Repubblica sociale italiana – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Tue, 25 Apr 2023 07:37:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Indagine sulle radici del «Processo alla Resistenza» https://www.micciacorta.it/2023/04/indagine-sulle-radici-del-processo-alla-resistenza/ https://www.micciacorta.it/2023/04/indagine-sulle-radici-del-processo-alla-resistenza/#respond Tue, 25 Apr 2023 07:37:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26627 Il libro ricostruisce il lungo dopoguerra che ha visto affermarsi la prospettiva della «continuità dello Stato», il ritorno degli ex fascisti in molti settori decisivi dell’apparato pubblico e la messa sotto accusa, anche nelle aule giudiziarie, dei Partigiani

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Resistenza

Il libro ricostruisce la stagione del lungo dopoguerra che ha visto affermarsi la prospettiva della «continuità dello Stato», il ritorno degli ex fascisti in molti settori decisivi dell’apparato pubblico e la messa sotto accusa, spesso anche nelle aule giudiziarie, degli appartenenti alle formazioni della Resistenza   Le radici del presente. Alla vigilia di un 25 aprile che vede per la prima volta alla guida del governo della Repubblica gli eredi del neofascismo, l’importante opera della storica Michela Ponzani («Processo alla Resistenza», Einaudi, pp. 234, euro 28) acquista una forza e un’urgenza inedite. Docente a Tor Vergata, conduttrice di programmi culturali per Rai Storia, e già autrice di testi significativi sulla memoria dei partigiani, Ponzani ricostruisce la stagione del lungo dopoguerra che ha visto affermarsi la prospettiva della «continuità dello Stato», il ritorno degli ex fascisti in molti settori decisivi dell’apparato pubblico e la messa sotto accusa, spesso anche nelle aule giudiziarie, degli appartenenti alle formazioni della Resistenza. Un contesto, per molti versi all’origine di quell’humus revisionista che ancora oggi alimenta le posizioni delle destre del nostro Paese, che si nutriva di una serie di falsificazioni della portata stessa della evidenza partigiana. Dall’idea che la Resistenza non sarebbe stata necessaria per la Liberazione del Paese, «tanto ci avrebbero liberato gli Alleati», alle «azioni partigiane equiparate ad atti di terrorismo (vedi via Rasella)», fino alla lettura dell’8 settembre «come tragica disfatta morale», «il bisogno di ricordare altre tragedie nazionali, come le foibe o le violenze perpetrate dai partigiani di Tito, contrapposte alle stragi nazifasciste (sulla base di un bizzarro revanscismo dall’ottica compensativa)», l’enfasi posta sull’uccisione «dei vinti» nel dopoguerra, argomento prediletto dai bestseller di Giampaolo Pansa. Per finire con «la richiesta di riabilitare alcuni militi della Rsi, trasformati in legittimi belligeranti (secondo una proposta di legge presentata nel ’94 da An e mai andata in porto)». Affrontando tappa dopo tappa il modo in cui dopo il ’45 l’esperienza partigiana fu almeno in parte «criminalizzata», Ponzani rintraccia così la genesi di miti e luoghi comuni «anti-resistenziali» che a quanto pare pervadono ancora il dibattito pubblico. * Fonte/autore: il manifesto

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Strage delle Fosse Ardeatine, il revisionismo di Giorgia Meloni https://www.micciacorta.it/2023/03/strage-delle-fosse-ardeatine-il-revisionismo-di-giorgia-meloni/ https://www.micciacorta.it/2023/03/strage-delle-fosse-ardeatine-il-revisionismo-di-giorgia-meloni/#respond Sat, 25 Mar 2023 08:33:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=26610 Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944, ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo

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Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944, ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo. Blumstein non è un caso isolato. Gli stranieri uccisi alle Fosse Ardeatine sono una dozzina. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni (così vuole essere chiamata) vanta giustamente la sua origine alla Garbatella, quartiere popolare di Roma. La Garbatella è direttamente contigua alle Fosse Ardeatine. Chi è cresciuto lì non può non aver sentito parlare di che cosa è successo. Le sue sorprendenti parole non sono frutto di ignoranza ma di inconfessata e tracotante vergogna. Non fu ucciso perché era italiano neanche il generale Simone Simoni, cacciato da Mussolini perché si era permesso di dubitare dell’inevitabile vittoria delle armate nazifasciste. Non fu ucciso perché era italiano Celestino Frasca, colpevole soltanto di essersi trovato vicino via Rasella dopo l’azione partigiana. Non fu ucciso perché era italiano Bruno Bucci, colpevole di avere nascosto sotto il letto una copia di un giornale antifascista. Non è stato ucciso perché era italiano Pilo Albertelli, professore di filosofia, colpevole di avere combattuto anche con le armi contro i tedeschi occupanti e i loro servitori fascisti. Come scrisse a suo tempo Vittorio Foa, sono stati uccisi per quello che erano, per dove si trovavano, per quello che avevano fatto: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano; si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano; si uccidevano uomini che non c’entravano per niente solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine». In tribunale, Herbert Kappler, che aveva diretto il massacro, spiegò che secondo lui includere gli ebrei era stata una buona idea perché «se non avessi messo gli ebrei avrei dovuto aggiungere altre persone la cui colpevolezza era meno chiara»: in altre parole, gli ebrei erano colpevoli per definizione; gli altri (italiani o meno) no. Infatti il comunicato tedesco affisso dopo la strage spiegava perché li avevano uccisi: non perché erano italiani ma perché ai loro occhi erano tutti «comunisti badogliani». Quando l’italiano Guido Buffarini Guidi, ministro degli interni di quella che si era chiamata Repubblica sociale italiana, consegna ai nazisti la lista di una cinquantina di italiani da uccidere, non lo fa perché erano italiani. Lo fa precisamente perché, agli occhi del suo regime, erano tutto il contrario: nemici della patria, letteralmente «anti-italiani». Perché gli italiani non erano, non sono mai stati, una cosa sola. In un certo senso, questo tema degli «italiani vittime della barbarie tedesca», che risuona nei commenti odierni alla malaugurata uscita di Giorgia Meloni, rinvia a una narrazione della Resistenza, a lungo anche da parte antifascista, che ha cancellato le divisioni fra gli italiani (tanto che quando Claudio Pavone ricominciò a parlare di guerra civile molti furono come minimo disorientati). Raccontare la Resistenza come sollevamento unitario di tutto il popolo italiano contro l’invasione nazista, o l’invasione nazista come crimine contro gli italiani in quanto tali significa assumere il popolo, o adesso «la nazione», come un tutto unitario, indistinto. La guerra civile significa invece che «il popolo», «il paese», «la nazione» sono entità conflittuali e divise – e continuano ad esserlo. Quella di Giorgia Meloni è una reazione istintiva che maschera una sorta di afasia, ma che anche evoca l’ invereconda e ipocrita par condicio dell’anti-antifascismo contemporaneo, e ribadisce quel senso di vittimismo che accompagna tante narrazioni del nazionalismo italiano che si adopera a resuscitare (non a caso applica pedissequamente alle Fosse Ardeatine il mantra di destra sulle foibe – che come sappiamo non funziona davvero neanche per quel crimine lì). Ma le sue parole sono comunque preziose: ci aiutano a capire che le Fosse Ardeatine sono ancora una memoria insopportabile e vergognosa per gli eredi dei carnefici. Per generazioni, hanno sparso menzogne cercando di infangare i partigiani e giustificare i nazisti; adesso Meloni prova maldestramente a disinnescarla in nome dello ius sanguinis della nazione. Il giornale clandestino trovato sotto il letto dagli assassini di Bruno Bucci si chiamava “Italia Libera”. Perché è vero, di Italia si trattava; ma l’aggettivo non è meno importante del nome – di che Italia parliamo? È vero, i partigiani e gli antifascisti erano italiani; i partigiani si definivano «patrioti» ben prima che di questa parola si impadronissero i fratelli d’Italia. Ma l’Italia che volevano, la patria a cui appartenevano, era un’altra. * Fonte/autore: Alessandro Portelli, il manifesto   ph by Formkurve92 (Diskussion) 23:54, 21. Jul. 2017 (CEST), CC BY-SA 3.0 DE <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/de/deed.en>, via Wikimedia Commons

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I leghisti dedicano una via a un persecutore di partigiani ed ebrei https://www.micciacorta.it/2019/07/i-leghisti-dedicano-una-via-a-un-persecutore-di-partigiani-ed-ebrei/ https://www.micciacorta.it/2019/07/i-leghisti-dedicano-una-via-a-un-persecutore-di-partigiani-ed-ebrei/#respond Sat, 13 Jul 2019 08:15:05 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=25546 Como. Per il podestà fascista Airoldi la mozione al Comune di Erba. Alla proposta della destra per «meriti culturali» rispondono Anpi, sinistra e sindacati: lunedì presidio

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Negli anni Novanta, quando giocava alla secessione, la Lega era solita sostituire i nomi delle vie che avevano riferimenti nazionali con quelli leghisti. Il più classico era la sostituzione di via Roma con via Padania o via Lega Lombarda. Lo fecero anche a Erba, nel comasco, dove oggi la Lega «non più Nord», insieme a Forza Italia e liste civiche del sindaco, vorrebbe intitolare una via a un podestà fascista che collaborò con i nazisti e partecipò alla Repubblica Sociale Italiana: Alberto Airoldi. Tutto parte da un appello ospitato a inizio luglio dal quotidiano locale La Provincia dove l’autore, lo scenografo Ezio Frigerio, propone di intitolare una via al podestà fascista. Il motivo è culturale: Alberto Airoldi ha contribuito a fondare nel 1923 il teatro Licinium di Erba, ha animato la rivista Brianza e si è affermato come poeta brianzolo. Ma per questi meriti Erba lo ha già omaggiato anni fa intitolandogli il cippo al teatro Licinium, un omaggio esclusivamente culturale. A nessuno era venuto in mente di celebrare in altro modo e in altri ambiti colui che fu sì un personaggio della cultura locale, ma soprattutto un fascista che collaborò coi nazisti nella persecuzione degli ebrei. Dalle parole dell’appello ai fatti, la Lega e il resto del centrodestra hanno preso la palla al balzo e scritto una mozione che presenteranno il 15 luglio in consiglio comunale. «Il podestà Alberto Airoldi amava Erba e i suoi concittadini che ha sempre tutelato e difeso», ha detto il deputato leghista e consigliere comunale Eugenio Zoffili. «Me l’hanno raccontato i nostri anziani e chi l’ha conosciuto di persona. Per la Lega non ci sono dubbi: è doveroso dedicargli una piazza della nostra città, ma anche organizzare incontri culturali e iniziative nelle nostre scuole per farlo conoscere ai nostri ragazzi. Chi a sinistra è contrario perché era fascista, o chi tentenna e fa il democristiano manca di rispetto a Erba che ricorda la sua storia per crescere forte nel futuro con l’esempio di persone come Alberto Airoldi di cui siamo tutti orgogliosi». Tra gli anziani con cui Zoffili ha parlato non devono esserci stati gli anziani della famiglia Usiglio o delle altre di origine ebraica segnalate da Airoldi al ministero degli Interni fascista. «Al di là delle sue posizioni e delle sue scelte politiche, Airoldi è stato il protagonista indiscusso di una stagione esaltante di rinascita culturale per la città», ha detto la vicesindaca leghista Erica Rivolta. Il podestà applicò le leggi razziali in modo scrupoloso e secondo alcune ricostruzioni si spinse anche oltre. A Radio Popolare Manuel Guzzone dell’Anpi di Como, che ha studiato la figura di Airoldi, ha raccontato che nel 1939 il podestà scrisse un opuscolo dal titolo «Elenco di cognomi ebraici», dove elencò famiglie ebraiche del territorio comasco fuori dai confini del comune di sua competenza, Erba. «In un certo senso aiutò chi venne dopo di lui, i nazisti, nei rastrellamenti. Molte di quelle famiglie avevano lasciato Milano per oltrepassare il confine comasco verso la Svizzera. Lui non solo approvò le leggi razziali, ma diede un ulteriore aiuto ai nazisti indicando le famiglie ebraiche del territorio». Fu coinvolto nel processo al Primo partigiano della resistenza brianzola Giancarlo Puecher, fucilato il 23 dicembre 1943 a Erba. «Il ruolo di Airoldi fu determinate – racconta Guzzon – C’è un ulteriore particolare che risuona particolarmente inopportuno. La via che cambierà di nome dovrebbe essere un tratto di via Crotto Rosa, la stessa dove al civico 5 aveva vissuto per un periodo un componente della famiglia Usiglio, una delle famiglie ebraiche di Erba segnalate da Airoldi». La mozione che arriverà in consiglio comunale il 15 luglio è sostenuta da Lega, Forza Italia, lista civica Il Buonsenso e lista civica del sindaco Veronica Airoldi, nipote del podestà: un grande omaggio al nonno. Nel comune comasco, a solida maggioranza di destra, in tanti non ci stanno e lunedì manifesteranno dalle ore 20 fuori dal consiglio comunale. «Le adesioni stanno crescendo», dicono dall’Anpi di Monguzzo. Ci saranno Cgil, Cisl, Uil e delegazioni da alcune fabbriche del territorio, come il cementificio Holcim. E poi il Pd, Rifondazione, Sinistra italiana e una ventina di associazioni. «Non è sufficiente esibire meriti culturali per cancellare una macchia indelebile come la complicità attiva nel regime fascista; persino Hermann Goering, numero due del nazismo, aveva meriti culturali ed era uno dei più grandi collezionisti d’arte, ma nessuno in Germania si sognerebbe mai di intitolargli una via», scrive l’Anpi nell’appello. Una piccola storia locale, un podestà a cui verrà intitolata una via, ma che racconta come avviene la normalizzazione del fascismo. * Fonte: Roberto Maggioni, IL MANIFESTO

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Adunata fascista al Verano con il viceparroco del “rosso” Quadraro https://www.micciacorta.it/2016/09/adunata-fascista-al-verano-viceparroco-del-rosso-quadraro/ https://www.micciacorta.it/2016/09/adunata-fascista-al-verano-viceparroco-del-rosso-quadraro/#comments Tue, 20 Sep 2016 07:19:12 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22489 ROMA «Dio benedica l’Italia e il fascismo». È la preghiera che don Marco Solimena ha elevato al cielo durante l’omelia della messa con cui domenica scorsa, 18 settembre, al cimitero Verano di Roma, si è conclusa l’annuale commemorazione dei “martiri” di Rovetta, 43 soldati della Legione Tagliamento della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, uccisi dai […]

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ROMA «Dio benedica l’Italia e il fascismo». È la preghiera che don Marco Solimena ha elevato al cielo durante l’omelia della messa con cui domenica scorsa, 18 settembre, al cimitero Verano di Roma, si è conclusa l’annuale commemorazione dei “martiri” di Rovetta, 43 soldati della Legione Tagliamento della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, uccisi dai partigiani il 28 aprile del 1945 a Rovetta, nel bergamasco, alla fine della seconda guerra mondiale. Sono le 9.30 quando un centinaio di fascisti – dal vecchio reduce di Salò al giovane fascista del 2000, cranio rasato, tatuaggi e bicipiti in mostra – si raduna davanti all’ingresso laterale del Verano. Saluti romani, foulard della Tagliamento e della X Mas, magliette della Rsi e di Casa d’Italia di Colleverde, qualche fez, parecchie camicie nere, ma anche uomini in doppiopetto e signore ingioiellate. Alle 10 uno degli organizzatori, fascio littorio un po’ sbiadito tatuato sull’avambraccio, grida «Camerati! Attenti!» e, osservato a distanza da 5-6 poliziotti in borghese, parte un minicorteo – ma più che una legione sembra l’Armata Brancaleone – che attraversa i vialetti del Verano fino alla tomba dei caduti di Rovetta. Parlano i reduci di Salò: «Oggi ricordiamo dei veri italiani uccisi per un ideale sempre presente in noi». Interviene Augusto Sinagra, docente di Diritto dell’Unione europea all’università “Sapienza” di Roma, già avvocato di Licio Gelli nonché iscritto alla P2: «Ci hanno sconfitto in battaglia ma non sono state sconfitte le nostre idee, solo il fascismo è stato in grado di realizzare la giustizia sociale in Italia». Parla anche il giovane presidente, in abiti militari, dell’associazione intitolata alla 29ma Divisione SS italiana – i volontari italiani che dopo l’8 settembre 1943 giurarono ad Hitler e furono inquadrati nelle SS – che conclude il suo intervento con il triplice grido nazista: “Sieg Heil”. Poi «l’appello ai caduti». Un reduce scandisce uno per uno i 43 nomi dei fascisti uccisi a Rovetta, tutti tendono il braccio destro e rispondono «Presente», facendo risuonare il grido fra le tombe del Verano. Arriva don Marco Solimena, viceparroco al Quadraro, il “nido di vespe”, come lo chiamavano i nazifascisti, quartiere medaglia d’oro al merito civile che nell’aprile del 1944 subì un durissimo rastrellamento con oltre 900 deportati in Germania, solo la metà tornarono a casa alla fine della guerra. «Camerati radunatevi all’altare, comincia la messa, i fascisti sono cattolici», esorta uno degli organizzatori. Ma attorno all’altare si ritrovano in pochi, e don Solimena esprime il suo disappunto: «È triste vedere che a tanti camerati non frega nulla!». Messa con rito preconciliare, tutta in latino, tranne l’omelia, in cui il viceparroco del Quadraro – assiduo frequentatore dei raduni fascisti – commenta il brano del Vangelo in cui Gesù guarisce un paralitico: «La nostra Nazione è paralitica, la nostra comunità ideale è paralitica. Eppure il fascismo è la migliore idea mai pensata dagli uomini per vivere bene su questa terra, trasmettiamo questa idea ai nostri figli. Prego ogni sera perché Dio benedica l’Italia e benedica il fascismo». Ite missa est. Qualcuno, prima del pranzo, va a rendere omaggio alla vicina tomba di Claretta Petacci, l’amante di Mussolini, su cui si legge un avviso dell’Ama: «Manufatto in stato di abbandono». Pochi metri oltre comincia il Reparto israelitico del Verano, dove sono sepolti gli ebrei romani. Una delle prime lapidi ricorda: «Mario Volterra, deportato, 21 agosto 1916 – 22 marzo 1945». SEGUI SUL MANIFESTO

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Nazifascisti, l’orrore nella Rete https://www.micciacorta.it/2016/04/nazi-fascisti-lorrore-nella-rete/ https://www.micciacorta.it/2016/04/nazi-fascisti-lorrore-nella-rete/#comments Wed, 06 Apr 2016 14:50:16 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21640 Censiti 5.429 episodi di violenza e 23.371 vittime. Si presenta oggi a Roma l’Atlante delle stragi in Italia nel ’43-45. Consultabile online, documenta una realtà finora sconosciuta nelle sue effettive dimensioni

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nazifascismo

Donne e ragazzini arrivavano trascinando borse e carretti, con le scarpe sfondate e i vestiti a brandelli. Nella mattinata dell’11 settembre 1943 si era sparsa la voce che i reparti militari di stanza a Torino nell’Opificio di corso Belgio, angolo corso Regina Margherita, si erano dati alla fuga. La gente accorreva al deposito per impadronirsi di calzature, coperte, stoffe: beni assai rari e preziosi quando si è in guerra. All’improvviso una pattuglia tedesca era sbucata sparando all’impazzata e lanciando granate. I morti furono 17 e numerosi i feriti che riportarono gravissime menomazioni. Nei primi giorni dell’occupazione torinese, i nazisti non si erano risparmiati negli eccidi, eliminando 49 persone a cui si aggiungevano circa 100 feriti: non erano scontri tra militari, ma esecuzioni di inermi cittadini avvenute a Porta Nuova, in via Nizza, corso Stupinigi. Al Nord, ma anche al Sud Dal Nord al Sud, la distanza è breve se si parla di stragi dopo l’8 settembre: 14 carabinieri e un nutrito gruppo di impiegati, artigiani e operai vengono deportati da Napoli a Teverola, in provincia di Caserta. La colpa? Hanno tentato di difendere il palazzo dei telefoni. Prima di essere uccisi sono costretti a scavarsi la fossa. E non basta. La sera del 4 ottobre, ancora nei dintorni di Caserta, a San Clemente, un’esplosione provoca il crollo di alcune case. Muoiono 25 persone, tra cui 10 bambini. Le costruzioni ostacolano il transito delle truppe tedesche e le mine vengono innescate e fatte brillare senza che siano stati avvertiti gli abitanti. Da Torino a Caserta i massacri insanguinano la penisola occupata dall’esercito di Hitler: dati e vicende fino a oggi completamente sconosciuti nelle loro dimensioni adesso li potremo visionare online. È stato messo a punto da un folto gruppo di studiosi l’Atlante delle stragi naziste e fasciste: l’impresa, realizzata grazie a un finanziamento del governo tedesco e a cui hanno dato tra l’altro il loro apporto l’Istituto per la storia del movimento di liberazione (Insmli) e l’Associazione partigiani (Anpi), sarà presentata domani a Roma al ministero degli Esteri. «Questi numeri non ce li aspettavamo e il quadro è veramente impressionante», avverte Paolo Pezzino, responsabile del progetto. «Abbiamo censito 5.429 episodi di violenza e 23.371 vittime. In un recente passato eravamo convinti che il tetto massimo fosse di 15.000 decessi. Anche le categorie classificate riservano elementi di novità: agli antifascisti, agli sbandati, ai prigionieri di guerra e ai partigiani si sono aggiunti gli ebrei, i religiosi, i renitenti alla leva passati per le armi». Sono circa 4-500 - prosegue lo studioso - i reparti del Terzo Reich e della Rsi responsabili di stragi, in particolare la 16ª divisione SS e la Hermann Göring. «Sono eccidi di massa compiuti spesso con un obiettivo “pedagogico”, per disinnescare qualsiasi desiderio di opposizione», commenta lo storico Bruno Maida. «Questa ricerca di livello europeo ci permette di ricostruire dinamiche e ragioni di tanta ferocia». L’Atlante porta nuove acquisizioni alla storia del conflitto mondiale e ricompone l’inaspettato mosaico di una guerra nella guerra: quella contro la gente comune. Fino a oggi si pensava che il Mezzogiorno fosse stato esente dall’oltraggio nazista. Invece non fu risparmiato dalla Wehrmacht: in Campania, per esempio, vi furono 430 episodi di violenza e 1.585 vittime dal settembre al dicembre 1943. Il triste primato degli omicidi in Italia se lo conquista la Toscana, con 4.465 vittime, seguita dall’Emilia con 4.313. Cosa porta i nazisti a impegnarsi in questi gesti di estrema crudeltà? «Tutto può nascere dal caso: come reazione spropositata di fronte a banali forme di autodifesa, quando sono in atto dei rastrellamenti», osserva la studiosa Isabella Insolvibile. «Oppure, è un altro esempio, quando in campagna non si capiscono gli ordini, oppure come dimostrazione di forza e di superiorità». Non solo tedeschi Censire tutto questo vuol dire raccontare forme e modalità inedite di uno scontro in cui tedeschi e fascisti non fecero alcuna distinzione tra combattenti della Resistenza e persone che non avevano imbracciato le armi. «Il 30 marzo 1944 i partigiani uccidono un caporale tedesco, per cui vengono immediatamente arrestati tutti i componenti del Comitato militare regionale piemontese. Subito dopo, sempre a Torino, due gappisti, Giuseppe Bravin e Giovanni Pesce, freddano Ather Capelli, condirettore della Gazzetta del Popolo», ricostruisce la storica Barbara Berruti. «Il 2 aprile per rappresaglia saranno fatti fuori 32 uomini». Con questa azione, osserva la studiosa, si verifica un’ulteriore escalation. L’esecuzione avviene senza arresto né processo. I cadaveri verranno esposti in strada. L’Atlante smentisce infine una vulgata storica assai consolidata: che i nazisti fossero gli unici attori sul palcoscenico di morte dell’Italia occupata. I tedeschi compirono da soli il 61 per cento degli eccidi e gli adepti di Mussolini fecero da supporto alle loro razzie (nel 14 per cento dei casi). Ma questi ultimi compirono molte imprese in piena autonomia (nel 18 per cento delle stragi), contraddicendo il mito dei fascisti e dei repubblichini trascinati nel fango e nell’ignominia dall’esercito del Reich. Tanti tasselli del puzzle sono così rimessi a posto e tutto è consultabile su www.straginazifasciste.it.

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La via del fascista Azzariti intitolata alla bimba della Shoah https://www.micciacorta.it/2015/10/la-via-del-fascista-azzariti-intitolata-alla-bimba-della-shoah/ https://www.micciacorta.it/2015/10/la-via-del-fascista-azzariti-intitolata-alla-bimba-della-shoah/#comments Thu, 08 Oct 2015 14:21:09 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=20584 Resta ancora più imbarazzante, a questo punto, il mutismo della Corte costituzionale. Dove il busto del presidente del Tribunale della razza campeggia ancora del corridoio nobile. Protetto da un silente cameratismo castale

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La storia ha dato ragione a lei, Luciana Pacifici, vittima della Shoah. Sarà dedicata a lei, a Napoli, la via in precedenza di Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale della razza. A lla fine la storia ha dato ragione a lei, la piccola Luciana. Il prossimo 17 novembre, dopo una battaglia durata anni e sposata dal sindaco Luigi de Magistris, la targa pomposamente dedicata nel 1970 a Gaetano Azzariti, il presidente del Tribunale della razza fascista riciclato incredibilmente dalla lavanderia togliattiana al punto di entrare anni dopo nella Corte costituzionale per diventarne addirittura il presidente, sarà buttata giù a martellate, raccolta in un secchio di plastica grigia, scaricata tra i calcinacci da qualche parte. E lì, nel cuore di Napoli, vicino all’Università Federico II, la strada verrà dotata finalmente di una nuova insegna: via Luciana Pacifici. Che la scheda della banca dati «I nomi della Shoah italiana» del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, corredata da una foto della bimba con un vestitino bianco a fiori, descrive così: «Luciana Pacifici, figlia di Loris Pacifici e Elda Procaccia, nata in Italia a Napoli il 28 maggio 1943. Arrestata a Cerasomma (Lucca). Deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuta alla Shoah». Furono 558 i bambini sotto i dieci anni rastrellati nell’autunno 1943. Non uno, eccetto le gemelline Andra e Tatiana Bucci salvate solo dalla buona sorte, tornò vivo. Non uno. Esistono, su quella nuova retata di Erode, testimonianze terribili. Come quella raccolta nel libro Roma Clandestina da Fulvia Ripa di Meana, che aveva visto inorridita un camion carico di bambini in piazza di San Lorenzo in Lucina: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappavano spasmodiche alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti...». Hanno scelto lei, Luciana, perché era nata lì, a poche decine di metri dall’attuale via Azzariti condannata alla rimozione. Aveva pochi mesi, quella bambina, quando fu arrestata, cinque giorni dopo l’infame circolare del 30 novembre 1943 firmata dal ministro dell’Interno repubblichino, Guido Buffarini Guidi. Dispaccio che dimostra le pesantissime responsabilità fasciste: «Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento... Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche...» Caricata sul treno piombato diretto in Polonia, Luciana morì di stenti, pare, nel viaggio verso Auschwitz. Dove furono decimati il papà Loris e la mamma Elda, che avevano trentaquattro e venticinque anni, il nonno e la nonna materni Amedeo e Jole, il fratello della mamma Aldo... In quei giorni Azzariti si era già riciclato. Dopo esser stato il burocrate di fiducia di Mussolini al ministero della Giustizia al punto di essere premiato con la presidenza del cosiddetto Tribunale della razza (delegato a distinguere tra quelli che potevano essere sommersi e quelli che dovevano essere salvati spesso perché pagavano somme enormi e perciò definito da Renzo de Felice come l’espressione «immorale e antigiuridica» di un potere fondato «sull’arbitrio più assoluto...») il magistrato era riuscito infatti a saltare sul carro del governo Badoglio. Per poi offrirsi come braccio destro a Palmiro Togliatti. Grazie al quale riuscì a smacchiarsi fino a ripresentarsi bel bello, ossequiato e riverito, tra gli alti magistrati d’Italia del Dopoguerra. Il primo granello che ha fatto venire giù la slavina lo fece rotolare un paio di anni fa il giornalista e storico della Shoah Nico Pirozzi, con un articolo sul Mattino dove denunciava il suo scandalizzato stupore per la scoperta di quella targa stradale. Resta ancora più imbarazzante, a questo punto, il mutismo della Corte costituzionale. Dove il busto del presidente del Tribunale della razza campeggia ancora del corridoio nobile. Protetto da un silente cameratismo castale di giorno in giorno più insopportabile...

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Reggio Calabria, messa per il duce. Il sindaco: intervenga la curia https://www.micciacorta.it/2015/04/reggio-calabria-messa-per-il-duce-il-sindaco-intervenga-la-curia/ https://www.micciacorta.it/2015/04/reggio-calabria-messa-per-il-duce-il-sindaco-intervenga-la-curia/#respond Tue, 28 Apr 2015 06:47:16 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=19435 L’apologia di fasci­smo sarebbe reato. Ma le auto­rità reg­gine e il vescovo della città dello Stretto evi­den­te­mente non lo sanno

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L’apologia di fasci­smo sarebbe reato. Ma le auto­rità reg­gine e il vescovo della città dello Stretto evi­den­te­mente non lo sanno. Una messa e una mani­fe­sta­zione per ricor­dare i 70 anni della morte di Benito Mus­so­lini e dei «caduti della Repub­blica Sociale Ita­liana». Mus­so­lini, il Duce, «tru­ci­dato» in «un vero e pro­prio omi­ci­dio», lo defi­ni­sce Alleanza cala­brese, il movi­mento poli­tico che ha orga­niz­zato l’appuntamento, in pro­gramma per oggi. La messa sarà cele­brata nella chiesa di San Gior­gio al Corso oggi 28 aprile alle 11 e suc­ces­si­va­mente i came­rati si reche­ranno in cor­teo vicino alla stele di Cic­cio Franco, il lea­der mis­sino dei moti del 1970, «per un momento di rifles­sione e di preghiera». Il sin­da­codi Reg­gio Cala­bria, Peppe Fal­co­matà (Pd) chiama in causa il vescovo: «Spero che la curia sia a cono­scenza di que­sta ini­zia­tiva, basata su un pre­sup­po­sto sto­ri­ca­mente errato, e la vieti». Mus­so­lini lasciò Milano il 25 aprile 1945, dopo alcuni ten­ta­tivi di trat­ta­tiva con il Cln. Il Duce fuggì, ma il 27 aprile fu rico­no­sciuto e cat­tu­rato nei pressi del con­fine sviz­zero da alcuni par­ti­giani, gui­dati da Pier Luigi Bel­lini delle Stelle (Pedro) a Dongo, sul lago di Como. Il 28 aprile fu fuci­lato insieme a Cla­retta Petacci, a Giu­lino di Mez­ze­gra. La respon­sa­bi­lità dell’esecuzione sarà riven­di­cata dal Cln Alta Ita­lia con un comu­ni­cato del 29 aprile 1945. Il pre­si­dente di Alleanza Cala­brese, Enzo Vaca­le­bre, ha evi­den­ziato che: «La messa in ricordo di Benito Mus­so­lini ha radici molto lon­tane. Ma domani (oggi, ndr) il ricordo assu­merà un signi­fi­cato più pro­fondo per­ché ricorre il set­tan­te­simo di quello che noi defi­niamo l’omicidio di Mussolini». Alleanza Cala­brese è un «movi­mento poli­tico auto­no­mi­sta sorto nel mag­gio del 2006», così si defi­ni­sce. In realtà è una sigla di nostal­gici del Ven­ten­nio che fa pro­fes­sione di revi­sio­ni­smo sto­rico pro­prio nei giorni in cui si cele­brano i 70 anni della Libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo. «Mus­so­lini — ha aggiunto Vaca­le­bre — è stato tru­ci­dato con gli altri gerar­chi. Fu un’esecuzione vera e pro­pria decisa senza un pro­cesso. Ci augu­riamo che in molti saranno pre­senti per ricor­dare i 70 anni di que­sto omi­ci­dio». Gli orga­niz­za­tori della messa hanno affisso decine di mani­fe­sti per le strade di Reg­gio. «I came­rati reg­gini — è scritto sul mani­fe­sto — ricor­dano S.E. Benito Mus­so­lini e tutti i caduti della Repub­blica Sociale Ita­liana, che hanno cre­duto nell’onore e nella gran­dezza del popolo d’Italia». Che l’aria sia così truce lo si capi­sce anche da un altro epi­so­dio. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile un mani­polo di neo­fa­sci­sti ha appeso uno stri­scione con­tro la pre­si­dente della Camera, Laura Bol­drini: «La sto­ria non si can­cella. Ciao Bol­dri». Ai came­rati reg­gini non sono andate giù le parole della pre­si­dente — in rispo­sta a un par­ti­giano inter­ve­nuto alla ceri­mo­nia a Mon­te­ci­to­rio per ricor­dare il set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio della Libe­ra­zione — sulla scritta «Mus­so­lini Dux» che cam­peg­gia sull’obelisco al Foro Ita­lico di Roma. Il luogo scelto per appen­dere lo stri­scione è alta­mente sim­bo­lico: l’Arengario di piazza del Popolo dove il 31 marzo del 1939 Mus­so­lini dal bal­cone della Casa del Fascio, oggi sede della sezione del Tar della Cala­bria, al ter­mine del suo viag­gio in regione tenne l’adunata cittadina.

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Se questo è il giorno del ricordo https://www.micciacorta.it/2015/03/se-questo-e-il-giorno-del-ricordo/ https://www.micciacorta.it/2015/03/se-questo-e-il-giorno-del-ricordo/#respond Tue, 17 Mar 2015 09:22:52 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18947 Errori italiani. L'onorificenza del governo al repubblichino Paride Mori «per aver servito la patria»

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Il 7 feb­braio 1947 il Con­si­glio del Mini­stri del III governo De Gasperi, (Dc-Psi-Pci-Pri e Par­tito del Lavoro) votò all’unanimità l’accettazione del Trat­tato di Pace che chiu­deva anche dal lato politico-diplomatico la guerra mon­diale sca­te­nata dall’asse nazi­fa­sci­sta. Il 10 feb­braio il Trat­tato di Pace venne uffi­cial­mente fir­mato a Parigi e nella seduta del 31 luglio 1947 il par­la­mento costi­tuente anti­fa­sci­sta, nato insieme alla Repub­blica il 2 giu­gno, lo ratificò. 57 anni dopo, nel 2004, uno dei par­la­menti della seconda repub­blica, quella non più nata dalla Resi­stenza ma dalla fine della Guerra Fredda e dalle inchie­ste giu­di­zia­rie, con voto bipar­ti­san isti­tuì in quella data il giorno del ricordo voluto for­te­mente dalla destra post-fascista e con­di­viso dalla sini­stra di governo per «rom­pere il silen­zio sulla vicenda taciuta delle foibe» secondo la rituale for­mula delle cele­bra­zioni ufficiali. Lo scorso 10 feb­braio la Pre­si­dente della Camera Bol­drini e il Sot­to­se­gre­ta­rio alla pre­si­denza del con­si­glio Del Rio hanno con­fe­rito a Paride Mori un’onorificenza «per aver ser­vito la patria» ovvero, nel suo caso, il bat­ta­glione ber­sa­glieri volon­tari “Benito Mus­so­lini” della repub­blica di Salò. Per la cro­naca, e anche un po’ per la sto­ria, va anno­tato che Paride Mori non morì nelle foibe ma il 18 feb­braio 1944 in un con­flitto con i partigiani. Le auto­rità si sono affret­tate a dichia­rare che «se c’è stato errore il rico­no­sci­mento sarà revo­cato», tut­ta­via di errori di que­sta natura il giorno del ricordo ne ha anno­ve­rati in que­sti anni dav­vero molti altri. Nel 2007 il Pre­si­dente della Repub­blica Gior­gio Napo­li­tano con­ferì la meda­glia come infoi­bato a Vin­cenzo Ser­ren­tino. Capo della «pro­vin­cia di Zara» durante la repub­blica sociale fu pre­si­dente del tri­bu­nale spe­ciale fasci­sta in Jugo­sla­via e respon­sa­bile di decine di con­danne a morte ese­guite con­tro par­ti­giani e civili. Arre­stato e pro­ces­sato dal governo jugo­slavo venne con­dan­nato a morte da un tri­bu­nale il 15 mag­gio 1947. Sem­pre tra il 2009 ed il 2011 altri tre ita­liani accu­sati di cri­mini di guerra dal governo di Bel­grado furono insi­gniti dell’onorificenza del 10 feb­braio, Gia­como Ber­go­gnini, Luigi Cucè e Bruno Luciani, quest’ultimo col­la­bo­ra­tore della fami­ge­rata Banda Collotti. Il giorno del ricordo, già con­trad­dit­to­rio nella sua indi­ca­zione calen­da­ri­stica non­ché nella sua natura omis­siva sui cri­mini di guerra ita­liani nei Bal­cani, si è con­fi­gu­rato come una leva contro-narrativa della sto­ria che fini­sce per rile­git­ti­mare il fasci­smo regime e per­sino quello repub­bli­chino. Così nell’anno in cui Fini e Vio­lante sono tor­nati insieme a Trie­ste, luogo della prima pie­tra della «sto­ria con­di­visa», nella stessa città si è cer­cato di sfi­du­ciare il pre­si­dente del con­si­glio comu­nale Iztok Fur­la­nic che aveva avuto l’ardire d’indicare quello dei par­ti­giani jugo­slavi come l’esercito di Libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo nella regione. Il tutto raf­for­zato, nel corso degli anni, da fic­tion e spet­ta­coli tea­trali che, uti­liz­zando l’espediente empatico-narrativo in luogo della com­ples­sità fat­tuale della sto­ria, hanno affian­cato una nuova reto­rica isti­tu­zio­nale celebrativo-vittimistica che ha sol­le­vato nel discorso pub­blico l’Italia fasci­sta da ogni respon­sa­bi­lità nella seconda guerra mon­diale finendo per ali­men­tare feno­meni di auten­tico revan­sci­smo neofascista. Il discorso pub­blico della memo­ria di Stato scritta per legge, dun­que, sem­bra appro­dare alla con­clu­sione che il fine della Sto­ria sia la fine della Sto­ria, impos­si­bi­li­tata a svol­gere un com­pito di cono­scenza indi­spen­sa­bile a indi­vi­duare la dire­zio­na­lità del tempo pre­sente e a con­tri­buire all’interpretazione dell’età con­tem­po­ra­nea e della modernità. Se que­sto è il giorno del ricordo la sto­ria del nostro pas­sato ha davanti a sé un sem­pre più incerto futuro.

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PER I FASCISTI L’AMNISTIA, PER GLI IRRIDUCIBILI DELLA RESISTENZA IL MANICOMIO https://www.micciacorta.it/2015/03/per-i-fascisti-lamnistia-per-gli-irriducibili-della-resistenza-il-manicomio/ https://www.micciacorta.it/2015/03/per-i-fascisti-lamnistia-per-gli-irriducibili-della-resistenza-il-manicomio/#respond Mon, 16 Mar 2015 12:45:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=18941 Franzinelli e Graziano riaprono la partita e propongono un tempo del dopoguerra più lungo, più complicato, fatto di molti soggetti e soprattutto dove i “vinti” non sono quelli di una parte sola

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“I nostri diletti congiunti, poveracci, continuano ad inghiottire pillole amare vedendo che a dieci anni dalla Liberazione i boia e aguzzini del passato regime sono stati rimessi in libertà e reintegrati di tutti i diritti civili, mentre una parte di noi partigiani siamo ancora privi di quella libertà che ieri abbiamo conquistato per tutti”, così scrive Giuseppe Giusto, nell’ottobre 1955 al Senatore Umberto Terracini. Il testo di questa lettera è leggibile a pagina 75-76 di Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio (Feltrinelli), un testo che riapre in modo sorprendente il discorso sul dopoguerra italiano. Con Un’odissea partigiana Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano raccontano la storia, sconosciuta di quelli che la Resistenza l’hanno vinta militarmente e persa nella vita. Quelli che la prolungano e “non depongono le armi”, perché pensano che sia giusto punire quelli che persistono dall’altra parte e che riconosciuti colpevoli in tribunale e condannati, ricevono una pena che prevede la detenzione in struttura manicomiale perché giudicati non sani di mente. Il risultato paradossale è che per loro l’amnistia non avrà valore e mentre gli uomini di Salò, responsabili delle stragi dei civili e dei partigiani in tempi rapidi ritornano liberi, questi si trovano a rimanere in carcere fino a fine pena. La storia della loro detenzione non è diversa da quella di altri sottoposti a pena detentiva negli ospedali psichiatrici giudiziari (Aversa, Montelupo, soprattutto). Ciò che colpisce il lettore delle storie che Franzinelli e Graziano raccontano e ricostruiscono in questo loro libro è la tenacia dei giudici a non riconoscere attenuanti, la resistenza a dare licenze, il controllo rigido sui detenuti. Da anni in Italia è in voga la storia che ci fu una guerra civile, e che quelli che la persero subirono la violenza di quelli che non volevano capire che la guerra era finita e che tutto si svolge in quei “triangoli della morte” dove, dopo aprile 1945, inizia una caccia all’uomo, e soprattutto è interdetta la memoria dei propri morti. Si potrebbe dire che questa è l’immagine di una parte del Paese sottratta alle regole della democrazia politica che sarebbe vissuta in regime diverso. La democrazia politica nell’Italia del secondo dopoguerra è stata una realtà a sovranità limitata? Franzinelli e Graziano riaprono la partita e propongono un tempo del dopoguerra più lungo, più complicato, fatto di molti soggetti e soprattutto dove i “vinti” non sono quelli di una parte sola. La realtà ancora una volta più complicata. L’occultamento della sconfitta è una questione nazionale tutta da indagare, ha scritto di recente qualcuno a proposito del 1945, pensando che tutto si imitasse alla questione partigiani contro saloini. Un’odissea partigiana aggiunge un capitolo che nessuno ha voluto raccontare: né tra coloro che si sono occupati del fronte della Resistenza, né tra coloro che hanno rivendicato attenzione per i saloini, né da coloro che si sono proposti in questi anni “né di qua , né di là, ma oltre”. La storia si racconta a “parte intera”. Altrimenti “si fa i furbi”. Franzinelli e Graziano ci ha messo del loro per riuscire a farlo. Non è poco. Comunque è un modo pertinente di smontare una retorica che fa finta di raccontare tutto, raccontando ogni volta solo una parte, quella a cui si tiene di più. Talvolta facendo di tutto per non dirlo.

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