa per aver nominato – senza praticarlo davvero – il parricidio. Il suo nome nella lista dei senatori cattodem contrari alla legge sulle unioni civili è la logica conseguenza delle sue derive misticheggianti, che vanno a braccetto con l’autonomia del politico – il che non vuol dire che non si provi una immensa pena per l’uomo, nel vederlo in quella compagnia malvagia e scempia. att_343268 La polemica, che Negri rende giocando con le categorie della teologia politica così cara ai due teorici dell’autonomia del politico, era in realtà serissima, e aveva come posta la differenza fra l’intellettuale che ha la radicale ambizione di produrre, pensando con la propria testa, giochi di verità, e l’uomo di partito che si lascia imporre quella posizione profetica che consiste nel dire: ecco quello che bisogna fare, che è beninteso semplicemente quello di aderire al PCI, di fare come il PCI, di essere con il PCI o di votar per il PCI. Quello che il PCI domandava all’intellettuale era di essere l’anello di trasmissione di imperativi intellettuali, morali e politici utili al partito. Sto volutamente usando le parole con le quali Foucault rispose alle falsificazioni che Cacciari disse – o forse fu mandato a dire – contro di lui (e Deleuze-Guattari) nel 1978, e la cui attualità mi sembra ancor oggi innegabile. Ma all’epoca non era solo una questione di giochi di verità contro menzogne di partito, o di chi fosse il vero interprete di Nietzsche: era anche una questione di differenza fra l’autonomia e il servaggio di partito, e fra gli stili di vita e le pratiche militanti che questa differenza comportava. A.: Credi che oggi sia possibile rovesciare, se è tale, l’egemonia degli «scolastici» nel dibattito mainstream su cosa ci sia a sinistra del PD? D. M.: Ciò che c’è a sinistra del PD è spesso difficile da determinare, visto che il PD non cessa di spostarsi sempre più a destra, facendo diventare topologicamente sinistri anche personaggi come Cuperlo e Fassina. Ma non so se il reiterato tentativo di creare un partito o partitino o gruppetto, l’incapacità di pensare al di fuori della forma-partito, e anche della forma-Stato (sia pure in negativo) facendo di questi oggetti dei trascendentali, derivi da una capacità teorica all’altezza del Tronti vintage: la facilità con la quale si scivola sinistramente verso un antieuropeismo a prescindere senza chiedersi cosa significa sedersi, a volte non solo metaforicamente, allo stesso tavolo con i vari Fusaro, Bagnai, Borghi mi sembra eloquente. Insomma, non c’è bisogno di passare per Tronti o Cacciari per scoprirsi togliattiani del terzo millennio, e saltellare ripetendo “tattica, compagni, tattica!”, come il Clarinetto di 1984. Essere a sinistra non ha a che fare con la topografia parlamentare, ma con la capacità di costruzione di resistenze, di coalizioni fra soggetti in lotta, di tumulti – costruzione alla quale, con i miei limiti e con grande modestia, io cerco di partecipare. Rispetto a ciò, in questa Storia di un comunista a noi sembra di aver detto e illustrato qualcosa di utile per quelli che oggi lottano e si ribellano: starà a loro, se lo credono, farne buon uso, e provare a far di meglio. Se accadesse, ne saremmo felici.

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