Renato De Maria – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 07 Jun 2017 07:08:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Passato prossimo. Cinema e media in Italia negli anni Settanta https://www.micciacorta.it/2015/09/passato-prossimo-cinema-e-media-in-italia-negli-anni-settanta/ https://www.micciacorta.it/2015/09/passato-prossimo-cinema-e-media-in-italia-negli-anni-settanta/#respond Mon, 28 Sep 2015 12:52:43 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20477 Catherine O’Rawe con il saggio «Un passato che non passa»: La prima linea e il ritorno degli anni Settanta, nel quale l’autrice prende in esame la fioritura di film sugli anni di piombo in Italia negli ultimi dieci anni, soffermandosi in particolare su La prima linea

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Il fascicolo 572 di «Bianco e Nero» è dedicato al cinema degli anni Settanta, come chiarisce il titolo Passato prossimo. Cinema e media in Italia negli anni Settanta. Dopo il capitolo introduttivo dei curatori del numero – Claudio Bisoni, Paolo Noto e Guglielmo Pescatore – apre “la prima stanza” Guglielmo Pescatore, con il saggio dal titolo La cultura mediale tra consumo e partecipazione. Partendo dai dati di un’indagine della Doxa del 1977 sul consumo cinematografico degli italiani, Pescatore affronta l’argomento del rapporto tra cinema e mass media negli anni Settanta: un periodo nel quale, proprio mentre la questione della massa diveniva fondamentale, i film studies prendevano le distanze dall’approccio sociologico o mediologico (si pensi alla semiologia di Christina Metz o alle teorie del dispositivo di Jean-Louis Baudry e del gruppo dei “Cinéthique” ad esempio), tracciando quindi una netta separazione tra cinema e teoria dei mezzi di comunicazione di massa. Negli anni Settanta, nell’ambito di studi e ricerche, conobbero un forte sviluppo «temi come il funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa, la loro capacità di influenzare il pubblico, la possibilità di partecipazione che offrono ai consumatori»; parallelamente, la riflessione sui mass media fu stimolata dall’affermazione, nella seconda metà del decennio, di prodotti mediali con un forte impatto soprattutto sul pubblico giovanile.  Si tratta di forme seriali come glianime – i cartoni animati giapponesi – e le serie Tv di importazione: «prodotti che contribuiscono a modificare in profondità le abitudini di ascolto». Quanto ai fumetti, in questo campo si assiste alla «diffusione dell’universo Marvel Comics» anche in Italia; ciò comporta nuove modalità narrative e dunque di fruizione da parte de pubblico: «viene abbandonata, come nei cartoon, la logica dell’episodio autonomo, in favore di forme di continuità narrativa complessa […]. Fumetti, cartoni, serie Tv […] hanno in comune una caratteristica: quella di fondarsi a prima vista su un consumo individuale e addirittura solitario, “ma solo apparentemente, perché la macchina garantisce all’individuo la possibilità d’essere un terminale dell’immaginario tecnologico”. [Proprio] questo aspetto […] marca in modo evidente la distanza tra queste forme testuali e il cinema». Quest’ultimo, rispetto ai decenni precedenti, cambia nella misura in cui si affermano «pratiche sempre più parcellizzate e frammentate» e d’altro canto categorie come il genere e l’autore «hanno smesso di funzionare in termini unificanti». «Generi di profondità» come il western all’italiana, il poliziottesco e la commedia erotica «testimoniano di come la frammentazione del consumo cinematografico e non solo […] sia strettamente collegata alla crisi definitiva di quella capacità di mediazione e unificazione sociale che per un ventennio  circa […] aveva caratterizzato il cinema popolare italiano. E anzi l’impossibilità di una riconciliazione, in nome del popolo, della legge o dello Stato, diventa il tema soggiacente alle declinazioni di genere che abbiamo esaminato». L’autore conclude la sua riflessione chiosando che «aspetti caratterizzanti della nostra cultura mediale, come sincretismo e partecipazione […] trovano in quegli anni [Settanta] un antecedente significativo», ma rispetto a simili processi di mutazione il cinema occupa un ruolo marginale, limitandosi a coglierne inconsapevolmente alcuni aspetti nella produzione di genere.

In realtà i cambiamenti più significativi nel periodo di riferimento riguardano più l’uso dei media, cioè le nuove forme di fruizione, che la loro capacità di rappresentazione.

“La prima stanza” prosegue con il saggio che Sandro Bernardi dedica a due film di Marco BellocchioMatti da slegare La macchina cinema: due opere ibride, a metà strada tra finzione e documentario, che propongono un’idea di autore diversa tanto da quella del cinema classico che da quella del cinema documentario.

Nel 1973 Bellocchio risponde alla proposta della Provincia di Parma «di realizzare un film sulla follia e sulle prime iniziative di riforma dei manicomi che avrebbe poi condotto alla famosa legge Basaglia (1978). Col concorso di Silvano AgostiStefano Rulli e Sandro Petraglia, il regista pervenne alla realizzazione di Matti da slegare, in due diverse versioni: una di 200’ ca., che conta tre storie, e un’altra più breve (135’), «più poetica e trasgressiva». Quest’ultima si frammenta in molteplici storie, componendo una sorta di mosaico frammentario e disordinato,  in cui lo spettatore perde il filo e il tempo va avanti e indietro, caoticamente. Nato come documentario sulla follia e la realtà dei manicomi, il film «diventa un’opera diversa e più complessa, un’apertura sull’incertezza anche nel campo stilistico». Nella fattispecie: «si moltiplicano i punti di vista e con essi i soggetti del discorso; il film non ha un narratore, o commentatore, come accade nel documentario classico, ma ne ha parecchi, e fra di loro questi sono discordanti […] saltano le forme di ripresa e di montaggio classico»; vi sono frequenti ellissi e tagli che lasciano il discorso e il senso in sospeso; l’uso del flashforward; ecc. Spesso le figure non si risolvono in personaggi, sfuggono e può accadere di trovare «i discorsi giusti nelle persone inadatte e viceversa […]. Poco a poco il punto di vista del committente (“la follia non esiste”) si ribalta e la cinepresa comincia a scoprire una follia generalizzata». Bellocchio va oltre il portato innovatore del documentario anni Settanta, caratterizzato dal rifiuto della voceover: «lo spettatore non solo ascolta tutte le voci possibili e contrastanti, ma non capisce quasi mai dove si trova e a che punto si trova. Ha informazioni parziali e tronche». Prova ne è la mancanza di establishing shot. «Matti da slegare quindi abbandona il principio della centralità dello spettatore […] come abbandona la linearità temporale». Si tratta in ultima analisi di «un film poetico-sperimentale più che un documentario» e l’incoerenza del narratore che manifesta è quella del mondo. Il discorso stilistico destrutturato che quel film mette in atto prosegue nel successivo La macchina cinema, dello stesso Bellocchio: cinque puntate realizzate per la Rai, dalle quali emerge una «geografia del cinema come dispositivo», (de)composta da «ritratti di autori doloranti e dolorosi», videoartisti e truffatori: «La macchina cinema, non mostra il cinema; fa la stessa cosa che fa il cinema, cattura, spietatamente i sogni e le lacrime di tante vite», senza giudicare, semplicemente mostra.

Culture proto-convergenti: l’esperienza dei cineclub è il saggio in cui Claudio Bisoni prende in esame la stagione d’oro dei cineclub italiani, che va dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Ottanta. Un fenomeno, quello dei cineclub italiani, inscindibile dal complesso di pratiche culturali che gli ruotava attorno, tra festival anti istituzionali, convegni, riviste e altre pubblicazioni a carattere locale. «Dai primi anni Settanta spazi come la Cappella Underground a Trieste, il Filmstory a Genova, e soprattutto il Filmstudio a Roma (dal 1967: il primo dei cineclub stabili privati) diventano i contenitori privilegiati in cui si raccolgono le energie disperse sul territorio. La passione per il cinema trova il suo luogo più proprio». In realtà, rileva Bisoni, «nei cineclub si intrecciano cinefilie diverse»: se una prima direttrice può essere individuata nel «tentativo di riscatto del cinema classico in una prospettiva fortemente engagée sul piano politico-culturale», ve ne sono almeno altre due; quella di una cinefilia «più pura e residuale», nella quale al contrario l’impegno politico non gioca alcun ruolo e quella più aperta alla contaminazione con altri media, che circola anche in altri contesti, come la televisione e i festival. «Tra gli anni Sessanta e Settanta» – chiosa l’autore – «va in crisi il modello di trasmissione culturale di “Cinema Nuovo”. Un modello che si basava su un canone ristretto di capolavori immortali[…]. Al contrario, il lavoro di programmazione dei club richiede […] un catalogo da cui attingere estremamente ampio». In pratica si passa «da un principio di rarefazione a uno di abbondanza: dalla logica del canone alla logica dell’archivio». La cinefilia in questo modo mette in discussione «un’idea di storia del cinema fatta solo per grandi opere e/o autori». Se «i club sono un esempio di cultura partecipativa e convergente ante litteram», la nascita della cinefilia italiana avviene però sulla scorta di un «mutamento del consumo cinematografico», caratterizzato dall’affermarsi di un pubblico giovanile cross-mediale e informato, da un’identità del consumo «mobile e variabile», da una maggiore facilità di accesso ai beni culturali e da un’idea di partecipazione costituita non già da una massa generica, bensì da un’insieme di «più sotto-comunità ristrette di utenti». «Sincretismo e partecipazione sono due linee dominanti nelle evoluzioni culturali dalla seconda parte degli anni Sessanta in poi» e i cineclub ne sono un valido esempio. Bisoni formula l’ipotesi che «le aggregazioni cinefile legate ai cineclub degli anni Settanta […] possano essere lette come un segno di modificazione del concetto tradizionale di comunità […], lo sganciamento da una dimensione di partecipazione più ampia e organica». Sarà questo «uno dei tratti caratterizzanti le odierne logiche di aggregazione identitaria intorno a oggetti e passioni culturali». Se è innegabile che senza la cinefilia «difficilmente i film studies italiani si sarebbero istituzionalizzati dalla seconda metà degli anni Settanta», d’altro canto la figura del cinefilo è sempre più assimilabile a quella di un “tossico asociale”, poiché come quest’ultimo in continuo transito: «dall’utente consumatore solitario al setting tecnico-sociale e ritorno»; «tra atteggiamenti solitari e dinamica comunitaria», in «continuo passaggio da una condizione di attività a una di passività». Parafrasando Metz, Bisoni conclude affermando che il cinema è «una finta macchina socializzante […], non è la massa: è l’individualismo fatto massa».

Nel suo saggio Il basco di Fantozzi. Cultura materiale e commedia italiana, Stefano Baschiera, alla luce degli studi dell’ultimo decennio di Daniel Miller, Alfred Gell e Bruno Latour – che nell’ultimo decennio hanno proposto «un nuovo approccio antropologico al consumismo e allo studio degli oggetti», nella direzione di un superamento della dicotomia soggetto/oggetto – applica questa «teoria degli oggetti» alla commedia italiana degli anni Settanta, nella fattispecie a quella della coppia Luciano Salce-Paolo Villaggio. Alla base di questa concezione degli oggetti c’è l’idea che «le cose che ci circondano […] non distruggono il nostro “essere” ma contribuiscono invece a creare cosa siamo. […] si può facilmente osservare come il genere comico sottolinei spesso l’influenza degli oggetti nelle nostre vite, in particolare quando le cose non funzionano come dovrebbero». Gli oggetti «visti come parte integrante del processo di costruzione dell’identità» sono dunque la specola attraverso la quale l’autore analizza film come Fantozzi (Luciano Salce, 1975), Il secondo tragico Fantozzi (Luciano Salce, 1976) e Il… Belpaese (Luciano Salce, 1977). In essi «la cultura materiale» diviene «il vero centro dello sviluppo comico/narrativo e della creazione del protagonista». Non soltanto perché gli oggetti contribuiscono a creare la maschera comica del personaggio (si pensi al basco che identifica inequivocabilmente Fantozzi), ma anche perché spesso gli abiti «invece di contribuire a integrare il personaggio alle aspettative dello spazio sociale di riferimento […] costituiscono e determinano ulteriormente l’identità del personaggio fantozziano a discapito della situazione circostante». In Il… Belpaese il mondo materiale non solo crea l’identità dei protagonisti del film, ma quella dell’intero Paese, «consegnando agli oggetti un ruolo centrale nella narrazione filmica e nelle nostre vite». In questo senso «I film della coppia Salce-Villaggio […] sono rappresentativi di un cambio di tendenza della commedia verso il mondo dei consumi»; un cambiamento che l’autore registra proprio a partire dagli anni Settanta.

Francesco Di Chiara in Transeuropa. Transnazionalità e identità europea nelle coproduzioni e nel giallo italiano, affronta la sfera della transnazionalità, un fenomeno apparentemente in declino nel corso degli anni Settanta, quando «sia la pratica delle coproduzioni sia il cinema di genere europeo» conoscono una netta contrazione. L’autore mette invece in evidenza come nel decennio di riferimento «si cristallizzino delle pratiche produttive, un’estetica e un modello d’identità sovranazionale che hanno costituito una base da cui ripartire nel contesto degli anni Duemila». Di Chiara si sofferma in particolare sul cosiddetto “giallo italiano”, «un genere transnazionale per definizione, quasi sempre realizzato in coproduzione e spesso imperniato sulla mobilità dei suoi protagonisti». Nei confronti del pubblico nordamericano, rileva ancora l’autore «i prodotti di genere europei tendono […] a enfatizzare  la propria matrice culturale europea e a creare una sorta di identità comune a beneficio dello sguardo dello spettatore nordamericano. Un processo particolarmente evidente nel caso del giallo italiano, uno dei generi degli anni Settanta maggiormente rivolti all’esportazione». Di Chiara si sofferma quindi sul rapporto tra Europa occidentale e orientale, attraverso il caso emblematico de La corta notte delle bambole di vetro (Aldo Lado, 1971), una coproduzione tra Italia, Germania Ovest e Jugoslavia, un giallo appunto, nel quale eccezionalmente trova spazio anche quell’Est europeo solitamente rimosso, «seppure in modo contraddittorio e ambiguo».

La prima stanza prosegue con il contributo di Giovanna Maina e Federico Zecca, che con Le grandi manovre. Gli anni Settanta preparano il porno, individuano nel decennio di riferimento il periodo nel corso del quale, dopo la progressiva erotizzazione della cultura italiana avvenuta nel corso degli anni Sessanta, «la sessualizzazione della mediasfera è stata spinta fino alle sue più estreme (e deteriori?) conseguenze, ovvero fino allo sfondamento della rappresentazione verso i territori dell’hardcore». Gli autori tentano quindi una ricostruzione della progressiva «liberalizzazione mediatica della pornografia», «all’interno del sistema dei media durante gli anni Settanta italiani», partendo dal contesto culturale dell’editoria, già “hardizzata” un po’ prima del cinema “di casa nostra”. Tra il 1972 e il 1975 il mercato della porno-editoria italiana è infatti in costante crescita, nonostante la struttura «poco più che artigianale» delle realtà editoriali del settore. Alla fine degli anni Settanta «la pornografia compie il suo ingresso anche al cinema, beneficiando di un nuovo circuito di sale (ri)convertite ad hoc», i cinema “a luci rosse”. «È possibile segmentare l’evoluzione del cinema hardcore italiano degli anni Settanta in almeno due periodi precipui: un periodo che definiremo “para-pornografico”, caratterizzato primariamente dalla pratica delle versioni hard da esportazione, che si estende dal 1973 (indicativamente) al 1977; e un periodo che chiameremo “proto-pornografico” , ancora caratterizzato dalla subordinazione dell’hardcore al (s)exploitation, che si estende dal 1978 al 1980-1981 (momento in cui la pornografia filmica sembra raggiungere una sua individualità, emancipandosi da qualunque pre-investimento di genere)». È sulla prima di queste due stagioni che si sofferma il saggio, riferendosi alla pratica di introdurre in pellicole di produzione nazionale «inserti porno finalizzati a eccedere i confini della simulazione sessuale di carattere erotico, e a rendere visibile (e concreto) quanto in origine lasciato fuori scena». La liberalizzazione della pornografia sia nell’editoria che nel cinema, alla fine degli anni Settanta, fu certo conseguenza anche dell’«atteggiamento di relativa tolleranza e parziale depenalizzazione» assunto da alcune istituzioni e dall’apertura delle già menzionate “sale a luci rosse”, che cominciano a diffondersi dal 1978.

Giacomo Manzoli in Tradizione letteraria e modernità televisiva: ricezione e fandom del «Sandokan» di Sollima, rispolvera il caso televisivo dello sceneggiato Rai tratto dai romanzi di Salgari: sei puntate trasmesse tra il 6 gennaio e l’8 febbraio 1976, che raggiungendo circa ventisette milioni di telespettatori, rappresentarono il più grande successo della Tv italiana dalla nascita (1954). L’articolo analizza quindi lo sceneggiato dal punto di vista della ricezione popolare e della critica, leggendovi i sintomi di «un mutamento sostanziale nei gusti di un pubblico popolare». Lo sceneggiato girato da Sergio Sollima attivò «uno dei principali fenomeni di merchandising e di fandom televisivi»: si parla in proposito di «Sandokan-mania». Tuttavia non mancarono anche i detrattori della serie, fra i quali spicca Mario Soldati, che dalle pagine de «Il Mondo» lo criticò aspramente. A poco valsero le critiche: Sandokan incontrò una popolarità sempre maggiore, dando luogo a veri e propri fenomeni di «culto di massa» nei confronti dei suoi divi, dal protagonista Kabir Bedi a Carole AndréAdolfo CeliPhilippe Leroy. La potenzialità commerciale del «brand Sandokan» venne immediatamente sfruttata: mentre Rizzoli pubblicizza sui rotocalchi la propria collana di romanzi di Salgari, la colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis schizza al primo posto della hit parade, la Panini vende quindici milioni di bustine di figurine e una vera e propria battaglia editoriale aumenta in modo esponenziale la vendita dei volumi di Salgari, accompagnandola con la pubblicazione di testi più specificamente legati allo sceneggiato. E poi naturalmente giochi, giocattoli e perfino l’abbigliamento, che nelle collezioni di moda 1976/77 degli stilisti più in voga risulta fortemente influenzato dal telefilm. Sandokan, conclude Manzoli, «è uno sceneggiato di avventure di stampo tradizionale, che giustamente utilizza i libri di Salgari come un puro catalogo di personaggi e situazioni per adattarli e modificarli in funzione del proprio contesto di riferimento. Il ritmo del racconto è in gran parte ancora legato alla concezione della narrativa televisiva dell’epoca, pertanto soggetto a rallentamenti impensabili e con una netta distinzione tra momenti d’azione (con conseguenti accelerazioni) e momenti riflessivi e recitativi». C’è di più: secondo una linea interpretativa ampiamente diffusa «lo sceneggiato non faceva che affidare l’efficacia della propria presa narrativa (identificazione) sulla trasposizione mitica di figure esistenti». Esso parlava al pubblico «di modernità, scenari diversi e meno angusti, alternative possibili, per quanto evasive», in un momento in cui «la televisione […] era letteralmente prigioniera di un palinsesto che sarebbe esploso di lì a poco e che nulla aveva a che vedere con il ritratto che la stampa implicitamente fornisce di un società in totale fermento».

L’intervento di Laura Ester Sangalli è dedicato all’animazione seriale giapponese, che a metà anni Settanta fa il suo trionfale ingresso nella televisione italiana. La legge 103 del 1975 portò infatti alla fine del monopolio della televisione di Stato; ne derivò il proliferare delle emittenti private, che si trovarono a dover riempire rapidamente e in modo economico interi palinsesti: «la ricerca di programmi a costo contenuto, seriali e di rapida produzione, divenne, ovviamente, una priorità delle nuove televisioni, che trovarono nei film americani, nelle telenovelas sudamericane e nei cartoni animati giapponesi il bacino ideale da cui attingere. In particolare il cartone animato di matrice nipponica cominciò ad essere massicciamente importato nell’ordine di centinaia di serie nel giro di pochi anni». Rispetto ai cartoni animati americani e italiani, quelli giapponesi veicolavano consistenti innovazioni sia dal punto di vista delle tecniche di realizzazione che del racconto, puntando su grafica, regia e montaggio per sopperire al minor numero di disegni al secondo e optando per uno svolgimento narrativo secondo puntate non autoconclusive. Inoltre i cartoni animati nipponici mettevano in scena anche momenti drammatici, rappresentando dunque una forma narrativa destinata pur sempre a un pubblico giovane, ma più matura, andando ad inserirsi di fatto in un vuoto televisivo italiano: quello dell’intrattenimento per la fascia di età che comprende la tarda infanzia e la prima adolescenza. Il portato innovativo della nuova programmazione divise nettamente l’opinione pubblica, fra detrattori – che giudicavano i cartoni animati d’importazione giapponese diseducativi – e sostenitori, che alimentavano il mercato dei gadget e giocattoli che ruotava intorno al prodotto televisivo (dal 45 giri con la sigla del cartone animato, ai modellini dei personaggi, eccc.): veri e propri status symbol di appartenenza al gruppo dei fan della serie e al tempo stesso elemento di fidelizzazione a essa stessa. L’autrice sottolinea come l’avvento del cartone animato giapponese in Italia s’inserisca nella rivoluzione che portò dalla paleotelevisione alla neotelevisione e che «si legava indissolubilmente al progresso tecnologico, alla ridefinizione dei consumi e delle esperienze di visione, che imponevano a loro volta una rielaborazione dell’assetto dell’industria culturale nazionale».

Oggetto del saggio di Paolo Noto è il fenomeno della nascita delle radio in FM nel nostro Paese negli anni Settanta, quando «nella sostanziale assenza di un quadro normativo» migliaia di emittenti private a carattere locale si diffondono su tutto il territorio nazionale. In  Antenne che si vedono. Nascita della radio in FM e cultura partecipativa, l’autore sfata falsi miti come quello per cui, citando Peppino Ortoleva: «contrariamente a quanto molti pensano, o credono di ricordare, solo una minoranza di emittenti ebbe finalità e caratteristiche esplicitamente politiche» ed è dunque quantomeno discutibile «la persistente associazione mentale tra radio libere e radio “di movimento”». Se l’espressione «radio libera» veniva usata con parsimonia nei dibattiti dell’epoca, quella di “partecipazione” ricorreva spesso, quale «elemento nuovo e specifico della radio dei primi anni Settanta». Ne è un chiaro esempio la trasmissioneChiamate Roma 3131, durante la quale gli ascoltatori erano invitati a telefonare. «L’associazione tra radio, telefono e dimensione locale è […] il fatto veramente rivoluzionario, che permette di “passare da un modello di comunicazione unidirezionale a un modello di comunicazione circolare, tipico della dimensione partecipativa». Inoltre la radio a partire dagli anni Settanta si configura sempre più come uno «strumento di distribuzione, velocissimo e infinito», un mezzo da usare e da vedere, oltre che ascoltare. La visibilità della radio sulla quale insiste Noto è da intendersi in senso letterale: perché «le trasmissioni in modulazione di frequenza possono essere ricevute solo da apparecchi che “vedono” la fonte di emissione», perché visibili sono le antenne sui tetti e perché la prossimità con gli ascoltatori delle emittenti locali comporta la possibilità di parteciparne agli eventi e visitare gli studi. Più in generale la radio in Italia a partire dalla nascita delle emittenti private in FM acquisisce la «capacità di saturare canali sensoriali diversi da quello elettivo». Concludendo, l’autore invita ad accantonare «quel radicato pregiudizio che appiattisce ogni interpretazione degli anni Settanta esclusivamente sul versante politico-ideologico».

Chiude “la prima stanza” Catherine O’Rawe con il saggio «Un passato che non passa»: La prima linea e il ritorno degli anni Settanta, nel quale l’autrice prende in esame la fioritura di film sugli anni di piombo in Italia negli ultimi dieci anni, soffermandosi in particolare su La prima linea (Renato De Maria, 2009), un film che «recupera gli eventi storici del periodo che descrive attraverso un uso complesso del materiale d’archivio». Tratto dal libro autobiografico di Sergio Segio (uno dei leader del movimento Prima linea), Miccia corta, il film si svolge attraverso una complicata serie di flashback, mescolando immagini di fiction e filmati di repertorio di manifestazioni e stragi terroristiche. L’uso di immagini di archivio è da intendersi come teso all’«astrazione [degli eventi storici] come “fotogrammi”». Spesso nel film i personaggi assistono ad essi attraverso la televisione; è questo un espediente narrativo cui hanno attinto vari film sugli anni di piombo: si tratta di «una scelta narrativa che enfatizza la natura già mediatizzata di quegli eventi e che rimanda anche ai temi della temporalità e della memoria». De Maria ha poi chiarito che «l’uso del “lavoro di documentazione” è funzionale a evitare l’“identificazione” con i protagonisti del film», per una ricostruzione neutrale dei fatti, parimenti all’impiego della voce narrante, che ha invece suscitato la reazione delle associazioni delle vittime. «La possibilità di riempire quel buco storiografico e la restituzione della storia maledetta degli anni Settanta alla memoria collettiva possono darsi, almeno così pare, solo attraverso il ricorso all’archivio, sintomo e cura insieme per la “maledizione” degli anni Settanta». L’uso delle immagini di repertorio in La prima linea per l’autrice è il segno «del trauma invisibile del terrorismo, un trauma che può essere rappresentato e “curato” solo attraverso quelle immagini stesse».

Unico intervento della sezione “mappe”, che chiude questo numero di «Bianco e Nero», è Il mockumentary: quando le estetiche documentarie diventano stile cinematografico, di Cristina Formenti, dedicato a quelle pellicole che «si propongono allo spettatore come documentari per tutto l’arco della propria durata, ma che in realtà raccontano vicende immaginarie, frutto della fantasia di uno sceneggiatore». L’autrice ne traccia un breve profilo storico: dal radiodramma War of the Worlds (La guerra dei mondi), realizzato nel 1939 da Orson Welles, a un più sistematico impiego di questa «modalità narrativa», «a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta». Il mockumentary, sottolinea Formenti, si delinea come «una forma di racconto trasversale a più media»: dalla radio al cinema, al web e al piccolo schermo; ma è anche una forma narrativa che attraversa più generi: horror, sentimentale, di fantascienza, biografico, ecc. Minimo comun denominatore di una congerie di pellicole tanto diverse sono due tratti salienti: «da un lato, la scelta di ricorrere alle estetiche documentarie per raccontare vicende immaginarie e, dall’altro, l’inserimento d’indizi volti a segnalarne la natura fittizia». Secondo l’autrice nel caso del mockumentary è più corretto parlare di “stile narrativo”, dal momento che si tratta di una pratica che sfugge sia alla definizione di sottogenere del documentario che a quella di genere cinematografico e che comprende una serie di prodotti eterogenei. Per stile è da intendersi «scarto, variazione, differenza rispetto un modello comune», secondo la definizione di Antoine Compagnon, dove il modello è in questo caso quello del cinema classico hollywoodiano, cui il mockumentary si contrappone. Oggi lo “stile mockumentary” s’inserisce nel quadro più ampio della sempre più insistente domanda di «racconti “reali” propria della società moderna», della quale è prova la «proliferazione di reality show e affini».

di Elisa Uffreduzzi

Bianco e Nero, a. LXXIII, n.572, gennaio-aprile 2012
Rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia – edizioni del CSC
a. LXXIII, n.572, gennaio-aprile 2012, € 18,00

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Il film La prima linea. La censura democratica https://www.micciacorta.it/2015/03/il-film-la-prima-linea-la-censura-democratica/ https://www.micciacorta.it/2015/03/il-film-la-prima-linea-la-censura-democratica/#respond Sat, 21 Mar 2015 16:01:59 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18993 l'introduzione di Sergio Segio alla seconda edizione del suo libro Miccia corta. Una storia di Prima linea, uscita nell'ottobre 2009

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«Oltre quattro anni fa, licenziando questo libro, ho provato una sensazione di soddisfazione: quella di aver portato a termine ciò che si ritiene un proprio dovere, un impegno morale. Il dovere era quello della memoria. L’impegno era riferito a una storia collettiva, troppo spesso negata, rimossa o mistificata. Talvolta anche da chi l’ha vissuta in prima persona».

Comincia così l’introduzione di Sergio Segio alla edizione del suo libro Miccia corta. Una storia di Prima linea, uscita nell’ottobre 2009, per le edizioni di DeriveApprodi.

Nella nuova introduzione, l’autore riepiloga e documenta la vicenda del film La Prima Linea, assai liberamente tratto dal suo libro, ma fortemente condizionato da polemiche, censure e autocensure da parte di sceneggiatori, regia e produzione, tanto da spingere Segio a non riconoscerlo e a prendere le distanze:

«Il film La prima linea è stato sottoposto a pressioni, intimidazioni e censure che non sarebbero state tollerate in nessun altro paese democratico. Perché, ormai, si vuole sia questa la Storia, l’unica storia da raccontare di quegli anni: quella che dice della ferocia e dell’esclusiva responsabilità delle organizzazioni armate di sinistra. Così che tutti continuino a guardare il dito, dimenticandosi della luna, vale a dire degli “armadi della vergogna” e della realpolitik delle istituzioni e dei governi della Prima Repubblica. Armadi ben altrimenti zeppi di scheletri. E così che Scamarcio, nel film, possa infine assumersi la totalità degli errori e delle responsabilità, che andrebbero invece assai largamente condivise.
Come quasi sempre nella storia, il rancore e la vendetta esigono personificazione, capri espiatori, figure simboliche da mandare al rogo, o almeno al linciaggio morale, se non a quello fisico. È quello che è successo e che sta succedendo», conclude l’introduzione.

Scarica il file dell’introduzione

Segio-introduzione-miccia-corta-2a

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Prison movies. Il film di Renato De Maria tratto dal libro Miccia corta https://www.micciacorta.it/2010/10/prison-movies-il-film-di-renato-de-maria-tratto-da-miccia-corta/ https://www.micciacorta.it/2010/10/prison-movies-il-film-di-renato-de-maria-tratto-da-miccia-corta/#respond Mon, 11 Oct 2010 07:40:38 +0000 http://localhost:8888/?p=1661 In Italia è proibito discutere di “anni di piombo”. A meno che non si concorra a sedimentare le verità  ufficiali - spesso limitate e parziali, e talvolta fuorvianti - per come consacrate nelle sentenze giudiziarie.

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(da “Antigone”, quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, n.2/2008)

 «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato» (George Orwell)

In Italia è proibito discutere di “anni di piombo”. A meno che non si concorra a sedimentare le verità  ufficiali – spesso limitate e parziali, e talvolta fuorvianti –  per come consacrate nelle sentenze giudiziarie. Ciò avviene per diversi motivi. Il principale è quello indicato da Manlio Milani, presidente dell’associazione delle vittime della strage di Piazza della Loggia: quando si parla di “anni di piombo” ci si riferisce solo alla lotta armata e agli attentati fatti da organizzazioni di sinistra. Il secondo motivo è conseguente: nell’opinione pubblica e nell’informazione diffusa (ma anche a livello della politica e della cultura) si è costruita ad arte e sedimentata un’indignazione a senso unico contro gli ex terroristi e gli eversori di sinistra. Quelli di destra, dal leader dei “Boia chi molla” della rivolta di Reggio Calabria Ciccio Franco allo stragista Nico Azzi, sono stati invece onorati e celebrati da istituzioni ed esponenti di governo.

Questo non è stato un processo casuale e innocente, ma l’esito di una precisa regia e intenzione: quella di rimuovere la memoria delle responsabilità statali, nazionali e internazionali, nella strategia della tensione e dello stragismo e di lasciarne impuniti gli autori. E, allo stesso tempo, di assoluzione reciproca (e analogo processo di rimozione e revisione storica) da parte dei due grandi partiti che hanno dominato la scena politica nella Prima Repubblica: la Democrazia cristiana e il Partito comunista, entrambi responsabili, nel quadro della Guerra fredda, di illegalità di vario genere, oltre che di complicità e collateralismo con i veri grandi crimini del Novecento, dallo sterminio degli oppositori al regime stalinista ai sanguinari golpe militari in paesi europei e dell’America latina, agli eccidi operati dai sistemi coloniali in Africa.

Sul piano morale va affermato che anche una singola uccisione per ragioni di odio e violenza politica costituisce un’uccisione di troppo. Sul piano storico andrebbe conservato un senso delle proporzioni, una capacità di analisi e ancor prima una memoria non selettiva, non a senso unico. Così non è, tanto che un editorialista può scrivere in riferimento a Erich Priebke: «Posso dire, senza suscitare scandalo, che quest’uccisore di ostaggi m’ispira meno disgusto dei terroristi italiani» (Il Giornale, 12 febbraio 2004). Appunto: senza suscitare scandalo né registrare voci di dissenso.

Una memoria tesa a uno sforzo di obiettività, non utilizzata come clava o manganello, oggi pare decisamente impraticabile e avversata. Specie se a proporla ? ovviamente come contributo, senza pretese di esaustività o di verità assolute ? è un ex militante della lotta armata. L’ostracismo nei confronti di questa “categoria” di persone ha raggiunto livelli impressionanti. Decisamente superiori a quelli dei processi di epurazione avvenuti nei confronti dei fascisti negli anni successivi alla Liberazione.

Così oggi assistiamo a un coro pressoché unanime di critiche nei confronti della Francia per la decisione umanitaria assunta verso l’ex Br Marina Petrella. Due gli argomenti usati: viene detto che anche l’Italia garantirebbe la vita e la cura dei detenuti, dimenticando, ad esempio, i militanti Gianfranco Faina e Fabrizio Pelli, a suo tempo lasciati morire dietro lo sbarre oppure ricoverati solo pochi giorni prima del decesso, o fingendo di non vedere le decine di suicidi e di morti evitabili che accadono ogni anno anche nelle prigioni italiane. Si dice poi che prima della clemenza deve avvenire l’espiazione. Eppure, non sono minori le avversità e gli ostracismi verso chi ha scontato per intero le condanne ricevute. In questi casi, viene detto che pagare non basta. Occorre tacere (e camminare a capo chino e in punta di piedi, come aggiungono i responsabili di “Ristretti orizzonti”, e strisciare lungo i muri, come Marco Travaglio vorrebbe facesse Adriano Sofri).

Ecco, la vera questione: il silenzio. Per scelta o per costrizione. Per pudore o per forza. Perché «non si è mai ex assassini». Perché la pena non abbia mai fine.

Ma dietro la voglia di gogna infinita e di “ergastolo bianco” traspare in realtà una finalità indicibile ma tenacemente perseguita: consegnare alla storia e alla memoria collettiva solo le verità ufficiali su quegli anni. Zittire ogni dubbio e qualsiasi diversa interpretazione. Togliere ogni spazio a ricordi diversi, negare legittimità a qualsiasi voce dei vinti.

Tutto ciò è alla base delle polemiche e delle censure nei confronti del film “Miccia corta”, tratto dall’omonimo libro da me pubblicato nel 2005.

La scorsa estate il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha decretato che qualsiasi progetto di film sul terrorismo debba essere sottoposto al vaglio preventivo delle associazioni delle vittime. Un salto di qualità nella strategia di cui sopra e una decisione senza precedenti in Italia e addirittura incomprensibile negli altri paesi.

Fatto sta che nel mese di settembre, la competente Commissione ministeriale ha convocato diverse associazioni di famigliari delle vittime (del terrorismo, ma anche delle stragi e persino di quelle di mafia) per chiedere un parere su “Miccia corta”, peraltro non conoscendo neppure il copione. Associazioni e famigliari che hanno assunto al riguardo posizioni differenziate e che in qualche caso, a disagio per un’ennesima strumentalizzazione politica del loro dolore, hanno anche rifiutato l’audizione.

Essendo spiacevole (oltre che anch’esso segno dei tempi) doversi difendere da solo, consegno la cronaca della vicenda alle parole di un editoriale de “Il Riformista”, unico a prendere posizione: «Sdegnati articoli in prima pagina, pesanti pressioni politiche su alcuni degli esperti, lettere delle associazioni delle vittime, il ministro Bondi che annuncia giri di vite. Come meravigliarsi se alla fine “La prima linea”, già “Miccia corta”, il film che Renato De Maria intende liberamente trarre dal libro di Sergio Segio, non ha avuto via libera dalla commissione ministeriale incaricata di valutare i progetti “di interesse culturale nazionale”? Poteva andare peggio. Meglio un “rinvio tecnico” a dicembre che la bocciatura assoluta. Perché l’aria era quella, nonostante l’alto punteggio sul fronte artistico-produttivo. Non sono bastati nemmeno i ritocchi alla sceneggiatura introdotti dopo l’incontro con le associazioni delle vittime; il titolo cambiato per non fare pubblicità al libro; la rimozione di una scritta sui titoli di testa; l’introduzione di personaggi di fantasia per chiarire lo scontro ideologico; il riferimento diretto all’omicidio del giudice Alessandrini, eccetera. Fa un po’ sorridere, pur nel tentativo di salvare capre e cavoli, la motivazione adottata dalla commissione, là dove si chiede che “dall’esame definitivo del progetto emerga in maniera chiara ed inequivocabile (…) una netta condanna di questo fenomeno criminale”, cioè del brigatismo rosso e affini. Ci mancherebbe. Magari, sbollita la tensione mediatica, il film passerà pure. Resta il tema di fondo».

Il tema di fondo non è solo il dibattito, la possibilità di confronto e la riflessione storica su quegli anni, né tanto meno le sorti di quel film o il fatto che il sistema di produzione cinematografica in Italia sia reso volutamente dipendente dai finanziamenti pubblici, e dunque dai condizionamenti politici.

Il punto vero è che in questo paese è stato introdotto un pericoloso precedente dal punto di vista della libertà di espressione artistica, intellettuale, culturale e anche politica (chissà, magari per il prossimo film sui morti della ThyssenKrupp si imporrà il gradimento preventivo di Confindustria). E che lo si è fatto nella più totale assenza di reazioni critiche: ha taciuto il mondo del cinema e della cultura; hanno taciuto intellettuali e opinionisti; ha taciuto la politica e l’opposizione parlamentare; sono rimaste zitte e distratte le associazioni e i movimenti. Muti i giornalisti e i commentatori (tranne la suddetta preziosa eccezione); compresi quelli di sinistra, tradizionalmente attenti alle libertà civili e agli spazi democratici. Non una riga su “Liberazione”; cinque righe cinque, sommarie di cronaca e con nomi storpiati, su “il manifesto”.

Il problema, allora, non è solo che in Italia sia stato introdotto il Minculpop, come ha titolato “Il Riformista”. È che, a quanto pare, non se ne è accorto nessuno. Dunque significa che esso funziona già benissimo.

P.S.: Il 19 dicembre la Commissione ministeriale ha infine deliberato positivamente circa il co-finanziamento del film, prudentemente rititolato. Secondo quanto riferito dai quotidiani (ma anche riportato dai verbali della Commissione ministeriale, cfr. http://www.cinema.beniculturali.it/news/2009/Dossier_la_prima_linea/3all_3.pdf, ha però imposto “mille paletti” e “condizioni draconiane”. Le uniche osservazioni critiche ? anche se motivate solo da un’ottica liberista ? a tali inedite ingerenze sono venute dal vicedirettore del Corriere della Sera, Pierluigi Battista: «Le sovvenzioni arriveranno, ma solo a certe condizioni. Il copione sarà approvato, ma solo sotto stretta sorveglianza e previo parere dei parenti delle vittime del terrorismo. Altrimenti niente, il film non esce, non si produce, non si fa […]. Lo Stato che si arroga la titolarità della manipolazione persino dei copioni e addirittura della scelta del casting è del resto solo la manifestazione compiuta del baratro culturale in cui è precipitato un cinema che si è autoimposto il finanziamento pubblico come unico ed esclusivo standard per misurare il proprio stato di salute».

P.P.S.: Di fronte a un nuovo ciclo di polemiche innescate dal Corriere della Sera con una serie di articoli e dagli attacchi del magistrato Armando Spataro, la Commissione ministeriale è intervenuta con un nuovo comunicato stampa, datato 5 marzo 2009. Nel testo si legge: «Lo scorso 19 settembre queste associazioni [quelle dei familiari delle vittime del terrorismo, delle stragi e della mafia, ndr] hanno potuto esprimere il proprio parere riguardo la sceneggiatura di “La Prima Linea” in una seduta straordinaria assieme agli autori e alla produzione. Solo in seguito alle sostanziali modifiche apportate alla sceneggiatura avvenute sulla base di tale parere la Commissione ne ha approvato il finanziamento, ritenendo che essa non costituisce apologia del fenomeno del terrorismo, non lo giustifica e non nega le responsabilità politiche, morali e giudiziarie dei protagonisti. La Commissione ha vincolato la concessione del riconoscimento di interesse culturale e del contributo finanziario a rigorose condizioni: ogni variazione apportata dovrà essere tempestivamente comunicata alla Direzione Generale per il Cinema per essere sottoposta all’approvazione della Commissione, la copia campione sarà visionata al fine di stabilire la sostanziale conformità al progetto approvato, la produzione non potrà utilizzare nella fase di promozione del film nessuno dei protagonisti reali della vicenda e alcun provento del film potrà essere loro devoluto. […]

Pertanto se la copia campione del film prima dell’uscita in sala si dovesse distanziare da quanto approvato, rivelandosi un’opera apologetica del terrorismo, il relativo contributo verrebbe ritirato.

Si vuole, insomma, che il film venga girato “a comando”, con la libertà artistica legata al guinzaglio e minacciata di rappresaglia. Almeno ai tempi di McCarthy, c’era un movimento di opposizione alle persecuzioni e ai bavagli. Ora, che la censura si è fatta democratica e bipartisan, tutto tace e tutto va bene. Viva l’Italia.

Leggi l’introduzione integrale di Sergio Segio alla seconda edizione del libro Miccia corta, nella quale l’autore prende decisamente le distanza dal film “La Prima Linea” diretto dal regista Renato De Maria

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Note dell’autore alla edizione del 2009

 

Un’occasione perduta

 

Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato (George Orwell)

 

Il potere ti tira la barba e i capelli, finché non reagisci. Perché quando reagisci con violenza sa sempre come fotterti (John Lennon)

 

Oltre quattro anni fa, licenziando questo libro, ho provato una sensazione liberatoria: quella di aver portato a termine ciò che si ritiene un proprio dovere, un impegno morale. Non tanto riguardo me stesso: ho fatto da tempo i conti con la mia coscienza, e anche con l’orgoglio; conti talvolta più dolorosi di quelli giudiziari. Non ho nulla da difendere se non, appunto, l’impegno di verità e memoria verso una storia collettiva negata, rimossa o mistificata. Sempre più spesso anche da chi l’ha vissuta in prima persona.

Quando, nel 2006, il regista Renato De Maria mi contattò per propormi di costruire un film a partire da questo libro il sentimento prevalente fu quello della preoccupazione: mi rendevo conto benissimo di quanti attacchi personali e polemiche astiose ciò avrebbe provocato.

D’altro canto, il “ritmo” cinematografico è quello che – da molti punti di vista – ritenevo e ritengo maggiormente adatto a raccontare la vicenda che sta al centro di Miccia corta e, più in generale, la storia degli anni Settanta, bruciati veloci. Come una miccia corta, appunto. In questo senso, l’assalto al carcere di Rovigo, che costituisce il cuore narrativo di queste pagine, non ha solo il sapore crepuscolare di una storia che volge consapevolmente al termine: ha anche la valenza paradigmatica dello scialo di vita, della gioventù e dei sogni che consumano rapidi, senza risparmio e senza cautele.

Dunque il progetto filmico mi apparve come un’occasione, rischiosa ma preziosa, di portare un nuovo contributo alla riflessione pubblica su quegli anni e quelle vicende, che a tutt’oggi costituiscono un passato che non passa, una ferita slabbrata e infetta.

Ciò che non avevo del tutto previsto, nella mia ritrovata – e un po’ ingenua – fiducia nella democrazia, era che il film avrebbe dato luogo, oltre che a un mio linciaggio quotidiano a mezzo stampa, a una vera e propria operazione censoria, con ricorrenti tentativi di impedirne la realizzazione, sino all’inaugurazione di quello che è stato definito un novello Minculpop di ventenniana memoria.

Persino il Capo dello Stato è sembrato voler intervenire al riguardo. Nel discorso ufficiale alla cerimonia del “Giorno della Memoria” dedicato alle vittime del terrorismo, il 9 maggio 2009, Giorgio Napolitano ha detto: «Si sono ancora verificati episodi che non posso passare sotto silenzio. Ad esempio, è possibile che a serie e oneste ricostruzioni filmiche […] della genesi e dello sviluppo, fino alla sconfitta, del terrorismo “di sinistra”, debbano affiancarsi ricostruzioni basate su memorie romanticheggianti e autogiustificative di personaggi che ebbero parte attiva in quella stagione sciagurata?».

Tutto ciò a film ancora in gestazione, senza che nessuno lo avesse visto o ne avesse letta la sceneggiatura. L’uscita di Napolitano venne prontamente raccolta ed enfatizzata da un unico quotidiano, “La Stampa”, ma ottenne l’effetto di riallineare tutta la politica e tutto – senza eccezioni − il mondo dei media e dell’informazione attorno alla parola d’ordine lanciata sempre da Napolitano un anno prima: gli ex terroristi – da lui definiti «figuri» – non devono parlare.

Come si vede, a distanza di oltre trent’anni, alcuni esponenti dell’ex Partito comunista italiano insistono non solo nella demonizzazione ma anche nel tentativo di snaturamento dell’identità di quel fenomeno e di quei militanti: allora usavano dire «sedicenti rossi», ora mettono «di sinistra» tra virgolette. Il senso e l’intenzione sono gli stessi. Negare a priori, e con inalterata animosità, all’avversario la sua identità e la buonafede. Con il risultato, anche, di trasformarlo in nemico da zittire e mistificare (una cultura nefasta che era appartenuta sino in fondo anche a noi, che la avevamo anzi portata a estreme e tragiche conseguenze). Così che, ancora oggi, non si può dire e raccontare che le Brigate rosse sono nate nelle sezioni del PCI di Reggio Emilia e del Giambellino a Milano (come ha provato a fare il film Il sol dell’avvenire, di Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone, ricavandone perciò pesanti attacchi; al proposito, si veda qui la postfazione di Cristina Piccino e Roberto Silvestri) e che Prima linea ha avuto le sue radici nelle fabbriche e nelle scuole di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, e dell’hinterland milanese. Neppure si può dire e raccontare che, in certe fasi, la lotta armata è stata una proposta politica che ha visto un consenso allargato e un seguito consistente con decine di migliaia di militanti e di simpatizzanti, non un microcosmo criminale, come ora, di falsificazione in falsificazione, si sostiene. E se qualcuno tutto ciò prova egualmente ad affermarlo e ad argomentarlo, gli vanno costruiti attorno un muro di silenzio e una camicia di forza di intimidazione.

Se poi prova a farci un film con ambizioni di diffusa distribuzione, allora si passa alla censura aperta.

La definizione di Minculpop, coniata da un quotidiano riguardo la vicenda del film ispirato a Miccia corta, non è per nulla esagerata. In maniera bipartisan, esponenti politici di entrambi gli schieramenti, ausiliati dai media, e in particolar modo dal “Corriere della Sera”, hanno fatto a gara nell’attaccare il progetto di film. Alla lapidazione preventiva si è prestato – oltre ai soliti Spataro e Caselli e a personaggi come il generale USA James Lee Dozier, già veterano del Vietnam (qualcuno si ricorda ancora di quel genocidio?) – persino un editorialista di vaglia come Claudio Magris.

Ma forse il dato più impressionante e ancor più inedito è stata la totale assenza di reazioni alla crociata censoria: non un regista, non un critico, non un politico, non un intellettuale hanno ritenuto di prendere parola contro quello che – al di là del film stesso e delle sue caratteristiche – obiettivamente si presentava come un provvedimento liberticida, come un grave precedente contro la libertà artistica e d’espressione.

La minacciosa procedura disposta dal ministro dei Beni culturali, che ha accompagnato lo sviluppo del progetto filmico, non ha in effetti precedenti in nessun paese, quanto meno in quelli a regime democratico.

Basti leggerne una sintetica cronaca fatta in quei giorni dall’unico quotidiano che ha seguito criticamente la vicenda: «Sdegnati articoli in prima pagina, pesanti pressioni politiche su alcuni degli esperti, lettere delle associazioni delle vittime, il ministro Bondi che annuncia giri di vite. Come meravigliarsi se alla fine “La prima linea”, già “Miccia corta”, il film che Renato De Maria intende liberamente trarre dal libro di Sergio Segio, non ha avuto via libera dalla commissione ministeriale incaricata di valutare i progetti “di interesse culturale nazionale”? […] Non sono bastati nemmeno i ritocchi alla sceneggiatura introdotti dopo l’incontro con le associazioni delle vittime; il titolo cambiato per non fare pubblicità al libro; la rimozione di una scritta sui titoli di testa; l’introduzione di personaggi di fantasia per chiarire lo scontro ideologico; il riferimento diretto all’omicidio del giudice Alessandrini, eccetera. Fa un po’ sorridere, pur nel tentativo di salvare capre e cavoli, la motivazione adottata dalla commissione, là dove si chiede che “dall’esame definitivo del progetto emerga in maniera chiara ed inequivocabile […] una netta condanna di questo fenomeno criminale”, cioè del brigatismo rosso e affini. Ci mancherebbe. Magari, sbollita la tensione mediatica, il film passerà pure. Resta il tema di fondo»[1].

Il film, in effetti, nonostante tutto ha visto la luce. Ma a pesanti prezzi e con inevitabili condizionamenti sui contenuti, come emerge con evidenza dal verbale della seduta in cui la Commissione ministeriale ha audito le associazioni della vittime, assieme a regista, sceneggiatore e produttore del film[2].

Nel corso della gestazione del progetto, le uniche osservazioni critiche − anche se motivate solo da un’ottica liberista − a tali ingerenze sono venute da Pierluigi Battista: «Le sovvenzioni arriveranno, ma solo a certe condizioni. Il copione sarà approvato, ma solo sotto stretta sorveglianza e previo parere dei parenti delle vittime del terrorismo. Altrimenti niente, il film non esce, non si produce, non si fa […]. Lo Stato che si arroga la titolarità della manipolazione persino dei copioni e addirittura della scelta del casting è del resto solo la manifestazione compiuta del baratro culturale in cui è precipitato un cinema che si è autoimposto il finanziamento pubblico come unico ed esclusivo standard per misurare il proprio stato di salute»[3].

Di fronte a un nuovo ciclo di polemiche innescate dal “Corriere della Sera” con una serie di articoli e dagli attacchi del magistrato Armando Spataro, la Commissione ministeriale è infine intervenuta con un nuovo comunicato stampa, datato 5 marzo 2009. Nel testo si legge: «Lo scorso 19 settembre queste associazioni [quelle dei familiari delle vittime del terrorismo, delle stragi e persino della mafia, convocate e audite dal ministero, ndr] hanno potuto esprimere il proprio parere riguardo la sceneggiatura di La Prima Linea in una seduta straordinaria assieme agli autori e alla produzione. Solo in seguito alle sostanziali modifiche apportate alla sceneggiatura avvenute sulla base di tale parere la Commissione ne ha approvato il finanziamento, ritenendo che essa non costituisce apologia del fenomeno del terrorismo, non lo giustifica e non nega le responsabilità politiche, morali e giudiziarie dei protagonisti. La Commissione ha vincolato la concessione del riconoscimento di interesse culturale e del contributo finanziario a rigorose condizioni: ogni variazione apportata dovrà essere tempestivamente comunicata alla Direzione Generale per il Cinema per essere sottoposta all’approvazione della Commissione, la copia campione sarà visionata al fine di stabilire la sostanziale conformità al progetto approvato, la produzione non potrà utilizzare nella fase di promozione del film nessuno dei protagonisti reali della vicenda e alcun provento del film potrà essere loro devoluto. […]. Pertanto se la copia campione del film prima dell’uscita in sala si dovesse distanziare da quanto approvato, rivelandosi un’opera apologetica del terrorismo, il relativo contributo verrebbe ritirato».

Si sono insomma imposte condizioni e paletti affinché il film venga scritto e girato “a comando”, con la libertà artistica legata al guinzaglio e minacciata di rappresaglia economica, con un meccanismo degno dei tempi di McCarthy. Ma, allora, c’era se non altro un movimento di opposizione alle persecuzioni e ai bavagli. Ora, che la censura si è fatta democratica e bipartisan, tutto tace e tutto va bene.

Giudicheranno gli spettatori del film se e quanto gli effetti di queste continue pressioni e degli infiniti vincoli – di fronte ai quali nulla hanno eccepito regista e produttore, accettandoli in silenzio – sono rintracciabili nel prodotto finale.

Per parte mia, ho ricavato il giudizio che il film La prima linea, assai liberamente ispirato a questo libro, ne tradisce una caratteristica fondamentale: quella che riassume l’albero genealogico, i riferimenti ideologici, culturali, le famiglie di provenienza, le motivazioni, le aspirazioni, per quanto infine pervertite dalle pratiche. Con il rischio che si tratteggi un Romanzo criminale, anziché fornire necessari elementi di lettura, comprensione e contestualizzazione su quello che è stato, comunque, un fenomeno dalla radice politica e sociale.

Anche in questo film – il che mi appare paradossale e beffardo – la verità ufficiale, resa orwellianamente indiscutibile, ci ha invece reso orfani. Meglio: figli di NN, come era scritto una volta nei documenti anagrafici, di genitori ignoti e sconosciuti.

Eppure nostro padre è ampiamente rintracciabile nelle biografie individuali e nei contesti temporali, sociali e politici, nei quali siamo nati e cresciuti: si chiamava movimento del 77, anch’esso, peraltro, banalizzato, criminalizzato e misconosciuto; e prima ancora, per la gran parte di quanti diedero vita a Prima linea, è rintracciabile nella militanza nei gruppi della sinistra extraparlamentare, in particolare Lotta continua e Potere operaio.

Nostra madre veniva invece da un casato più antico, che aveva avuto corso ed era stato assai fecondo lungo tutto il Novecento. Il suo nome era: rottura rivoluzionaria. Un’utopia concreta che aveva preso le mosse dal ’17 sovietico, ma che affondava le robuste radici sin nel rivolgimento francese di fine Settecento e nei moti e nella cultura anarchica, proletaria e socialista dell’Ottocento, nelle aspirazioni alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità e alla giustizia sociale.

Di quell’utopia, pervicacemente organizzata in tutto il mondo in chiave anticolonialista e anticapitalista, noi siamo stati i tardivi e coerenti epigoni, non certo i promotori. La convinzione che la violenza rivoluzionaria fosse levatrice della storia, doloroso ma necessario strumento per favorire la nascita del nuovo e del giusto, noi l’abbiamo semplicemente ereditata dai nostri nonni, dai nostri genitori, dalla vulgata dei partiti comunisti, dai movimenti extraparlamentari della fine degli anni Sessanta, dai gruppi e dalle lotte operaie, sociali e studentesche dei primi anni Settanta.

Nulla di originale, dunque. Solo la radicalità, assai determinata, di provare ad andare sino in fondo. Di rompere, sul piano del linguaggio e dei comportamenti – anche individuali, perché il personale è politico, ci aveva insegnato il pensiero femminista –, con l’ipocrisia dei “doppi binari” e delle doppie morali («si fa, ma non si dice»), della separazione tra il politico e il militare, tra i Togliatti e i Secchia, del tirare il sasso e nascondere la mano, della pratica dei tanti “bracci armati” dei gruppi: non solo di Lotta continua e di Potere operaio, ma di tutte le formazioni della sinistra (ma anche della destra) extraparlamentare (e non solo) dell’inizio degli anni Settanta.

Al film La prima linea realizzato dal regista Renato De Maria va senz’altro riconosciuta un’iniziale intenzione coraggiosa: per la prima volta, e per giunta in tempi incattiviti e “revisionisti” come gli attuali, una pellicola prende le mosse da un punto di vista interno alla lotta armata. Come a dire: la storia si può raccontare anche a partire dai vinti e dalla parte del torto. Ma il film risulta alla fine decisamente meno ardito, laddove quel punto di vista, quella memoria soggettiva non vengono rappresentati fedelmente, nella loro completezza e complessità.

Nella pellicola La prima linea manca il contesto storico. E per scelta, lo ammette il regista: «Non è un film sul pre-terrorismo […]. Il film non concede giustificazioni». Anche qui insomma torna la discutibile convinzione secondo cui illustrare i contesti serva a giustificare, quando invece è condizione necessaria semplicemente per capire.

Restano così nascoste le origini, le radici, le culture, i movimenti, insomma i capitoli precedenti la lotta armata, senza i quali la storia diventa incomprensibile. Ma risulta omesso anche un concetto per me basilare, per raccontare e comprendere davvero quegli anni: noi armati abbiamo avuto torto, come dice nel film l’attore Riccardo Scamarcio.

Aggiungo: tragicamente torto, terribilmente torto, inescusabilmente torto.

Ma mi permetto di aggiungere anche: Loro, però, non avevano ragione. E per “loro” intendo gli apparati statali compromessi con lo stragismo (e che sono stati compromessi non lo dico io: lo dice, ad esempio, un ministro degli interni democristiano dei tempi come Paolo Emilio Taviani, tra i fondatori di Gladio). Per “loro” intendo il sistema capitalistico di intenso sfruttamento e delle stragi sul lavoro (quanti ricordano che gli operai chiamavano la FIAT «la Feroce»?). Per “loro” intendo i rappresentanti politici di governo, gli uomini di partito che hanno alimentato la strategia della tensione, che hanno tramato per costruire svolte autoritarie e golpiste in Italia, dalla Rosa dei Venti alla P2. Forze che, in alcuni momenti della storia di questo paese, sono state preponderanti. E anche chi non era  in quella cabina di regia, ne è stato in molti tratti complice omertoso, per realismo politico e fedeltà al “sistema” se non per convinzione. Uomini e apparati che hanno gestito i risvolti sporchi della Guerra fredda e il volto opaco della democrazia italiana. Non bisogna infatti dimenticare che TUTTI gli allora responsabili dei servizi segreti (coi quali collaborava in funzione antiterrorismo il Partito comunista italiano), i vertici dei carabinieri di Milano e di altre città, numerosi alti funzionari della polizia, magistrati, autorevoli esponenti di partito (e persino il segretario di uno dei partiti di governo), erano attivi nella Loggia P2. Trame che non si limitano agli anni Cinquanta o Sessanta, ma arrivano sino all’inizio degli anni Ottanta. E anche questa non è una affermazione apodittica e provocatoria di un ex terrorista: sono le risultanze di montagne di atti parlamentari. Atti sepolti e dimenticati nei cassetti, e sapientemente fatti scivolare via come acqua corrente dalla coscienza pubblica.

Se si stracciano le pagine di questi capitoli il libro degli anni Settanta risulta monco, e dunque falsato.

Nulla può mai giustificare l’omicidio politico, ma nemmeno andrebbero dimenticati o trattati con diverso metro morale lo stragismo e le deviazioni istituzionali; fenomeni complessivamente assai più sanguinosi, oltre che impuniti. Eppure e invece, queste pagine sono state abilmente occultate, seppellite sotto le rovine del Muro di Berlino e di una Guerra fredda che tutto ha legittimato e coperto nella Prima Repubblica: i complotti antidemocratici, lo stragismo, la corruzione, i rapporti d’affari e gli scambi politici con la mafia e, infine, anche l’uso politico dell’insorgenza armata e delle organizzazioni combattenti, strumento inconsapevole (dunque tanto più colpevole) della strategia del destabilizzare per stabilizzare, variante complementare a quella della tensione e delle stragi.

Il film La prima linea è stato sottoposto a pressioni, intimidazioni e censure che non sarebbero state tollerate in nessun altro paese democratico. Perché, ormai, si vuole sia questa la Storia, l’unica storia da raccontare di quegli anni: quella che sostiene una ferocia e un’esclusiva responsabilità delle organizzazioni armate di sinistra. Così che tutti continuino a guardare il dito, dimenticandosi della luna, vale a dire degli “armadi della vergogna” e della insanguinata realpolitik delle istituzioni e dei governi della Prima Repubblica. Armadi ben altrimenti zeppi di scheletri. E così che l’attore Scamarcio, nel film, possa infine assumersi la totalità degli errori e delle colpe «politiche, morali e giudiziarie» (l’identica formulazione contenuta nella deliberazione della Commissione ministeriale per la cinematografia), che andrebbero invece assai largamente distribuite e ancor prima indagate. Naturalmente, il problema non consiste nel respingere o minimizzare le nostre colpe e responsabilità, sarebbe disonesto. Il problema risiede nella completezza del racconto, invece amputato di parti fondamentali, e nell’assenza dei necessari riferimenti storici. Il problema è che non viene tollerato racconto diverso dal copione già scritto, e imposto alla memoria e alla coscienza pubbliche, dai custodi degli armadi della vergogna di questo paese.

Come quasi sempre nella Storia, il rancore e la vendetta esigono personificazione, capri espiatori, figure simboliche da mandare al rogo, o almeno al linciaggio morale, se non a quello fisico. È quello che è successo e che sta succedendo riguardo quel frammento di Novecento che sono stati gli anni Settanta italiani e in specie riguardo la mia e nostra storia. Regola del contrappasso, la chiamerà qualcuno, vedendone un carattere di giustizia sostanziale e di pena aggiuntiva a quella del carcere, valutata come insufficiente. Io, che assieme a tanti altri in passato mi sono arrogato il diritto di colpire coloro che consideravo nemici politici, giudicandolo atto di giustizia, oggi quella regola la considero una forma di barbarie.

[1] Minculpop a “Miccia corta”, “Il Riformista”, 9 ottobre 2008.

[2] Ministero per i Beni e le attività culturali, Commissione per la cinematografia, Verbale n. 6/2008, seduta del 19 settembre 2008.

[3] Pierluigi Battista, Cinema di Stato e assenza di idee, “Corriere della Sera”, 22 dicembre 2008.

 

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