Rosso – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Wed, 16 Mar 2016 09:17:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Una vita all’insegna del «noi» https://www.micciacorta.it/2016/03/21503/ https://www.micciacorta.it/2016/03/21503/#respond Wed, 16 Mar 2016 09:17:24 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21503 Dal Veneto povero e contadino a un marxismo eretico dove la classe operaia è la fonte dello sviluppo capitalistico. «Storia di un comunista» di Toni Negri. Un’autobiografia che lega percorso teorico e scelte politiche

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comunismo

Sarebbe riduttivo considerare Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, pp. 608, euro 18) esclusivamente come l’autobiografia di Toni Negri. Certo, si può leggere come un’autobiografia e apparentemente si presenta proprio così: dall’infanzia nel Veneto al tempo della Seconda Guerra mondiale fino all’arresto del 7 aprile 1979. La storia di quegli anni, inoltre, si dipana – anche se non mancano incursioni del senno di poi, soprattutto di quelle categorie che Negri svilupperà appieno solo dopo gli anni Settanta – in ordine cronologico. Non si tratta soltanto di un’autobiografia perché, sia dal punto di vista del contenuto che da quello stilistico, è anche la storia di un’autobiografia che progressivamente perde ciò che la rende tale: il suo io narrante.

Da Hegel a Weber

Storia di un comunista è infatti un processo di soggettivazione che passa attraverso diverse fasi, lasciando poi – dal ’68 in poi – la narrazione a un «noi». È infatti il «noi» di una «generazione» che, come dichiarato nella premessa del libro, Negri prova a raccontare. Ma prima che l’io narrante possa diventare un noi, prima cioè che la storia vissuta in prima persona possa trasfigurarsi nella storia di una generazione di militanti, per buona parte del libro la narrazione dell’io privato e dell’io che si sofferma a riflettere sulle proprie vicende personali e sugli avvenimenti del mondo e della società che lo circondano si alterna con la narrazione in terza persona: un «Toni» che nel mondo di relazioni, di militanza, di studi che precedeva il decennio del lungo ’68 italiano vive ancora in una condizione di alienazione. Non che la militanza con la Giac (Gioventù italiana di Azione cattolica) o con il Partito socialista non siano fondamentali – come fondamentali sono nella sua formazione filosofica gli studi sull’Historismus tedesco, su Hegel e su Weber. Ma è solo a partire dal ’68 – dalle lotte che il ’68 inaugura – che l’io narrante non ha più bisogno di farsi rappresentare da Toni.

La scena originaria

Per comprendere tuttavia la svolta che il ’68 comporta, bisogna ripercorrere i passaggi che l’hanno preparata. Storia di un comunista, infatti, è sì il racconto di un vissuto personale e generazionale, ma la sua trama non è meno articolata e strutturata di un testo filosofico di Negri. Il pensiero filosofico non è soltanto quello che Toni apprende dalle sue letture e dai suoi maestri (Opocher, Chabod, Garin, Cantimori, Bobbio, tra gli altri) e che poi declinerà via via nei suoi scritti, ma è anche quello che si fa pensiero vivente, che sempre di più con il passare degli anni si incarna nella militanza e nelle lotte. Non è un caso che il primo capitolo s’intitoli Stato di natura: la scena originaria del pensiero politico moderno. Lo stato di natura dell’infanzia di Negri ha infatti i caratteri di quello hobbesiano: guerra, morte, paura della morte. Fin dalle primissime pagine il libro presenta il filo rosso che lo attraversa e ne scandisce i momenti: «la vita è una lotta, implacabile e feroce, contro la morte». Ebbene, il libro comincia con la vita che, nello stato di natura, soccombe allo strapotere della morte e, pertanto, chiede protezione. È da qui che la narrazione prende avvio ed è lungo questa linea che si sviluppa: da uno stato di minorità, subalternità e dipendenza alla possibilità di una «politica della vita» (sebbene entri nel suo lessico solo in seguito, il termine «biopolitica» ricorre frequentemente).

Filosofia in divenire

Quella che potrà affermarsi, tuttavia, non può essere la vita naturale, inevitabilmente soggetta alla morte e bisognosa di protezione, bensì una vita storica, il risultato cioè di un processo politico di soggettivazione. E nemmeno il «comune» potrà corrispondere alla comunità «naturale» dove Negri nasce – la famiglia innanzitutto, ma anche quel Veneto contadino, povero, cattolico e solidale. Certo, Negri afferma «di essere stato comunista prima che marxista», ma su questo senso comunitario va innestato Marx e un certo marxismo perché il comune da condizione naturale possa essere sviluppato nel senso della produzione. Comunismo dello stato di natura e vita naturale devono farsi storia e politica. Tale passaggio si sviluppa come un processo di cui ricerca filosofica ed esperienza vissuta compongono i momenti: l’Historismus tedesco insegna a Toni che soggetto e oggetto si compenetrano reciprocamente nel movimento della storia, Weber lo introduce a quella sintesi di sociologia e politica che lo porta – già come militante del cattolicesimo di base – a fare dell’inchiesta un metodo al contempo di conoscenza e di pratica politica, i viaggi estivi in autostop in giro per l’Europa gli aprono le prime vie di fuga dal provincialismo. La prima conversione è quella dal cattolicesimo militante alla laicità socialista (si iscrive al Psi), ma la vera svolta è rappresentata dall’esperienza del marxismo eretico dell’operaismo, quello di Quaderni rossi e Classe operaia.

Il rifiuto dello sfruttamento

La vita s’incarna nel lavoro vivo di cui la classe operaia – l’operaio massa della fabbrica fordista – è la soggettivazione e la storia si configura come lotta di classe: operai e capitale. Ma l’affermazione della vita in quanto punto di vista operaio non è sufficiente a rendere questa vita indipendente dalla morte; quella dialettica che nel conflitto di classe consente alla vita di riconoscersi come soggetto storico ne impedisce altrettanto l’affermazione autonoma: «Nella lotta operaia si sconfiggono la paura e la morte. La rottura fra il desiderio e la sua gabbia – la fabbrica, il comando, il profitto –, il rifiuto dello sfruttamento sono anche mettere la vita fuori da ogni tanatologia: la vita indipendente dalla morte. (…)Non c’era dialettica che potesse articolare queste conclusioni». È a quest’altezza della riflessione teorica e delle lotte inaugurate nel 1962 a Piazza Statuto che si pone la questione politica dell’organizzazione della classe operaia. Ed è qui che il fronte operaista si spacca – Negri vede nel sindacato, nel partito (il Pci), nello Stato un «potere fuori di sé» rispetto alla «potenza» del lavoro vivo. Nasce allora l’esperienza di Potere operaio e poi di Autonomia operaia: comincia il lungo ’68 italiano. Da questo momento in poi la narrazione si fa più serrata – la lotta del Petrolchimico di Porto Marghera da giugno ad agosto 1968 assume l’andamento della cronaca – ed è spesso un «noi» a parlare. Come un «noi» è quello delle riviste che si susseguono scandendo il ritmo delle lotte e della riflessione – e il loro compenetrarsi. L’appropriazione della prima persona (plurale) corrisponde alla declinazione del rifiuto del lavoro operaista in autovalorizzazione, che di lì a qualche anno prenderà il nome di «esodo». L’autovalorizzazione del lavoro vivo assume le fattezze dell’operaio sociale e il suo spazio d’azione diventa la metropoli (intanto, lo stesso Negri da Padova si trasferisce a Milano) – il Capitale a sua volta adegua la sua logica di sfruttamento alla «fabbrica sociale». Si imprime un’accelerazione vertiginosa nei processi di soggettivazione che – ecco comparire un’altra categoria che Negri elaborerà solo successivamente – cominciano a delineare una «moltitudine» che già si muove al di là della dialettica con lo Stato-nazione. Sono gli stessi anni in cui l’esperienza italiana comincia a tradursi in altri contesti (europei ma non solo) e in altre lingue e, al contempo, inizia ad assimilare quanto arriva da fuori (ad esempio, si avvia qui la ricezione del post-strutturalismo francese).

Il lavoro che verrà

E tuttavia, quel decennio è stato rubricato dalla storiografia ufficiale con la formula «anni di piombo»: lo scontro tra lo Stato e quella parte del movimento che si è fatto partito armato. È una logica dialettica che conclude tragicamente il lungo ’68. Beninteso, Negri questa storia la racconta. Ma lungo quelle stesse pagine, quelle sul ’77, Negri registra «la prima, decisiva apparizione di una nuova antropologia del lavoro: l’affermazione di una nuova forza lavoro socializzata e intellettualizzata» – il lavoro immateriale, cognitivo, affettivo, cooperativo, singolarizzato. Insomma, quella che sarà la forma predominante del lavoro vivo – la sua forma di vita – in epoca postfordista. Ed è questo processo di soggettivazione che si affaccia nelle lotte di quegli anni in Italia – e che oggi ancora cerca l’affermazione di una sua biopolitica – a continuare una storia che non finisce il 7 aprile 1979.

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Quegli anni Settanta cancellati da una memoria a senso unico https://www.micciacorta.it/2016/03/quegli-anni-settanta-cancellati-da-una-memoria-a-senso-unico/ https://www.micciacorta.it/2016/03/quegli-anni-settanta-cancellati-da-una-memoria-a-senso-unico/#comments Sat, 05 Mar 2016 08:14:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21440 «il pane, le rose ... e il Dom Perignon», la rivista «Rosso» nella voce di Chicco Funari per la serie ideata da Officine Multimediali «Storie operaie», un progetto che vuole restituire oggi una verità dimenticata

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77

Se  la trasmissione della memoria storica è un valore (ed è discutibile che lo sia), la generazione politica degli anni ’70 ha clamorosamente mancato l’obiettivo. Tonnellate di carta stampata (ma molto meno pellicola almeno qui) hanno restituito un’immagine distorta e a volte rovesciata della realtà in più punti. Del «decennio rosso» è stata puntualmente esaltata la seconda metà, in realtà una parabola discendente, a scapito della fase montante 1968-73, quella che ha rovesciato come un guanto, dal basso, l’Italia. Le Brigate rosse, realtà trascurabile e ininfluente nel ciclo montante del conflitto operaio e sociale, si sono affermate nel ricordo viziato dalla propaganda, come il logico coronamento del conflitto esploso alla fine dei ’60, un po’ come se il più aspro e prolungato conflitto sociale nell’occidente del dopoguerra fosse solo un prologo all’avventura brigatista, che ne ha invece rappresentato il sanguinoso e fragoroso e tuttavia mesto epilogo. La stessa operazione di sottile e spesso non inconsapevole falsificazione ha spinto a identificare «il 77» con l’anno di grazia 1977, dunque esclusivamente con i fatti di Roma e di Bologna, tagliando fuori le realtà in cui «il ’77» è arrivato prima, come a Milano nel 1976, o dopo, come a Torino nel 1979. Invece proprio in quelle metropoli operaie il ’77 si rivela in maniera più esplicita come l’insorgenza non solo di un (allora) nuovo movimento studentesco ma di una (tuttora) nuova composizione di classe, destinata a dilagare e a diventare norma nei decenni successivi. La rete offre una possibilità corposa di intervenire su quelle distorsioni della memoria, di solito non inconsapevoli ma mirate e permesse proprio da un controllo massiccio sui media che la rete permette di incrinare.

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Così la lunga intervista realizzata da Officine Multimediali e dal suo portavoce Maurizio «Gibo» Gibertini a Chicco Funaro sull’esperienza milanese della rivista Rosso e del gruppo di militanti che le si era sedimentato intorno permette di allargare e approfondire la visuale sul ’77 anche per chi di quegli anni non può avere alcuna esperienza diretta. Il titolo, il pane, le rose … e il Dom Perignon riassume, adoperando un esproprio di lusso ricordato da Funaro, uno scarto abissale tra Rosso la sinistra, anche rivoluzionaria, tradizionale. Rosso, in origine, era la rivista del Gruppo Gramsci di Milano: più sofisticata e colta della media delle pubblicazioni di movimento senza arrivare ai livelli spesso esoterici delle riviste più addottorate. Ma la vera esperienza di Rosso nasce nel ’74, quando l’area del Gramsci che aveva rifiutato l’adesione ad Avanguardia operaia si unì con alcuni militanti provenienti da Potere operaio, scioltosi l’anno prima, tra cui lo stesso Funaro. È lui a illustrare la parabola di una rivista e di un gruppo capaci nei tre o quattro anni successivi di dare vita a una serie di sperimentazioni estreme a tutti i livelli: sul fronte organizzativo con il rifiuto dell’organizzazione «partitica» che era allora propria di tutte le organizzazioni di sinistra, parlamentari e no; sul fronte della militanza attiva con una serie di azioni che allora erano vissute come scioccanti anche da una parte del movimento, come gli espropri dei generi di lusso nei supermercati; sul fronte teorico, con la scoperta di una nuova forza lavoro operaia svincolata dalla catena di montaggio, sparsa sul territorio, priva di garanzie anche minime, tale dunque da rapportarsi con l’intero tessuto metropolitano come i fratelli maggiori con la fabbrica.

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Con la scoperta e l’esaltazione del «diritto al lusso» al posto del pauperismo moralistico, con il rifiuto dell’organizzazione gerarchica a fronte della struttura massimamente rigida, con l’attenzione privilegiata alla nuova composizione di classe invece dell’ossessione per i ceti operai più tradizionali, Rosso, e l’intera Autonomia che si muoveva sulla stessa lunghezza d’onda, erano l’opposto delle Br. L’intervista a Funaro fa parte di una serie, Storie operaie organizzata da Officine Multimediali con l’obiettivo non solo di salvaguardare la memoria, ma anche di restituirne la verità sempre più dimenticata. Obiettivo ambizioso.

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Il pane, le rose… e il Dom Perignon | Conversazione con Chicco Funaro https://www.micciacorta.it/2016/02/il-pane-le-rose-e-il-dom-perignon-conversazione-con-chicco-funaro/ https://www.micciacorta.it/2016/02/il-pane-le-rose-e-il-dom-perignon-conversazione-con-chicco-funaro/#respond Wed, 03 Feb 2016 15:34:53 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21273 L'esperienza di Rosso, il gruppo politico e la rivista attiva negli anni Settanta, le lotte autonome, l'altro movimento operaio nel racconto di uno dei protagonisti, Chicco Funaro in un video di officinamultimediale

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Funaro

L'esperienza di Rosso, il gruppo politico e la rivista attiva negli anni Settanta, le lotte autonome, l'altro movimento operaio nel racconto di uno dei protagonisti, Chicco Funaro in un video di officinamultimediale https://www.youtube.com/watch?v=dWV2xfMZHQI Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finché non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato. Carlos Ruiz Zafón

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Le Confessioni pericolose https://www.micciacorta.it/2016/02/le-confessioni-pericolose/ https://www.micciacorta.it/2016/02/le-confessioni-pericolose/#respond Mon, 01 Feb 2016 11:47:02 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21252 In occasione dell’uscita dell’autobiografia di Toni Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2015), che tante polemiche ha sollevato, abbiamo intervistato il curatore del volume Girolamo De Michele

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potere operaio

Intervista su “Storia di un comunista” di Toni Negri Marco Ambra: Lasciamo da parte l’acritica stroncatura di Simonetta Fiori su Repubblica, segno di un evidente fastidio provocato dalla lettura di questa autobiografia, alla quale peraltro lo stesso Negri ha replicato sine ira ac studio. Partiamo invece dal testo. Scorrendo le seicento pagine della vita di Toni Negri il lettore ha l’impressione di avere a che fare con una confessione, nel senso dato a questa categoria dalla filosofa Marìa Zambrano: la confessione è un genere letterario che sorge laddove l’autore intenzionato a raccontare la propria vita individui un conflitto di questa con la verità (La confessione come genere letterario, ed. it. Bruno Mondadori, Milano 2004). L’effetto principale di questo conflitto sarebbe l’emergere, nell’autore, dell’uscita dal senso di isolamento attraverso la comunicazione di questo conflitto. Ma per farlo l’autore della confessione deve farsi carico di lavoro faticoso, della produzione di un linguaggio in grado di raccontare. Come dice lo stesso Negri «il linguaggio bisogna reinventarlo, attraverso segni e parole che corrispondono ad altro, che indicano altro rispetto a quello che nella mia infanzia ancora mi dicevano» (p. 15). In che modo l’io narrante della vita di Toni Negri è riuscito a parlare questo nuovo linguaggio?Quale relazione ha questa esigenza con il suo essere un filosofo? E con il suo essere un militante? Girolamo De Michele: Consentimi solo un accenno alla recensione di Simonetta Fiori. Il 5 ottobre 2014, su «la Repubblica» la stessa signora si peritò di definire questo libro – che ancora non esisteva – “un’inopportuna agiografia” stroncando in effetti non il libro, ma la scheda di segnalazione editoriale che lo annunciava: stroncare un libro un anno prima che esso esista credo sia un record. Veniamo invece al testo. In effetti, il titolo di lavoro che ci ha accompagnato per quasi due anni era “Confessioni”, e se alla fine abbiamo optato per “Storia” è stato anche per i possibili fraintendimenti di questa parola polisemica, che noi intendevamo proprio come tu l’hai intesa – come del resto è detto nel libro. Il lavoro della confessione è stato faticoso, perché faticosa è stata la ricerca di sé da parte dell’io narrante, in atti che era faticoso attraversare – ma quando non lo è? Così, il giovane Toni oscilla fra un “io” che si cerca e una terza persona che è un po’ il suo io che gli si rappresenta davanti: se vuoi, un io che si scopre “un altro”. Solo quando troverà se stesso non come soggetto declinabile alla prima persona singolare, ma come collettivo, questo io avrà un proprio linguaggio, sempre declinato in “un grande noi collettivo” – come recitano gli appunti di lavoro sul manoscritto. En passant, che questo lavoro stilistico non sia stato colto da chi ha parlato di solipsismo o ego-biografia dimostra che mio fratello è figlio unico, perché non ha mai criticato un film prima di averlo visto: ma che te lo dico a fare? Quale poteva essere, il linguaggio di questa narrazione, se non quello filosofico? Essere filosofo non è per Negri un orpello o una spilletta sul bavero: Negri è filosofo perché lo è diventato, dunque la filosofia è uno strumento di lettura e interazione, sia critica che pratica, col mondo. Il che rende importante anche la narrazione del diventare-filosofo di Negri, dalle prime irrequietudini bruniane e spinoziste, al lungo attraversamento della grande filosofia tedesca, all’apprensione del doppio linguaggio – quello francese e quello tedesco – della filosofia. Ma al tempo stesso, il giovane filosofo in divenire è anche un militante, prima cattolico poi socialista – in anni nei quali questa forma di militanza significava sporcarsi le mani nella miseria contadina del profondo Veneto, nelle prime inchieste sulla società degli anni Cinquanta, nel mondo del lavoro, che peraltro il giovane Negri conosce sin dall’adolescenza, sia per le sue origini contadine, sia per il bisogno di pagarsi i viaggi in autostop con i quali entra in contatto col mondo. Sono tratti che determinano un carattere fatto di curiosità per il mondo, di lavoro continuo, di inquietudine, di un uso critico e non monumentale delle categorie filosofiche, che chi conosce il Negri attuale non fatica a ritrovare ancor oggi. Per concludere: non è casuale che il linguaggio, filosofico e militante, nel quale Negri trova infine se stesso sia un linguaggio diverso da quello degli inizi, degli anni Cinquanta: è il linguaggio di una filosofia e di una militanza intrecciate negli anni Sessanta, quando tutto cambia.   A. :L’autore ha deciso di raccontare la propria vita ripercorrendo l’intrico di avvenimenti, storie, esperienze personali, pratiche sociali che dall’orizzonte cupo della seconda guerra mondiale rinviano al “lungo ’68” italiano, fino al 1979, anno in cui Negri vieni arrestato. Lungo questa faglia critica si consuma l’esperienza dell’Autonomia operaia, il lento maturare della trasformazione dell’operaio-massa in operaio sociale, il postfordismo, l’emergere del lavoro cognitivo, la restaurazione neoliberista. Si tratta di un punto di vista interno al movimento e per questo di rilievo storiografico. In che senso Negri individua nel decennio ’68-’79 l’onda lunga del ’68 europeo (in particolare francese e tedesco)? D. M.: Il lungo Sessantotto italiano ha peculiarità proprie, attraverso le quali si attualizzano secondo una sorta di differenza italiana quelle potenzialità che erano esplose in altro modo a Parigi e Berlino, e secondo proprie differenti strade erano giunte a esaurimento – con modalità tragiche in Germania – mentre in Italia le lotte si allargavano. Le ragioni sono in quegli stessi processi che indichi nella domanda, e che sottendono il modello di sviluppo italiano, che parte da una generale arretratezza nel dopoguerra per giungere a produrre una vera e propria mutazione antropologica non solo nelle forme e nei rapporti di produzione, ma anche dei comportamenti, e addirittura nei corpi, della generazione degli anni Sessanta e Settanta. In secondo luogo, il biennio ’68-’69 non conosce, nonostante la Strage di Stato del 12 dicembre 1969, un punto arresto e di involuzione: in modi complessi, che nel libro cerchiamo di narrare sia dalla prospettiva del lungo periodo, sia da quella evenemenziale, più narrativa e coinvolgente, di alcuni singoli momenti di lotta, il movimento non solo non si ferma, ma avanza, conquista potere nelle fabbriche e nei quartieri, si dota di strumenti comunicativi originali ed efficaci, fino a porsi, all’interno delle lotte e nel contrasto con le nuove forme di produzione – segmentazione, parcellizzazione, fabbrica diffusa sul territorio – questioni che già preludono alla globalizzazione e alla produzione nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia. A.: Le pagine che raccontano le origini di Potere Operaio e il fermento della prima metà degli anni ’60 appaiono lontane, per stile e ritmo, alle pagine dedicate all’Autonomia.Come se una nuova forma di vita imponesse all’io narrante un commiato e un’accelerazione dai vecchi giochi linguistici della sinistra partitica, dal riformismo socialista e dal paradigma keynesiano. Fra i primi ad intuire questa svolta ci fu sicuramente Raniero Panzieri e il gruppo dei Quaderni rossi. Quali furono i limiti di quella esperienza? Cosa produce nella narrazione di Negri il senso di quella accelerazione? D. M.: Come già detto, il Negri dei primi anni Sessanta che partecipa, ultimo arrivato e un po’ intimidito e sulla difensiva, alle riunioni dei “Quaderni Rossi” non è lo stesso Negri degli anni Settanta, della metropoli milanese, di “Rosso” e dell’autonomia diffusa. A dispetto della cronologia che vuole questi periodi vicini, la radicalità degli stili di vita e di militanza degli anni milanesi sembra davvero un’altra epoca. Di conseguenza doveva trovare un linguaggio adeguato, più rapido e frenetico rispetto all’alternanza fra i febbrili viaggi in autostop e la quiete padovana: ma ti assicuro che questo mutamento della narrazione è venuto da sé, prodotto dall’oggetto della narrazione. Quali i limiti dell’esperienza dei “Quaderni Rossi”? Retrospettivamente, io più che di limiti parlerei di una potenza di essere che esprime tutto quel che può. Panzieri e i “Quaderni” hanno rappresentato un momento di rottura formidabile, un coagulo di soggettività e intelligenze di prim’ordine, che è stato per un certo periodo nutrito delle diverse tendenze – quella più “sociologica”, quella più “militante” – che nei “Quaderni” hanno convissuto fin quando è stato possibile. Poi l’accelerazione impressa dalle lotte ha determinato la necessità di una nuova fase – quella di “Classe Operaia”, ma anche del germinare dei circoli di Potere Operaio, nella quale la produzione teorica era ancor più stretta attorno alle pratiche di lotta. Succederà lo stesso anche con “Classe Operaia” e Potop: ogni esperienza, pratica o teorica, giunge prima o poi al proprio limite, e richiede una rottura con le proprie radici, un salto in avanti. A.:Riprendendo i suoi anni da assistente di Filosofia del diritto a Padova, Negri ricorda le proprie conversazioni con Carlo Diano a proposito della «storia segreta della filosofia che viveva in parallelo nella nostra antropologia» (p. 144), di quella tensione insolubile tra forma ed evento, tra passione e ragione all’interno della quale la storia del pensiero si rinnova. La storia della filosofia è per Negri sempre doppia, sempre abitata da questa tensione antagonista, mai riducibile a nessuna dialettica. Contro la lettura di Marx che riporta la soggettivazione della forza lavoro all’uno del politico (il partito, il movimento, la sinistra) Negri si dichiara «agostiniano» (pp. 516-517), interprete di una storia come terreno frastagliato, campo di lotta fra l’agire umano e le forze collettive. In che modo questa posizione del suo io teoretico ha influito sul suo modo di affrontare l’esperienza politica? Perché Negri si distinse da quegli «scolastici» (Tronti, Cacciari e in parte lo stesso Panzieri) che preferirono riportare l’analisi del lavoro vivo all’interno del capitale, attraverso la rievocazione dell’autonomia del politico e del primato della sovranità? D. M.: La pagina in cui, pur con le giuste critiche, Negri ricorda ciò che ha imparato alla scuola di Diano è davvero importante: riguardandola all’indietro, è lì, prima ancora che nel confronto con i testi, nelle polemiche con Cacciari e il suo pensiero negativo, che Negri impara qualcosa di fondamentale che ritroverà poi in Nietzsche, e che costituirà un vaccino preventivo contro le illusioni della dialettica, del continuismo, della bella totalità. Cacciari e Tronti – io terrei da parte Panzieri, anche per riconoscergli l’onestà intellettuale – hanno elaborato costruzioni teoriche sofisticate e complesse, ma il cui scopo era, alla fin fine, giustificare la loro incapacità di uscire dall’ombra del Padre, di rompere con la Casa Madre, con quella sorta di grande Altro che era per loro il Partito (dal quale, peraltro, Tronti non si era mai separato). Nel caso di Tronti, si assiste al paradosso di un pensatore che ha prodotto Operai e capitale, un libro formidabile, il più importante non per una fase, ma per una generazione, per poi passare il resto della sua vita in preda a una specie di senso di colpa per aver nominato – senza praticarlo davvero – il parricidio. Il suo nome nella lista dei senatori cattodem contrari alla legge sulle unioni civili è la logica conseguenza delle sue derive misticheggianti, che vanno a braccetto con l’autonomia del politico – il che non vuol dire che non si provi una immensa pena per l’uomo, nel vederlo in quella compagnia malvagia e scempia. att_343268 La polemica, che Negri rende giocando con le categorie della teologia politica così cara ai due teorici dell’autonomia del politico, era in realtà serissima, e aveva come posta la differenza fra l’intellettuale che ha la radicale ambizione di produrre, pensando con la propria testa, giochi di verità, e l’uomo di partito che si lascia imporre quella posizione profetica che consiste nel dire: ecco quello che bisogna fare, che è beninteso semplicemente quello di aderire al PCI, di fare come il PCI, di essere con il PCI o di votar per il PCI. Quello che il PCI domandava all’intellettuale era di essere l’anello di trasmissione di imperativi intellettuali, morali e politici utili al partito. Sto volutamente usando le parole con le quali Foucault rispose alle falsificazioni che Cacciari disse – o forse fu mandato a dire – contro di lui (e Deleuze-Guattari) nel 1978, e la cui attualità mi sembra ancor oggi innegabile. Ma all’epoca non era solo una questione di giochi di verità contro menzogne di partito, o di chi fosse il vero interprete di Nietzsche: era anche una questione di differenza fra l’autonomia e il servaggio di partito, e fra gli stili di vita e le pratiche militanti che questa differenza comportava. A.: Credi che oggi sia possibile rovesciare, se è tale, l’egemonia degli «scolastici» nel dibattito mainstream su cosa ci sia a sinistra del PD? D. M.: Ciò che c’è a sinistra del PD è spesso difficile da determinare, visto che il PD non cessa di spostarsi sempre più a destra, facendo diventare topologicamente sinistri anche personaggi come Cuperlo e Fassina. Ma non so se il reiterato tentativo di creare un partito o partitino o gruppetto, l’incapacità di pensare al di fuori della forma-partito, e anche della forma-Stato (sia pure in negativo) facendo di questi oggetti dei trascendentali, derivi da una capacità teorica all’altezza del Tronti vintage: la facilità con la quale si scivola sinistramente verso un antieuropeismo a prescindere senza chiedersi cosa significa sedersi, a volte non solo metaforicamente, allo stesso tavolo con i vari Fusaro, Bagnai, Borghi mi sembra eloquente. Insomma, non c’è bisogno di passare per Tronti o Cacciari per scoprirsi togliattiani del terzo millennio, e saltellare ripetendo “tattica, compagni, tattica!”, come il Clarinetto di 1984. Essere a sinistra non ha a che fare con la topografia parlamentare, ma con la capacità di costruzione di resistenze, di coalizioni fra soggetti in lotta, di tumulti – costruzione alla quale, con i miei limiti e con grande modestia, io cerco di partecipare. Rispetto a ciò, in questa Storia di un comunista a noi sembra di aver detto e illustrato qualcosa di utile per quelli che oggi lottano e si ribellano: starà a loro, se lo credono, farne buon uso, e provare a far di meglio. Se accadesse, ne saremmo felici.

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Sentirsi soli (e senza diritto di replica) https://www.micciacorta.it/2016/01/21168/ https://www.micciacorta.it/2016/01/21168/#respond Mon, 18 Jan 2016 15:39:23 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21168 A inizio gennaio Repubblica aveva pubblicato un’irritata recensione a firma S. Fiori dell’autobiografia di Toni Negri, Storia di un comunista, edita per Ponte alla Grazie a fine 2015, rifiutando di ospitare le precisazioni dell’autore. Alle recensioni di regola non si risponde, ma agli attacchi personali se ne ha il diritto. Ignorarlo qualifica assai bene le […]

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Toni Negri

A inizio gennaio Repubblica aveva pubblicato un’irritata recensione a firma S. Fiori dell’autobiografia di Toni Negri, Storia di un comunista, edita per Ponte alla Grazie a fine 2015, rifiutando di ospitare le precisazioni dell’autore. Alle recensioni di regola non si risponde, ma agli attacchi personali se ne ha il diritto. Ignorarlo qualifica assai bene le feste per il quarantennale di quel giornale. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, la replica di Negri e un corsivo di commento. Cara signora Fiori, la ringrazio per la sua recensione che trovo coerente con il giudizio sempre espresso (intendo dalla sua stessa nascita nel 1976) dal giornale sul quale scrive. Non credo dunque di poter validamente contestare quanto lei ha scritto del mio libro, anche se forse – in altra occasione – mi auguro possa avvenire. Vorrei solo chiederle di porre la sua attenzione su un paio di cose. Nel libro sostengo che gli anni Settanta sono stati aperti dal piombo dello Stato – non son certo gli anarchici o gli autonomi gli autori dell'attentato del 12 dicembre 1969. Credo che su questo possiamo concordare. In secondo luogo, lei scrive che non avrei avuto neppure una lacrima per le persone uccise dai terroristi e per le loro famiglie. Non credo sia vero: comunque, se avessi dato quest'impressione, me ne scuso. Credo invece di aver mostrato una forte commozione nei confronti di tutti i caduti di quella maledetta guerra. E mi stupisce che lei non ne dimostri altrettanta per le centinaia di morti sull'altro fronte, uccisi dal terrorismo di Stato. Che io sappia, mai è stata fatta esplodere una bomba nelle piazze, nelle banche o sui treni da gente di sinistra, sempre invece da terroristi in torbide relazioni con quei servizi segreti dello Stato che oggi si vogliono "deviati". La storia è difficile da scrivere, il mio contributo è evidentemente parziale mi perdoni. Vorrei, per finire, ricordarle che ho pagato tutti gli anni di carcere che mi sono stati comminati, e son davvero tanti: 30 anni di condanna ridotti a 17 e che di questa ingiustizia reco testimonianza anche nel mio scrivere. E mi dispiace aver l'impressione che in Italia mi sia stata tolta la nazionalità per indegnità quando altrove nel mondo discuto, scrivo e pubblico con colleghi universitari di filosofia e di scienza politica. Harvard o l'École Normale Supérieure non sono certo dei covi di sovversivi. Peccato, oggi, sentirsi soli in Italia. Forse da questo dipende quel che lei chiama narcisismo. Le assicuro tuttavia che negli anni Sessanta e Settanta, combattendo contro la violenza dei padroni e dello Stato, non ci sentimmo mai soli. Le porgo i miei cordiali saluti, Toni Negri

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In memoriam, Paolo Pozzi https://www.micciacorta.it/2016/01/in-memoriam-paolo-pozzi/ https://www.micciacorta.it/2016/01/in-memoriam-paolo-pozzi/#respond Wed, 13 Jan 2016 16:39:38 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21131 Il 7 gennaio è scomparso improvvisamente Paolo Pozzi, comunista. Il ricordo di un compagno della redazione di Rosso, attraverso le vicende della comune "epoca dei fatti"

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pozzi

Non so quanto possa inoltrarmi nella morte di Paolo.
I nostri sempre più rari incontri, non più di tre negli ultimi dieci anni, non mi permettono di parlare di lui al presente: non so quanto il suo aspetto potesse essere cambiato, non so che libri avesse appena letto, cosa gli piacesse mangiare e che vini amasse bere, se guardasse la tv, che cosa pensasse di Renzi o di Grillo. Certo so di Laura, che conosco, e di Irene, che però ho visto solo piccolissima. So di ripetuti lunghi viaggi verso mete sconosciute, mi viene in mente Samarcanda; ho letto naturalmente Insurrezione e ho comprato la nuova edizione dell’intervista del ‘79 a Toni sull’operaismo, sempre molto attuale; abbiamo condiviso almeno una postfazione per Sergino e DeriveApprodi. Non ci frequentavamo, non ci sentivamo più. Non ho, per questo mio distacco da lui, alcuna recriminazione, alcun particolare rincrescimento. Sua scelta e dunque mia scelta. Ma è proprio questa “sospensione” degli affetti tra di noi, degli automatismi emotivi “di tutti i giorni”, che mi fa sentire e credere, oggi, che il nostro legame, sia sempre rimasto forte, fortissimo: al suo apice, al vertice della tensione. Paolo è di Rosso, io sono di Rosso. Nelle nostre biografie, e dunque nelle nostre vite, Rosso si prende dai primi anni ’70 ai primi anni ’90. Diciotto anni, più o meno. Dalla nascita dell’AutOp alla Cassazione. Ed è questo legame credo, che qui mi spinge a parlare, a dare conto se non di tutta la sua vita, almeno di quegli anni, di quella comune “epoca dei fatti”. Non so se questo possa essere un vero, giusto necrologio per una persona che scompare. So, però, che è un sincero elogio per l’amico, il compagno che non c’è più. Tempo, comincio qui la storia di Lenin… Più seriamente, e più da vicino: Paolo nasce a Fano, dove rimane sino alla maturità. Studente modello, anche la media del 10, Pagella d’Oro del Corriere della Sera. Va a Trento per Sociologia. Credo che tutti ricordino il ruolo dell’ISSS, l’Istituto Superiore di Scienze Sociali, nella nascita e nella crescita del movimento degli anni ’70. Da laboratorio dell’ingegneria sociale neocapitalista che doveva essere, Sociologia si trasforma in un centro di elaborazione culturale e politica di piena avanguardia e poi di totale “rottura”: un passaggio critico di valore epocale e di larghissima portata, ben al di là della vulgata che si limita a descrivere questa Trento come il “nido d’infanzia” delle Brigate Rosse. È a Trento che Paolo vive brillantemente tutti i capitoli del suo “romanzo di formazione”, nel quale agli studi canonici si affiancano sempre di più, sino a mutarne completamente il segno, momenti di ricerca e di critica “alternativa” sempre più spinta e radicale, nuovi linguaggi interpretativi, nuove ipotesi di progetto e di lotta. È quasi obbligatorio, dunque, che a Trento Paolo sia nella fondazione del Gramsci. Il Gramsci che si prepara a occupare un sia pur breve ma importantissimo ruolo negli orizzonti di attesa di quegli anni: quello di voler dare corpo politico non solo all’antagonismo di classe, ma anche, in uno spettro sempre più ampio, a tutti i temi della liberazione della persona e dell’appagamento dei bisogni e dei desideri di ogni individuo, uomo o donna. Nel 1972 Paolo si laurea a pieni voti e viene a Milano. Una scelta, un’opzione personale e politica anch’essa quasi obbligata e conseguente. Formidabili quegli anni, ha declamato qualcuno. Lo sono stati: di più. Milano è diventata sempre più rapidamente, la città ideale della sovversione e di ogni tentativo “rivoluzionario”; accoglie in quegli anni centinaia di nuovi militanti, dando a essi territorio, spazio e luoghi per l’intervento, dal tessuto delle piccole officine e dalla cintura operaia delle grandi fabbriche-stalingrado sino alle sedi universitarie del centro. In Via Disciplini, dove sta il Gramsci (nei locali, Paolo lo ricordava sempre, che fino al 1958 erano stati l’atrio della più famosa casa di prostituzione cittadina) comincia a occuparsi del nuovo giornale “dentro il movimento” che si chiama con una felicissima tautologia anche visiva “Rosso”. Tenta anche, come potenziale insegnante, un qualche approccio con il mondo della scuola ma desiste subito. E “professionalizza” il suo impegno con il giornale. Della prima serie di Rosso escono una decina di numeri. Bella rivista. Ci scrivono compagni del calibro di Arrighi e di Madera.
C’est ne qu’un debut - il salto in avanti, lo dico credendoci ancora, è la crisi e lo scioglimento del Gramsci, l’incontro con gli ex PO del “gruppo Negri”, la nascita dei Collettivi Politici Operai, che subito tutti chiamano Rosso. Subito nel cuore del nuovo movimento, subito nel cuore di Milano. Rosso è immediato programma, fortissima urgenza di progetto: la militanza diventa subito appartenenza, impegno quotidiano, obbligo di tempi e di luoghi. Ma anche, oltre ogni formalismo e ogni ideologismo, nuove, più forti relazioni emotive e affettive tra i compagni, nuove forme sempre più libere di vita e di condivisione, spesso anche radicali ed estreme. Paolo è anche l’Esterno nel collettivo Siemens, ma il giornale lo assorbe sempre di più e gli offre sempre di più una quasi perfetta fusione di intenti politici e di lavoro culturale. È Paolo che dà corpo concreto a ogni numero, coordina la raccolta degli articoli, prepara i menabò, fa i titoli, impagina, segue la stampa in tipografia, organizza la distribuzione. Con Paolo, cresce sempre di più, numero per numero, la forza comunicativa di Rosso: controcultura, proletariato giovanile, femminismo sempre più forte e dirompente, movimenti di liberazione e di autovalorizzazione come quello omosessuale. Scrive articoli che lasciano il segno: il suo pezzo più carico è del ‘75, si intitola “A Lenin non piaceva Frank Zappa”. Paolo descrive la tristezza del “militante perfetto [che] vive dei cascami della cultura riformista” eredità della Terza Internazionale, e a questo “comunista modello” intima che “… a noi piacciono i film western, quelli della 'crisi', il teatro-provocazione, il rock, i fumetti più illogici possibili, i libri senza martiri ed eroi, la riscoperta del proprio corpo […] e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue”. “Il comunismo è giovane e nuovo”. Certo è che Rosso, in ogni caso, è davvero nel cuore del nuovo movimento, si pone in maniera forte e autorevole (“Illegalità di massa”) al centro dell’Autonomia. Rosso è la Face di Fizzonasco, l’Esselunga di Quarto Oggiaro e di decine di altri negozi e supermercati, l’Assolombarda, la Stazione Centrale, la Face di Viale Certosa, la Siemens, l’Alfa; con Rosso partono le campagne contro i primi centri del lavoro nero, contro lo spaccio nelle “piazzette”, contro i presidi della repressione nei quartieri; nascono le reti sempre più larghe dell’AutOp, collettivi operai e proletari, circoli giovanili, gruppi di quartiere…
… Rosso della campagna contro il compromesso storico, Rosso contro ogni forma di riformismo, contro le illusioni del “lungo cammino attraverso le istituzioni”, contro ogni formalismo della politica e del suo ceto, anche quello di più recente vocazione… Sembra una stagione che non tramonterà. Almeno nel nostro pianeta, nel nostro universo. Lasciamo ad altre pagine, non è questo il luogo, il racconto della fine, ingiusta e maliconica, soprattutto in un’altra galassia, dell’Autonomia e di Rosso. L’ultimo numero del giornale esce nella prima estate del ’78, la stagione sconvolta del “dopo Moro”. Ci sono anch’io in tutto questo. Conosco Paolo praticamente agli inizi, perché vengo dal “gruppo Negri” e sono l’esterno della Face. Non posso dire di frequentarlo molto, se non nei momenti d’obbligo della nostra contigua militanza, anche se alcuni aspetti del suo carattere e della sua personalità non mi sfuggono: cultura a largo spettro, mai troppo ostentata, anche se al servizio di una dialettica spesso pungente però, e comunque mai ferma e in continuo movimento. Un carattere chiuso e mai condiscendente, che conserva tracce di timidezze e ritrosie, ma che all’occorrenza sa farsi sarcastico e vagamente aggressivo. Proverbiali anche certe sue esplosioni d’ira: non seconde anche a quelle di Francone. È proprio grazie a Francone, che con Paolo ha contatto continuo, e con me un rapporto molto stretto, che mi capita ogni tanto di incontrarlo a cena, in privato. Capita qualche volta anche lui, in ogni caso, al Torricelli o da Zia Carlotta. Inutile dire che ho comunque molta stima e considerazione per lui. E poi, siamo compagni, e compagni di Rosso, e questo è molto. Dobbiamo cominciare a vederci spesso dopo il 7 aprile del ’79. Impegnati come possiamo, inutilmente, nella campagna contro le mostruosità del teorema Calogero e per la liberazione di Toni e degli altri compagni. Viene spesso a Roma, e andiamo a incontrare giornalisti, avvocati, qualche raro esponente del ceto politico e delle istituzioni. È con me la sera del 20 dicembre, io sarò arrestato all’alba del giorno dopo. È comunque anche lui ricercato: lo prendono nel marzo dell’80, e lo spediscono a Fossombrone. Lo rivedo a Rebibbia, quando dopo un po’ di mesi riusciamo a farlo uscire per il processo dal circuito dei camosci. Il nostro sodalizio, meglio: quello mio, di Paolo e Francone, è sempre più stretto. Il 7 Aprile dell’Aula Bunker pesa come un macigno, un anno e mezzo durissimo e combattutissimo, noi tre, stessa linea processuale, stessi avvocati, ma soprattutto stessa catena, stesso blindato, spesso anche la stessa panca nella gabbia. E come se ciò già non fosse “vera galera”, i continui e sempre più roboanti mandati di cattura che arrivano a valanga da altre città, da altre inchieste e da altri giudici. Sempre noi, Tommei, Pozzi e Funaro... Paolo, comunque, continua sempre a essere se stesso: lucido, sempre fortemente critico, poco condiscendente ma sempre determinato e coraggioso, capace in ogni momento di offrire nel dialogo e nella discussione comune, che spesso tende a fuggire verso l’astratto e l’irreale, una sponda di concretezza e di intelligenza indispensabili. Anni: poi finalmente la libertà. Per Paolo anche quella piena del nuovo futuro con Laura, e la loro figlia Irene, il lavoro, una certa fama di convincente narratore. Ma qui, come prima dicevo, deve terminare il mio racconto, da qui, come ho detto, oltre non so andare nella vita e nella morte di Paolo… del Pozzi, come lo chiamavamo con vezzo milanese. Ma qualcosa, ancora, rimane da dirci. Con la tua fine tu mi hai chiamato, non poteva essere diverso, in quel tempo che abbiamo condiviso: scopro di trovarmi di colpo in un “non passato” che con la sua forza unisce la memoria e i ricordi al presente e li rende il nostro “qui e ora”. E io rispondo a questa tua inevitabile, necessaria chiamata. Della tua morte, Paolo, della tua fine, io mi sento, sono in qualche modo partecipe. Il dolore di Laura e di Irene mi arriva da vicino, nella “scena” del loro lutto sono silenziosa comparsa, non separato spettatore. Ed è in nome di questa mia presenza nel tuo “atto tragico” che ti rivolgo il mio chaire, il mio ave atque vale.

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Una nota a “Storia di un comunista” di Toni Negri https://www.micciacorta.it/2016/01/una-nota-a-storia-di-un-comunista-di-toni-negri/ https://www.micciacorta.it/2016/01/una-nota-a-storia-di-un-comunista-di-toni-negri/#respond Wed, 13 Jan 2016 14:00:09 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21128 Leggendo questa autobiografia di Toni Negri non sorprende il silenzio che ha accompagnato la sua uscita e la qualità delle poche recensioni apparse finora

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Toni Negri

Storia di un comunista: leggendo questa autobiografia di Toni Negri non sorprende il silenzio che ha accompagnato la sua uscita e la qualità delle poche recensioni apparse finora. Torna il refrain del cattivo maestro al quale non si perdona l’internità alle lotte operaie degli anni Sessanta e soprattutto a quelle degli anni Settanta ad opera delle bande autonome di “giovani perduti dietro un folle velleitarismo” [Simonetta Fiori, Repubblica 05-01-2016]. Sul senso di questa internità soprassiede tranquillamente anche Gad Lerner interessato ad attribuire la paternità di quelle bande per l’appunto al cattivo maestro (la “sua” creatura movimentista, quella in cui maggiormente si riconosce dal suo Blob 05-01-2016). Se così stanno le cose, la censura ha ben altra motivazione che il mero imbarazzo che a suo tempo avrebbe provato il Pci a fronteggiare l’eresia del pensiero negriano. Quand’è che l’eresia non può essere contenuta? Evidentemente quando essa trova il suo inveramento in un’effettiva politica di liberazione. Se il ripiegamento sull’autonomia del politico ha salvato Tronti, il padre dell’operaismo, dalla demonizzazione picista, la fedeltà a quell’impianto teorico e la ricerca di una sua verifica pratica direttamente nella lotta di classe operaia hanno inchiodato Negri alla condizione di chi ha subito una messa al bando che si vuole perpetuo. E infatti nel linguaggio della gran parte di questi recensori Negri resta un bandito, anzi il bandito. Ma l’Autore avrebbe dovuto aspettarselo visto che la sua storia vuole essere quella di un comunista. È di questa eresia comunista che vorrei parlare.

Personalmente scelgo le mie letture sulla base di taluni criteri personalissimi, in particolare sul fatto che leggendo devo sentire che quelle pagine sono state scritte per me e che per questo motivo mi desiderano. Sto rovesciando ovviamente una tesi di Barthes pensata per la scrittura, ma tant’è. Partirei allora dalla Terza Parte, da quei “dieci anni di ’68” che io ho vissuto in gioia e spensieratezza militando nel movimento studentesco e in Potere operaio prima, nell’Autonomia operaia dopo. Il passato si nasconde ma è presente, dice da qualche parte Malamud e ha ragione a condizione però che si sia vissuto quel passato in possessione felicitatis. Da dove altrimenti avremmo ripescato allora l’idea di comunismo? È questa banale verità che i nostri recensori non capiranno mai. Negri ha ricostruito quel passato, di Potere operaio e dell’Autonomia, con la puntigliosità dello storico indiziario avvalendosi di una memoria formidabile ma soprattutto della documentazione scritta prodotta dalle due organizzazioni. Nelle cronache delle lotte in fabbrica e sul territorio metropolitano di quel decennio cerca la conferma ora della estraneità dell’operaio massa al regime di fabbrica, ora dell’irriducibilità dell’operaio sociale al rapporto di capitale perché il dispositivo operaista va provato nelle lotte, sempre. Così il militante e il professore, dopo il lungo tirocinio sotto la guida esperta del Comitato operaio di Marghera durante gli anni sessanta, finiscono per confondersi proprio dopo il ’68. L’autobiografia esalta questa confusione di ruoli e questo è il motivo per cui tutti quelli che mal digeriscono una siffatta indistinzione, accusano l’Autore di aver dimenticato tutto il resto perché troppo preso a raccontare il suo assalto al cielo. Potere_operaioInsomma Negri nel raccontarsi avrebbe dovuto quanto meno smorzare l’enfasi sulle lotte autonome e parlare delle fabbriche in rivolta come solo il sindacalista sa fare, svuotandole della presenza viva degli operai. L’autobiografia sarebbe quindi un ego-biografia che dimentica la Storia, ovviamente quella dei padroni e dei suoi scherani.

Stando così le cose, non dobbiamo meravigliarci se la produzione teorica del professore segue il ritmo delle lotte del militante. Già l’apprendistato cattolico nella GIAC nei primissimi anni ’50 vuole essere unritorno al cristianesimo vivente, a una pratica di verità in rotta di collisione con la gerarchia ecclesiastica collusa con i poteri forti e nemica dei poveri. L’eresia negriana nasce da qui, esattamente dall’impatto con la miseria dei contadini della Bassa veneta e dalle primissime inchieste nelle bidonville padovane: la verità si poteva testimoniare solo trasformandosi in un essere collettivo, umano, in un comune anch’esso in rivolta! Che “comune” sia nome di oggi e non di ieri torna utile a Negri per sottolineare una costante della sua eresia, vale a dire l’idea dell’essere come potenza: ieri contro una verità di fede, quella del Dio trascendente e nascosto all’uomo, oggi contro una verità di fatto che ci vuole tutti appaesati alla ragione neoliberista. Ma questa prima redazione dell’ontologia dal forte sapore dolciniano è solo la premessa a una seconda eresia diretta questa volta contro le verità proposte dall’altra chiesa presente in campo, anch’essa con pretese ecumeniche: il Pci. È il secondo Partito comunista per numero di iscritti in Europa, dopo quello sovietico. La cultura della sinistra più o meno comunista penetra in ogni ambiente: il PCI fa cultura, cinema, movimento, costruisce élite importanti che si muovono in ogni settore della società. Era difficile, se si era giovani e intelligenti, non stare col PCI. Negri non entra nel Partito. Era abbastanza weberiano, ci ricorda, per farlo. Gli preferisce un partito più leggero e sicuramente più laico, il PSI, il meno peggio fra le forze politiche presenti sulla piazza. E poi cosa centrava il Lukács di Storia e coscienza di classe con Croce e i crociani convertiti all’ultima ora? Neppure Gramsci, diventato nel frattempo il padre della nuova Chiesa, viene preso in considerazione. A entrambi Negri aveva preferito lo storicismo tedesco estraneo al culto togliattiano della continuità. Ma come sempre accade per le eresie degne di questo nome, è la “scelta” di leggere il pensiero del padre fondatore in un determinato modo a fare la differenza. Negri legge il Capitale in modo trontiano, vale a dire politicamente orientato. E infatti il confronto è agli inizi degli anni Sessanta con la conricerca e le lotte dei chimici di Marghera. Lì dentro c’è tutto Marx versione trontiana, a partire da quel laboratorio della produzione squadernato reparto per reparto, linea per linea nel mentre la forza lavoro che si fa classe rivoluzionaria con la lotta. Al Pci di questa lettura risulta inaccettabile proprio questa produzione di soggettività che minaccia di sottrargli la “direzione politica” (concetto caro a Togliatti) della classe operaia nella lunga marcia verso il socialismo e di gettare un’ombra sui fondamenti della stessa linea politica ispirata fin dalla svolta di Salerno alla difesa dello status quo. Ma il problema non è solo di linea politica; se il gruppo dirigente del partito può perseguirla con ostentazione e senza vergogna, è perché le sue élite intellettuali lavorano alacremente per legittimarla. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta a mobilitarsi in prima persona sono i filosofi del partito, in particolare quelli di scuola storicista, convinti assertori non solo della storia come progresso ma del primato in esso delle classi lavoratrici purché a sostenerle sia un adeguato livello di coscienza mentre la concreta azione rivoluzionaria volta a negare dialetticamente il carattere privato del profitto – come si esprime con eleganza Badaloni – è consegnata per intero al Partito. È il motivo per cui non solo per questi filosofi il tema della produzione della soggettività, del farsi della classe operaia, non esiste come problema, ma quando esso è sollevato per la prima volta dalla scuola operaista, la levata di scudi è immediata e la reazione virulenta.

L’ipotesi che avanzo per darmi una ragione dell’accoglienza riservata a questa importante autobiografia di Negri è che la posta in gioco reale sia proprio la figura del filosofo Negri, più esattamente la sua proposta oggi di un’ontologia materialista. Essa è annunciata nell’autobiografia: «L’essere è potenza. L’essere si rappresenta come tensione – espansività assoluta e perciò, in quanto assoluta, creativa, aperta a una potenza che si confonde nel divino»: così comincia la prima redazione dell’ontologia del giovane Toni.

Ancora durante gli anni Settanta essa resta in fieri, allusa nel gioco a rimpiattino delle due composizione ma imposta alla riflessione dalla radicalità delle lotte promosse da un soggetto ancora difficile da decifrare. Saranno il carcere e la sconfitta dei movimenti, la controrivoluzione neoliberista, l’esilio e l’incontro con la filosofia francese a permettere la sua maturazione. Di questa ontologia che arriverà a maturazione negli anni Novanta sottolineo solo un aspetto a mio parere importante anche per capire l’isteria che la Storia di un comunista ha sollevato tra i suoi detrattori. Mi riferisco al rinnovato bisogno di verità di cui si fa portatrice quandola verità è fatta sparire dalle bugie del potere. In questa pretesa di verità ciò che fa scandalo è che Negri intende cercarla ancora nelle lotte e nelle rivolte degli sfruttati.

L’autobiografia di Negri ci racconta la sua storia e quella delle lotte dell’altro movimento operaio fino agli anni Settanta ma questa storia, mi piace citare J. Roth, è del resto così singolare che solo la vita stessa avrebbe potuto inventarla.

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L’irriverente penna di Paolo Pozzi https://www.micciacorta.it/2016/01/lirriverente-penna-di-paolo-pozzi/ https://www.micciacorta.it/2016/01/lirriverente-penna-di-paolo-pozzi/#respond Sat, 09 Jan 2016 08:10:35 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21097 Ricordi. Militante di Rosso, fu arrestato e condannato all’interno dell’inchiesta del 7 Aprile. Dopo la prigione scrisse romanzi e saggi sugli anni Settanta

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pozzi

È morto a Milano Paolo Pozzi. Molti lo ricorderanno tra i principali imputati del processo 7 Aprile e di numerosi altri procedimenti contro l’Autonomia operaia milanese. Quest’anno avrebbe compiuto 67 anni. Nato a Fano, aveva compiuto nella sua città gli studi superiori con risultati tra i più brillanti mai registrati nella scuola marchigiana. Iscrittosi alla Facoltà di Sociologia di Trento, ne era uscito laureandosi a pieni voti nel 1972. Trasferitosi a Milano, i suoi interessi politici e culturali si erano immediatamente rivolti all’esperienza del nascente Gruppo Gramsci, formato da intellettuali e da militanti per dar vita, tra Milano e il Varesotto, a ipotesi di progetto e di intervento capaci di superare ideologismi e dogmatismi; e di allargare la ricerca politica e culturale, ma anche e soprattutto le lotte, a tutte le «nuove» tematiche della società e della persona. Nel gruppo Gramsci Paolo si era occupato sin dagli inizi di «Rosso»: la rivista, che con tratto originale, a partire dal suo stesso nome/testata, una sorta di tautologia anche visivamente molto efficace, stava aprendo un dialogo e una discussione sempre più serrati con settori sempre più larghi del movimento di quegli anni. Con la confluenza tra il Gramsci e il gruppo di ex Potere operaio che faceva capo a Toni Negri, e la nascita dei collettivi di Rosso, Pozzi contribuì in larghissima parte alla vita politica ed editoriale del giornale, coordinandone non solo gli aspetti tecnici ma anche e soprattutto i contenuti editoriali, quasi sempre molto originali e dal taglio decisamente inconsueto per gran parte dell’immaginario politico di quegli anni. “Rosso”, che adottò sempre un linguaggio spregiudicato e creativo, suscitò un notevole consenso anche per l’interesse non di maniera dimostrato verso tutte le forme di antagonismo nei confronti della società capitalistica e dell’organizzazione del lavoro, dal femminismo alla controcultura, e per l’appoggio concreto fornito ai movimenti del «proletariato giovanile» e a tutte le lotte per la liberazione e l’autovalorizzazione della persona. Di notevole taglio critico fu sempre la polemica incessante contro ogni tipo di riformismo e di compromesso, «storico» o no, tra Partito comunista e Democrazia cristiana. Il giornale e il gruppo furono sempre impegnati a sostenere la necessità che l’Autonomia operaia dovesse sempre e comunque rimanere lontana da ogni progetto di costruzione di un partito. Nel dibattito sulle scelte di fondo che l’insorgere della lotta armata e delle formazione combattenti aveva messo in moto, Paolo non ebbe esitazioni e si schierò contro ogni forma di «clandestinità». Pur nell’incertezza di quel periodo, continuò a guidare le sorti della rivista fino all’autoscioglimento e alla fine politica di Rosso nel 1978. Arrestato nel corso delle operazioni giudiziarie del «7 Aprile», sostenne con grande dignità e coraggio il carcere e, insieme ai suoi coimputati, le durissime battaglie processuali; ma anche il non sempre facile dibattito per il superamento della legislazione d’emergenza e il ritorno a una «normalità» nella vita politica e sociale. Dopo il carcere, si rese promotore di innovative iniziative imprenditoriali nel settore delle biblioteche e dell’archivistica. Scrittore di buona vena rievocativa, pubblicò tra le altre cose Insurrezione, romanzo breve dedicato alla Milano degli anni ’Settanta edito da DeriveApprodi. Lascia una moglie, Laura, e una figlia, Irene.

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