Slavoj Zizek – Micciacorta https://www.micciacorta.it Sito dedicato a chi aveva vent'anni nel '77. E che ora ne ha diciotto Sat, 11 Nov 2017 08:48:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.4.15 Slavoj Žižek. Ottobre russo, l’azzardo di una possibilità https://www.micciacorta.it/2017/11/slavoj-zizek-lazzardo-possibilita/ https://www.micciacorta.it/2017/11/slavoj-zizek-lazzardo-possibilita/#respond Sat, 11 Nov 2017 08:48:58 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=23872 «Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare», a cura di Slavoj Žižek, per Ponte alle Grazie. Nonostante i fallimenti, scriveva il leader rivoluzionario, bisogna saper «ricominciare daccapo»

L'articolo Slavoj Žižek. Ottobre russo, l’azzardo di una possibilità sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Ha senso leggere Lenin oggi, in un contesto in cui l’orizzonte neoliberale, pure se in mezzo a fortissime tensioni, appare, almeno in superficie, in grado di occupare stabilmente il nostro presente? Tutto questo centenario del 1917, quando almeno non ci si dedichi semplicemente a fare un po’ di storia antiquaria, sottintende evidentemente la domanda sul senso che può avere oggi, sempre che ne abbia, pensare la Rivoluzione. Slavoj Žižek ha curato, con sua introduzione e postfazione, un’antologia di scritti leniniani, Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare (Ponte alle Grazie, pp. 295, euro 18), che intende combattere ogni rimozione del problema della Rivoluzione. E lo fa, come il sottotitolo dichiara chiaramente, usando le armi a lui più congeniali: un mix tra un ammirevole virtuosismo del paradosso intellettuale, un uso originale della tradizione filosofica dialettica, e, soprattutto, un costante riferimento alla psicoanalisi lacaniana, o meglio, per liberare Lacan da responsabilità in faccende che in fondo non lo riguardano troppo, a un certo «lacanismo politico», orami consolidatosi negli anni. RICORDARE LENIN significa qui, in coerenza con la generale intonazione psicoanalitica del discorso, evitare la rimozione che costringerebbe a subire passivamente il rimosso: i comunisti che rimuovono il passato sono costretti a ripeterlo anche nei suoi aspetti più orribili. Non bisogna rimuovere: ma, al tempo stesso, per Žižek, ogni possibile attualità di Lenin va iscritta nel segno dello scacco e della sconfitta. Ripetere Lenin oggi, quindi, significa accettare che «Lenin è morto», che le sue soluzioni sono fallite, e che il modo di questo fallimento è stato persino atroce. Quello che invece va riportato in superficie, dai luoghi profondi dell’inconscio della storia, è invece proprio lo scarto tra quello che Lenin ha fatto e ciò che non è riuscito a fare: questo registro della disperazione è quello che dovremmo, per Žižek, importare e riapprendere oggi dall’esperienza leniniana. Cos’era la rivoluzione, per Lenin, se non lo sporgersi verso una possibilità non assicurata, anzi assolutamente azzardata rispetto alle condizioni? Žižek traduce in lacanese questa idea di una rivoluzione sospesa sul vuoto: «in Lenin, come in Lacan, la rivoluzione ne s’autorise que d’elle-meme». La rivoluzione è l’atto che si sottrae a ogni garanzia del grande Altro, in altre parole che si sottrae alle legittimità precostituite o al mito di una lineare necessità storica. E qui non si potrebbe che concordare, e anche il confronto con Lacan potrebbe risultare molto utile: la rivoluzione rompe con l’assicurazione del già dato e costruisce una nuova legittimità, deviando, attraverso la forza di nuovi processi di soggettivazione inediti, il corso prevedibile della storia. MA, IN ŽIŽEK, la sottrazione al grande Altro non assume i tratti di un confronto duro, ma in qualche modo riarticolabile, produttivo di trasformazione, con il Reale, ma si traduce immediatamente in una esposizione sul vuoto, nell’affrontare «la paura dell’abisso dell’atto». E la soggettività è chiamata, più che a trasformarsi continuamente nel divenire storico e nelle relazioni che istituisce, a mantenersi fedele a un Evento «unico», inteso come irruzione di una Verità altrettanto assoluta. Žižek si sofferma significativamente su uno scritto leniniano del 1922, A proposito dell’ascensione sulle alte montagne. Qui Lenin si concentra sul «negativo», su quanto non è stato fatto, sullo scarto dalle intenzioni iniziali: occorre saper «ricominciare daccapo», perché l’obiettivo di costruire una società socialista non è neanche sfiorato. Ma tornare daccapo non significa qui indietreggiare a un mitologico inizio. Lenin vuole mettere in guardia le forze proletarie dal credere che l’obiettivo possa mai essere l’edificazione compiuta di uno stato «socialista», e ricorda che la transizione resta invece sempre un processo aperto, in cui si mantiene un dualismo immediatamente non richiudibile tra comando del capitale e istituzioni dell’autorganizzazione operaia. NELLA LETTURA che ci propone Žižek, invece, l’insegnamento leninista consisterebbe nel saper fino in fondo fare i conti con il proprio «fallimento» fino a giungere a «ripetere l’inizio». E ripetere l’inizio oggi, significa, spiega Žižek, non solo separarsi da tutte le illusioni socialdemocratiche sulla tenuta dello stato sociale, esercizio che sarebbe effettivamente ragionevole e urgente, ma anche rinunciare all’idea di «una regolamentazione diretta e trasparente ’dal basso’ del processo sociale della produzione, quale corrispettivo economico del sogno di ‘democrazia diretta’ dei consigli operai». Qui emerge il vero obiettivo della invenzione di questo strano Lenin disperato decisionista puro: liquidare quel nesso, complesso e mai assicurato, che in Lenin lega sempre autorganizzazione della produzione e azione politica. Davanti alla crisi, secondo questa lettura, dovremmo liberarci proprio da qualsiasi idea di far politica «dal basso»: rompere l’orizzonte neoliberale è possibile solo ritornando a celebrare una verticalità, un comando, un Padre o un Padrone. GIOCANDO ANCORA con Lacan, si tratterebbe, per Žižek, di spezzare il discorso del Capitale, ritornando appunto al discorso del Padrone: ci occorrerebbe ritrovare un’Autorità che, dall’esterno, sul modello del Terrore (Saint-Just, non a caso, è un eroe del libro), venga a rompere la forza con cui il neoliberalismo, celebrando la nostra autonomia, ci trasforma in servi volontari. Il problema che questa logica del Padrone riprodurrebbe poi a un altro livello la stessa mancanza di autonomia e la stessa gerarchizzazione da cui sarebbe chiamata a liberarci, è completamente dimenticato, o, meglio, ce ne dovremmo forse fare una ragione nel segno di una permanenza del tragico, di una mai compiuta realizzazione dell’Idea nella storia. Secondo questa logica, traducendola su un piano più direttamente organizzativo, dovremmo così rispondere alle difficoltà che i movimenti sociali reticolari e senza leadership hanno incontrato nel combattere con efficacia il comando finanziario, riconsegnandoli a un luogo della decisione politica fondato su uno scarto verticale, su una separazione netta dalle dinamiche di base: una soluzione in salsa leaderistica e nazionalpopulista che alcune sinistre nel mondo hanno abbondantemente sperimentato, senza per questo sortire grossi risultati espansivi. OGGI AVREMMO, in realtà, bisogno di fare tutto il contrario di quanto predicano tutte queste nuove idolatrie del Politico puro: ripensare Lenin può servire a una nuova radicale rielaborazione per stringere, e non per abbandonare, il nesso tra politica e produzione, per superare la separatezza della rappresentanza e dell’azione politica e riconquistarle pienamente alle reti della cooperazione sociale e cognitiva. Si comprende bene che la durezza della crisi dia spazio all’antichissima illusione di rimettere le cose a posto, sottoponendo le forze produttive a un comando del Padrone: ma quelli che pensano di poter affrontare il neoliberalismo facendolo indietreggiare a colpi di decisionismo e trascendenze, i tardogiacobini nutriti sempre e solo di un triste scetticismo verso ogni momento di autorganizzazione democratica, farebbero meglio ad alzare questi inni alla Decisione pura e alle virtù eroiche del Terrore nel proprio nome, lasciando perdere Lenin. FONTE: Giso Amendola, IL MANIFESTO

L'articolo Slavoj Žižek. Ottobre russo, l’azzardo di una possibilità sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2017/11/slavoj-zizek-lazzardo-possibilita/feed/ 0
Rosi Braidotti. Do not agonize: Organize! https://www.micciacorta.it/2016/11/22651/ https://www.micciacorta.it/2016/11/22651/#respond Fri, 11 Nov 2016 07:58:26 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=22651 Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa e femminista Rosi Braidotti. «Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi - superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica»

L'articolo Rosi Braidotti. Do not agonize: Organize! sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

«È nostro dovere – scriveva Viginia Woolf in Le Tre Ghinee – pensare: che società è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte?» Non dobbiamo mai smettere di chiederci che prezzo siamo disposte a pagare per fare parte di questa civiltà e delle istituzioni al maschile che la sostengono. Queste parole risuonano oggi con rinnovato vigore. Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: «Sì ho pensato che avremmo lottato insieme nel contesto dell’amministrazione neoliberale e parzialmente progressista di Clinton. Ho pensato che il cambiamento climatico e l’estinzione e tante altre cose sarebbero rimasti temi centrali. Devono esserlo ancora. Ma ora dovremmo unirci per combattere fascismo, razzismo scatenato, misoginia, antisemitismo, islamofobia, anti-immigrazione, e molto altro. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi». Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi – superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica. Derrida, d’altro canto, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia in sé non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del XX secolo, l’epoca di Virginia Woolf, si è votato «democraticamente» per i partiti nazional-socialisti, che hanno poi affossato le libertà più basilari e commesso immani atrocità. La ripetizione di questi fenomeni induce a chiedersi perché la democrazia rappresentativa non sia capace di sviluppare anticorpi verso gli elementi reazionari. Penso ovviamente all’uso strumentale che del referendum è stato fatto in Gran Bretagna, Olanda e Italia. La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista quale è Trump rende più che mai evidente la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Assistiamo a un re-imporsi delle retoriche razziste della politica dell’emergenza e della crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All’alba del Terzo millennio Bush aveva una strategia simile. Certo il ritorno in auge del populismo presenta importanti elementi di novità, da indagare con urgenza. Tutti i populismi – che siano di destra o di sinistra – si equivalgono. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito le retoriche del sangue e del suolo. A sinistra, le classi devastate da declino economico e austerità hanno autorizzato l’espressione pubblica della rabbia dei bianchi – per lo più uomini: whitelash, colpo di ritorno dei bianchi. Comportandosi come un’etnia urbana in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultra-nazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia – come se le sole ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inflitte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia altrettanto misogino e xenofobo. Io mi oppongo fermamente ad entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti considerare il sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è nota, tuttavia stavolta si è svenduto alle destre e dovrebbe essere ritenuto responsabile per una tale deriva. Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni «democratiche» che i repubblicani hanno vinto. D’altra parte, il populismo di destra di personaggi quali Trump e Johnson è una forma così palese di manipolazione da risultare nauseante, si esercita sulle persone più colpite da ristrettezze economiche. Questi manipolatori usano i/le migranti e tutte le soggettività «altre» come capri espiatori. Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano micro-fascismo. E i micro-fascisti sono a destra tanto quanto a sinistra. Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della «post-verità», alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. In quanto docente ritengo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica. In quanto filosofa ritengo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i. Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che l’afflizione e la violenza conducono all’immobilismo, non sono foriere di cambiamento. All’indomani della vittoria di Trump ne sono ancora più convinta: occorre mettersi alla ricerca di forme di opposizione costituenti, capaci di dar vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, va trasformata in potenza di agire, organizzata, indirizzata non solo «contro», ma anche «per». Risulta chiaro a tutte/i che Trump è il baratro di negatività della nostra epoca, che avevamo bisogno di tutto meno che della sua vittoria. Mi permetto però di chiedere: e poi? Siamo contro l’alleanza tra neolibersimo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna a pieno. Dobbiamo però accordarci su cosa vogliamo, cosa desideriamo costruire insieme come alternativa. Dobbiamo capire chi e quante/i siamo «noi». La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate. Quello delle passioni negative non è il linguaggio che propongo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Pertanto mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di che strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all’individualismo? Abbiamo dalla nostra parte parte potenti etiche politiche: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrl alle Pussy Riot, passando per le cyborg-eco-femministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di trasformazione. Forse in Italia vedremo questa potenza politica nelle piazze il 26 novembre. Ed è forse giunto il momento che la sinistra impari dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra sminuiscano il portato delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e della sua negazione della politica affermativa femminista. (traduzione di Angela Balzano) SEGUI SUL MANIFESTO

L'articolo Rosi Braidotti. Do not agonize: Organize! sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/11/22651/feed/ 0
Slavoj Zizek e i cugini di sangue del populismo europeo https://www.micciacorta.it/2016/05/slavoj-zizek-cugini-sangue-del-populismo-europeo/ https://www.micciacorta.it/2016/05/slavoj-zizek-cugini-sangue-del-populismo-europeo/#comments Tue, 10 May 2016 09:48:00 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21810 Saggi. Dai rifugiati al terrorismo. «La nuova lotta di classe», una raccolta di scritti a firma del filosofo sloveno

L'articolo Slavoj Zizek e i cugini di sangue del populismo europeo sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>

Il nuovo volume di Slavoj Zizek La nuova lotte di classe (Ponte alla Grazie, pp. 141, euro 13) raccoglie testi che il filosofo di origine slovena ha scritto da quando l’«emergenza migranti» ha scosso le già fragili fondamenta dell’Unione europea. Nel comporre questo libro, Zizek ha rielaborato testi già noti, aggiornandoli per precisare il suo punto di vista. Due saggi, in particolare modo il primo e il penultimo, hanno avuto infatti una accoglienza polemica in Rete, perché esprimono uno scetticismo radicale verso la parola d’ordine dell’apertura delle frontiere, invitando nel contempo a dialogare con chi, nel vecchio continente, propone una regolamentazione dei flussi migratori perché chi arriva in Europa esprime modi d’essere incompatibile con lo stile di vita europeo. L’accusa più dura contro di Zizek non lasciava spazio a dubbi: le sue posizione erano niente altro che un mimetico appoggio alle tossiche parole d’ordine xenofobe in forte diffusione in Austria, Germania, Svezia, Inghilterra e Ungheria.

I letali diritti umani

slavoj-zizek

Eppure questo libro concede ben poco al populismo e al razzismo. Semmai la tesi che esprime – i migranti sono il case study dove la tematica delle guerre culturali serve a occultare il conflitto di classe presente in Europa – ha il tono e lo stile apodittico dell’invettiva, che più che rafforzare, depotenzia la critica del filosofo sloveno allo stile «politicamente corretto» della sinistra continentale, il vero bersaglio polemico del libro. Non è certo la prima volta che Slavoj Zizek punta l’indice contro la deriva «culturalista» della sinistra europea, che ha nell’ideologia dei diritti umani, nell’emancipazionismo femminile e nel solidarismo i piloni portanti. A questi ne aggiunge un altro, il relativismo culturale che porta a chiudere gli occhi sul fatto che spesso i migranti che arrivano in Europa non sono proprio campioni di tolleranza, visto che considerano la libertà politica, d’espressione e delle donne una sorta di aberrazione del pensiero, nonché segno di decadenza dei costumi e di un rifiuto pericoloso del principio di autorità. L’islam politico radicale è, conservatore, intollerante, xenofobo e sessista al pari dei populisti continentali. I due fenomeni politici ha un rapporto familiare: sono cioè cugini di sangue.

multis

Il buonismo della sinistra moderata, ma anche di alcune componenti radicali, occulterebbe quindi questo elemento per mettere al centro della scena una sorta di razzismo istituzionale, dove la convivenza di culture diverse è incardinata su una gerarchie soft nelle sua rappresentazione pubblica, ma feroce per quanto riguarda il governo delle vite migranti. Significativa è a questo proposito l’analisi dei furti, le molestie e gli stupri compiuti da bande di maschi classificati come migranti durante la notte di Capodanno nella città di Colonia. In una notte centinaia, se non migliaia di donne sono state derubate, molestate, alcune di loro stuprate. La reazione delle formazioni politiche populiste e di alcuni esponenti della Cdu è stata quella di chiedere la chiusura delle frontiere e l’espulsione dei migranti; la sinistra, meglio i movimenti sociali hanno svolto un condivisibile discorso sull’accoglienza e, c’è da aggiungere, una condivisibile pratica dell’accoglienza: per Zizek tutto ciò è segno di un pericoloso relativismo culturale. Infine, per il filosofo sloveno ignorare il fatto che spesso chi arriva in Europa è maschilista e intollerante ha rafforzato le posizioni xenofobe.

preghiera

Zikek attinge a un repertorio analitico molto consolidato della sua riflessione. Le donne sono state viste dai loro molestatori e stupratori come gli oggetti contro cui scagliarsi per manifestare l’invidia dell’Occidente da parte dei migranti che ambiscono allo stesso benessere dello società affluenti del nord Europa. E inoltre: come i redneck statunitensi – i contadini poveri – sono diventati la base di massa del fondamentalismo cristiano e del partito repubblicano, chi arriva in Europa porta con sé il fardello di uno stile di vita incompatibile con quello dominante nel vecchio continente. E se i poveri americani guardano con furore alla cultura liberal perché è la cultura delle corporation che li opprimono, i migranti vedono nella virtù della tolleranza propagandata dagli europei il velo ipocrita che copre le politiche neocoloniali dell’Unione Europea attuate nel Medio oriente (l’Iraq, la Siria) e nel Maghreb (la Libia, in primis). Inoltre, la sinistra europea compie una vera e propria rimozione delle differenze di classe – e dunque dell’oppressione – esistenti nel vecchio continente e nel paesi «altri». E con sferzante nonchalance Zizek invita a guardare alla diffusione politica dell’Isis come una forma specifica di fascismo.

Inviti fuorvianti

Non sono però questi i giudizi che fanno problema nel ragionamento di Zizek, bensì la sua convinzione che il rapporto con l’altro da sé oscilli tra due poli: l’invidia dei migranti per l’Occidente e un Occidente assunto come un insieme organico, «liscio». Il titolo del volume è da questo punto fuorviante. Certo la lotta di classe è citata, invocata come elemento che potrebbe diradare la foschia delle ideologie in campo – il fondamentalismo islamico politico e il politicamente corretto – e rivelare la realtà, ma da qui a pensare che la questione dei migranti alluda a degli antagonismi tra gli interessi che vanno solo nominati non chiarisce granché della posta in gioco. Allo stesso tempo, Zizek fornisce del mondo arabo una vision lineare, rimuovendo i processi di modernizzazione dei decenni passati che hanno mutato il panorama sociale e le «soggettività» di quei paesi. In altri termini, così come non esiste «un» occidente, non esiste neppure «un» solo islam. Il sentiero da prendere è quello citato proprio in un saggio dello stesso Zizek: la globalizzazione ha cambiato tutti gli scenari e immaginare il rapporto tra Europa e mondo islamico come se la globalizzazione non esistesse conduce in vicoli ciechi.

barcone

Come ignorare che parte del capitale finanziario è «cosmopolita», cioè alimentato sia da europei che da arabi. E come il mondo arabo, tutto, sia pienamente inserito nei processi globali di interdipendenza. E ancora, non si mette al centro della riflessione il fatto che il nuovo ordine mondiale sia fondato sulla destabilizzazione di paesi arabi, operata da indicibili alleanza tra paesi occidentali e paesi musulmani. E di come i migranti mettano in campo un diritto alla fuga che nasce da identità in movimento e non ossificate. Da qui la ragionevolezza della necessità di aprire e abbattere la frontiere. Non per un «buonismo» politicamente corretto, ma per entrare in relazione proprio con quelle soggettività in movimento, senza negare differenze e punti di attrito. Ma per spezzare le catene di un governo delle vite che non ammette esercizio pieno della coppia eguaglianza e libertà.

L'articolo Slavoj Zizek e i cugini di sangue del populismo europeo sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/05/slavoj-zizek-cugini-sangue-del-populismo-europeo/feed/ 1
Il partito transnazionale dell’Europa in movimento https://www.micciacorta.it/2016/02/21327/ https://www.micciacorta.it/2016/02/21327/#respond Thu, 11 Feb 2016 09:23:55 +0000 https://www.micciacorta.it/?p=21327 DiEM 25. Una dimensione transnazionale per reinventare la democrazia. Grande partecipazione di politici, economisti e movimenti alla Costituente di Varoufakis

L'articolo Il partito transnazionale dell’Europa in movimento sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
varoufakis

La forma in cui si è svolta la presentazione di DiEM 25 (Democracy in Europe Movement 2025) si è rivelata senz’altro di forte impatto. Entrata in scena da grande attore dell’anfitrione Yanis Varoufakis, solo sul palco della Volksbühne per circa una mezz’ora, pubblico foltissimo, attento per più di tre ore e molto partecipe. Al microfono si alternano esponenti politici, di partito e indipendenti, amministratori locali, attivisti dei movimenti, sindacalisti e nomi di grande risonanza come Brian Eno e, in video, Julien Assange, Ada Colau, la ex ministra della giustizia francese Christiane Toubira, Slavoj Zizek e l’economista americano James Galbraith. Molto significativa la presenza tedesca, con la segretaria della Linke Katja Kipping, il dirigente del sindacato metalmeccanico IG Metall Hans-Jürgen Urban e un’attivista della rete di movimento “Blockupy”. Ma non sono mancati interventi dall’Inghilterra, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda e da altri Paesi europei, con un forte protagonismo femminile che è stato uno dei segni più visibili ed efficaci del meeting. Colpiva però l’assenza di voci provenienti dall’Italia, rimasta ai margini dei nuovi processi politici europei. L’impostazione comunicativa scelta si presta certo a numerose obiezioni e critiche. Nel complesso la serata è stata dominata dalla personalità di Varoufakis, attorno a cui ruota per il momento l’intero progetto di DiEM 25. Può destare perplessità anche la prevalenza di esponenti politici, sia pure spesso indipendenti, rispetto all’insieme eterogeneo dei soggetti a cui l’iniziativa dichiara di volersi rivolgere. Ne è derivata una certa ridondanza degli interventi, spesso rimasti all’interno di quella dimensione politica istituzionale che il progetto pan-europeista di Varoufakis si propone di eccedere. Nel suo impatto mediatico e spettacolare, poi, l’evento non può essere facilmente riprodotto. E rimane inoltre indefinito il modo in cui l’iniziativa possa articolarsi e consolidarsi nel tempo. Nondimeno, valutando la giornata del 9 febbraio nel suo insieme e nelle sue potenzialità, l’elemento dell’apertura e della proiezione in avanti ci sembra prevalere. Si tratterà in ogni caso di sviluppare positivamente questa apertura dando consistenza agli obiettivi che l’iniziativa si propone e cominciando ad affrontare alcuni problemi che lo stesso testo del Manifesto ci consegna come irrisolti. Questo vale in primo luogo per l’insistito riferimento alla democrazia, alla sua crisi e alla sua necessaria reinvenzione. Di tanto in tanto sembra emergere la tentazione di dare una soluzione semplice a queste difficoltà, immaginando una restaurazione delle forme classiche della democrazia rappresentativa e una loro semplice proiezione sul livello europeo. Anche se lo stesso Varoufakis ha sottolineato a più riprese che la democrazia «non è uno stato ma un processo» e che il deficit democratico delle istituzioni europee ha la sua origine nel progressivo svuotamento della rappresentanza negli Stati che continuano a essere gli attori principali nell’architettura dell’Unione: tanto più dopo l’impatto combinato della crisi dei debiti sovrani e di quella che viene definita dei migranti. A noi pare che la crisi della rappresentanza abbia radici strutturali tanto nei contesti nazionali quando in quello europeo. La sfida di fronte a cui si trova un’iniziativa come quella di DiEM 25 è precisamente quella di reagire a questa situazione con uno sforzo di immaginazione e innovazione politica. L’Europa può essere lo spazio in cui sperimentare l’azione combinata di movimenti sociali, articolazioni istituzionali, veri e propri contropoteri capaci di contrastare le politiche di sfruttamento (dumping salariale, limitazioni dell’accesso al Welfare, politiche di gestione dei confini e delle migrazioni, per fare qualche esempio) che si avvalgono della frammentazione sociale della forza lavoro e della stessa competizione fra i Paesi membri dell’Unione. Questa azione combinata, non meramente resistenziale, deve essere sperimentata su una molteplicità di livelli: la reinvenzione della democrazia in Europa, in altri termini, non può essere confinata in un’astratta dimensione istituzionale o simbolica (pensata secondo il modello di uno Stato nazione allargato su scala continentale), ma prende corpo nelle esperienze conflittuali che crescono in specifiche vertenze e in specifici luoghi – ad esempio nelle “città ribelli” rappresentate sul palco della Volksbühne dalle esperienze di Barcellona e La Coruña. Queste esperienze situate devono però trovare la loro espressione in una forza politica transnazionale. Di quest’ultima abbiamo tuttavia pochi esempi, e tutti scarsamente utilizzabili, per quanto le molte esperienze di costruzione di reti a livello europeo rappresentino comunque una base di riferimento essenziale. Registrando l’insufficienza dell’articolazione nazionale della forma partito, ma anche del sindacato e dei movimenti, l’iniziativa di DiEM 25 pone quantomeno l’urgenza di superare questa impasse. E invita a tenere insieme proprio le dimensioni tradizionalmente separate della politica, dell’azione sindacale e dei movimenti sociali. Si tratta insomma di mettere a tema i limiti di un internazionalismo fondato su basi di mera solidarietà o affinità ideologica, e contemporaneamente di lavorare al superamento di quella “divisione del lavoro” che affida la trasformazione sociale all’intervento separato di diversi soggetti, ciascuno con una specifica competenza. Un “partito” transnazionale, a cui pure qualcuno accenna, non può semplicemente riprodurre su scala allargata la forma partito così come ci è stata tramandata ma deve essere appunto espressione della convergenza (e anche degli attriti) tra questi diversi soggetti. Il punto non è, evidentemente, pensare a un lineare superamento della distinzione tra partiti, sindacati e movimenti, ma dare positiva espressione al moltiplicarsi dei punti di intersezione tra la loro azione. La questione della reinvenzione della democrazia si incrocia qui necessariamente con quella delle trasformazioni del capitalismo, del lavoro e delle stesse forme di vita in Europa. È un tema di cui non si è parlato molto durante l’evento berlinese, se non per denunciare l’immiserimento materiale e politico di settori sempre più ampi di popolazione. Considerare i soggetti sociali semplicemente come vittime dell’austerity (o delle politiche di controllo dei confini nel caso dei migranti) finisce per riproporre la delega a una forza politica incaricata di riscattare questi soggetti dalla miseria e dalla subordinazione. Altra ci sembra che dovrebbe e potrebbe essere l’ambizione di un progetto come quello di DiEM 25: legare cioè in modo diretto la questione della democrazia al ruolo che una nuova costellazione di forze materiali svolge nella produzione della ricchezza sociale. Tutt’altro che marginali o sprovvedute, queste figure produttive – per le quali la libertà di movimento è un esercizio imprescindibile – costituiscono con le loro pratiche e con le loro lotte la base fondamentale su cui può essere oggi impiantata una democrazia non racchiusa nei confini nazionali.

L'articolo Il partito transnazionale dell’Europa in movimento sembra essere il primo su Micciacorta.

]]>
https://www.micciacorta.it/2016/02/21327/feed/ 0